Sahara, una sorprendente Tunisia in 4×4

Da Tunisi a Ksar Ghilane attraverso il deserto (Grand Erg), i villaggi trogloditici e i laghi di sale (chott)
Scritto da: jessiejane32
sahara, una sorprendente tunisia in 4x4
Partenza il: 05/04/2014
Ritorno il: 12/04/2014
Viaggiatori: 10
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5 aprile 2014 – Da Tunisi a Douz attraversando l’entroterra

Atterriamo a Tunisi dopo due ore dal decollo a Milano Malpensa e per prima cosa spostiamo indietro di 60 minuti le lancette dell’orologio: in Tunisia l’ora è soltanto solare. Ci attende un minibus diretto a Douz, cittadina di quasi 30 mila abitanti nel sud della Tunisia, definita “la porta del Sahara”, dove dormiremo alcune notti, prima e dopo i tre giorni nel deserto.

Che si sia alle porte del Grand Erg (il mare di sabbia) lo si capisce fin dalla capitale: tutto appare impolverato, le auto soprattutto, dentro e fuori. Ma non è polvere. E’ il fesh fesh, sabbia sottilissima proveniente dal Sahara, che impalpabile quanto il borotalco non ci lascerà più durante tutto il viaggio. Anzi, ce la ritroveremo in valigia anche una volta tornati a casa.

Ma lasciata alle spalle la capitale da oltre 700 mila abitanti, con le sue grosse arterie lungo le quali sventolano, alte, innumerevoli bandiere rosse nazionali, i colori si impongono con tutto il loro calore, nonostante il cielo sia coperto di nuvole. Se davanti infatti ci precede una lunga e grigia striscia d’asfalto, ai lati sfilano ampie piantagioni di viti e ulivi, e campi di frumento recintati da filari di fichi d’India coi loro simpatici frutti rossi come posticci nasi di clown.

Sono seduta davanti, a fianco dell’autista, Alì, di Douz. Peccato non saper parlare il francese, che qui parlano praticamente tutti, oltre ad un dialetto dell’arabo: in Tunisia infatti l’inglese serve a poco o a nulla. Anzi, è più facile incontrare tunisini che parlano italiano. Non Alì, purtroppo, con il quale riesco tuttavia a comunicare qualcosa. Scopro così che Douz dista da Tunisi circa 550 chilometri e che ci vorranno circa 7 ore per raggiungerla. Uno scherzo, dunque, in confronto alle 22 ore in bus fatte lo scorso novembre per attraversare la Patagonia (http://piccolareporter.blogspot.it/2013/12/viaggio-in-argentina.html)

Intanto capiamo perché i nostri sedili sono tutti rivestiti alla bell’e meglio di sacchi celesti, quelli della spazzatura, fissati con il nastro adesivo. Massimiliano, il tour leader (Horizon Travel), si era infatti raccomandato che il pulmino venisse non solo pulito, ma anche lavato, visto che avrebbe trasportato solo donne, 14 per l’esattezza. Peccato, però, che i sedili risultassero ancora umidi quando siamo arrivate, così gli incaricati hanno improvvisato la soluzione dei sacchi di plastica, che tutte abbiamo comunque apprezzato.

Qui, del resto, siamo in Africa: c’è poco dello standardizzato, del massificato e dell’industrializzato cui siamo ormai assuefatti noi occidentali. Si avverte anzi la sensazione che ogni situazione sia a sé stante, irripetibile, unica. E noi non stiamo andando né in un villaggio turistico né in crociera. E’ un viaggio on the road il nostro, che per definizione ha un margine di imprevedibilità, ovvero proprio quel quid in più che lo rende speciale fin sulla carta. L’importante è affidarsi a professionisti, come si sono dimostrati i nostri accompagnatori in ogni circostanza.

Nei sedili in fondo al minibus sono sedute anche due giovani donne tunisine, di cui una con il velo islamico: capiremo che sono le aiutanti di Mahjoub, il cuoco dello staff che cucinerà per noi durante il tour nel deserto. Proprio la ragazza con il velo ad un certo punto consegna un cd all’autista e dopo pochi istanti parte a cantare un Eros Ramazzotti d’antan con “Una storia importante”. Gusti a parte, una squisita carineria nei nostri confronti.

Nel frattempo, all’altezza di Enfida, sulla costa, lasciamo l’autostrada per addentrarci nell’entroterra, tra file di eucalipti e tamerici a bordo strada e colline che sembrano di cartapesta sullo sfondo. Ci accorgeremo presto che è la parte più povera del Paese, quella che più ha risentito degli effetti della “rivoluzione dei gelsomini” iniziata a fine 2010. La caduta del regime e l’instabilità politica infatti, oltre alla crisi economica europea, ha colpito in particolare le attività legate al turismo, e, di riflesso, anche quelle agricole che ora non hanno più scambi nè con la costa, nè con il nord del Paese, né con i villaggi a sud, a ridosso del deserto, dove per lo più si reca(va)no i turisti, soprattutto francesi, inglesi e tedeschi.

Così, mentre il sole, nel frattempo impostosi sulle nuvole, cala alla nostra destra accendendo le facciate delle poche abitazioni che costeggiano la strada (spesso al grezzo, seppure abitate), notiamo susseguirsi contadini che vendono soprattutto piselli in bacello, disposti a mucchi su banchetti improvvisati. Alcuni attirano l’attenzione dei passanti sventolando sacchetti di plastica colorata.

Ogni tanto si incrocia anche qualche mucca o qualche gregge di pecore e caprette sorvegliati a breve distanza da uomini seduti lungo la banchina stradale, incuranti del traffico che sfreccia a pochi metri dalle loro spalle.

Ma la cosa più curiosa, oltre ai comodi giacigli per cicogne che qui costruiscono su piattaforme in cima ai tralicci, sono i distributori fai da te di carburante, di contrabbando naturalmente. Numerosissimi lungo la strada, si riconoscono semplicemente dalle taniche di plastica colorata disposte a file, una sopra l’altra, da cui pende una canna: basta poi un imbuto e i clienti pagano la metà del prezzo delle pompe delle compagnie petrolifere.

Anche i ristoranti dove si mangiano pecore e agnelli si riconoscono subito: la loro pelle è appesa fuori, penzolante, nel portico di ingresso, quando addirittura non c’è una mezzena avvolta nel cellophane.

A farla da padrona è comunque la spazzatura, sparsa ovunque, a tratti si direbbe ad arte, e concentrata in alcune zone in ingresso o in uscita dai villaggi, da dove si vedono salire fumi affatto salutari. Inutile nasconderlo: l’immondizia qui è un grosso problema, e par proprio una questione di cultura, che richiederà quindi parecchio tempo perché si risolva.

Ci si chiede come gli autoctoni (qui come in molte altre aree meno sviluppate del mondo) possano tollerare, senza soluzione di continuità tra periferia e centro città, lo spettacolo di sacchetti di plastica celesti impigliati tra le spine dei fichi d’India e tra i rami degli alberi, o di bottiglie di plastica e lattine di birra accartocciate lungo le strade, assieme a cartacce, cartoni e macerie. A farci dimenticare questa riflessione ci pensa il buio, ma soprattutto una tempesta di sabbia niente male che incrociamo per alcune decine di chilometri all’altezza di Gafsa. Dal parabrezza la visibilità diventa sgranata e assume la colorazione tipica delle fotografie in seppia, mentre nel cono di luce davanti a noi l’asfalto viene continuamente attraversato da repentine onde marroni.

Arrivati a Douz in serata, dopo esserci sistemati all’hotel El Mouradi (4 stelle con grande piscina interna ed esterna), ceniamo in centro, nel ristorate “Chez Magic” gestito dallo stesso simpaticissimo cuoco del tour, Mahjoub.

Prima di entrare, però, è impossibile non soffermarsi nella bottega a fianco del ristorante: un tenero vecchietto, curvo sul marciapiede, tagelmust bianca in testa e incudine tra le gambe, fabbrica in continuazione taccuini, braccialetti, borse, borselli, scarpe e ciabatte (per suole ritagli di copertoni), tutto rigorosamente in pelle, di cui il negozio alle sue spalle è straripante.

Da Mahjoub siamo una ventina di persone sistemate in un’unica lunga tavolata che va ad occupare quasi tutto lo spazio disponibile. Il servizio è di ottima qualità, per non parlare delle pietanze, di cui cominciamo a farci una cultura. A partire dall’harissa, una salsa a base di peperoncino rosso, aglio e olio d’oliva, servita in un piatto a metà col tonno e accompagnata da olive nere. Va mangiata intingendo il pane, e a piccole dosi per chi non ama particolarmente il piccante.

L’harissa è anche alla base della gustosa zuppa (meno piccante della salsa) servita come primo piatto, e composta inoltre da farro, ceci, prezzemolo e spezie, in cui va spremuta una fetta di limone: molto fresca.

Come entrèe però mangiamo prima il brik a l’oeuf (che di lì a qualche sera impareremo a cucinare nella piccola cucina del ristorante), specialità tunisina che si presenta simile a una crepe, di pasta filo, fritta nell’olio, con dentro un uovo intero fresco, patate bollite, capperi e prezzemolo. Si mangia a partire dal centro, tenendo i bordi con le mani. Per secondo ci viene servito un piatto di carne mista (pollo grigliato, agnello e salsicette di tacchino), con contorno di verdure fresche (cappuccio e pomodoro) e patatine fritte. Per finire fragole e banane e volontà. Il tutto annaffiato da un ottimo Pinot Noir (Carthage).

 

6 aprile 2014Da Douz a Tembain, nel Sahara

A colazione ci troviamo in hotel in compagnia di numerosi motociclisti pronti nelle loro tute in pelle per salpare nel Sahara a bordo di enduro appositamente modificate e attrezzate.

Qui tutti i veicoli infatti sono più o meno visibilmente modificati. Del resto, non si contano le officine meccaniche che si affacciano in strada. Il parco veicoli della Tunisia è piuttosto datato, ma è comprensibile: lo stress cui sono sottoposti è notevole a causa delle alte temperature, delle strade dissestate (quando ci sono) e della sabbia che si insinua dappertutto. Salvo casi eccezionali, pertanto, comprare un mezzo nuovo di zecca qui è una follia. Diffusissimi, per dire, sono i motorini tradizionali (rigorosamente guidati senza casco, magari anche con tre persone a bordo), sui quali è evidentemente più facile mettere le mani rispetto agli scooter, più nuovi, ma con troppa elettronica. I fuoristrada che affrontano le dune del deserto, poi – per lo più pick up Toyota, Nissan e Isuzu -, sono dotati di speciali filtri anti-polvere e snorkel, tubi verticali d’aerazione per il motore, applicati di lato, sul muso dei veicoli.

Davanti al ristorante di Mahjoub, e quindi in pieno centro, lo staff finisce di caricare tutto l’occorrente per il tour nel deserto con accompamento notturno. I bambini che incrociamo, intanto, ci sorridono e ci dicono “bonjour”, mentre i numerosi uomini seduti all’ombra, sugli usci delle abitazioni e dei negozi, ci guardano con rassegnazione. Qualcuno, specie se anziano, comprensibilmente non gradisce gli si pianti una fotocamera davanti al viso. Altri invece, specie i commercianti, fanno di tutto per attirare l’attenzione. Le donne, infine, tranne qualche anziana in abiti tipici e velo in testa, non si vedono: stanno in casa.

Mentre curioso nei dintorni, vengo invitata ad entrare in un negozio di souvenir e tappeti dal suo titolare, che si fa intendere molto bene in italiano: non tanto per vendermi a tutti i costi qualcosa, ma perché vuole mostrarmi l’album fotografico dei tour nel deserto (con dromedario) che lui stesso organizza su prenotazione. Da Douz infatti i turisti partono a bordo non solo dei 4×4, ma anche dei dromedari: più caratteristici, certo, ma che difficilmente si spingono fino a 50 chilometri più a sud dove inizia l’erg, il mare di sabbia vero e proprio. L’uomo mi conduce ad un salottino, che dev’essere il suo ufficio (sento che non c’è da preoccuparsi), e mentre poco dopo sfoglio l’album fotografico, devo continuamente rifiutare il classico thè alla menta. Alla fine della chiacchierata, me ne esco promettendo di inviargli via mail le foto che gli ho scattato per ricordo.

Douz (quasi 30 mila abitanti) vanta il maggior numero di palme di tutte le oasi del deserto tunisino: suddivise da recinzioni di foglie di palma, le piantagioni appartengono alle varie famiglie, che ne ricavano pregiati datteri (assolutamente da assaggiare quelli al naturale). Eppure la fertile cittadina viene chiamata “porta del Sahara”, perché basta dirigersi verso sud che ad un certo punto, di netto, davanti appare il “nulla”, come se si fosse stati di colpo catapultati su un altro pianeta: è la prima grande emozione.

Condotti da ottimi autisti autoctoni, cui il nostro tour operator si affida per portare i turisti-viaggiatori nel deserto, per alcune decine di chilometri seguiamo una strada battuta e assai polverosa. Al punto che capiamo subito perchè in questi posti sia necessaria una fotocamera tropicalizzata, obiettivi compresi, o avvolgere la macchinetta in un sacchetto di plastica fissato con degli elastici.

Per porre una barriera all’azione onnivora della sabbia, le stesse strade sono a loro volta fiancheggiate da lunghe e alte dune, sulla cui cresta sono conficcati graticci di foglie di palma. A livello strada, invece, notiamo spesso correre un tubo nero di gomma: Memeth, l’autista del comodo fuoristrada di cui sono passeggera assieme ad altre due compagne di viaggio, Bruna e Susanna, ci spiega che porta l’acqua dai pozzi alle stazioni di estrazione del gas, di cui la Tunisia è ricca.

Qui, alle porte del Sahara, la sabbia è chiarissima, bionda o meglio ancora dorata, perché mescolata ai sali del vicino grande lago salato Chott El Jerid. Più a sud invece il colore si fa via via più scuro, da rosa fino a diventare fulvo (il termine “Sahara” per gli arabi connotava originariamente uno spazio vuoto dal suolo fulvo): i granelli, del resto, si formano per effetto della “corrasione”, l’erosione delle rocce da parte delle particelle solide trasportate dal vento, o anche per le “esplosioni” delle rocce sottoposte a forti sollecitazioni dalle notevoli escursioni termiche. E sono così sottili, i granelli, che cominci a sentirli dappertutto: sulla pelle del viso, sulle labbra protette dal burrocacao, tra i denti. E alla fine non ci fai neanche più caso.

Dopo una sosta in un cafè per un dissetante thè alla menta servito nei classici bicchierini di vetro – i cafè sono fresche capanne con wc che sorgono lungo le maggiori rotte nel deserto, per lo più in corrispondenza di pozzi d’acqua -, ci fermiamo in una capanna affittata dallo staff apposta perché Mahjoub prepari il pranzo per tutti, a base di brik, couscous, carne alla griglia, verdura e frutta a volontà.

Alcune del gruppo approfittano della sosta prandiale per farsi avvolgere attorno al capo dagli autisti, anche loro di origine berbera come la maggior parte della popolazione nordafricana, una fascia di cotone colorata lunga alcuni metri, fino a formare la tagelmust. Quello che può sembrare un vezzo, si potrà in realtà rivelare assai utile in caso di tempesta di sabbia. Il tipico copricapo dei tuareg, solitamente color indaco, infatti, non solo ripara la testa dal sole, ma copre le orecchie, le narici e la bocca dalla sabbia, grazie ad un lembo del velo che, lasciato libero sulla schiena o abbassato sul collo quando non serve, all’occorrenza si fissa all’angolo opposto del turbante, lasciando fuori solo gli occhi.

Quindi si riparte e dopo poco si devia dalla strada battuta per cominciare a fare fuori-strada davvero. Alle dune vere e proprie, alte alcune decine di metri, arriviamo comunque verso il tardo pomeriggio. Per ora quelli che affrontiamo sono per lo più cumuli di sabbia sparsi, simili a seni chiari su un fondo di piccole pietre color tabacco, che assieme creano un suggestivo colpo d’occhio. Qua e là sono inoltre disseminati tanti cespugli alti fino a un paio di metri, dalle foglie fattesi nel tempo sottili come steli per resistere meglio al clima ostile. Memeth trova un piccolo fiore rosa tra questa vegetazione e ci spiega che se si beve latte di capra che ha mangiato di quei fiori, è probabile che si avverta sonnolenza o comunque ci si senta più rilassati.

Ogni tanto si vedono da lontano altri fuoristrada, sempre almeno in coppia, perché nel deserto, è risaputo, non si va mai con un veicolo solo: i problemi e gli imprevisti sono sempre in agguato e non si può certo rischiare di restare in panne senza possibilità di soccorso. Anzi, le compagnie più serie, come quella con cui viaggiamo noi (Desertrats Tunisia), sono coperte da una speciale assicurazione, per cui in casi estremi viene richiesto l’intervento di un elicottero.

Non stupisce quindi che anche la nostra carovana si fermi più volte per lasciare andare uno dei nostri autisti a verificare che non abbiano bisogno di aiuto quei veicoli che ogni tanto si vedono fermi in lontananza, tra le dune. O che ogni volta che si incrocia un altro veicolo sulla stessa via, come minimo ci si fermi, si abbassino i finestrini e ci si scambi un saluto o un consiglio di viaggio. Gli imprevisti comunque non potevano mancare anche nel nostro convoglio, fin dal primo giorno: o per insabbiamenti o per guasti alla meccanica o per forature dovute ai letali aculei di alcuni piccoli arbusti, i nostri 4×4 di almeno 4000 cc di cilindrata hanno dovuto essere di volta in volta trainati o aperti nel cofano o sollevati con il cric. S’impara così che sul fesh fesh (http://www.youtube.com/watch?v=oOYcUcw4q5k&feature=youtu.be VIDEO), per dire, vanno preferiti pneumatici morbidi, altrimenti quando si deve accelerare in salita per superare una duna, si rischia letteralmente di scavarsi la fossa.

Il fesh fesh può comunque essere letale anche nei tratti pianeggianti: a volte è talmente impalpabile che par viscido sotto le ruote, e attanaglia i veicoli come sabbie mobili. In questi casi tirar fuori un 4×4 può costare anche un giorno di lavoro col rischio che finiscano per “impantanarsi” anche i veicoli della carovana che provano a trainare quello in panne, per quanto pesanti. Per questo, quando qualche giorno più tardi, il tour leader mi inviterà a guidare il suo fuoristrada fra le dune basse ma insidiose in direzione El Faouar, il mio unico obiettivo è non fermarmi mai, tenendo il motore su di giri con marce basse. Nel Grand Erg può inoltre capitare che ci si disorienti a causa della sabbia in continuo movimento o che veicoli della stessa carovana si allontanino tra loro fino a perdersi. A quel punto, anche se c’è campo per parlarsi al cellulare, non c’è niente di meglio che darsi appuntamento ai piedi di un rilievo roccioso visibile a chilometri di distanza, come Tembain, dove siamo diretti oggi: poche sono del resto le rocce non ancora del tutto erose dal vento.

La sera, a cena, noi passeggeri non riusciremo a nascondere allo staff logistico che in fondo è entusiasmante per noi assistere alle loro manovre attorno ai veicoli, soprattutto quando i 4×4 “sgommano” per emergere dal fesh fesh, creando spettacolari getti di sabbia arancione, alti anche alcuni metri. Ragionando col nostro metro “europeo”, pensiamo che per loro si tratti piuttosto di seccature, di contrattempi fastidiosi: quelle cose insomma che ti mandano in bestia. Invece ci rispondono che è un divertimento, e guai se non fosse così. Slim, per dire, che è innanzitutto oncologo a Tunisi, mi confida che esperienze come queste, nel deserto, lo fanno sentire meglio, lo rilassano, gli permettono di scaricare la tensione. Massimiliano, che pure si diverte da matti ad affrontare le dune col suo scomodo Nissan Patrol, sostiene addirittura che nel deserto gli spariscono d’incanto le allergie di cui soffre in Italia. Benny, infine, italiano nato in Germania, ma residente a Douz da anni, ci spiega che il deserto pone ogni giorno sfide diverse e ogni giorno combatte con o contro la sabbia, con o contro la propria auto, e senza mai prendersela più di tanto.

Si capisce, insomma, che il deserto è una palestra: si scoprono i propri limiti e si impara a gestirli al meglio. Non solo quelli fisici, per l’adattamento del proprio corpo ad un clima estremo, ma soprattutto mentali: occorre saper affrontare continui cambi di situazione, momenti difficili e imprevisti, senza scoraggiarsi o dare di matto, perché non serve a nulla, anzi, potrebbe costare caro. Andare nel deserto, insomma, è un viaggio nello spazio, ma anche dentro se stessi.

Cavalcando ormai da un pezzo dune sempre più alte (siamo di fatto su un altopiano), ci avviciniamo man mano allo sperone di roccia di Tembain, a circa 700 metri di altitudine e a quasi 200 chilometri da Douz, a ridosso del parco nazionale del Jebil (l’unico posto, recintato, dove ancora possono essere avvistate le gazzelle tunisine, quelle del logo della TunisAir). E’ in questo magnifico lembo del Sahara, infatti, che lo staff ha allestito il campo tendato per trascorrere la prima notte.

Il sole sta scendendo all’orizzonte, dando luogo a scenari che in genere vediamo solo nei desktop dei nostri computer. Ma quello che vedo con i miei occhi supera addirittura quelle immagini sicuramente ritoccate da abili grafici per esaltare forme e colori. In un contesto così vasto, del resto, poter godere della terza dimensione è un vantaggio impareggiabile, con risultati mozzafiato. Al punto da ingenerare le reazioni più diverse e inaspettate fra tutti noi che mettiamo piede per la prima volta nel Grande Erg Orientale, il mare sabbioso che si estende dall’Algeria al sud della Tunisia.

Persino coloro che, nel gruppo, hanno girato in lungo e in largo il mondo, ammettono che una bellezza tale non l’hanno mai trovata. Così c’è chi resta semplicemente senza parole, chi si toglie gli scarponi per godere del contatto con la sabbia finissima, chi si mette a correre lungo le creste delle dune alte decine di metri, nonostante i piedi continuino ad affondare, chi si rotola lungo i fianchi, chi si spinge fino in cima alla collina di sabbia più alta per vedere cosa c’è oltre, chi invece tenta di abbracciare con lo sguardo la distesa infinita che lo circonda, o chi si siede soltanto per assaporare fino in fondo un’emozione mai provata prima. Per quanto riguarda me, anche se condivido quanto sostiene Mano Dayak, scrittore nigeriano e portavoce dei tuareg, “Il deserto non si racconta, si vive”, da “piccola reporter” voglio almeno provare a dire la mia.

Per me il deserto è femmina. E non a caso strega per lo più gli uomini. Sinuoso, morbido, sfuggente, ammaliante, inafferrabile: sono aggettivi che per lo più si associano ad una donna. La suggestione viene amplificata al mattino, quando i profili delle dune, illuminati dal sole ancora basso all’alba, appaiono come fianchi di donna dalla pelle chiara e vellutata. E un alito di vento, voluttuoso, accarezza di continuo quelle armoniose curve con un velo iridescente di sabbia in sospensione, la più fine.

Se la perfezione e la pulizia delle forme è opera del vento, è poi merito del sole esaltarne i chiaro-scuri e i contrasti cromatici, aumentando il fascino di un luogo che a tratti sembra un’allucinazione. Del resto, se si prova a toccarlo con un dito, quasi a voler verificare che non siano scherzi dell’immaginazione, di colpo la sabbia, fine com’è, frana fino in cima alla duna. Ed è uno struggimento, perché par di aver compromesso irrimediabilmente un’opera d’arte, se non fosse che qui basta un soffio di vento a rimettere tutto in ordine, come per magia.

Finchè noi ci beiamo del deserto come le formiche della marmellata, lo staff sta alacremente allestendo il campo per la cena. E che allestimento! Sta per farsi buio che tra una tenda e l’altra si accende un perimetro di candeline, al cui centro campeggia una lunga tavola con sedie rivestite di stoffa blu scuro, in contrasto con la sabbia ancora candida all’imbrunire. Tuttavia la temperatura scende più del previsto e alla fine, dopo un aperitivo sotto una tenda di stoffa berbera, seduti su comodi divani e poltrone imbottiti, si cena in un’altra tenda, con calici e servizio da tavola in tipica ceramica colorata. Mahjoub ci stupisce anche stavolta, in quantità e qualità, facendoci peraltro conoscere due nuove specialità tunisine: le dita di Fatima, involtini fritti di pasta filo, carne e formaggio in pasta brik, e le corna di gazzella, involtini in sfoglia ricoperta di miele con ripieno di noci e mandorle (impossibile non leccarsi le dita).

Ma prima della cena, quando si era già fatto buio e la maggior parte dei miei compagni di viaggio era già seduta a tavola, ho assistito alla preparazione del pane cotto nella sabbia. Un’esperienza unica. Inginocchiato a terra, un indigeno membro dello staff, nei tipici colori bianco del copricapo e blu della casacca, a fianco di un fuoco acceso sulla sabbia con rami secchi raccolti nei dintorni, impastava il pane in una larga terrina in metallo. Con un ramo ha quindi smorzato le fiamme e spianato le braci incandescenti, su cui ha adagiato l’impasto appiattito. Dopo averlo ricoperto con ceneri e braci, lo ha lasciato cuocere là sotto per 15-20 minuti, durante i quali abbiamo provato a scambiare qualche parola in almeno tre lingue per riuscire a capirci. Quindi ha dissotterrato il pane e lo ha adagiato fumante sopra a un telo in cotone, steso lì a fianco sulla sabbia. Ne ha spezzato una fetta e me l’ha porta. L’ho divisa a mia volta per condividerne una metà con lui e, assaggiando, eravamo chiaramente d’accordo sul risultato: ottimo.

Terminata la cena, in un clima di festa ci trasferiamo fuori, abbracciati dalle candeline sulla sabbia, ancora accese. Sopra di noi una luna quasi piena ci guarda sorniona fra alcune nuvole scure, di cui illumina i contorni. Fa fresco nel deserto, la notte, non c’è che dire, ma siamo tutti ben coperti. Anzi, di lì a poco cominciamo a toglierci strati di vestiti, perché arriva uno dello staff, abitante del deserto, si siede su una piccola duna e improvvisa una melodia tipicamente africana battendo il ritmo su un piccolo tamburo.

E’ un attimo: arrivano i camerieri, gli aiuto-cuoco, gli autisti, e ci ritroviamo tutti a ballare attorno ad un centro immaginario. Si mettono a cantare e ad ancheggiare pure le due donne tunisine che collaborano con Mahjoub in cucina, di cui una, taglia forte, rivela una grazia e una simpatia insospettate. L’altra, giovane e fascinosa, si avvolge sapientemente un velo colorato attorno ai fianchi, mentre un cameriere filiforme, ammirato da tutti noi italiani per i movimenti trattenuti eppur sinuosi, mi prende per mano e mi invita al centro a ballare con lui. Davanti a tanta grazia, evidentemente innata da queste parti, mi sento goffa come un elefante marino, ma decido di infischiarmene per godermi appieno un momento di festa irripetibile.

Me ne vado a letto (un letto vero e proprio, con rete, materasso, lenzuola e piumino) in una confortevole tenda da 8 posti, piena di tappeti, che là fuori qualcuno sta ancora chiacchierando. A volerlo, potrei sentire tutto quello che dicono. Sto infatti scoprendo che nel deserto l’acustica è eccezionale: addirittura a centinaia di metri di distanza si possono attribuire le voci alle rispettive persone senza margine di errore, persino per chi, come me, non ha un gran udito. Col buio, poi, è ancora più vero, forse perché non si viene distratti da quello che di giorno vedono gli occhi.

Poco prima mi sono lavata i denti all’aperto, con lo spazzolino in una mano e una bottiglietta d’acqua nell’altra. Quanto alla doccia, a causa di un problema tecnico, non abbiamo potuto usufruire dei box vetrati (sì, proprio così!) allestiti in un’altra tenda ancora, per cui ci siamo arrangiati senza problemi con le salviette umidificate, lasciando però detto allo staff che nel deserto è più che sufficiente la classica sacca d’acqua da campeggio con rubinetto.

Già che ci siamo un accenno anche al wc: c’è anche quello in questo campo, con un ingegnoso meccanismo a pompa, nella stessa tenda delle docce. Ma nel deserto, specie spostandosi in carovana, non c’è niente di meglio del riparo di una duna, dove si cancella ogni traccia semplicemente con la sabbia mossa da un colpo di piede. Tant’è che ad ogni sosta della nostra carovana, è impossibile non notare l’allontanamento simultaneo, a raggiera, delle donne alla ricerca della duna più adatta ai propri… bisogni.

7 aprile 2014 – Da Tembain all’oasi di Ksar Ghilane (Grand Erg Orientale – Sahara)

Ci si sveglia col sole e dopo aver fatto colazione all’aperto (all’italiana, con il Nescafè e la Nutella spalmata sul pane cotto nella sabbia, o alla nordafricana con corna di gazzella, dolcetti, biscottini tipici e salsiccette di tacchino), non resistiamo dall’esplorare ancora quelle alte dune che circondano da un lato il nostro accampamento.

Il sole del mattino, del resto, offre giochi di forme e colori ancora diversi rispetto al tramonto. La dune sono ora biondo-pallido e la brezza sembra assumere corpo mentre le accarezza, illuminandone i profili in controluce. Spiccano a quest’ora anche le impalpabili zigrinature create dal vento sulle dune durante la notte.

Ma ad attirare la mia attenzione, stamattina, sono soprattutto delle curiose scie lineari impresse sulla sabbia, come di piccoli carroarmati che abbiano solcato le dune durante la notte. Guardando bene in giro, scorgo finalmente il “cingolato” in questione: è un insetto nero, tondo, delle dimensioni di 2-3 centimetri, dalla corazza buccerellata, quasi iridescente e scolpita da solchi longitudinali. Non amo particolarmente gli insetti, eppure questo coleottero – che scoprirò chiamarsi pimelia – mi sta subito simpatico. Sarà perché non si ferma mai, corre in continuazione, lasciando dietro di sé incantevoli tratteggi.

Nel frattempo lo staff al completo ha già smontato gran parte del campo e si assiste alla bizzarra scena di due box doccia che si ergono come bianchi, moderni menhir in mezzo alle dune arancioni.

Di lì a poco la carovana riparte verso est, in direzione Ksar Ghilane, combattendo e rimirando allo stesso tempo il fesh fesh, e attraversando panorami straordinari. Non a caso da queste parti sono stati girati i film Il paziente inglese e poco lontano, a Tataouine, Star Wars.

Fa più caldo del giorno prima e tenersi idratati e la testa coperta è fondamentale: l’acqua comunque non manca mai. Se ne dovrebbero bere 4 litri, ma per chi non è abituato è difficile. Una di noi comincia ad accusare formicolii ad un braccio e ad un piede, ed espelle quasi subito l’acqua che beve. E’ un po’ spaventata, ma lo staff spiega che non è niente di grave: evidentemente il suo corpo fa fatica ad abituarsi al deserto. Io stessa oggi non mi sento in gran forma, ma so cos’è: a differenza del giorno prima sono seduta nel sedile posteriore della pur comoda 4×4 e il continuo su e giù fra le dune mi dà il… “mal di mare”. Alla prima sosta, pur sotto il solleone, mi stendo sulla sabbia come crocifissa e mi sento subito meglio.

Arriviamo in zona Ksar Ghilane nel pomeriggio, dopo aver fatto sosta per il pranzo in una capanna di foglie di palma, dove il fuoco per grigliare la carne è stato acceso, al solito, raccogliendo sterpaglie e rami secchi nei dintorni, sotto gli occhi indifferenti dei dromedari al pascolo.

Penetriamo nell’oasi di Ksar Ghilane fra un muro di tamerici, mentre uno stormo di uccelli bianchi si stacca dalle chiome per prendere il volo verso il blu. Lungo il vialetto d’ingresso, fiancheggiato da un canale d’irrigazione, riscopriamo finalmente l’ombra, in silenzio, a tratti estasiati.

Come promesso da Massimiliano, dopo due giorni senza doccia, siamo qui soprattutto per fare il bagno in una pozza in cui sgorga una sorgente termale. In realtà il programma prevedeva il bagno al tramonto in una suggestiva sorgente d’acqua calda in pieno deserto, a Ain Quadet. Ma proprio la tempesta di sabbia di un paio di giorni fa, quella che avevamo incrociato arrivando a Douz, ha costretto lo staff a rivedere i piani, pena una strenua lotta col fesh fesh con dilazione incontrollata dei tempi. Ad ogni modo, questa sorgente non è niente male ed era proprio quello che ci voleva.

Il campo tendato allestito a pochi chilometri dall’oasi – come ci era stato detto – è più piccolo e meno confortevole di ieri: non ci sono le docce e il materasso poggia direttamente sulla sabbia in una tenda più piccola di quella, di fatto extra large, di Tembain.

Ma la posizione è di nuovo superlativa, con vista sui resti, in cima ad una collinetta, dell’antico forte romano di Tisavar, baluardo lungo il limes tripolitanum, eretto per difendere l’estremo confine meridionale del mondo allora conosciuto dalle tribù berbere del deserto. A loro volta i berberi, alcuni secoli più tardi, trasformeranno il forte dell’impero romano in uno ksar (villaggio fortificato) contro l’invasione araba, mentre nel XX secolo il sito verrà occupato dalla legione straniera francese e, durante la seconda guerra mondiale, anche dai tedeschi.

Così ricca di storia, la fortezza da lassù ci attrae e in pochi minuti la raggiungiamo a piedi, mentre il tramonto sembra sfumare non solo i colori, ora rosei, ma addirittura le forme di quei sassi impilati che ancora delimitano le celle, ormai invase dalla sabbia.

Il sole è già sparito sotto l’orizzonte quando veniamo richiamate per la cena, servita magnificamente al lume di candela sotto ad una tenda in cotone. La specialità di questa sera, innaffiata con dell’ottimo vino, è l’agnello con patate cotto in due alte anfore sepolte per metà nella sabbia e nelle braci, versato poi direttamente in tavola in due grandi piatti concavi, da cui ciascuno può servirsi a piacere.

A tavola, come ad ogni pasto, è un tripudio di lingue: italiano, francese, inglese, arabo, a volte anche mischiati tra loro. L’importante è capirsi e l’alcol aiuta senz’altro, anche a scaldarsi: le chiacchiere terminano all’esterno, in un fantastico chiaro di luna, e fa fresco.

8 aprile 2014 – Da Ksar Ghilane (Sahara) ritorno a Douz

E’ l’ultimo giorno in pieno Grand Erg Orientale, con rientro a Douz previsto nel tardo pomeriggio. Quando arrivo io a colazione – sono l’ultima -, il Nescafè è finito: una brutta notizia per chi è abituata a bersi da sola una moka da tre ogni mattina. Max dello staff legge lo sconforto sul mio volto e mi fornisce la soluzione: lasciar depositare il caffè macinato in fondo al bicchiere di latte. Per un attimo penso ad una burla, poi però provo. Caspita, funziona! Salvata la colazione, perlustro la zona a caccia di qualcosa finché non scovo tre dromedari al pascolo dietro ad una serie di dune, ai quali scatto foto su foto. Di lì a poco vengo però richiamata al campo: la carovana sta ripartendo per tornare all’oasi di Ksar Ghilane per un’escursione in quad nel deserto. La maggior parte del nostro gruppo desidera infatti provare l’esperienza di condurre questi quadricicli su e giù per le dune che circondano l’oasi. In effetti, specie per chi, come me, non li aveva mai guidati prima, sembrano giocattoli fatti apposta per attraversare il deserto. Sarà per questo che, bardati come banditi per proteggerci dalla polvere, ci divertiamo da matti e la mezz’oretta di andata e ritorno al forte romano di Tisavar par trascorsa in un attimo.

Ripartiamo in carovana commentando compiaciute il fatto di aver trovato ciascuna una bottiglia d’acqua fresca sul proprio sedile e la pulizia dalla polvere e dalla sabbia fatta dagli autisti negli interni dei fuoristrada su cui viaggiamo. Siamo pur sempre donne, anche nel deserto.

Oggi, comunque, il viaggio si rivelerà così accidentato – a causa di insabbiamenti multipli nel fesh fesh, guasti ai motori e forature di gomme – che alla fine, per rientrare in tempo per la cena all’hotel di Douz, si farà meno fuoristrada sulle dune e più pista battuta. Tuttavia, come già detto, per noi viaggiatrici rimane entusiasmante assistere alle manovre dello staff all’opera con cric, corde, ganci e pale, o stupirci delle vertiginose inclinature delle 4×4 intrappolate sulle creste delle dune.

E’ durante uno di questi “pit-stop”, peraltro, che Memeth ci fa vedere una bellissima lucertola giallo-oro appena catturata. Sta ferma immobile nel palmo della sua mano, ma appena la appoggia sulla sabbia, sparisce sotto, in un vortice lungo il tempo di un battito di ciglia. Non a caso la chiamano “pesce del deserto”.

Poco prima invece, al forte romano di Tisavar, abbiamo visto solo le impronte del ratto del deserto, assai particolari perché in rilievo anziché impresse in profondità, per via dei rapidi salti con cui alza la sabbia, avanzando simile ad un canguro in miniatura.

Risalendo verso nord, una sapiente deviazione dalla lunga pista che si perde all’infinito davanti a noi, ci porta al cospetto di una semplice quanto graziosa costruzione a pianta quadra con cupola semisferica, il cui candore si staglia nel cielo, oggi di un blu da cartolina. È una delle tombe erette nel sud della Tunisia in corrispondenza dei ritiri di santi eremiti, i marabutti. Ma dentro non c’è nulla, se non una stufetta ricavata da una tanica in ferro, tutta arrugginita, appoggiata al muro tappezzato di recenti incisioni e scritte col pennarello.

Ormai più vicini alla terra fertile, incrociamo diversi dromedari che ci attraversano goffi la strada, a volte montati da berberi, gli abitanti indigeni del Nordafrica, da cui peraltro discende la maggior parte della popolazione tunisina, algerina e marocchina; ma qui preferiscono considerarsi arabi, misconoscendo quindi lingua e tradizioni nordafricane.

Rientriamo a Douz verso sera, tra ali di maschi ai lati della strada. O ragazzi coi motorini oppure uomini seduti fuori dai bar e dalle case, i quali aspettano, oziosi, che si faccia buio, osservando tutto ciò che transita loro davanti.

Cotti e impolverati, noi arriviamo invece all’hotel El Mouradi di tre sere prima desiderando solo un tuffo nell’ampia piscina esterna, nonostante il sole stia ormai tramontando e l’acqua sia piuttosto fredda. L’ardire lo troviamo in pochi, ma che benessere!

9 aprile 2014 – Da Douz a Matmata: i villaggi trogloditici e il deserto roccioso

Per prima cosa ci rechiamo al campo di volo (Pegase) di un comandante italiano trasferitosi da tempo in Tunisia, per volare su Douz in deltaplano (20 euro). L’esperienza dura appena poco più di cinque minuti, ma consente di avere un’impareggiabile veduta sull’area che ha il fascino dell’ultima retroguardia per chi affronta il deserto.

Da lassù si distinguono innanzitutto le palme ordinate, una a fianco all’altra come ombrelloni negli stabilimenti balneari dell’Adriatico del nord, i verdi rettangoli delle coltivazioni, i dromedari e i cavalli che aspettano di portare i turisti nel deserto, le chiare abitazioni della parte più moderna della città, e le scintillanti tribune, con ingresso ad arco merlato, che si affacciano sulla grande spianata dove a dicembre si tiene il festival internazionale del Sahara, famoso in tutto il Maghreb. Ma soprattutto, con una virata verso sud, appare una distesa infinita di onde fra la sabbia dorata, fisse come in un fermo immagine, ma morbide e invitanti come pieghe di seta rilucente.

Ci spostiamo verso la regione di Matmata, a circa 600 metri sul livello del mare, dove si trovano i villaggi trogloditici berberi più famosi della Tunisia, da quando, nel 1977, George Lukas vi ambientò uno degli episodi della saga di Guerre stellari. Il perché è presto detto: il paesaggio, lunare, apocalittico, in tutte le gradazioni del marrone, specie quelle più chiare, ben si presta a fare da sfondo a vicende fantascientifiche. E’ ancora una volta deserto, ma roccioso: i rilievi calcarei, coperti da strati sabbiosi e argillosi, presentano una vegetazione stepposa e in alcuni casi terrazze per piantagioni di ulivi.

I crateri scavati nell’altopiano corrispondono ciascuno a piccoli villaggi di berberi, in parte tuttora abitati, che qui si rifugiarono nel Medioevo per sfuggire alla colonizzazione araba, dando luogo alle note abitazioni rupestri, temperate, e dall’architettura perfettamente integrata nel paesaggio.

Ci fermiamo a visitare uno di questi villaggi che si affaccia sulla strada. Entriamo sotto terra attraverso una piccola porta ricavata lungo il fianco di una collina e percorriamo in penombra un basso corridoio in discesa, scavato nella roccia e lungo una decina di metri, alle cui pareti sono appesi attrezzi da lavoro.

Sbuchiamo in un cortile circolare a cielo aperto, scavato nella morbida roccia e abbagliante per via della calce con cui sono state rivestite le pareti. Vi si affacciano una decina di porte, che possiamo varcare liberamente (ovvio, in cambio di un’offerta finale): sono le uniche aperture di altrettante stanze scavate nella terra, semplici e ordinate. Veniamo invitati a sederci sui tappeti di un’ampia stanza, dove le donne ci servono una merenda dalla bontà sorprendente: thè caldo alla menta accompagnato da pezzi di pane da intingere in un piatto che mescola assieme olio e miele.

Risaliamo nei fuoristrada per recarci a Zeraoua, uno stupefacente villaggio berbero medioevale, in sasso, mimetizzato e abbandonato in cima ad una collina di arenaria, in una posizione meravigliosa quanto nascosta dalla strada che percorrono i turisti per recarsi da Douz a Matmata (a 30 chilometri da qui): nel nulla, ma a metà tra il deserto, la terra fertile e il mare che si scorge all’orizzonte, verso est, ci si arriva da Tamezret, percorrendo una strada sterrata ricavata fra le pietre, che richiede necessariamente un 4×4.

Pranziamo seduti su balle di paglia, attorno ad una tavola magnificamente allestita dallo staff. Siamo sotto il portico di un edificio della legione straniera, costruito in posizione strategica dirimpetto al villaggio di Zeraoua, che ci rechiamo a scoprire in passeggiata dopo il lauto pranzo. L’unico edificio ben conservato è il minareto, come tutti quelli, addirittura scintillanti in alcuni casi, incrociati durante l’intero soggiorno in Tunisia. Le altre costruzioni in sassi e architravi di palma, quando non rovinate a terra, si presentano in equilibrio precario, tant’è che un membro dello staff ha fatto un volo di un paio di metri per il cedimento di una parete sotto i suoi piedi, sulla quale si era inerpicato per scattare una foto. Non si sa come, ma è rimasto fortunatamente illeso.

Se non fosse per un innocuo cane di mezza taglia che continua ad abbaiare lungo un pendio all’ingresso e per le numerose galline che si agitano tra le costruzioni diroccate, Zeraoua si direbbe completamente disabitata. E’ solo quando la attraverseremo in auto per andarcene, che scorgeremo una vecchia donna seduta nella penombra di un piccolo atrio.

Negli anni ’60 del secolo scorso, del resto, il governo fece di tutto per trasferire in pianura i berberi ancora arroccati in questi villaggi, in modo che potessero usufruire più facilmente di acqua corrente ed elettricità.

Gli effetti dello spopolamento sono evidenti anche al villaggio berbero di Tamezret, arroccato sulla cima di una collina che domina l’altopiano del Dahar, a 460 metri d’altitudine. Il pittoresco villaggio in pietra, ai cui piedi passa la strada per Matmata, si sta via via sgretolando, mentre gli abitanti si trasferiscono in nuove case di cemento, giù in pianura. L’intrico di viuzze appare comunque piastrellato di recente.

10 aprile 2014 – Il forte di Es Sabria e le rose del deserto a El Faouar

E’ solo quando usciamo al sole, dopo aver attraversato Douz all’ombra delle sue innumerevoli palme, che ci rendiamo conto che la giornata è calda, molto più calda delle precedenti.

Lasciamo quasi subito la pista battuta per raggiungere tra basse, accecanti dune color champagne, una zona a ridosso di Douz, dove affiorano dalla sabbia tracce di una città morta. Sono i ruderi di abitazioni berbere abbandonate e lasciate alla mercè del tempo e del deserto, tant’è che Khaled, l’autista sulla cui auto siedo oggi, ci assicura che sotto ad ogni duna, tra una palma e l’altra, c’è almeno un’abitazione sommersa.

Khaled è molto preparato, oltre che cortese e flemmatico: in auto lo tartassiamo di domande che gli rivolgiamo tramite Francesca, una compagna di viaggio che parla il francese che è una meraviglia, e lui ha risposte sempre convincenti e precise. So già la risposta, ma durante una pausa provo ad arrangiarmi, gesticolando, a chiedergli se desidererebbe andarsene dalla Tunisia: mi risponde di sì, ma per visitare il mondo, quindi avendo i quattrini; per il resto lui ama la sua terra e sta bene lì. Appunto.

Dopo un burnout in 4×4 sulla sabbia, cui non ha saputo resistere il meccanico tunisino al nostro seguito, soprannominato Geronimo, proseguiamo verso ovest di circa altri 30 chilometri in direzione Es Sabria. Ci rechiamo a visitare un forte in pietra della legione straniera francese, con soffitti a volta, che dev’esser stato oggetto di un recente restauro e ampliamento per farne una struttura ricettiva, se non altro per le scritte bar e restaurant che si intravedono sbiadite sopra ad un paio di ingressi che si affacciano su un cortile con pozzo.

Proseguiamo di alcuni chilometri verso El Faouar, proprio mentre stanno uscendo da scuola torme di ragazzi che invadono le strade: i maschi in motorino, le femmine a piedi, molte, ma non tutte, con l’hijab a coprire collo e capelli.

Da El Faouar proviene la maggior parte delle rose del deserto vendute sulle bancarelle e nei negozietti di souvenir di tutta la Tunisia. Noi ci rechiamo proprio alla cava dove vengono estratte. O, meglio, venivano, perché quando arriviamo noi, non c’è traccia di alcun cantiere. Solo, in mezzo alla spianata circondata da un cordone di dune chiarissime, si vedono due larghe e basse capanne abbandonate, fatte con graticci di foglie di palma, che servivano agli addetti per ripararsi dal sole.

Parcheggiamo le auto in mezzo al plateau da cui affiorano miriadi di piccole rose del deserto, in particolare sui cumuli di sabbia. E’ il vento infatti a disvelare queste concrezioni di petali minerali a base di gesso, le più piccole delle quali si trovano a pochi centimetri di profondità, le più grandi ad alcuni metri. Fino a poco tempo prima, ci spiega lo staff, la cava era tempestata di crateri per l’estrazione delle rose, che una volta abbandonati si sono cancellati senza sforzo dall’azione congiunta di vento e sabbia.

Mahjoub, il cuoco, oggi non è al nostro seguito perché inchiodato a letto dal mal di schiena. Salta quindi l’idea di pranzare all’ombra di apposite vele, da fissare a quelle capanne in mezzo alla spianata. Poco male: gli autisti improvvisano un riparo fissando una coperta tra due fuoristrada. Lì sotto, all’ombra dei 35 gradi al sole, tra una ruota, un parafango e una portiera aperta, vengono comunque disposte tutte le pietanze: pane, insalata mista, harissa, olive, salsiccette, melone, fragole. Un tripudio di colori e di bontà che divoriamo seduti sui tappeti, in un paio di metri quadrati d’ombra.

Rientrati a Douz, ci rechiamo nella piazza principale, il cui souq è già stato visitato di primo mattino da alcune del gruppo in un tripudio di spezie, odori, verdure e animali. Lì in piazzetta, intanto, sotto un paio di sontuose tamerici secolari, si godono l’ombra diversi uomini – qualcuno fumando il narghilè – sulle sedie in plastica colorata dei locali che si affacciano sulla piazza.

Curiosando tra i negozietti presidiati dai loro titolari seduti all’ingresso, finisco per scambiare due chiacchiere in italiano con uno di loro, Bechir. A differenza di altri che risultano importuni e se li ignori s’infastidiscono pure, quest’uomo, che avrà all’incirca la mia età, sembra più un mio connazionale del sud che un tunisino, e quando glielo dico s’illumina. Anche se non c’è mai stato, si capisce che ha una sorta di venerazione per l’Italia, di cui guarda RaiUno e studia la lingua per conto suo, su un manuale per stranieri. Mi fa notare, anzi, che alcuni nostri termini sono identici nella pronuncia e nel significato a modi di dire del dialetto arabo che parlano in Tunisia, come “ladro” e “quanto viene”, e altri che lì per lì non si ricorda. Come al negoziante conosciuto qualche giorno prima, anche a Bechir prometto che invierò la foto ricordo che gli ho scattato.

11 aprile 2014 – Il lago salato Chott El Jerid e il Lezard Rouge di Metlaoui

E’ il giorno della risalita verso Tunisi: domani si prende l’aereo per Milano. La sveglia è all’alba perché vogliamo fare tappa a Metlaoui per salire su un trenino d’epoca, il Lezard Rouge, da cui si possono ammirare fantastici scenari. Ma qui in Tunisia, del resto, quale scenario non è fantastico nel senso letterale della parola?

Chi infatti pensa di aver già visto tutto quel che c’è da vedere in questo viaggio – tra il Sahara e la zona di Matmata con le sue case trogloditiche – si deve ricredere, perché proprio al confine con il deserto, si apre un altro, imperdibile spettacolo, tanto da esser stato pure lui sfruttato come set per la saga di Guerre Stellari: l’immenso grande lago salato Chott El Jerid. I suoi 5 mila metri quadrati di estensione si trovano tra le cittadine di Douz e Tozeur, unite comunque da una striscia d’asfalto poggiata su un terrapieno alto fino ad un paio di metri, che attraversa la desolazione del lago, famoso anche per le allucinazioni che può provocare.

Noi lo percorriamo col bel tempo, fiancheggiati da due irregolari fasce bianche di sali affiorati, mentre il resto dell’immensa spianata cristallizzata è per lo più bronzo-oro: fin laggiù a est, dove sbatte contro una catena di bassi rilievi cerulei. La crosta però è cangiante, per via del continuo processo di evaporazione e cristallizzazione del sale che viene in superficie a seguito delle (scarse) piogge. Basta infatti una nuvola o anche solo passare dopo 5 minuti per trovare la superficie mutata nei colori e nelle striature che si perdono all’orizzonte, sotto un sottile strato di sabbia portata dal vento.

Arriviamo alla stazione ferroviaria bianco-celeste di Metlaoui (qui in Tunisia i nomi delle città fanno spesso l’en plein di vocali!) giusto in tempo per salire sul famoso Lezard Rouge (Lucertola Rossa), fatto costruire nel 1910 dal bey di Tunisi per raggiungere la sua residenza estiva. Completamente restaurato negli anni ’90, il trenino amaranto conserva ancora il fascino dei treni del primo ‘900: carrozze, gradini e pavimento in legno, cancelletti in ferro battuto, sedili in legno per quella che doveva essere la seconda classe e comode poltrone e divanetti imbottiti per la prima, a fianco della quale è ancora ben conservato l’ampio bagno del bey.

Dopo aver lasciato la città sfiorando sul retro i banchi del mercato ricolmi di cipolle e carote (ma anche scie di rifiuti e sacchetti di plastica celeste appesi ai rami di cui faremmo volentieri a meno), la Lucertola Rossa si guadagna la strada prima fiancheggiando un arido massiccio dello stesso colore della pianura pietrosa, poi insinuandosi all’interno, tra stupefacenti gole, canyon e squarci nella roccia, creati nel tempo da quello che adesso appare un cinereo rigagnolo di polvere mista ad acqua. Il trenino fa un paio di soste per consentirci di ammirare e fotografare le imponenti e stratificate pareti verticali in continuo sgretolamento, alcune alte quasi un centinaio di metri.

Questa linea ferroviaria, oltre che attrazione per i turisti, è sfruttata anche per trasportare i fosfati che vengono estratti un’ora di treno più a nord. Il capolinea per i turisti è situato proprio in mezzo all’area di cantiere, fra enormi cumuli neri, grigi, rossi, beige, ocra, di tutte le altezze e alimentati di continuo dai camion che da lassù appaiono piccoli come quelli dei bambini in spiaggia.

Tornati a Metlaoui, risaliamo sui pulmini in direzione nord, con sosta nella città universitaria di Gafsa per un pranzo veloce.

Fuori dai finestrini, via via che ci si avvicina a Tunisi, l’ocra lascia sempre più spazio al verde della terra fertile. Anzi, la pianura che si estende ai lati della strada, è un vibrante arcobaleno di colori che raggiunge una catena di rilievi di modesta altezza, livellati in cima.

Prima di sistemarci all’hotel El Mouradi di Tunisi (5 stelle) per l’ultima notte prima del volo di rientro in Italia, deviamo per la vicina Sidi Bou Said, che comunque molti di noi già conoscono (me compresa). La cittadina, com’è noto, è una bomboniera bianco-celeste, meta imprescindibile del turismo di massa della costa tunisina. Ma dopo una settimana di deserto, come chi si gusta il cioccolatino col caffè a fine pasto, vogliamo anche noi farci una coccola, concederci un “golosesso”, come direbbero a Venezia, lustrandoci gli occhi fra i battenti turchese delle abitazioni, le scintillanti bancarelle ancora aperte e i tavolini celesti dei locali sotto le fronde degli alberi.

Siamo stanchi, inutile nasconderlo, ma più ricchi: di cose viste, cibi assaporati, persone incontrate, emozioni vissute, che ciascuno – come dopo ogni esperienza così intensa – rielaborerà per conto suo, nel suo habitat quotidiano, mettendoci un po’ di Sahara in tutto quello che fa.



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