Il Canto del Marocco

Il Deserto e le sensazioni che lascia in ognuno che lo visita. Due mete imperdibili per chi visita il Marocco: la Valle del Draa e Marrakech.
Scritto da: Tonyofitaly
il canto del marocco
Partenza il: 03/05/2010
Ritorno il: 08/05/2010
Viaggiatori: 3
Spesa: 500 €
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Cantano le guide berbere. Al suono dei tamburi e delle quarquaba cantano a ritmo. Cantano al cielo stellato e alle dune fredde. Cantano anche al vento che, leggero, soffia sul bivacco. Cantano a noi, cosmopolita piccola folla seduta in cerchio ad ascoltarli. E cantano misteriose canzoni che noi non comprendiamo. Forse cantano di antiche storie di uomini che vivevano qui, tra la terra arsa e il sole cocente. Forse di viaggi che portano nel Sahrā’, la parola tuareg che da’ il nome a quell’immenso oceano di sabbia e che significa appunto “deserto”. Forse invece cantano per non dimenticare che sono figli di questa terra. O forse cantano più per loro che per noi. Chissà. So solo che mentre loro cantano io ammiro il cielo su di me, pieno delle stelle che avevo già visto a Merzouga l’estate scorsa. Guardo i miei compagni di viaggi: due francesi in pensione; un cow boy del Colorado e noi tre, piccoli italiani sotto il cielo blu del Marocco. Sorridono ora le guide. Anzi ridono e, in una babele di lingue miste, ci invogliano a cantare. E cosa, chiediamo. Bella Ciao. Eh?! Bella ciao? In pieno deserto? Ma siamo sicuri? Si, ci dicono. Qui tutti i canti sono uguali perchè il vento del deserto li porta lontano, tra le montaghe sullo sfondo e le dune. Io e Vito intoniamo così “Bella Ciao” e loro subito ci seguono a ritmo con i loro strumenti. E noi cantiamo: “Una mattina, mi son svegliato, o bella ciao, bella ciao, bella ciao, ciao ciao….” Strano: mi sento come loro. Canto per me e per il deserto. Canto per il vento che rinfresca. Canto per la piccola folla cosmopolita. Ora capisco perché cantano: perché sono Amaghiz, uomini liberi. Scatta l’applauso e poi ci lasciano soli a guardar le stelle. Le tante, migliaia, luminose, brillanti stelle del cielo. Rivederle è il motivo per cui, dopo appena 9 mesi dall’ultima volta, son voluto tornare nel deserto. Le lucine, come le chiamo io quando cerco di spiegare lo spettacolo a coloro che non l’han mai visto. Le innumerevoli lucine che sembra poterle prendere con due sole dita e portarle nel palmo della mano. I miei compagni di viaggio sono muti. Non parlano. Stanno distesi e guardano il cielo rapiti. Gliel’avevo detto che lo spettacolo sarebbe stato semplicemente meraviglioso. E loro contemplano e annuiscono. Siamo stanchi. Da Ouarzazate siamo partiti di filato per M’hamid, dove avevo prenotato il bivacco nel deserto, e siamo venuti dritti facendo solo brevi soste volte ad ammirare la splendida valle del Draa, il lungo nastro verde tra montagne brulle ed arse ed abbellito non solo dalla natura con i suoi palmeti e i suoi roseti ma anche dall’opera dell’uomo con le Kasbah e i Ksar, le fortezze berbere. Agdz è stata la prima tappa sulla N9: c’era giornata di mercato e la città brulicava di persone. A parte la Jebel Kissane, la retrostante montagna che assomiglia ad una tajine, e il palmento, la città non è valsa più di una sosta. E poi da qui inizia l’incubo dei guidatori: ad ogni fermata effettuata per qualsiasi motivo, spunta dal completo nulla il venditore di datteri. O più venditori. Quindi meglio armarsi di santa pazienza e decidere se voler o no comprare la loro mercanzia: saranno petulanti ma spesso è il loro unico lavoro. Devono pur vivere in qualche modo. Si vede che forse tre uomini li spiazzano perchè il bambino venditore apparso poco dopo l’uscita dalla città ci ha lasciato fotografare con tutta calma lo Ksar di Tamnougalte, che si erge bellamente in lontananza tra le palme. Gli ho dato qualche Dirham, anche se avrei preferito dargli delle biro o un paio di quaderni. A Zagora cerchiamo l’arco di ingresso ma non lo troviamo e non troviamo neanche il famoso cartellone che indica la strada per Timbouctou: ce lo ha poi spiegato l’affaccendato cameriere di Chez Alì, il ristorante auberge dove ci siamo fermati per il pranzo, che fine han fatto. E la spiegazione è semplice: il primo è stato abbattuto e il secondo spostato. Ecco perchè l’ingresso alla città è tutto bordato di aiuole fiorite e di lampioni ultramoderni. Sopperiscono ad un vecchio e storico rudere abbattuto per una più comoda e turistica strada. Confesso di essere deluso. Non amo troppo la modernità. Sta bene nell’occidente ma in questi luoghi l’ammodernamento stona. Stona col deserto e con la bellezza dei posti. Zagora come Dubai è un obbrobrio. Non siamo ancora a quei livelli ovviamente. E spero non ci arrivino mai. La N9 prosegue il suo viaggio verso sud attraversando un ponticello senza parapetto e penetrando in piccoli villaggi fino a Tamegroute, l’antica città carovaniera famosa per la kasbah sotterranea, la piccola ma ricca biblioteca coranica ed i laboratori di ceramica: a Tamegroute ci sono infatti i forni dove vengono cotte le tipiche tegole verdi che ornano i tetti di tutti gli edifici religiosi del Marocco. Subito dopo l’ultima casa la strada diventa ad una corsia. E inizia il braccio di ferro con chi viene dal senso opposto. Passiamo noi o tu? Ci spostiamo noi o tu? Con i camion (rari per il vero) non vinciamo: ci facciamo da parte. Una ruota nella sabbia e l’altra sull’asfalto, col rischio di rimanere anche insabbiati. Cosa che ci è successa quando ci siamo fermati ad ammirare le Dune di Tinfou, alcuni chilometri dopo: panico totale! Però lo spavento ne è valsa la pena: le prime dune danno inizio al vero deserto anche se poi da qui si alternano pietre e sassi fino a M’hamid. Due piccoli passi montuosi da superare e due strane scritte sui fianchi dei monti: Vito, il parlatore d’arabo tra noi (solo perchè un suo collega maghrebino gli ha insegnato alcune frasi da ripetere e s’è letto l’alfabeto arabo prima di partire) ha tentato di tradurre ma ha lasciato l’opera a metà. Curva la strada fino a M’hamid, passando per palmeti, campings e piccole case. Abbiamo svoltato ad un certo punto per Le Drom’ Blanc ed è iniziata la seconda fase di panico: ce la farà la nostra Dacia già usata a superare la strada di ciottoli e sabbia? Abbiamo pregato ma alla fine ce l’ha fatta per fortuna e nessun asino o cammello è stato scomodato in nostro soccorso. M.me Maguy è una signora francese che gestisce il piccolo riad ai margini del palmeto e del deserto: pragmatica ed ospitale, ci ha invitato ad entrare e a bere un thé alla menta caldo, dissetante e rigenerante. Piccolo e caruccio questo posto. Un’europea persa ai confini col deserto. Gestisce da sola l’auberge, come lo chiama lei: 4 camere arredate in stile berbero intorno ad un salone altrettanto berbero e con un piccolo giardino. C’è pure un bivacco, per coloro che non vogliono affrontare il viaggio nella sabbia ma vogliono provare il brivido della notte in tenda. E senza far la pipì tra le dune ma in comodi sanitari. Ci ha lasciato girovagare un po’, ci ha mostrato quindi il suo capolavoro architettonico e poi ci ha condotto all’incontro con Ibrahim e il suo aiuto, che sono le guide per il bivacco alle Dune du Juif nel pieno Erg Lahtouni. M.me Maguy ci ha salutato dalla sua vetusta jeep augurandoci “bon voyage sur le dromedaire”. Già, la “nave del deserto” dalla bava lunga e dal pelo ispido. Però li adoro: sono una perfetta macchina della natura. Resistono al vento e al caldo, alla mancanza d’acqua e agli enormi pesi e procedono leggiadri sulle sabbie scottanti senza sprofondare di un centimetro, grazie ai loro zoccoli duttili e ai piccoli passi. Noi no, non siamo perfetti per questi posti: l’uomo si è adattato qui, non è stata la natura a fornirgli gli strumenti, se li è dovuti procurare per sopravvivere. Ma Ibrahim e il suo compagno sono proprio l’esempio di come si può vivere nel deserto: indossano la chaiche, il turbante berbero, come se fosse un cappellino da baseball e lunghe tuniche colorate per coprirsi non solo dal sole, caldo e toccante, ma più che altro dalla sabbia. Se li indossassi io avrebbero l’effetto di farmi morire dal caldo. Han camminato nel deserto come se facessero una passeggiata nel centro di Milano, chiacchierando e ridendo. Noi, sui dorsi dei nostri rispettivi dromedari, guardavano le dune sfilarci di lato e fotografavamo paesaggi brulli e arsi dal vento, mentre il sole implacabilmente caldo iniziava la sua discesa verso la notte. Abbiamo raggiunto il bivacco giusto in tempo per salire sulle dune più alte e godere del sole che calava all’orizzonte in un tripudio di colori. Vito ha cercato di vedere il famoso raggio verde ma di verde c’era nulla, solo il rosso del cielo. Lo stesso colore del tappeto posto davanti la tenda grande del bivacco e sui cui siamo stati invitati ad accomodarci dopo esserci tolti le scarpe. Ci tiene luce una lampada con una smorta candela ed un cane dal pelo nero addormentato più in là si confonde con le prime ombre della notte che avanza. Ma erano così i bivacchi dei berberi durante i famosi 52 giorni per Timbouctou? Ci illudiamo di si, anche davanti al fumante té e alle noccioline offerte a mo’ di aperitivo: il Crodino non credo sappiano cosa sia. Ne’ i salatini. Meglio: aperitivo con ciò che offre la Natura e non con robaccia industriale. Abbiamo parlato nell’attesa della cena, più che altro ci siamo conosciuti. Il cowboy del Colorado ha messo piede in Africa per la prima volta ed ha scelto il Marocco perché lo considera il paese islamico più moderno. Gli ho fatto notare che anche altri paesi offrono le stesse modernità. E’ la cultura ad essere differente. Come noi con i francesi o gli spagnoli: uguali ma diversi. Siamo stati invitati nell’interno della grande tenda per la cena. A Merzouga mi fu offerto un tajine di pollo ed invece qui ne sono due, uno col pollo e uno con la carne. E pieni di pepe. Buoni però, squisiti davvero per un gruppo di affamati come noi. Il tajine è uno dei piatti tipici del mondo arabo. Da cuoco curioso ho cercato di carpirne gli ingredienti per poi cucinarli in Italia: patate, carote, zucchine, melenzane e spezie. Queste ultime sono un dramma: danno odore e sapore ma saperle decifrare è difficile. Credo che ci sia la cannella, lo zafferano, la curcuma, e lo zenzero di base. Il resto non so. So solo che la mia forchetta è affondata in quel caldo piatto fumante e ha raccolto un po’ di tutto. E poi di nuovo fuori, nell’aria leggermente fresca della sera, ad ascoltare i canti e a guardare le stelle. E a cantar “Bella ciao”. Davvero una notte magica nell’Erg Lahtouni. Ora siamo stati lasciati soli sul tappeto rosso, a piedi nudi ed in silenzio mentre i giovani cantanti si rifocillano anch’essi nella tenda. Il cowboy mi dice che non ha mai visto un cielo così neanche nel suo paese. Come, neanche nel deserto del Mojave? Neanche allo Yellowstone Park? O nelle infinite campagne del Midwest? No, mi risponde, mai. Non posso contraddirlo perché sono posti ancora sconosciuti per me. Vito accenna a far amicizia col cane ma riceve solo guaiti ed un furioso abbaiare così rinuncia: da degno figlio del deserto, il nero animale non vuol farsi domare. Adesso siamo davvero stanchi. I giovani berberi ci conducono ai nostri giacigli posti sotto una tenda illuminata solo da un lume a candela e provvista di tre letti di legno: sarebbe bello dormir fuori all’aperto ma questo è possibile solo nei mesi estivi, quando l’aria caldissima del deserto si attenua alle prime luci della sera ed è piacevole sentir sulla pelle il leggero senso di freschezza che offre la notte. Ora non conviene, anche perché inizia ad alzarsi un imperaturo vento. Vento che soffia sempre più forte la notte ed apre quel lembo di tenda accostato che funge da ingresso. Sabbia non ne entra ma portiamo le coperte fin sopra il viso per accettare il calore che emanano. Io soccombo alle esigenze della Natura ed esco fuori per trovare un piccolo angolo ma sono preso dalla visione che mi si presenta: c’è una mezza Luna che primeggia in cielo attorniata dalle stelle ed illumina tutta la spianata del bivacco. Vedo i cammelli accovacciati a riposare. Vedo le tende scosse dalle raffiche di vento. Vedo la mia ombra, disegnata precisa dai raggi lunari. Vedo anche la sabbia correre su se stessa e seguire la scia del terreno da cui si alza. E’ tutto così chiaro, cosi netto e così affascinante. Che spettacolo. E basta solo una mezza Luna per vederlo. Spengo la piccola torcia, serve a nulla. Ho già la mia illuminazione. Provo a raccontarlo ai miei assonnati amici quando mi sveglio all’alba ma non riesco a trovare le parole. Forse è meglio perché è stato un momento tutto mio. Li esorto ad uscire: c’è prossima un’altra esplosione di colori. Un’altro spettacolo da non perdere. Corriamo sulle dune più alte giusto in tempo che i primi raggi del sole illuminano l’orizzonte mentre ci raggiungono nel contempo sia il cowboy che i due francesi, ricomponendosi così la stessa folla cosmopolita dei canti. Ora però lo spettacolo ce l’ offre il Sole. E’ poco dopo la colazione che si alza ancora più impetuoso il vento. Forte e sibillante. Mi chiedo se ci facciano rientrare con le jeep a questo fuori programma meteorologico ma le guide non sono per nulla sconvolte: preparano le selle ai dromedari e ci invitano a montar sopra. Ma come, un vento che sembra il “ghibli” e ci fate viaggiare tra i mulinelli di sabbia e le folate calde? Ibrahim mi guarda come se gli avessi detto che piove grandine a chicchi grossi. Per lui è normale, la forza della Natura non si è assolutamente espressa in tutta la sua potenza. Meno male che ho la mia chaiche azzurra che mi ripara dal vento. E come loro la alzo fino agli occhi. Vedo il mondo da una striscia di seta. Loro guidano e cantano. Con il vento che urla e la sabbia che acceca loro continuano imperterriti a cantare. Fino a quando non entriamo a M’hamid e ci lasciano davanti la jeep di M.me Maguy, in attesa del nostro rientro. Ritorniamo indietro per la N9 verso Marrakech, ripercorrendo a ritroso il viaggio fatto nei due giorni passati. La radio trasmette canzoni: Madonna a Zagora; Shakira a Agdz; Lady Gaga sul passo del Tizi-n-Tichka. E i canti del deserto? Lì a M’hamid sono rimasti. Portati nel cielo solo dal vento. Affronto il traffico serale di Marrakech, peggiore di quello napoletano: Vito e Gianca sono costernati. “Scansa il motorino”; “Attento all’asino e al padrone”. “Ma quanti ne sono su quella moto?”. Li invito alla calma: il traffico è caotico e bisogna avere due occhi aperti per chi non è pratico ma io mi diverto. Sembra appunto di essere a Napoli. A parte le bici e i carretti trainati dai muli. Ritrovo Amine e il suo sorriso di benvenuto solo il giorno seguente, quando lo incontro sul tetto dell’Hotel: mi chiede come sto, come sta la famiglia e se il mio soggiorno è gradevole. Le classiche e tipiche domande che qualunque persona del Marocco rivolge ad uno straniero. E che mi fanno sentire un ospite veramente gradito, non solo per il denaro che porto e spendo, ma anche per l’incontro di umanità che avviene. Sono proprio contento di essere di nuovo a Marrakech: sarà anche un pochino più turistica di altre città ma a me piace sempre. Ti permette di avere il primo contatto con i commercianti e i faccendieri, coloro che si incontrano in ogni dove. Se si entra in sintonia con uno di loro sono capaci di regalarti tutto. E lo dico con cognizione di causa perché non so descrivere la felicità del mio venditore di spezie al Mellah quando gli ho portato il watch sport (quegli orologi tutti in plastica che sono stati tanto di moda l’anno scorso) che gli avevo promesso ad Agosto: mi ha riempito di feste e mi ha offerto di tutto dal suo negozio. Io chiedevo solo un po’ di tè e di caffè. Faccio da Cicerone ai miei amici e li porto in giro nella zona dei monumenti, nei dintorni della Koutoubia, nella medina e i suoi suqs e nei café, a riempirci di café noir e di pasticcini pieni di miele ed api svolazzanti. Certe volte non viene neanche voglia di muoversi e basta sedersi all’Argana o al Cafè de France ed aspettare: Marrakech e la Djemaa ti passano loro davanti. Canta ora il muezzin. Al calar del sole canta l’invito alla preghiera. Cantano le cicogne dai nidi affollati sulle mura del Palazzo El Badi. Cantano i musicisti della Djemaa al suono dei tamburi, dei flauti e delle quarquaba. Cantano anche le donne berbere accovacciate sull’asfalto caldo. E’ un canto unico. Il canto del meraviglioso Marocco. Consigli di viaggio Per il volo ci si può rivolgere alle tante compagnie che effettuano scalo in molte città come Casablanca, Fés, Tangeri, Marrakech e Agadir: oltre ad Alitalia e Royal Air Maroc si può far affidamento ad Easyjet, a Ryanair, ad Atlas Blue e ad Air Arabia. Muoversi in Marocco non è difficile ed è anche economico: CTM (www.ctm.ma) e Supratours sono i principali vettori di autobus e la O.N.C.F. (www.oncf.ma) è la società ferroviaria che collega molte città. Guidare un auto non è un problema e si può ovviamente noleggiarla anche se nelle grandi città è consigliato utilizzare gli economici taxi mentre nelle zone desertiche meglio avere un 4×4. Molte agenzie locali organizzano tours, escursioni, bivacchi o gite di qualche giorno con prezzi variabili ma comunque a buon mercato ed offrono anche auto con autista. Gli alberghi dove ho dormito sono stati una piacevole sorpresa per me. A Ouarzazate ho pernottato all’Hotel la Vallée, situato a Taourit: al prezzo di 220 Dhr in mezza pensione siamo stati una notte in una tripla confortevole e dotata di addirittura 4 letti. E’ un albergo spartano ma pulito e la cena non è male: consiste in un antipasto, un piatto principale ed un dessert a scelta da un menù. Le bibite si pagano a parte. La colazione invece offre cornetti, pane bianco o al sesamo, miele, formaggi, marmellate, burro, uova cotte, cereali ed ovviamente caffé, té o succo d’arancia (www.hotellavalleemaroc.com). A M’hamid c’è Le Drom Blanc, un riad gestito da M.me Maguy Briois e situato tra il palmeto e il corso asciutto del Draa. Ho pagato 40€ a persona per il bivacco che ci ha organizzato e al rientro ha offerto le docce per ripulirci dalla sabbia e per rinfrescarci (www.ledromblanc.com). A Zagora abbiamo effettuato i due pranzi da Chez Alì, nei pressi della Prefettura e del famoso cartello delle carovane: è un ristorante albergo e, sempre per un antipasto, un piatto principale ed un dessert con le bevande, si pagano sui 100 Dhr a persona (www.chez-ali.com) A Marrakech io mi appoggio in quella che definisco ormai la mia residenza marocchina ossia l’Hotel du Trésor, di proprietà del sig. Adriano Pirani e gestito ottimamente da Amine e dal suo amabile staff. Le camere sono varie e i prezzi accessibili. Ed ovviamente situato a due minuti dalla Djemaa El Fna (www.hotel-du-tresor.com). E, a somma con gli altri indirizzi che ho già ripetuto nei precedenti diari, vorrei aggiungere alcuni nuovi consigli per chi soggiorna a Marrakech e vuol coniugare visite culturali ad un sano ed economico shopping nei suqs. Per determinati acquisti ormai ho consolidato la mia figura di cliente in alcuni negozi che suggerisco e in cui mi trovo bene. Intanto restiamo nella Medina dove, per chi vuol comprare l’olio di argane o i suoi derivati e cerca un prodotto sano e genuino (l’olio può essere anche di produzione industriale, più economico ma qualitativamente basso), si rechi da Assouss Argane vicino alla Fontana Mouassine: è il negozio di una cooperativa di sole donne che offre puro olio d’argane o sue lavorazioni come creme o sapone per il corpo. Le confezioni sono di vario formato ed una boccetta d’olio può anche costare sui 15€ ma c’è la sicurezza che il prodotto è artigianale e la qualità ottima. Per i piccoli pensierini o per la terracotta artigianale io mi servo di due negozi. Il primo lo chiamo “I Priori” perché a gestirlo sono dei preti musulmani. L’altro è il negozio di M.me Bottero. Già nel mio precedente viaggio ne avevo fatto cenno ma stavolta ne confermo l’attendibilità e i prezzi. Per le spezie mi rivolgo invece ad un negozio sito nel Mellah: è gestito da un marocchino vissuto in Italia ma sono i due figli a lavorarci dentro. Si trova, guardando i giardini, su lato destro della Place de Ferblantiers, nell’angolo a sinistra dell’ingresso al mercato. Hanno del profumato té alla menta essiccato e tostano il caffé al momento con o senza spezie. Ed offrono anche essenze per arredi o interno mobili o spezie per preparare un ottimo couscous e tajine squisiti. Lungo la Rué de la Liberté, nella Ville Nouvelle, ci sono una serie di negozi che propongono oggettistica per la casa a prezzi molto contenuti. Per il cibo, prima di partire, fate un salto alla Patisserie des Princes in Rue de Bab Agnaou e chiedete che vi confezionino una scatola (sceglierete voi la grandezza) piena di “petite four” ossia pasticcini da potervi portare in Italia: per una media da mezzo chilo piena di dolcini al miele, alle noci, al cocco o al marzapane si spendono sui 5€. Lo stesso trattamento offre Yacouba, alle spalle della Djemaa, anche se i suoi prodotti li preferisco per pasteggiare al pomeriggio. Per i pasti principali c’è l’imbarazzo della scelta: Toubkal e Chez Chegrouni nella Djemaa per pietanze marocchine a prezzi bassi; il Cafè Arabe per un tocco di classe (gustosissime le melenzane alla norma o a funghetto, cioè con la salsa, saporite con una punta di spezie); i banchetti della piazza, mai provati ma pare molti sicuri gastronomicamente. Questa volta ho scoperto un nuovo posto, sito nella Ville Nouvelle alle spalle della Posta Centrale in rue Moulay Rachid : si chiama Samak al Bahria e si può mangiare pesce a prezzi sbalorditivi. Il posto, molto frequentato dai locali, offre comunque spazio anche ai turisti. Non c’è menù e l’unica bibita offerta è l’acqua. Però, appena seduti, siete serviti con un piatto di riso a persona, uno di olive, uno di salsa rossa piccante (troppo per i miei gusti) e da un cesto pieno di pane. Poco dopo vi portano, senza che l’abbiate ordinato, un piatto in cui ci sono due sogliole, uno sgombro enorme e un bel po’ di totani impanati e fritti. E’ il pasto della casa. E il tutto costa appena 35 Dhr. Per finire, qualche consiglio per i giovani, che magari vogliono trascorrere una serata all’insegna del divertimento (aperto comunque anche a tutte le età). Nella Ville Nouvelle ci sono, soprattutto lungo la Mohamed V, molti locali di vario genere: si passa dall’ “English pub” al recente “Le Charlot” passando per lo chic di “Kechmara” (tutto bianco all’interno ed offre anche servizio ristorante) fino agli etnici “Africa’ n chic” e “Mamma Afrika”. Chiedete sempre se servono alcolici se si ha voglia di una birra o di un cocktail. E, restando in tema di alcool, ho preso l’abitudine di comprare in aeroporto del buon vino marocchino: accompagna il couscous (ma anche altre pietanza) in maniera deliziosa.

E’ un modo per ricordarmi del Marocco.



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