I Giardini Nabatei
L’aereo plana su Aqaba e la sua ombra galoppa veloce sulle basse dune della piana che vide l’assalto dei fieri ed “aridi” beduini della tribù degli Howeitat, guidati dal colonnello Lawrence. Le montagne che circondano la città riflettono la luce del sole che tramonta, tingendola di viola.
È l’alba. L’aria fresca del mattino e la voce limpida di un muezzin ci spingono nelle strade del mercato. Le prime immagini sono fissate dall’olfatto, seguendo l’odore del mare ed il profumo del pane appena sfornato.
Un improbabile taxi ci conduce, più tardi, dove i bagliori del sole colorano d’arancio il deserto del Wadi Rum. Cupole e piramidi d’arenaria poggiano su scure rocce precambriane, eruttate quando la vita sulla terra non esisteva ancora. Una vecchia Toyota, condotta da un ragazzino spavaldo ed un anziano asciutto ed essenziale, vestito con keffya, jellaba e una giacca principe di Galles, morde, impaziente, la sabbia.
Due giganti di pietra ci serrano ai lati e la prua gigantesca d’una nave di pietra, in quel mare di sabbia, è lì davanti a noi. Eppure lo spazio non ha confini e noi corriamo tra cespugli verde-argento, sfidando un vento sorprendentemente pungente ed ascoltando l’eco delle nostre risa, aggrappati alle precarie sponde del fuoristrada, lungo i solchi tracciati da molti altri passaggi.
La polvere, dietro di noi, fa da cortina a ciò che abbiamo lasciato e le lacrime che spuntano agli angoli degli occhi, frutto dell’emozione e del vento, si perdono nell’arsura di quest’insolito deserto.
Nel volto del rafiq (guida) si scorgono i tratti somatici del beduino. Si staglia sull’ocra della sabbia con la sua jellaba bianca ed ha una dignità che affascina mentre mostra graffiti talmudici e nabatei incisi su costoni d’arenaria. Scandisce le parole in un inglese semplice ed efficace e sul volto, scuro come il tè che invita a bere, ha un sorriso che equivale ad un invito. L’ansimare orgoglioso del vecchio motore ed il canto del ragazzo ci conducono alla scoperta di mitiche fontane e acquedotti nabatei, palme nane, gigli e piccole viole senza foglie.
Petra ci accoglie in modo anonimo: colline brulle e traffico. La città dei Nabatei è ben nascosta, incastonata in un bacino a 900 metri d’altezza, attorniata da alture profondamente intagliate da strette gole.
La via che conduce all’interno di Petra si snoda fra rocce erose dall’acqua e dal tempo, in un susseguirsi caotico di cupole e gobbe bianche e ocra. Cavalli, montati da ragazzini orgogliosi come piccoli principi, galoppano accanto a noi. Dalla roccia emergono grandi cubi scolpiti. Sono i ginn (geni benefattori o demoniaci della fantasia popolare), per alcuni tombe, per altri “contenitori” degli spiriti dell’acqua.
La porta di Petra è Il Siq, una gola generata dal sommovimento della crosta terrestre e scavata dal torrente Wadi Musa, con strette pareti che incombono su di noi e luci ed ombre improvvise che ne ritmano il cammino.
Ai lati corrono, sinuosi, due acquedotti un tempo gorgoglianti d’acqua. Nell’aria ristagna, oggi come allora, una polvere sottile ed un acuto odore di cammelli e di cavalli, un odore sospeso e tenace che da sempre accompagna i viandanti.
Petra è un ricamo nella pietra nuda e paziente. La sofferenza della sabbia, schiacciata e contorta dal tempo, si è liberata in una tavolozza di colori che sfumano dal giallo all’ocra, dal marrone al verde.
Il frastuono dei cavalli e dei turisti si spegne alla vista del Khaznah. Poco importa cosa rappresentasse, oggi suggerisce armonia e impone il silenzio.
L’antica città è un grande teatro, dove ogni monumento non è quello che sembra. Ogni tomba, splendida e spoglia, è il fondale di una rappresentazione. Dentro non c’è nulla. Ma a chi la guarda in controluce Petra svela cisterne e canali, acquedotti e condotte in ceramica, tracce evidenti d’una “civiltà dell’acqua”.
Sbarramenti lungo i pendii e lungo il corso degli wadi trasformarono questa valle in terrazze coltivabili, orti e giardini di piacere, cascate, fontane e piscine, mentre infinite scalinate, ricamate nella roccia, scandivano il ritmo sacro e profano della città.
Risaliamo lungo la Strada dei Re, percorsa, un tempo, da carovane d’asini e cammelli, oggi dai pullman dei turisti che da Aqaba vanno ad Amman.
Attorno a Madaba (abitata in parte da cristiani) si estendono vigneti d’impianto mediterraneo, mentre l’assenza di vita del Mar Morto fa risaltare il rigoglio dei banani che lo circondano.
La Giordania è terra di contrasti. Il Nord, sferzato dal vento e dalla neve d’inverno, è sorprendentemente verde in primavera. La sua perla è Gerasa, a nord di Amman, nobile testimonianza della civiltà romana, col foro circolare, il teatro, le splendide colonne del cardo massimo e le scalinate che ad ogni passo si aprono su nuove prospettive scenografiche.
Il Sud è una regione aspra, dove il colore della sabbia rossa di una duna contrasta, a volte, con quello di un giglio bianco sbocciato sul crinale, il verde di un agrumeto con l’argento d’ulivi contorti, il rosa delle rocce piegate dal tempo col nero di piccole capre in semplice equilibrio sulle creste.
Immagini d’un Paese che “ha un giardino nascosto nell’alba, dove si dissetano gli uomini sospesi alle nuvole e i cantastorie fabbricano vascelli per esplorare i confini della bellezza”.