Etiopia tetto dell’Africa
Dunque, dopo sei ore di volo notturno da Roma, eccoci arrivare puntuali di primo mattino nell’immensa capitale etiope. Prima cosa da fare una volta sbarcati è il pagamento per l’ottenimento del visto di ingresso. Questa operazione si svolge molto velocemente ed in un quarto d’ora siamo pronti per poter ritirare i nostri bagagli. Anche qui nessun intoppo e in pochi minuti eccoci fuori dall’aeroporto dove troviamo ad attenderci la nostra guida, Bellete detto Angelo che sarà con noi per tutto il tour ed il driver che ci accompagnerà nella visita della città. Raggiungiamo l’hotel prenotato (il Jupiter, buono) in circa una mezz’ora. Poiché la camera ancora non è pronta ci fermiamo a parlare un po’ con Bellete del nostro viaggio e di quello che succede in Italia. L’attesa però è breve e preso possesso della camera, ci concediamo un poco di riposo prima di iniziare la visita della città. Addis Abeba, che significa “Nuovo Fiore”, è davvero una città immensa e caotica, con un traffico ovviamente inquietante e con ingorghi paurosi. Per le sue strade trovi di tutto, dai venditori dei più svariati articoli ai lustrascarpe, dalle auto di grossa cilindrata ai poveracci che per casa hanno soltanto il marciapiede dove sono distesi. Ma questa città, grazie alla sua posizione, essendo situata a circa 2.500 metri di altitudine, gode di un clima salubre e piacevole.
La prima visita è al Museo Nazionale, la cui attrazione principale è il calco di Lucy, l’ominide fossile qui rinvenuto nel 1974 e “vecchio” di 3,2 milioni di anni. Lucy, anche se adulta, è davvero piccolissima, quasi una bambina dei nostri giorni. Erano proprio minuscoli i nostri antenati. Ci sono molti oggetti dell’arte etiope, oggetti d’artigianato, armi, gioielli, manufatti antichissimi, utensili, vestiti e tipici strumenti musicali. Possiamo vedere anche l’enorme trono dell’imperatore Hailé Selassié, tutto in legno. Ma tra un reperto e l’altro si è fatta l’ora di pranzo, che consumiamo in un ottimo ristorante italiano (da Linda) che è anche la sede dello Juventus Club di Addis Abeba, il che rappresenta (per me) una piacevolissima sorpresa.
Visita successiva alla Cattedrale della Santissima Trinità, imponente, considerata uno dei luoghi di culto più importanti dell’intera Etiopia. Al suo interno , custodite in enormi tombe di granito, vi sono le spoglie dell’imperatore Hailé Selassié e della moglie Menen . Notevoli anche i dipinti murali e le grandi vetrate. Fuori dalla cattedrale vi è la tomba di Sylvia Pankhurst , celebre per le sue proteste contro l’invasione italiana ma ancora di più in quanto trattasi di una delle rarissime persone non etiopi che si schierarono in tale senso. Dopo ci rechiamo a visitare un altro museo, quello Etnografico , che ospita diversi tipici oggetti destinati agli usi più svariati, dalla caccia ai giochi ai lavori artigianali. Vi sono anche molte croci, icone ed oggetti funerari. Nell’edificio si trova anche il bagno dell’imperatore Hailé Selassié.
Durante la visita della città possiamo ammirare anche il grande edificio dell’Africa Hall, sede della Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’Africa, il Monumento al Leone di Giuda, simbolo per eccellenza della monarchie in Etiopia ed infine la stazione ferroviaria. Ci dirigiamo poi sulla collina di Entoto, dalla quale si gode di un bel panorama sulla città sottostante. Per raggiungere questo luogo, un poco fuori dalla città, si deve percorrere una lunga salita ricca di tornanti. Salendo incontriamo una moltitudine di persone in cammino, che salgono e che scendono a valle. Studenti di varie età con i loro libri in mano si alternano a pastori con i loro greggi, a contadini che conducono mandrie di asinelli e ad esili donne che portano sul capo enormi fascine di legna o di canna da zucchero. Spesso ne incontriamo alcune ferme sul ciglio della strada, stremate dalla fatica, che si concedono qualche minuto di riposo prima di riprendere il cammino. Dalla cima della collina il panorama è davvero notevole, anche se purtroppo una noiosa foschia ci preclude in parte la vista sulla città distesa sotto di noi. Ma per concludere le visite di Addis Abeba manca ancora una cosa. L’abbiamo lasciata per ultima, perché sappiamo già che avremo bisogno di tempo. Stiamo parlando del mercato, certamente uno dei più grandi di tutto il continente africano. C’è davvero di tutto, la confusione è notevole, il via vai di gente impressionante. Due i rischi che si corrono in questo labirinto di bancarelle: quello di vedersi sfilare il portafoglio e quello di ….non resistere alla tentazione di qualche acquisto. Per quanto riguarda il primo caso, nessun problema. Per il secondo invece (ma non c’erano dubbi) non siamo riusciti a trattenerci. Abbiamo fatto qualche acquisto, ma non troppi anche perché essendo all’inizio del tour avremmo dovuto portarci appresso tutto quanto. Ma la promessa è di ritornare qui l’ultimo giorno, prima di partire, per completare l’opera! Le visite a “Nuovo Fiore” sono terminate. Ritorniamo in hotel contenti per ciò che abbiamo visto e per un po’ di meritato riposo. L’indomani mattina inizieremo il percorso storico verso nord con destinazione Bahir Dar, che raggiungeremo con il nostro primo volo interno.
La sveglia suona impietosa alle 5,00 e dopo una rapida colazione via verso l’aeroporto. Noi siamo puntuali ma l’aereo purtroppo no: si parte in ritardo e questo si ripercuoterà poi un po’ sulla nostra giornata, in quanto dovremo fare le visite più velocemente .
La città è infinitamente più piccola di Addis e si affaccia sul grande lago Tana. Questo lago di più di 3000 kmq e dal quale nasce il Nilo Azzurro è il più grande d’Etiopia e le sue sponde e le sue isole sono costellate di numerosi antichi monasteri. Le sue acque color caffelatte sono solcate dalle tipiche imbarcazioni della zona, le canoe chiamate tankwa, costruite con papiri intrecciati, spesso talmente cariche di merci varie da sembrare sul punto di affondare, tanto la linea di galleggiamento sfiora il livello dell’acqua . Ma queste barchette, in apparenza fragili ed instabili, sono in realtà praticamente inaffondabili .
La prima visita è alle cascate del Nilo Azzurro. Per raggiungerle dobbiamo percorre una strada sterrata, ma in buono stato, di 32 km. Ed impieghiamo all’incirca un’oretta. La strada scorre tra campi coltivati a miglio, mais e teff e attraversiamo anche diversi villaggi. Ovunque moltissima gente, tantissimi i bambini che agitano le loro manine per un festoso saluto al nostro passaggio, al grido di “faranji! faranji!”, come vengono chiamati gli stranieri da queste parti. Per raggiungere le cascate dobbiamo prima percorre un tratto di sentiero a piedi, quindi guadare il fiume con una barchetta e quindi ancora una decina di minuti di sentiero. Qua e là, ai bordi del sentiero, piccole bancarelle invogliano i turisti con le loro bellissime sciarpe colorate . Impossibile non acquistarne qualcuna. Inoltre costano davvero poco. Le cascate sono davvero belle, anche se la costruzione di una diga a monte di esse ne ha ridotto per forza di cose la grandezza . Ci fermiamo in un punto panoramico, proprio di fronte alle cascate, dove la visuale su di esse è davvero superba. Percorrendo un piccolo sentiero si potrebbe scendere fin sotto di esse, ma purtroppo il tempo non ce lo consente (primi effetti del ritardo aereo…), per cui dobbiamo accontentarci di una visita dall’alto. Ritornati in città prendiamo possesso della nostra camere all’Hotel Tana, situato proprio sulle sponde del lago omonimo, in mezzo ad un vasto giardino. Le stanze sono piccole ma carine ma i bagni meriterebbero più di un intervento di manutenzione. Sono davvero maltenuti , come del resto altre zone dell’hotel. Prima di continuare le visite consumiamo un veloce pranzo: assaggiamo la tilapia, il pesce locale diffusissimo, che troviamo davvero buono. Ma già che ci siamo proviamo anche l’ injera, il piatto nazionale per eccellenza, che gli etiopi mangiano praticamente ogni giorno. Somiglia ad una grossa piadina spugnosa, che si ottiene dalla farina di tef (cereale molto coltivato nel Paese) dal gusto un po’ acido, sulla quale viene posto il cibo (carne in particolare) e si mangia prendendo il tutto direttamente con le mani, senza posate. Quando vedi quella arrotolata ai bordi del piatto, la prima cosa che ti viene in mente sono i…..tovaglioli! Comunque è buona, di sicuro la mangeremo ancora nel corso del nostro viaggio. Quindi via per il prosieguo delle visite. Con una barchetta a motore ci dirigiamo verso la Penisola di Zege , per visitare un paio di monasteri. Per raggiungerla impieghiamo circa un’ora e mezza. La navigazione scorre tranquilla sulle calme e scure acque del lago e ogni tanto incontriamo le tankwa dei pescatori locali. Giunti a destinazione visitiamo il monastero di Azuwa Maryam: di forma circolare, somiglia ad una enorme capanna, ma è il suo interno che lascia a bocca aperta. Difatti le mura interne presentano bellissimi e coloratissimi disegni rappresentanti scene religiose e la vita di Gesù. La cosa particolare è che questi disegni sono stati fatti su stoffe di cotone le quali poi sono state incollate ai muri. I disegni sono davvero perfetti, i colori sono stupendi. Dovremmo ora dirigersi al monastero di Ura Kidane Meret, distante una quindicina di minuti di barca da qui e poi ancora una ventina di minuti a piedi. Bellete ci dice che rischiamo di arrivare che oramai è già chiuso, che forse è meglio non andare e che comunque è simile a quello appena visitato. E questo è il secondo effetto del ritardo aereo. Va bene, pazienza. In alternativa facciamo una capatina a vedere le sorgenti del Nilo Azzurro. Non si tratta di una vera e propria sorgente, ma semplicemente il punto dove le acque del lago si incanalano dando vita così al grande fiume. Ci addentriamo un poco nel canale, dove incontriamo alcuni pescatori locali sulle loro barchette e molti uccelli che svolazzano dappertutto. Per oggi può bastare, si ritorna all’hotel in tempo per poterci gustare un bellissimo tramonto sul lago. Quella odierna è stata una lunga ma bella giornata, guastata un poco dal ritardo del volo che ci ha impedito di fare le visite con più calma e di vedere qualche cosa in più. Ma va bene così, siamo comunque contenti e ciò che abbiamo visto ci è piaciuto molto. Dopo cena Bellete ci propone di fare due passi in città. In giro c’è pochissima gente (strano, dopo tutti quelli che abbiamo visto di giorno). Facciamo una capatina in un locale dove si balla e si suona musica tradizionale per bere qualcosa insieme. Bellissimo! Il locale è piccolissimo, praticamente una sola stanza, con il bancone del bar, due o tre persone che suonano strumenti tipici e alcune persone che ballano nel mezzo insieme ad una danzatrice locale. C’è un rumore assordante, è praticamente buio e ovviamente… veniamo coinvolti nelle danze! Ma si, si salta un po’ e anche Bellete da sfoggio delle sue capacità di ballerino. Certo, con tutto quel rumore non è che puoi resistere molto lì dentro, viste anche le ridotte dimensioni del locale, ma è davvero bellissimo e coinvolgente e di sicuro ripeteremo l’esperienza nel corso del viaggio se ne avremo l’occasione. Dopo quasi un ora decidiamo che per stasera può bastare e dunque ritorniamo in hotel con un tuk-tuk. L’indomani ci aspetta Gondar, distante circa 200 chilometri da qui.
La strada per Gondar è in ottimo stato e per una buona parte praticamente diritta. Si attraversano villaggi, distese di campi coltivati e risaie. Lungo la strada, come di consueto, c’è moltissima gente che cammina: bambini che vanno a scuola, contadini diretti ai loro campi, allevatori con i loro greggi, gente che si reca ai vicini mercati. Il paesaggio è bello e spesso ci fermiamo a fare qualche fotografia. Tra l’altro ci fermiamo a visitare un piccolo gruppo di capanne che gli abitanti gentilmente ci fanno vedere anche all’interno. Lasciamo un po’ di magliette ai bimbi presenti, che ci ringraziano calorosamente. Avanzando il paesaggio cambia, diventando sempre più collinoso e montagnoso , la strada inizia ad inerpicarsi e dopo ogni tornante si apre davanti a noi sempre una nuova bellissima visuale, soprattutto sulla grande pianura sottostante. Incontriamo molte mandrie di bovini al pascolo, piccoli torrenti con acqua limpida scorrono tra le rocce. L’aria è più fresca, ma fa comunque caldo e si sta davvero benissimo. Notiamo anche molte zone coltivate, in particolare si tratta di miglio, sorgo e tef. E’ un susseguirsi straordinario di colori quello che possiamo ammirare durante questo percorso: dal nero delle rocce al marrone della terra arata e pronta per la semina, varie tonalità di verde a seconda della coltura e del suo grado di maturazione, il meraviglioso giallo dei fiori che in ampie chiazze appaiono qua e là sulle colline tutto intorno. E poi l’azzurro intenso del cielo, punteggiato da qualche nuvoletta bianchissima. Strada facendo, nell’attraversare un piccolo paese, notiamo un mercato e chiediamo a Bellete di fare una sosta per dare un’occhiata. I venditori espongono i loro prodotti all’ombra di grossi ombrelli o sotto ripari improvvisati, in quanto il caldo si fa sentire. C’è davvero di tutto, semi, ortaggi di ogni tipo, frutta, persino il burro, racchiuso in grosse foglie per mantenerlo in buono stato il più possibile. Durante la passeggiata tra le bancarelle siamo scortati da un folto gruppo di bambini, incuriositi dalla presenza di due turisti che di certo non sono abituati a vedere, in quanto qui nessuno si ferma . Possiamo fare foto tranquillamente, alcuni dicono di no e si nascondono dietro gli ombrelloni, ma la maggior parte di loro acconsente a farsi riprendere senza problemi, anzi gratificandoci con grandi e spontanei sorrisi. Poi quando si vedono nello schermo della macchina fotografica ci dimostrano il loro apprezzamento con grandi risate di meraviglia.
Giunti finalmente a Gondar ci sistemiamo all’hotel Quara, buono e centralissimo. Ci riposiamo un poco e dopo pranzo cominciamo le visite previste. Gondar è famosa per i suoi castelli e palazzi, appartenuti a diversi governati , racchiusi in un’ampia area chiamata la Cittadella Imperiale. Tra i vari manieri qui presenti, spicca su tutti quello dell’imperatore Fasilidas alto ben 32 metri, molto simile ad un castello medievale. Ma anche gli altri edifici dell’area sono notevoli ed interessanti , molto ben restaurati e conservati. Possiamo vedere inoltre il Palazzo di Iyasu, la biblioteca, le scuderie dei cavalli, la Casa del Canto dove si tenevano manifestazioni religiose e spettacoli e la Casa dei Leoni, che ospitava, come dice il nome stesso, i temuti felini. Quindi ci rechiamo fuori dalla Cittadella per visitare i Bagni di Fasilidas, situati ad un paio di chilometri. Si tratta di una grande vasca nel mezzo della quale sorge una costruzione su più piani, che l’imperatore utilizzava, pare, come seconda residenza, nei fine settimana o in periodi di vacanza assieme alla sua famiglia. Questa grande vasca viene ancora oggi utilizzata, riempiendola di acqua per celebrare la famosissima festa del Timkat . Infatti ci sono molti operai al lavoro, per preparare il tutto per bene in vista dell’importante festa.
Ci rechiamo poi a visitare la Chiesa di Debre Berhan Selassie. La storia racconta che questa chiesa si è salvata dalla distruzione da parte degli invasori sudanesi grazie ad un grande sciame di api, che pare abbiamo messo in fuga i nemici mentre questi si accingevano ad entrare . Beh, bisogna davvero ringraziarle quelle api. La chiesa è veramente molto bella , un gioiello, con una forma che ricorda assai l’arca di Noè. Ma quello che colpisce di più è senza dubbio il suo interno. I bellissimi i disegni, anche questi fatti su stoffe incollate poi alle pareti, che vi si possono osservare e che rappresentano scene religiose, presentano tutti dei colori perfetti. Notevole la raffigurazione dell’Inferno. Ma ancora più sorprendente è il soffitto della chiesa, interamente adornato con file e file di disegni raffiguranti i volti di tantissimi angioletti. Ci rechiamo poi a visitare il villaggio di Wolleka, abitato da falasha, ovvero gli ebrei etiopi. Oggi non sono molti quelli che vi abitano, in quanto la maggior parte di essi è stata trasferita in Israele diversi anni orsono. Qui si occupano della produzione di oggetti di artigianato, ceramiche e sciarpe in particolare. E’ praticamente come una cooperativa. Ma oggi però non c’è nessuno al lavoro, quindi non ci è possibile vedere le tecniche di lavorazione. Un guardiano ci fa vedere comunque le varie attrezzature da lavoro e anche gli oggetti prodotti. Appena fuori da questa “cooperativa”, sulla strada, diverse bancarelle espongono la loro merce e una passeggiata tra di esse è doverosa. E ovviamente la passeggiata è completata dall’acquisto di alcuni souvenir, stavolta colorati cestini. E con questa escursione si concludono le visite a Gondar.
La tappa successiva del nostro percorso nella Rotta Storica è Axum, una delle città più spirituali dell’intero Paese, con le sue grandi chiese e i suoi altrettanto grandi misteri ed interrogativi: l’Arca dell’Alleanza sarà davvero custodita qui? E la mitica Regina di Saba avrà davvero vissuto in questa città? Beh, di certo non abbiamo la pretesa di chiarire questi quesiti, ma sarà sicuramente emozionante visitare questi luoghi facendoci queste domande. Manco a faro apposta, raggiungiamo Axum in ritardo rispetto al previsto, per colpa del ritardo del volo interno da Gondar. Due voli interni, due ritardi: pazienza. Qui alloggiamo all’hotel Remhai, buono ma un po’ trascurato e bisognoso di manutenzione, come d’abitudine. Iniziamo le visite dal Parco delle Stele. Qui svettano diversi obelischi, di varie altezze e dimensioni. Fa bella mostra di sé la Stele di Roma, che il nostro Paese, ai tempi di Mussolini, sottrasse all’Etiopia e poi pochi anni orsono decise di restituire, spendendo una montagna di soldi, che forse (anzi, di sicuro….) potevano essere spesi in maniera più utile. Giusto restituire il maltolto per carità, però destinare quei soldi alla sanità o all’istruzione avrebbe certamente garantito più benefici alla popolazione. La maggiore delle stele presenti, detta la Grande Stele, però, purtroppo, non è in piedi ma mestamente distesa sul terreno e spezzata in diversi punti. Alta ben 33 metri, secondo gli archeologi cadde proprio mentre si cercava di innalzarla. Tutte queste enormi stele sono state erette su tombe sottostanti. Ci rechiamo poi alle grandi tombe dei re Kaleb e Gebre Meskel che sorgono una accanto all’altra su di una collinetta a circa 2 chilometri dalla zona degli obelischi. Per raggiungerle percorriamo una stradina in pessimo stato. Al ritorno facciamo una breve sosta per visitare un grosso blocco di pietra, custodito all’interno di una piccola capanna che ha la particolarità di possedere sui suoi lati iscrizioni in 3 lingue diverse, più precisamente in sabeo, in ge’ez ed in greco. Questo importante reperto archeologico fu rinvenuto per caso da tre contadini. Visitiamo poi i Bagni della Regina di Saba, che assomigliano più ad una enorme piscina o meglio ad una enorme cisterna, soprattutto ora che la struttura è stata rivestita di cemento il che non le dona certo un bell’aspetto. La vasca è piena di acqua e ci sono diverse persone che stanno riempiendo le loro taniche. Quindi ci rechiamo al Palazzo della Regina di Saba, o meglio, a quello che resta: infatti sono presenti solamente bassi muretti , comunque ben restaurati, a testimoniare il perimetro che il palazzo doveva occupare un tempo.
Tocca quindi alle grandi chiese di Axum, situate in un’ area proprio di fronte al Parco delle Stele. Visitiamo subito la prima delle due chiese di Santa Maria di Zion, quella Nuova. E’ enorme e fu fatta costruire dall’Imperatore Hailé Selassié negli anni ’60. Al suo interno sono presenti diversi grandi disegni che raffigurano la vita di Gesù. Un guardiano, lasciando una piccola mancia, ci fa vedere un antichissimo libro sacro che pare abbia ben 1500 anni e che viene custodito con molta cura tra diversi strati di stoffe protettive. Il guardiano gira, con molta attenzione, alcune pagine per farci vedere gli scritti ed i disegni in esso contenuti, ancora in ottimo stato e dai vivi colori. La seconda Chiesa di Santa Maria di Zion, quella Vecchia, sorge poco oltre e sinceramente ci è piaciuta di più della precedente, proprio perché più antica. In questa chiesa, però, possono entrare soltanto gli uomini, anzi le donne non possono nemmeno avvicinarsi alla struttura, ma osservarla da una certa distanza. Così, mentre io e Bellete ci avviamo verso di essa, la Anna ci aspetta all’ombra di un grosso albero in compagnia di altre turiste, in attesa del nostro ritorno e soprattutto delle mie foto per poter dare un’occhiata a quanto gli è stato vietato. All’interno della chiesa è possibile ammirare interessanti affreschi e un libro sacro anch’esso antichissimo. Tra le due grandi chiese, vi è una cappella più piccola racchiusa in un recinto. E’ qui che pare essere custodita la famosissima Arca dell’Alleanza, ossia il contenitore delle Tavole della Legge che Mosè ricevette da Dio. Un monaco viene scelto tra molti altri ed incaricato di sorvegliarla e non può uscire in nessun modo e per nessun motivo dalla recinzione. Deve vivere qui e basta, facendo da guardiano all’importante reliquia. E’ vietatissimo avvicinarsi anche solo alla recinzione, si può fare foto alla cappella ma bisogna tenersi ad una certa distanza. Non so se si tratta di suggestione per aver letto qualcosa sull’argomento o per chissà che cosa, ma qui, davanti a questa cappella, si avverte un certo senso di mistero, come se davvero li, oltre quella cancellata, qualcosa di magico e divino vi sia davvero custodito. Di sicuro qualche cosa molto venerata ed importante là dentro c’è , visto anche le misure di sicurezza ed i divieti imposti. Ma di cosa si tratta per davvero non lo sapremo mai. Prima di lasciare il complesso delle chiese, visitiamo anche un piccolo museo, nel quale possiamo ammirare antichi vestiti cerimoniali con intarsi in oro, corone d’oro e di argento (molte superano i di 2 kg di peso, alcune sono addirittura 3,5 kg), anelli ovviamente in oro e ,incredibile ma vero, persino un ago da cucito costruito in oro. Ci sono poi grandi ombrelli per cerimonie molto decorati e pesantissimi, tamburi e svariate croci in argento ed in legno e ovviamente molti libri sacri. Anche le visite ad Axum sono terminate. Prima di rientrare in hotel ci concediamo un poco di shopping presso alcune bancarelle e poi un buon caffè assistendo alla tradizionale “cerimonia del caffè”, con una giovane e bella ragazza etiope che ci fa vedere i vari passaggi di questo rituale. Dopo cena con Bellete ci rechiamo ancora in un locale per ascoltare un po’ di musica tradizionale e bere qualcosa insieme. Anche questo è un piccolo locale, ma più carino di quello in cui siamo stati la prima volta. Pure qui il rumore è assordante e l’atmosfera assai coinvolgente, per cui io e Bellete non ci possiamo sottrarre all’invito alle danze che ci viene proposto dalle danzatrici locali. Axum ci è piaciuta davvero molto, ma l’indomani ci aspetta la perla della Rotta Storica, ossia Lalibela. La raggiungeremo con il nostro terzo volo interno: speriamo solo che il detto “ non c’è due senza tre” qui non sia valido, il che vorrebbe significare, finalmente, niente ritardo del volo interno.
E per fortuna è così. Atterriamo nel piccolo scalo di Lalibela in orario e subito ci dirigiamo verso la cittadina, per raggiungere la quale impieghiamo più di un ‘ora. La piccola città, più o meno 20.000 abitanti, sorge a circa 2600 metri di altezza ed è sicuramente la destinazione più visitata e conosciuta dell’intero Paese, grazie alle sue famosissime ed incredibili chiese scavate nella roccia. La strada è un susseguirsi di paesaggi bellissimi e più si avanza più ci si inerpica sulle montagne. E finalmente, dopo una lenta ascesa (difficile sorpassare, la carreggiata non è molto larga e ci sono anche diversi camion che procedono ansimanti, oltre ai soliti carretti trainati da asinelli), dopo un ultimo tornante, eccola apparire ai nostri occhi, con le sue numerose casette dai tetti di lamiera. Sembra quasi un enorme presepe, arroccata com’è alle pendici delle montagne che le fanno da sfondo. Qui resteremo per due giorni e alloggeremo al nuovissimo hotel Mountain View, costruito su un punto panoramico di notevole bellezza. Pranziamo in hotel e poi via alla scoperta di questa meraviglia.
La prima chiesa che visitiamo è Bet Medhane Alem, la Chiesa del Salvatore, che assomiglia decisamente ad un grande tempio dell’antica Grecia , lunga circa 33 metri e alta circa 12 metri, circondata esternamente da ben 34 enormi pilastri. Accanto a questa chiesa possiamo vedere Bet Maryam (dedicata alla Madonna), e Bet Meskel (Chiesa della Croce), dove spicca sul soffitto una grande croce in rilievo. A protezione di queste chiese, davvero bellissime ed uniche, sono state costruite delle enormi ed inguardabili coperture, sorrette da grandi piloni di acciaio. Stonano davvero molto con l’ambiente circostante e di sicuro sarebbe stato meglio edificarle con un altro stile, anche se bisogna ammettere che in qualche modo bisognava proteggere queste rarità (per non parlare degli affreschi con stupendi colori originali che si trovano all’interno di varie chiese) dalle piogge e dalle conseguenti infiltrazioni di acqua. Visitiamo poi Bet Danaghel (Casa delle Suore), Bet Golgotha (con importanti raffigurazioni a grandezza naturale di sette santi e con una nicchia chiamata la Tomba di Cristo, sulla quale si può notare bene la sagoma di una persona distesa). In questa chiesa però le donne non sono ammesse, per cui ancora una volta la Anna deve attendere pazientemente all’esterno. Poi ecco Bet Mikael (Chiesa degli Evangelisti) che presenta su uno dei suoi tre altari delle figure in preghiera che potrebbero essere appunto i quattro evangelisti e quindi la Tomba di Adamo. Per ultima, per questa prima parte di visite a Lalibela, visitiamo la chiesa senz’altro più particolare e bella di tutte quante: Bet Giyorgis, la Chiesa di San Giorgio. Questa chiesa è costruita in un luogo distaccato dalle altre, da sola e finché non si arriva nei pressi non la si vede neppure, essendo edificata all’interno di una grande cavità nel terreno. E’ praticamente un grande parallelepipedo con la forma di una croce greca ed è alta ben 15 metri. Per fortuna è molto ben conservata e questo ha reso possibile evitare la costruzione delle orribili protezioni viste in precedenza. E’ davvero un capolavoro, sicuramente il monumento più incredibile di tutta l’Etiopia. Da una piccola altura, a pochi metri di distanza, la vista è superba e rimarresti seduto lì per un sacco di tempo a contemplare questa splendida costruzione. Terminata la visita, passeggiamo un po’ per le vie di Lalibela e acquistiamo qualche ricordino nei numerosi negozietti presenti. In uno di questi ci viene anche offerto un buon caffè. La gente ti saluta, nessuno ti importuna. Decidiamo quindi di ritornare all’hotel a piedi e non con la macchina. Saranno più o meno 5 chilometri, ma che importa? E davvero bello e piacevole camminare tra questa gente, in tutta tranquillità: giungiamo all’hotel che è buio e il caldo sole del giorno ha oramai lasciato il posto alla fresca brezza della sera, mentre in cielo fanno già capolino le prime luminosissime stelle. Per l’indomani mattina, di buon’ora, abbiamo in programma un’escursione che si prospetta assai interessante, ossia l’ascesa a dorso di mulo ad Ashetan Maryam, un particolare monastero situato su una montagna a 3100 metri di altezza. La partenza è fissata per le ore 7, in modo da salire con il fresco del mattino.
Puntualissimi ci incontriamo nei pressi dell’hotel con i tre conduttori dei muli e via, verso la vetta! Attraversiamo un tratto della parte alta della città, quindi la stradina inizia a salire, trasformandosi ben presto in un piccolo e scosceso sentiero. A tratti bisogna scendere dal mulo e proseguire a piedi in quanto il sentiero è troppo ripido anche per questi infaticabili animali. Salendo, il panorama che possiamo ammirare è sempre più bello e la piccola Lalibela si estende sotto di noi, con i tetti di lamiera delle sue casette che luccicando creano bellissimi riflessi di luce. Ci sono diversi campi coltivati, con fave, grano e piselli. Ogni tanto incontriamo qualcuno che sale o che scende e piccoli villaggi sonnacchiosi. Il sole scalda ma l’aria è piacevolmente frizzante. Bellissime poi le numerose piante di agave con i loro fiori gialli e arancioni. Arriviamo al monastero in circa due ore. La chiesa è semimonolitica, cioè in parte attaccata alla roccia e , anche se meno appariscente di quelle di Lalibela città, è ugualmente molto interessante. Il punto forte di questa escursione è , secondo noi, non tanto la chiesa in se stessa ma gli straordinari paesaggi che si possono ammirare salendo quassù. Un prete ci fa vedere l’interno della chiesa , molto buio. Non è possibile vedere l’altare, come del resto anche nelle altre chiese , nascosto dietro un grande tendone protettivo. Quella di non mostrare l’altare è una consuetudine e sinceramente non riusciamo a capire il perché. Ci vengono poi mostrate alcune croci antichissime ed un libro sacro molto molto vecchio, con disegni e scritti comunque in ottimo stato. Ma fuori dalla chiesa, sulla collinetta adiacente, ci appare uno spettacolo indimenticabile. Decine e decine di fedeli, uomini e donne, tutti avvolti nei lori tradizionali vestiti bianchi, se ne stanno seduti a terra ad ascoltare la predica di un sacerdote ritto in piedi sulla cima della collinetta stessa e che si ripara dal caldo sole con un grande ombrello coloratissimo. L’omelia infatti è appena terminata ed ora è il momento dei sermoni. Ci vengono offerte anche delle fette di pane benedetto, fatto con farina di miglio. Seduti in un angolo assistiamo per un po’ a questo spettacolo meraviglioso, come il panorama che si gode da quassù. Ne valeva davvero la pena. Riprendiamo quindi la strada del ritorno e giungiamo in hotel che è già passato il mezzogiorno. Un buon pranzo, un po’ di riposo e poi via, alla scoperta delle rimanenti chiese della sempre più sorprendente Lalibela.
Il nostro giro ricomincia da una chiesa che si trova poco fuori della città, a 8 km circa. E’ la chiesa di Na’Akuto La’Ab, interamente costruita all’interno di una grotta naturale. Sul pavimento vi sono delle bellissime pietre naturali, a forma concava, destinate a raccogliere le gocce dell’acqua (ritenuta sacra) che cola dal soffitto. E’ proprio quest’acqua, che nel corso degli anni, goccia dopo goccia, ha creato questi catini di pietra. Un custode ci fa poi vedere alcune croci antiche, un grande tamburo interamente in argento e un libro, ovviamente antichissimo, con testi sacri e disegni ancora una volta in un incredibile ottimo stato di conservazione. Quindi ritorniamo in città per completare la visita delle altre chiese qui presenti. Eccoci allora ad ammirare le chiese gemelle di Bet Gabriel e Bet Rufael , praticamente unite in un’unica grande costruzione, e da qui poi, attraverso un tunnel buio e stretto, la chiesa di Bet Merkorios, con i suoi notevoli affreschi dei Re Magi e dei 12 Apostoli. Dopo una rapida occhiata alla minuscola cappella di Bet Lehem è la volta della monolitica Bet Amanuel, una delle più finemente scolpite, poi di Bet Abba Libanos, che presenta una caratteristica che non si riscontra in nessun altra chiesa: è infatti l’unica attaccata alla roccia soltanto con il soffitto e la base, per cui si può liberamente girare tutt’intorno ad essa. La leggenda dice che è stata costruita in sole 24 ore grazie all’intervento degli angeli. E con questa le visite alle chiese di Lalibela sono terminate. L’unico termine che puoi utilizzare alla fine è: incredibili. Non puoi non pensare all’epoca in cui sono state costruite, alle conoscenze tecniche ed ai mezzi disponibili a quei tempi, certo non paragonabili a quelli odierni. Non ci si può non chiedere come è stato possibile realizzare tutto ciò. Certo, la manodopera non mancava, però con tutto il resto come la mettiamo? Alcune leggende dicono che ci sia stato un intervento divino e sinceramente, quando ti trovi di fronte a tanta meraviglia, la domanda te la poni: e se fosse vero? Se qualcuno da lassù avesse davvero dato una “mano”? Ed è con questi interrogativi che ci incamminiamo verso l’hotel. Si, infatti ancora una volta decidiamo di andare a piedi, ma stavolta da soli. Bellete infatti ha trovato la sua camera in un albergo nel centro della città e così, per evitargli di andare avanti e indietro, lo dispensiamo dall’accompagnarci. Strada facendo, diversi bimbi ci vengono incontro, chi cercando di venderci qualche collanina, chi per fare soltanto quattro passi con noi. Alcuni di essi, 6 o 7, pensano di scortarci fino all’hotel. In particolare ricordiamo le simpatiche sorelline Tarya e Hiruthe, di 8 e 12 anni, ed il buon Yohannes (stessa età).
La piccola Tarya più di tutti gli altri sembra avere un debole per me. Mi prende per mano e non mi molla più, ogni tanto si stringe a me e continua a ripetere che è felicissima di fare questa passeggiata insieme. Anche la sorella più grande conferma la sua felicità. Loro parlano inglese perfettamente, noi decisamente meno, ma riusciamo comunque a fare una , seppur semplice, chiacchierata. Negli occhi di questi bambini vedi davvero che sono felici di stare con noi, di fare semplicemente questo tratto di strada insieme, non ti chiedono niente e probabilmente conversare, per quanto possibile, con dei turisti è per loro un grande privilegio. Poiché non possono entrare nella proprietà dell’hotel, gli diciamo di attendere ai cancelli pochi minuti. Noi ci catapultiamo in camera e prendiamo un bel po’ di regalini per loro: magliette, penne, caramelle,ecc. . Dire che sono felicissimi è dire poco: si dividono le cose equamente tra loro senza alcun problema. Ma il bello doveva ancora venire. Ci domandano la nostra mail, (si proprio la mail!), ci scrivono su un pezzettino di carta la loro e ci chiedono di scrivergli appena possibile. Mentre scrivo gli indirizzi, seduto su una pietra, la piccola Tarya mi si para davanti e mi lega al collo una collanina con una piccola croce in legno. Poi mi abbraccia, mi da un bacio sulla guancia e mi dice in inglese: io non dimenticherò te, tu non dimenticare me! Non me l’aspettavo proprio. Un brivido mi attraversa, ma non è l’aria oramai fresca della sera. E’ l’emozione grandissima che questi bambini ci hanno regalato, con i loro sorrisi, la loro genuinità, la loro spontaneità. Si, anche questo è mal d’Africa, questo rapporto splendido e sincero con gente diversa da noi per usi e tradizioni, ma con un cuore davvero grande. E cosi, con gioia e tristezza allo stesso tempo, ci si saluta e ognuno prende la propria strada, noi verso l’hotel, loro verso la loro piccola capanna col tetto in lamiera. Mille pensieri ti passano per la mente in quei momenti, mille domande, mille perché. Li vorresti aiutare tutti più concretamente,vorresti avere con te la celebre lampada con il genio all’interno, ma forse, anche se con poco, con una semplice passeggiata mano nella mano, in qualche modo lo abbiamo fatto, donando loro alcuni momenti di felicità.
Lalibela ci ha fatto quindi un ultimo regalo, senz’altro il più bello di tutti. Le sue chiese sono imperdibili e i suoi paesaggi mozzafiato, ma nulla ci ha colpito ed emozionato di più di questa semplice passeggiata. La prima parte del nostro viaggio è terminata. La Rotta Storica ha mantenuto le sue promesse, doveva essere molto interessante e così è stata. Ora si ritorna ad Addis Abeba e da qui inizierà la seconda parte del tour, alla scoperta del sud del Paese con la sua bella natura e le sue popolazioni particolari.
Giunti ad Addis alle 13 (con il solito ritardo…), troviamo ad attenderci il nostro nuovo driver, Dessur, con una fiammante Toyota 4×4. Carichiamo i bagagli e via immediatamente verso sud. Prima destinazione il Lago Langano, dove alloggeremo nel bellissimo hotel Sabana Lodge. Oggi sarà comunque una tappa di puro trasferimento, intervallata ogni tanto da qualche sosta fotografica. La strada che percorriamo è in ottimo stato, durante il viaggio possiamo vedere molte serre per la coltivazione dei fiori, bancarelle sul ciglio della strada che vendono frutta di ogni tipo, tra la quale delle invitanti fragole che decidiamo di assaggiare e che troviamo davvero deliziose, poi ancora bancarelle in cui si vendono diversi tipi di verdure, cipolle e pomodori in particolare. Ci fermiamo strada facendo per un leggero pranzo (forse meglio dire una merenda visto che sono oramai le 15) nel piccolo paese di Bishoftu, sull’omonimo lago. Percorriamo una pianura che ricorda molto la savana, con vegetazione arbustiva e alberi non molto alti. Molti inoltre i campi coltivati a sorgo e tef, molte le mandrie di bovini che incrociamo. Qua e là piccoli villaggi o meglio gruppetti di capanne racchiuse da una recinzione, probabilmente singoli nuclei familiari. La strada per Langano è lunga e arriviamo a destinazione che sono oramai le 18. Il lodge come detto è davvero bellissimo, tutte le camere sono disposte in casette individuali con vista sul lago. Tutto questo lusso stona un po’ con quello che trovi al di là della recinzione: pochi metri infatti separano quest’ oasi a 4 stelle dalla povertà e questo non lascia indifferenti. Ma d’altra parte almeno molte persone locali lavorano qui e questo è senza dubbio positivo. Il grande lago Langano , dalle acque scure, si estende con i monti Arsi sullo sfondo (non le abbiamo del tutto abbandonate le montagne, in lontananza le vedremo spesso) e possiede una positiva caratteristica: si tratta infatti dell’unico lago d’Etiopia ad essere balneabile, in quanto qui non è presente la bilharziosi. Oramai è buio, per cui faremo quattro passi sulla spiaggia del lago l’indomani mattina prima di riprendere il viaggio. Per raggiungere la riva bisogna percorrere un sentierino in ottimo stato: pochi minuti e si è sulla spiaggia. L’acqua non è fredda, ma il suo colore scuro non invita certo a fare un tuffo. Comunque non avremmo nemmeno il tempo per farlo: solo quattro passi, qualche foto e poi si riparte verso Arba Minch, nostra prossima meta. La strada continua ad essere in buono stato. Incontriamo molti contadini che alla guida dei loro carretti trainati da asinelli stanno lentamente dirigendosi, in lunghe ed ordinate file, verso i mercati. Trasportano le più svariate merci, legna da ardere, enormi fascine di erba o canna da zucchero, grandi cumuli di patate e cipolle rosse. In una radura notiamo moltissime persone, tutte in fila, in paziente attesa del loro turno per potersi approvvigionare di acqua ad un pozzo. Ci rechiamo nei pressi per dare un’occhiata e subito siamo circondati da tanta gente che ci osserva come se fossimo degli alieni. Possiamo fotografare senza problemi, anzi diversi vogliono pure essere ripresi con noi e poi si divertono a guardare le foto loro fatte, mostrando stupore e curiosità. Strada facendo possiamo ammirare bellissimi villaggi con le tipiche capanne chiamate tukul, perfettamente circolari, in terra e con il tetto di paglia. Tra una capanna e l’altra spuntano gioiosi molti bambini , che ci fanno grandi saluti al nostro passaggio. Durante il percorso, Bellete ci propone di visitare le particolari abitazioni decorate di una famiglia del posto. Le due capanne che possiamo vedere sono davvero molto belle, decorate con motivi geometrici all’esterno e con disegni raffiguranti animali all’interno. Per visitare queste abitazioni bisogna pagare un piccola cifra. Lasciamo poi anche un po’ di regalini ai bimbi presenti ma sono soprattutto i rossetti e gli smalti per le unghie che riscuotono un grande successo: le ragazze più grandi infatti li provano subito e ci ringraziano infinitamente. Lunghi sono i tratti di strada sterrata, enormi i polveroni sollevati dalle poche auto incrociate. Il paesaggio è verdissimo, molti gli alberi di eucalipto e di falsi banani. Per il pranzo ci fermiamo a Sodo: siamo di nuovo piuttosto in altura, fa fresco anche a causa di una improvvisa pioggia che per fortuna, però, dura poco. Durante il tragitto ci fermiamo a scattare qualche bella fotografia all’ambiente circostante, possiamo ammirare una bella veduta del grande Lago Abaya in lontananza e anche una grande cascata dalle acque di un bel… marrone scuro. Poi ad un tratto il nostro driver rallenta, ha notato qualcosa sul ciglio della strada e ci sono anche alcune persone che guardano e confabulano tra loro. Ci fermiamo a dare un’occhiata e scopriamo un gigantesco pitone morto. Sarà lungo circa 5 metri ed è davvero enorme. Ci dicono che lo hanno ucciso dei contadini che se lo sono ritrovati nel campo mentre erano al lavoro. La strada prosegue tra grandi piantagioni di banane e campi coltivati e le grandi pozzanghere presenti ci fanno capire che qui deve essere piovuto parecchio e neanche tante ore prima. Prima di raggiungere Arba Minch abbiamo in programma la visita di Chencha, un villaggio della tribù dei Dorze. I dorze vivono nelle alture, in territori spesso freddi e nebbiosi, sono abili tessitori e costruiscono delle particolarissime capanne, somiglianti per davvero a grandi elefanti. La strada per raggiungere il villaggio è decisamente in salita ed il panorama che possiamo osservare è stupendo, con i due Laghi Abaya e Chamo che si estendono sotto di noi, anche se non proprio vicini. Molti i boschi di conifere, l’aria è frizzante e fresca. Prima di arrivare al villaggio ci fermiamo in una piccola ed isolata scuola per lasciare un po’ di materiale scolastico ai bambini. Il maestro ci ringrazia molto e i bimbi ci fanno grandi saluti. Mentre saliamo incontriamo anche diverse bancarelle che vendono le tipiche sciarpe coloratissime: al ritorno di sicuro faremo una bella sosta! Giunti al villaggio visitiamo subito un paio di capanne tipiche, che come detto, ricordano i grandi pachidermi africani. Passeggiamo per un poco nel villaggio dove possiamo assistere alla lavorazione del falso banano. Ci fanno assaggiare anche una specie di focaccina ottenuta proprio da questa pianta e che troviamo veramente buona. Non manca neppure un assaggio della grappa locale, decisamente forte. La visita è terminata e possiamo quindi prendere la via del ritorno, tra la ….nebbia che nel frattempo ha fatto la sua comparsa quassù, ma che si dissolverà poi una volta giunti più in basso. Come previsto facciamo una sosta-shopping alla bancarelle viste in precedenza, dove acquistiamo alcune belle sciarpe a prezzi decisamente irrisori. Ad Arba Minch alloggiamo al bellissimo Paradise Lodge, arroccato su una collina dalla quale si ha una vista superlativa sul parco Nech Sar e sui Laghi Abaya e Chamo. L’hotel è però situato troppo distante dal centro della cittadina (che comunque non ha molto da offrire), per poterla raggiungere a piedi. Inoltre la pioggia caduta nel pomeriggio prima del nostro arrivo ha reso la strada un pantano, con enormi pozze d’acqua e fango ovunque, per cui meglio restarsene tranquilli in hotel. L’indomani in programma abbiamo la visita al parco Nech Sar e al Lago Chamo. Il Parco Nech Sar non è molto esteso ed è caratterizzato da un ambiente che va dalla savana alla foresta fittissima. Gli animali che è più facile avvistare sono le zebre , i kudu e i babbuini. Nel Lago Chamo invece avremo la possibilità di ammirare molto da vicino pellicani, marabù, aironi ma soprattutto gli ippopotami e i grandi coccodrilli. Speriamo però non piova nella notte, in quanto le strade all’interno del parco, in caso di forti piogge, diventano impraticabili e nel caso la visita salterebbe. Ma durante la notte un violentissimo temporale ci fa capire che molto difficilmente andremo a fare l’escursione nel parco. Ed infatti è così. Giunti ai cancelli d’ingresso dopo aver percorso una strada sterrata trasformatasi in un mare di fango, i rangers ci dicono che al momento non si può entrare perché le strade all’interno sono impraticabili e di riprovare nel pomeriggio. Ci rechiamo quindi al lago Chamo, per l’escursione in barca. Il bel sole che nel frattempo splende in cielo ci fa ben sperare anche per il prosieguo della giornata, quando cioè riproveremo a visitare il parco. Il giro sul lago è davvero bellissimo: a bordo di una piccola barca a motore possiamo osservare centinaia di bianchissimi pellicani, molti marabù, eleganti aironi ed egrette. Molti se ne stanno nelle acque basse vicino alla riva, cercando di catturare qualche piccolo pesce. Gruppetti di pellicani, quasi a formare una squadriglia, sfoggiano voli a basa quota e poi planano dolcemente sulle acque del lago. Come detto in queste acque non sono presenti solo eleganti volatili. Ecco infatti moltissimi coccodrilli, alcuni nuotano più al largo, sul pelo del’acqua e subito si immergono non appena la barca si avvicina, molti invece se ne stanno fermi a crogiolarsi al sole in prossimità delle sponde. Tanti di essi sono davvero enormi, ma gli uccelli se ne stanno tranquillamente in mezzo a loro, alcuni addirittura anche sopra i preistorici bestioni. E poi ci sono gli ippopotami, che possiamo vedere però soltanto spuntare dall’acqua, in quanto se ne stanno immersi e riemergono solo per respirare. Non ci possiamo avvicinare più di tanto perché sono animali molto pericolosi e parecchio irritabili, soprattutto se ritengono che si sta sconfinando nel loro territorio. Uno di questi bestioni potrebbe in un attimo portarsi sotto la barca senza essere visto, con conseguenze facilmente immaginabili. Io, amante come sono degli animali e della natura, da questo lago non mi muoverei più, rimarrei qui ore e ore. Ma dobbiamo tornare e riprovare, dopo pranzo, ad entrare al parco. Sinceramente le speranze di riuscire sono poche ed è anche per questo che abbiamo prolungato un po’ la nostra visita qui al Lago Chamo. Pranziamo al ristorante Soma, consigliato da Bellete, dove possiamo gustare un ottimo pesce tilapia, servitoci intero tutto per noi. Ed eccoci quindi a ritentare l’escursione al Parco. I due rangers all’ingresso ci informano che se vogliamo andare possiamo farlo, ma a nostro rischio e pericolo, in quanto le piste all’interno sono allagate ed infangate ed inoltre loro non hanno un mezzo per poterci eventualmente venire a recuperarci. Bellete ci dice che è meglio non rischiare di restare impantanati per vedere, se va bene, qualche zebra e qualche kudu. Peccato, facciamo dietrofront ed in alternativa ci propone di fare una visita alle 40 sorgenti, che poi è anche il significato in amarico di Arba Minch. La città, infatti, deve il suo nome alle numerosissime piccole sorgenti che si trovano nei dintorni e che formano anche alcuni laghetti ( meglio dire pozze) balneabili. Effettivamente la pista per raggiungere la zona è in pessimo stato e più volte attraversiamo enormi pozzanghere. Possiamo vedere alcune piccole sorgenti sgorgare tra le rocce rese viscide dalla pioggia, sulle quali non è il massimo camminare. C’è ovviamente fango dappertutto per cui dopo una brevissima passeggiata decidiamo che è meglio tornare indietro. Poiché è ancora presto chiediamo a Bellete di ritornare dai Dorze, per poter acquistare ancora qualche sciarpina colorata. E così facciamo, dando ancora un bel contributo all’economia locale. Poiché ci è piaciuto molto il pesce mangiato a pranzo, con Bellete ci accordiamo per fare in quel ristorantino anche la cena, anziché restare in hotel. E’ proprio bello stare in mezzo alla gente del posto e stavolta si unisce a noi anche Dessur. Passiamo così una bellissima serata tutti insieme, conclusa con l’immancabile “cerimonia del caffè”. Anche se abbiamo dovuto rinunciare alla visita al Parco, oggi è stata comunque una bella giornata. Per l’indomani in programma c’è, tra le altre cose, il grande mercato di Key Afer , uno dei più belli e pittoreschi di tutta la Valle dell’Omo. Ci addentreremo quindi sempre più nel profondo sud, in zone sempre più isolate ma, anche per questo, ancora più interessanti da visitare.
E’ molto presto al mattino quando ci mettiamo in viaggio, del resto ci aspettano più di 240 km di strada per la maggior parte sterrata. Il paesaggio è pianeggiante, anche se alti monti si stagliano in lontananza come silenziosi guardiani. Beh, d’altra parte l’Etiopia è un immenso altopiano, per cui le zone montuose non si abbandonano mai del tutto. Tra zone coltivate e aree tipo savana, spuntano qua e là caratteristici villaggi. Molto particolari e curiosi sono anche i tanti alveari, a forma ovale, collocati sui rami degli alberi di acacia. Durante il percorso ci fermiamo per una breve visita ad alcuni piccoli totem funerari in legno, dalla forme “umane”, appartenenti alla tribù dei Konso. Il guardiano del luogo è armato come se dovesse difendere chissà cosa e sembra pure un poco su di giri, forse per qualche bicchiere di troppo. Non vuole assolutamente che facciamo foto (nemmeno ad un vicino meraviglioso albero di jacaranda con tutti i suoi fiori viola) e non pare molto contento della nostra visita. Tranquillo novello Rambo, che nessuno ti porta via le tue statuette e tanto meno l’albero! Bellete chiarisce con calma il tutto e come per magia (la magia dei birr sganciati più che delle parole…..) possiamo vedere e fotografare in tutta tranquillità.
Il prosieguo del viaggio ci porta poi ad entrare in contatto con la prima della diverse popolazioni della Valle dell’Omo che abbiamo in programma di incontrare. Si tratta degli Tsemay, agricoltori e pastori, del villaggio di Weyto. Appena giunti al villaggio subito veniamo circondati da diverse persone, uomini e donne , tutti vogliosi di farsi fotografare per poi incassare. Da ora in avanti infatti sarà sempre così, sarà normale essere accerchiati e “invitati” a fare foto . Per ogni foto ci vengono chiesti 1 o 2 birr, un prezzo comunque irrisorio. Non è ovviamente il costo delle fotografie che ci disturba, ma il fatto di dover scegliere chi immortalare e chi no, cosa che secondo noi toglie un po’ di realtà ed autenticità alla visita. Ma da queste parti funziona appunto così e allora ti devi adeguare. Nel villaggio non ci sono molte persone (per fortuna!), probabilmente molti di loro sono già in cammino per raggiungere Key Afer ed il suo mercato. Scattiamo alcune foto ai soggetti che ci sembrano più indicati, soprattutto per il loro abbigliamento e quindi riprendiamo la strada verso il famoso mercato. Raggiungiamo la piccola Key Afer verso le 13 e prima di gettarci tra la folla del mercato consumiamo un semplice pasto (qui non c’è molta scelta, puoi scegliere tra injera con carne di capra e carne di capra con injera) in un ristorantino locale.
Ed eccoci finalmente immersi tra la gente del mercato che si tiene qui a Key Afer in una grande radura ogni giovedì . Vi si riversano genti di tanti villaggi nei dintorni e di varie tribù, come i Banna, gli Ari, gli Tsemay, gli Hamer. Si ritrovano tutti qui, per vendere i loro prodotti ma anche semplicemente per incontrarsi e scambiarsi notizie. C’è davvero di tutto, molto belle sono le tipiche collanine con perline colorate e piccole conchiglie e i calebass (una specie di zucca) trasformati in contenitori di varie dimensioni, ricamati con bellissimi disegni e adornati con le immancabili perline, utilizzati anche come “borsette” che le donne portano appese al collo o sulle spalle. Ci sono bancarelle che vendono tessuti, sementi varie, verdure ed utensili di ogni tipo. C’è persino una bancarella dove si vendono secchi in ….plastica, che stona parecchio con l’ambiente circostante. Ma quello che ci colpisce di più sono le persone, con i loro costumi e le acconciature tradizionali ed i vari ornamenti dai colori sgargianti, differenti tra loro in base alla tribù di appartenenza. Un vero caleidoscopio di colori e stili. Si possono fare fotografie, ma con discrezione, nel senso che se punti una persona questa ti chiede subito qualche birr. Girovaghiamo tranquillamente senza meta tra i venditori, nessuno ti fila minimamente, tutti continuano a farsi i fatti propri. Dopo una lunga trattativa acquistiamo un paio di coloratissime collanine con perline e conchiglie. Nel frattempo alcuni bimbi si sono presi cura di noi, si sono attaccati alle nostre mani e ci accompagnano nel nostro giro. Ci chiedono ogni tanto, ma con discrezione, se gli possiamo acquistare un paio di scarpine, accompagnando la richiesta con ampi sorrisi. Sappiamo benissimo che dopo di noi chiederanno altro ad altri turisti, però con pochissimi euro possiamo accontentarli tutti ed allora ci rechiamo con loro ad una bancarella che vende appunto scarpe di ogni misura per procedere all’acquisto. Sono in 6 e con calma si misurano le scarpine colorate. Il tutto ci costa 5 euro, una sciocchezza per noi, una cifra per loro. Sono felicissimi e dopo aver fatto con noi una foto ricordo, corrono a farle vedere alle loro madri, impegnate a vendere nelle bancarelle. Notiamo che ripongono le scarpine in sacchetti di plastica per non sporcarle e per…..farsene comprare altre da altri turisti. Infatti li notiamo più tardi appiccicati ad altri turisti, loro ci vedono e ci fanno grandi sorrisi, come per dire “ora tocca a questi qui…”. Ma noi siamo contenti, con pochi soldi li abbiamo fatti felici e sinceramente speriamo che anche altre persone donino loro qualche cosa. Fa molto caldo e la gente continua ad arrivare da ogni parte. Poco oltre vi è il mercato del bestiame, dove fervono le contrattazioni per capre, pecore, buoi, mucche e zebù.
Dopo questa bellissima immersione nella realtà locale, riprendiamo il nostro viaggio per raggiungere Jinka, dove ci fermeremo per i prossimi due giorni. Arriviamo nella piccola cittadina nel tardo pomeriggio e ci rechiamo subito all’albergo prenotato, l’Orit Hotel, situato proprio in centro, ma con sorpresa constatiamo che le camere prenotate (le più belle e nuove) sono in realtà state assegnate ad altri turisti e a noi propongono camere decisamente inferiori. Bellete e Dessur non ci pensano un attimo a rifiutare e si mettono in cerca immediatamente di un’altra sistemazione. Quelle camere non vanno giù nemmeno a loro, tantomeno il fatto che siano state inspiegabilmente assegnate ad altri. E così troviamo posto al nuovissimo (nelle camere si sente ancora il profumo della pittura data) Eyoh Pension, situato proprio all’inizio della città. Le camere sono davvero belle e spaziose e nel complesso questa sistemazione si rivela migliore della precedente. Per cena raggiungiamo in pochi minuti di passeggiata il Jinka Resort, dove le pietanze sono molto buone ma in compenso il servizio è molto più lento di una tartaruga. In giro c’è pochissima gente, per cui dopo cena ci ritiriamo nella nostra camera per un buon riposo, ma con il pensiero già rivolto all’indomani che ci riserverà una delle visite sicuramente più sorprendenti di tutto il tour, ossia quella ai Mursi, la popolazione famosa per l’uso, da parte delle donne, degli incredibili piattelli labiali. Questi dischi di argilla vengono inseriti nel labbro inferiore, con una incisione praticata nel labbro stesso e con l’asportazione, per fare spazio, di alcuni denti. Va da sé che se non sono inseriti il labbro penzola mollemente dalla bocca. Non si sa con certezza il perché di questa tradizione: alcuni studiosi affermano che questa pratica sia nata ai tempi della schiavitù e che le donne portassero questi dischi per sembrare più brutte agli occhi degli schiavisti, che quindi non li portavano via dai villaggi; altri studiosi invece affermano praticamente il contrario, ossia che questi dischi sono indossati per abbellire la persona e renderla più attraente. I Mursi si dedicano alla pastorizia ed alcuni praticano anche l’agricoltura, ma oggigiorno si dedicano maggiormente al business fotografico: grazie alle loro usanze molto particolari, sono diventati una delle popolazioni più “ambite” da incontrare, per cui sono anche quelli che per ogni foto si fanno pagare di più, fino a 3-4 birr a persona e addirittura, se fai la foto ad una mamma con il piccolo, devi pagare anche per lui. Hanno fama di essere assai insistenti, piuttosto irritabili e pare abbiano anche le mani un po’ lunghe, per cui Bellete ci raccomanda di portare con noi solo la macchina fotografica e nient’altro (a parte il sacchettino con i birr, altrimenti inutile andare…..) e di non provare a fare foto “ a scrocco”, causa il rischio di spiacevoli discussioni. A proposito dei birr, questi devono essere nuovi e non sgualciti, altrimenti non vengono accettati! Altro che agricoltura e pastorizia….
Per raggiungere il villaggio Mursi che dobbiamo visitare percorriamo una cinquantina di chilometri di strada sterrata, comunque in buone condizioni. Una prima parte della pista si snoda in altura, tra una fitta vegetazione, offrendoci bellissimi panorami sul territorio circostante. Quando poi finalmente si raggiunge il fondovalle, ci si trova immersi in un ambiente diverso, una grande pianura con vegetazione tipicamente da savana. Ci troviamo nel Mago National Park, che dobbiamo attraversare per un tratto, prima di arrivare dai Mursi. In questo parco non vi sono molte specie di animali, ma soltanto i piccoli dik dik, bufali, licaoni e kudu. Avvistiamo soltanto molti dik dik e un kudu solitario, di tutti gli altri nessuna traccia, nemmeno (per fortuna) delle famigerate mosche tse-tse, qui molto presenti e decisamente pericolose, in quanto portatrici della malattia del sonno. All’uscita del parco, dalla parte opposta, ad attendere i turisti, ci sono alcune guardie armate in quanto è obbligatorio ingaggiarne una per poter visitare i villaggi Mursi. Così facciamo pure noi ma sinceramente questo non ci è sembrato così necessario. Forse lo fanno per creare dei posti di lavoro, anche perché cosa potrebbe fare, in caso di problemi, una persona sola anche se armata contro tutti quelli che trovi in un villaggio, armati pure loro e per giunta con potenti kalashnikov? Raggiungiamo il villaggio dopo una ventina di minuti e fa davvero molto caldo, non c’è un filo d’aria. Il villaggio non è molto grande, una dozzina di capanne in tutto. Ma appena scesi dall’auto veniamo subito circondati da un gran numero di persone di tutte le età, sbucate da ogni dove come per magia, anche bambini, che sfoggiano i loro ornamenti e costumi tradizionali. Molti, non solo gli uomini ma anche le donne, imbracciano un fucile. Qui però i sorrisi e le pacche sulle spalle rappresentano soltanto un invito ad essere scelti per la fotografia, nulla più. Come detto in precedenza, non è molto bello dover scegliere, ma si sta al gioco , per cui dopo un’occhiata al villaggio in generale, iniziamo a scegliere i soggetti più particolari. Qualcuno certamente esagera un po’ nello sfoggiare il suo abbigliamento, come ad esempio una donna che ci si para davanti con sulla testa un copricapo con un enorme paio di corna. Le più intraprendenti sono proprio le donne, ben consapevoli del fatto di essere l’attrazione principale, con il loro grande disco inserito nel labbro, tanto che alcune di loro ti prendono per mano e ti tirano in disparte per convincerti a scattare. Fa impressione quel disco inserito nel labbro, ma ancora di più il molle labbro penzolante una volta tolto il disco. Tutti ti toccano e ti sfiorano, forse perché incuriositi dal nostro essere così diversi da loro, certamente per convincerti a fare loro una fotografia. Dopo che hai scattato le foto desiderate, inizia il secondo assalto, ossia quello per venderti i famosi piattelli. E sono ancora le donne che ti si accalcano intorno e ti sventolano sotto il naso decine e decine di dischi di tutte le dimensioni. La scena comunque è comica, con tutte queste donne che fanno a gara tra loro per farti acquistare i loro prodotti e tu lì in mezzo che non sai più da che parte guardare e che…. Piattello pigliare!
Ovviamente ne acquistiamo alcuni, ma senza grosse trattative: il prezzo è quello, prendere o lasciare. La visita dura circa un’oretta, ma pensiamo che effettivamente di più sarebbe stato persino troppo. La visita a questa tribù ci è comunque piaciuta, sono davvero particolari e un pò fuori dal mondo, anche se hanno ben in mente il senso degli affari. Vuoi la foto? Paghi. Sono un po’ appiccicosi ed insistenti, poco socievoli ed attaccatissimi al denaro, ma se presi per il verso giusto e con tutta la calma possibile alla fine ti diverti pure. E cosi è stato, in quanto lasciamo questo villaggio con un buon ricordo. Prima di intraprendere la strada del ritorno, ci rechiamo ad un punto panoramico dal quale possiamo ammirare un bellissimo panorama sulla pianura sottostante e vedere pure altri villaggi Mursi in lontananza.
L’escursione dai Mursi è terminata e possiamo quindi ritornare in hotel a Jinka. Nel pomeriggio poi si riparte per l’incontro con un’altra tribù, quella degli Ari. Gli Ari sono grandi allevatori e produttori di miele e grappa, ma anche abili artigiani. Si tratta di una tribù molto più tranquilla e socievole rispetto ai Mursi. Il primo villaggio che visitiamo si trova ad una quindicina di chilometri da Jinka ed è immerso in una lussureggiante vegetazione. Qui una gracile signora ci fa vedere come vengono fabbricati i vasi: seduta per terra sta infatti modellando con le mani nude un grosso vaso ed accanto a lei ve ne sono altri tre o quattro già pronti. Girovaghiamo un poco tra le piccole capanne seguiti dal solito nugolo di bimbi e dopo aver lasciato loro qualche regalino proseguiamo alla volta del secondo villaggio. Questo è più grande del precedente ma ugualmente molto tranquillo, possiamo passeggiare e fare foto senza problemi, la gente ti saluta, ognuno continua a fare i fatti suoi e ovviamente anche qui abbiamo l’immancabile scorta di bimbi che fanno a gara tra loro per poterci tenere per mano. C’è anche un piccolo mercatino, dove diversi venditori espongono i loro prodotti, in prevalenza frutta e verdura, esposti su stuoie stese sull’umida terra. Nessuno ti chiede la benché minima cosa, sono davvero diversissimi dai Mursi. In una bancarella si vendono anche dolci e caramelle, così decidiamo di acquistarne un bel barattolo da regalare ai nostri numerosi piccoli accompagnatori. Grazie all’aiuto della guida locale, che ci ha seguito nella visita a questi villaggi, la distribuzione avviene senza problemi: i bimbi, ordinatamente in fila, aspettano il loro turno per ricevere il prezioso dono. Ma poiché si è fatta l’ora del ritorno, lasciamo il barattolo al venditore, incaricandolo di proseguire per noi la distribuzione. I bimbi ci salutano felicissimi e quindi si catapultano subito verso la bancarella, circondandola e facendola tremare paurosamente, dando vita così ad una scena divertentissima, con il venditore intento a tenerli a bada con difficoltà e ostentando anche molta preoccupazione per la sua traballante bancarella. Poco al di fuori del villaggio, in una piccola capanna, un fabbro ci mostra la lavorazione del ferro, in particolare la fabbricazione delle lame per i coltelli. Prima di ritornare in hotel ci rechiamo a visitare un piccolo ma interessante museo, situato sulla cima di una collina appena fuori città , dove sono esposti oggetti da lavoro, capi di abbigliamento e altri oggetti tradizionali delle varie tribù della Valle dell’Omo. Anche per oggi le visite sono terminate, la giornata è stata intensa e molto soddisfacente. L’indomani sarà ancora giorno di mercato, quello di Dimeka, un altro dei più caratteristici della Valle dell’Omo.
Alle 8,30 siamo già in viaggio, ci aspettano circa 70 chilometri di strada sterrata per raggiungere Dimeka. E’ una bellissima giornata di sole, tutto procede benissimo, ma purtroppo la sorte sta per riservarci una sgraditissima sorpresa. Ad un certo punto decidiamo di fermarci per fare qualche foto (a pagamento, ovvio) ad un gruppetto di persone, nei pressi di un piccolo villaggio, che ci sembrano molto fotogeniche, soprattutto per il loro abbigliamento, con le vesti ricoperte da moltissime piccole conchiglie. C’è anche una comitiva di turisti tedeschi, 5 jeep in tutto, che hanno avuto la nostra stessa idea. Dimeka dista da qui circa 25 chilometri, per cui possiamo fare tutto con calma e sgranchirci un po’ le gambe. Ma al momento di ripartire, ecco il fattaccio, ecco che la giornata da splendida inizia ad assumere colori più cupi: la nostra fiammante Toyota infatti non ne vuole sapere di ripartire. Il buon Dessur si mette subito a trafficare nel motore, aiutato dagli autisti del gruppo tedesco, ma la faccia di tutti loro non fa presagire nulla di buono. E così non possiamo far altro che aspettare, incrociando le dita, seduti sul ciglio della strada. Inoltre, come se non bastasse, siamo anche in una zona con scarsa copertura telefonica, destinata addirittura a sparire più avanti. Gli autisti le stanno provando tutte, ma invano. E ora che si fa? Per fortuna che ci sono gli altri turisti, così Bellete chiede loro un passaggio fino a Dimeka, in modo da non farci perdere la visita al mercato ma soprattutto per poter arrivare in un seppur piccolo centro abitato: dover restare qui la sera non sarebbe infatti molto piacevole. Il buon Dessur resterà a guardia dell’auto con i nostri bagagli, in attesa del meccanico che nel frattempo è stato chiamato, ma che impiegherà qualche ora per arrivare.
Notiamo però che alcuni componenti del gruppo non paiono molto contenti di doverci trasportare, anche se si tratta di soli 25 chilometri. La più stizzita è una signora di mezza età che, visto il suo colorito decisamente ceruleo, tanto da sembrare finta, starebbe senz’altro meglio in un museo delle cere anziché seduta su un fuoristrada in Etiopia. Un comportamento davvero incomprensibile, forse si ritengono esseri superiori, ma devono tenere bene a mente che quello che è successo a noi potrebbe anche capitare a loro in qualsiasi momento. Qui non siamo di certo per le vie di Berlino. Ma gli altri autisti e guide non ci lasciano in difficoltà e così, dopo aver preso solo lo stretto necessario, partiamo, salutando Dessur con la speranza di poterci rivedere a Dimeka o a Turmi, meta finale dell’odierna giornata. Saliamo su jeep diverse, io con una coppia molto simpatica ed accogliente, Anna e Bellete (che viene sistemato nel bagagliaio con le valigie), su di un’altra macchina i cui passeggeri non sono altrettanto socievoli, anzi…. Va bene, al mercato di Dimeka ci arriveremo, ma abbiamo però molti dubbi che l’auto si possa riparare, anche se la speranza è l’ultima a morire. Un guasto a macchine di questo tipo, con molti componenti elettronici, può essere riparato praticamente solo ad Addis Abeba, difficilmente qui in queste zone remote, dove incontri più animali che veicoli. Cattivi pensieri ci accompagnano nei 25 chilometri: e se la macchina non si ripara? Salteremo una parte del programma e, cosa peggiore, come torneremo indietro? Tutto il giro rischia di essere stravolto. Giunti a Dimeka ringraziamo gli autisti, le guide e quasi tutti i passeggeri (la signora di cera ovviamente no), quindi ci fiondiamo subito al mercato. Bellete non ci pare molto preoccupato e questo sinceramente ci sorprende un po’. Forse non si rende conto, ma il rischio di restare a piedi è piuttosto alto. E poi qui non c’è copertura cellulare, l’unica possibilità di comunicare è il telefono dell’hotel Buska Lodge a Turmi, dove alloggeremo, che si trova a circa 30 chilometri da qui. Si, ma come ci arriviamo a Turmi? Beh, un passaggio senz’altro lo troveremo, visti i tanti turisti qui presenti, per cui ora godiamoci il mercato che si svolge in una radura non molto grande ed è una vera e propria esplosione di colori. Le genti appartenenti alle varie tribù della zona, in particolare Hamer e Banna, affollano lo spiazzo con i loro prodotti o semplicemente per incontrarsi e chiacchierare un po’. Molto belli i costumi degli Hamer che fanno grande uso di collanine e braccialetti di perline colorate, ma ancora più interessanti sono le acconciature delle loro donne, davvero particolari con quelle trecce di colore ocra. Anche qui non resistiamo alla tentazione di acquistare alcuni calebass trasformati in contenitori che potremmo definire delle borsette per le donne. Le trattative sono un po’ lunghe, ma poi alla fine si spunta sempre un ottimo prezzo. E’ proprio bello girovagare in questo mercato, comunque molto più piccolo di quello visto precedentemente a Key Afer. Fare foto si può, a patto di non puntare qualcuno, nel qual caso devi mettere mano al portafogli e sganciare qualche birr, richiesto però senza frenesia. Può capitare che alcuni, soprattutto le donne, non vogliono farsi riprendere e magari tu scatti lo stesso : loro ti farfugliano dietro qualcosa, ma poi tu passi oltre e tutto finisce li, magari con un sorriso. Comunque tutto si svolge nella massima tranquillità e spensieratezza, senza problemi di alcun genere. Si guarda, si contratta, si passeggia, ma la gente continua a farsi gli affari propri. Esplorato il mercatino in lungo e in largo, ci rechiamo a mettere qualcosa sotto i denti in un ristorantino nei pressi, dove ci viene comunicato che se vogliamo possiamo assistere alla cerimonia del salto del toro che si svolgerà nel pomeriggio in un vicino villaggio Hamer. Accettiamo senza indugio. Il pensiero, però, va ogni tanto alla nostra auto: che ne sarà? Boh.
Comunque ci incamminiamo (eh si, siamo appiedati…) verso il luogo della cerimonia, che , come hanno detto a Bellete (o come lui ha capito, non si sa) dista circa 1 chilometro da qui. Peccato però che di chilometri ne facciamo all’incirca tre, sotto un implacabile e cocente sole. Mi sa che il nostro buon Bellete inizia a perdere colpi, anche se onestamente qualcuno può avergli dato una informazione errata. Quando arriviamo all’ingresso del villaggio paghiamo il dovuto per poter assistere alla cerimonia ed entriamo. La cifra ammonta a 300 birr a persona e si ha assoluta libertà di visitare e soprattutto di fotografare, nessuno ti chiede altro e nemmeno ti considera. La cerimonia è già iniziata, ma questo non è un problema in quanto è molto molto lunga ed il momento clou, ossia il salto dei tori vero e proprio, avviene soltanto alla fine.
Questa cerimonia è importantissima tra le popolazioni Hamer e Banna e rappresenta praticamente il passaggio del saltatore dall’età adolescenziale a quella adulta, con tutto ciò che questo comporta, come il potersi sposare e avere una famiglia. Come detto è una cerimonia lunghissima, nella quale si assiste ad una moltitudine di balli e salti, il tutto arricchito da canti e grida. A partecipare a questi balli sono soprattutto le donne, che sembrano possedute da chissà quale spirito, in quanto saltano e ballano ininterrottamente per diverse ore. Ogni tanto viene dato loro da bere della birra locale o forse qualcosa d’altro e questa eccitazione infinita si spiega anche così. Le donne poi richiedono ad alcuni uomini, detti i “frustatori”, di essere appunto frustate sulla schiena (ma anche sulla pancia e sulle gambe) per dimostrare il loro coraggio e la loro devozione, forse anche per indurre il giovane saltatore a sceglierle come futura sposa. Queste frustate sono assolutamente reali, si sente benissimo lo schiocco della sottile verga in legno e soprattutto si vedono benissimo le numerose ferite sanguinanti, accanto a quelle precedenti già cicatrizzate, sulle schiene di queste giovani donne. E’ uno spettacolo cruento ma comunque tradizionale, inutile cercare di capire, qui funziona così e basta. Terminate le danze, vengono radunati i tori e incolonnati quindi verso il luogo dove si svolgerà la cerimonia del salto vero e proprio. Ad accompagnare gli animali si forma un lungo corteo, tra locali e turisti e vi è pure il giovane saltatore, completamente nudo.
Tutti, animali e persone, entrano all’interno di un recinto situato su una collinetta adiacente. C’è una confusione pazzesca e gli animali sembrano alquanto nervosi, molti hanno corna enormi ed è meglio non pensare a quel che succederebbe se dovessero caricare. Per quanto sarebbe meglio stare un poco più indietro, io mi piazzo bene davanti per poter riprendere ottimamente tutto quanto. Le bestie vengono radunate al centro ed il giovane saltatore con altre persone, anche donne, si mette proprio nel mezzo della mandria, per scegliere gli animali sui quali dovrà effettuare la sua camminata. Poi finalmente vengono allineati una decina di tori, che incredibilmente se ne stanno tranquilli uno accanto all’altro. Tutto è pronto. Il giovane è un po’ teso, sicuramente sente molto questo importante momento della sua vita. Comunque tra canti e grida di incoraggiamento, prende la rincorsa e parte deciso, iniziando così la sua “passeggiata” sulla schiena degli animali. Deve andare avanti e indietro per quattro volte, senza ovviamente scivolare e cadere, pena l’annullamento della prova. Fortunatamente riesce nella sua impresa e adesso può dire con orgoglio di essere entrato a far parte del mondo degli adulti. Viene complimentato da tutti e ora sul suo volto non c’è più traccia di tensione ma solo un sorriso di felicità e soddisfazione.
Bellete nel frattempo continua a non mostrare segni di preoccupazione e come faccia è un mistero grande quanto quello dell’Arca dell’Alleanza. Questo però ci infastidisce non poco. Anna è oramai preoccupatissima, io sono ancora un gradino sotto la soglia critica, ma il mio pensiero è rivolto non tanto a come raggiungeremo Turmi (con tutti questi turisti un passaggio lo troviamo di sicuro), bensì piuttosto a come, eventualmente, potremo proseguire il nostro viaggio. Certo, Bellete è stato lì con noi tutto il giorno, non ci ha lasciati soli, ma c’erano anche altri turisti e guide che parlavano l’italiano (ma anche se non lo parlavano sarebbe stato lo stesso) per cui forse avrebbe potuto lasciarci lì e cercare di fare o sapere qualche cosa ritornando a Dimeka. Ma onestamente pensiamo avrebbe potuto fare ben poco anche perché qui non c’è copertura telefonica, per cui non possiamo far altro che aspettare e sperare. Ciò che abbiamo visto è stato davvero molto interessante, siamo soddisfatti, ma ora i nostri pensieri sono rivolti totalmente verso qualcos’altro: la macchina. E così, a traghettarci per i restanti 30 chilometri fino alla piccolissima Turmi e quindi al Buska Lodge, l’hotel prenotato, è una coppia di turisti canadesi, molto cordiali e solidali per quanto ci è successo, mentre Bellete ci raggiungerà a bordo di un’altra vettura. Arrivederci a Turmi, allora. Giunti al Lodge, siamo informati che il giorno dopo avremo una macchina sostitutiva (evviva!) e che sarà in hotel alle ore 10 (a quanto pare la sfiga non è ancora finita!). Però questo vuole dire sicuramente addio ad una parte delle visite programmate. Noi siamo oramai innervositi oltre ogni limite: ma come, la macchina arriva da Jinka, a circa 80 chilometri da qui, d’accordo che la strada è tutta sterrata, ma se parte prima può benissimo arrivare da noi per le 8, come da programma. Bellete giura di non poter far nulla e pare sempre più tranquillo e così decido di prendere l’iniziativa: mi fiondo nella reception anche se è chiusa e pretendo che qualcuno mi chiami gli uffici dell’agenzia ad Addis Abeba. Mentre un timoroso addetto compone il numero, mi siedo nervosamente su uno sgabello, ma ecco che fa la sua comparsa il direttore dell’hotel che mi fa notare un poco stizzito che non posso sedermi li, in quanto si tratta di un tavolino e non di una sedia. E’ la goccia che fa traboccare il vaso, anzi lo manda proprio in pezzi. Mi alzo e gli spiego a muso duro che mi sono seduto li perché non sapevo proprio dove poter mettere i miei c……i, tanto erano pesanti per quello che stava succedendo. Il tutto ovviamente accompagnato da un bel “vaffa”. Ma come, la tua preoccupazione maggiore è per un tavolinetto da quattro soldi? E noi che non sappiano che cosa faremo nei prossimi giorni? Complimenti vivissimi. Nel frattempo l’addetto della reception si è messo in contatto con l’agenzia e così riesco a spiegare bene tutto quanto è successo, chiedendo ovviamente che l’auto arrivi prima di quanto ci è stato comunicato. Tuttavia mi sorprendo parecchio nel sentire che all’agenzia alcune cose non le sapevano e ne erano a conoscenza solo ora, grazie alla mia telefonata. Di bene in meglio. Il buon Davide, impiegato dell’agenzia, si è impegnato a fare il possibile per farci avere l’auto secondo l’orario originario, ossia per le 8. Ma con chi aveva parlato Bellete? Mah, un altro mistero. Meglio andare a cena e poi subito a riposare, per sopire il nervoso e i cattivi pensieri. D’altra parte oramai non possiamo far altro che sperare in bene. A cena l’atmosfera è assai tesa, noi arrabbiatissimi e Bellete che non sa più cosa dire e fare e che si sente anche i nostri decisi rimproveri. Ci fa pure pena, poverino, forse non si era mai trovato in una situazione del genere.
L’indomani mattina mentre ci rechiamo a colazione, ci viene incontro il direttore dell’hotel, tutto sorridente e radioso. Forse la notte ha portato consiglio…. Molto gentilmente ci saluta e ci informa che alle 3 del mattino è arrivata una macchina da Jinka con i nostri bagagli, che ci verranno immediatamente consegnati in modo da poterci cambiare (non avevano cambi infatti). Hurrà, visto che la sfuriata della sera precedente ha avuto effetto? E così dopo aver ritirato i bagagli ed esserci cambiati, partiamo subito per la prima visita, quella al villaggio di Kortcho, della tribù dei Karo. La macchina non è certo come quella precedente, scrolla tutta, ad ogni buca entra polvere da sotto, le gomme sono assai lisce e (lo scopriremo in seguito) i tergicristalli non funzionano, però c’è e per ora tiriamo un sospiro di sollievo. Si, certamente il viaggio sarà molto più scomodo, ma consoliamoci col fatto che almeno lo possiamo continuare. Per raggiungere il villaggio dobbiamo percorrere, tra andata e ritorno, circa 130 chilometri di strada sterrata in pessimo stato. Attraversiamo territori polverosi, con tantissimi termitai che svettano qua e là come tante ciminiere. Alcuni sono addirittura alti come gli alberi che gli stanno accanto.
Kortcho sorge in posizione rialzata e da qui si può godere di una superba vista sul fiume Omo, che scorre lento con le sue acque scure laggiù in basso, formando una ampia e suggestiva curva tra la vegetazione. Caratteristica di questa popolazione è la pratica della pittura corporea: infatti molti di loro sono quasi del tutto dipinti di bianco, altri hanno moltissimi puntini bianchi sul viso. Sono soliti inoltre portare un chiodo conficcato nel mento per adornarsi. Il villaggio non è molto grande ed ora non ci sono molte persone, forse sono al lavoro nei campi o chissà dove. Girovaghiamo un po’ in tutta tranquillità, sotto un sole fortissimo e possiamo osservare alcuni abitanti che si stanno dipingendo reciprocamente. Scattiamo diverse fotografie, sempre a pagamento, ma qui non c’è assolutamente la frenesia riscontrata dai Mursi, qui nessuno ti chiede la benché minima cosa, si fanno vedere con i loro costumi tradizionali ma non ti “invitano” a fotografarli.
Terminata la nostra visita riprendiamo la strada del ritorno verso Turmi, dove consumiamo un veloce pasto prima di riprendere la nostra marcia verso Omorate, che si trova esattamente dalla parte opposta rispetto a Kortcho: toccheremo quindi il punto più meridionale del nostro viaggio, ad una manciata di chilometri dal confine con il Kenya. Per raggiungere questa polverosa e isolata località, dove visiteremo un villaggio della tribù dei Dassanech, ci aspettano, tra andata e ritorno ben 150 chilometri di strada sterrata, praticamente tutta diritta e per fortuna in buono stato. Durante tutto il percorso incontriamo soltanto 1 camion, 1 jeep e alcuni pastori con il loro gregge di capre. E la domanda sorge spontanea: ma se la macchina si fosse rotta qui, cosa avremmo potuto fare? Meglio non pensarci! Ma il nostro catorcio regge bene, per cui si va avanti con fiducia anche se le nostre ossa reclamano non poco. Poiché Omorate si trova come detto vicinissima al confine kenyano, prima di andare al villaggio, dobbiamo registrarci al locale posto di polizia, dove si compilano alcuni moduli e vengono trattenuti i passaporti, che passeremo a ritirare a visita ultimata.
Il villaggio dei Dassanech si trova sull’altra sponda del fiume Omo, che attraversiamo a bordo di una tipica imbarcazione locale, scavata all’interno di un unico tronco d’albero. Guardandola bene non è neppure del tutto diritta, ma tiene molto bene la corrente del fiume ed in pochi minuti siamo dall’altra parte. Anche qui solita scena, con gli abitanti che si mettono in mostra con i loro abiti tradizionali per le foto di rito, ma ancora una volta l’atmosfera è del tutto tranquilla e rilassata, nessuna richiesta di nessun genere. Se vuoi fai la foto e paghi, in caso contrario va bene lo stesso. Anche questo villaggio è piccolino, perciò la visita non si protrae a lungo, solo una mezz’oretta. Quindi riattraversiamo il fiume, ritiriamo i passaporti e via verso Turmi. La giornata è stata lunga ed intensa, tra polvere e scossoni vari, ma siamo contenti per ciò che abbiamo potuto vedere. Inoltre oramai la rabbia è sbollita, per cui pensiamo con serenità al giorno successivo, quando praticamente incominceremo la lenta risalita verso nord.
La prima visita in programma per oggi e quella al villaggio di Arbore, della omonima tribù. Il villaggio è composto da grandi capanne circolari e la gente che ci accoglie qui è un po’ insistente, desiderosa di farsi fotografare per incassare qualche birr. Ci sono molte giovani donne che indossano grandi collane di perline colorate e diversi vistosi braccialetti. Anche in questo villaggio non ci si ferma molto, dopo qualche foto e quattro passi tra le capanne, riprendiamo il nostro percorso che ci porterà a visitare il villaggio del re dei Konso. Si tratta di un piccolo villaggio, solo una decina di grandi capanne con un bellissimo doppio tetto di paglia, praticamente un cono più piccolo su uno più grande. Sono davvero belle e certamente molto robuste ed il fatto di essere costruite in maniera molto ravvicinata dona a questo piccolo villaggio un aspetto ancora più incantevole. Queste grandi costruzioni sono circondate da un recinto protettivo, una robustissima palizzata in legno con tanto di porta di accesso principale. Il villaggio è praticamente deserto, incontriamo solo due bambini e una giovane donna intenta a passare al setaccio i chicchi di mais. Facciamo conoscenza con il re, che per l’occasione si fa fotografare indossando una tunica antica e tradizionale, anche se, al di sotto di essa si possono intravvedere i jeans e le scarpe da ginnastica!
Prima di riprendere il viaggio verso Yabello, distante ancora più di 50 chilometri, facciamo una sosta al mercato di Konso. Giriamo da soli, senza alcun problema, in quanto per guadagnare tempo Bellete e l’autista sono andati a fare rifornimento alla macchina. Siamo gli unici due turisti a passeggiare tra i numerosi venditori, fotografare è possibile ma senza puntare nessuno, altrimenti potrebbero esserci spiacevoli discussioni. Si tratta di un mercato prevalentemente alimentare, soprattutto vengono venduti cereali e verdure di vario tipo. Tutte le numerose donne presenti indossano le loro bellissime gonne a balze, dai colori sgargianti, tipiche dei Konso, che creano dei fantastici arcobaleni di colore in mezzo a tutta quella confusione. E’ bello immergersi così nella realtà locale, assistere alle contrattazioni, vagabondare senza meta tra i tanti venditori presenti. Ma bisogna proseguire per completare la tappa odierna, per raggiungere Yabello la strada è ancora lunga. Bellete poi vuole sempre arrivare a destinazione con ancora la luce del giorno e di questo gli va dato merito, soprattutto perché in caso di necessità, di notte in questi luoghi isolati, non si saprebbe davvero a chi chiedere.
Yabello è una piccola città con una forte anima musulmana. Prima di andare in hotel facciamo quattro passi per le sue vie, giusto il tempo per acquistare alcune stoffe colorate. Incontriamo anche diverse donne che indossano i variopinti abiti tradizionali: sono bellissime vestite così, ma di farsi fotografare non se ne parla neppure. Peccato. Qui a Yabello alloggiamo al Motel Yabello, che offre camere belle e confortevoli e inoltre un buon ristorante. Stasera si va a letto presto, perché l’indomani la partenza è fissata per le 6,00 con destinazione il cratere vulcanico di El Sod, nel cui interno vi è un piccolo lago con acque nerissime dalle quali si estrae, strano ma vero, il sale!
El Sod, noto anche come la Casa del Sale, è un piccolo paese a fortissima presenza musulmana ed è impossibile fotografare le persone, se non di nascosto, cosa comunque da evitare se non si è più che certi di non essere visti, altrimenti le discussioni e gli insulti sono garantiti. Peccato, perché le donne che incontriamo indossano tutte dei bellissimi abiti colorati, con il capo però rigorosamente coperto. Comunque qualche foto rubacchiata riesco a farla lo stesso….. Giungiamo sul bordo del cratere che è molto presto e siamo i primi turisti ad arrivare. Fa fresco e c’è anche una nebbiolina curiosa che aleggia sul cratere stesso, che dona un tocco di magia al panorama che si apre davanti ai nostri occhi. Da quassù si ha una vista davvero bellissima sul lago presente sul fondo, circondato dalla foresta e talmente nero da sembrare una gigantesca macchia di petrolio. Il sentiero che percorriamo per giungere al lago è per la maggior parte in buono stato, tranne alcuni punti più stretti e ripidi nei quali bisogna procedere un poco più lentamente. Ogni tanto incontriamo persone di ritorno con i loro muli che trasportano pesanti sacchetti di sale, estratto nei giorni precedenti. Per arrivare in fondo impieghiamo 45 minuti e già si sente il caldo aumentare. Abbiamo fatto bene ad arrivare così presto, di sicuro al ritorno la temperatura sarà diversa. Facciamo il giro del lago e possiamo notare molti sacchetti di sale pronti per essere trasportati al villaggio. Per pochi birr ci è possibile assistere a come viene effettuata l’estrazione, con la sola forza delle braccia. Un uomo, in costume, entra nel bacino e si ferma quando l’acqua gli arriva quasi al petto, poi con l’aiuto di un grosso bastone stacca dei pezzi di materiale dal fondo e una volta fatto ciò si china e lo raccoglie. Quello che porta a riva è un ammasso fangoso, una poltiglia scura che una volta essiccata al sole darà origine al prezioso sale nero. Una volta terminata l’estrazione i raccoglitori si lavano in una pozza di acqua dolce situata nelle vicinanze, per non essere bruciati dalla grande quantità di sale presente sulla loro pelle. Si tratta di un lavoro davvero massacrante. Per risalire impieghiamo un’oretta, fa molto caldo e bisogna procedere più lentamente e durante il percorso incontriamo anche alcuni piccoli gruppi di turisti, oltre a molti raccoglitori con tantissimi muli che stanno scendendo per andare a prendere i sacchi pronti . Giunti in cima ci fermiamo a bere un fresca bibita in un piccolo locale, dove possiamo anche gustare una focaccina di mais davvero ottima, della quale chiediamo il bis.
Sulla strada del ritorno facciamo una visita al villaggio di Dublock e ai suoi famosissimi “pozzi cantanti” della tribù dei Borana. Si tatta appunto di grandi pozzi scavati nel terreno dove i Borana, portano le loro numerose mandrie ad abbeverarsi. Poiché nella stagione secca l’acqua è presente molto in profondità, questi pastori ed allevatori formano delle lunghe catene umane, passandosi i secchi colmi d’acqua gli uni con gli altri, che poi versano negli appositi abbeveratoi per i propri animali. Questo lavoro massacrante viene effettuato cantando continuamente , come per darsi forza e coraggio e da qui deriva appunto il nome di “pozzi cantanti”. Ora però i pozzi non cantano. Sono colmi di acqua e possiamo solo vedere lunghe fila di bovini che, a gruppetti di quattro o cinque, vengono condotti al limite del pozzo per potersi dissetare.
Dopo il pranzo che consumiamo a Yabello, il nostro viaggio continua con destinazione Yirgalem dove trascorreremo l’ultima notte etiope. La macchina-catorcio tiene bene, anche se i tanti chilometri percorsi con questo mezzo si fanno sentire non poco. E dovremo farne ancora 300 di chilometri prima del cambio di auto, che avverrà, come comunicatoci, proprio a Yirgalem e quindi è oramai certo che avremo un mezzo adeguato solo per l’ultimo giorno. Vabbè, pazienza. La strada che percorriamo è asfaltata ed in buono stato, attraversiamo bellissimi villaggi che spuntano tra la lussureggiante vegetazione. Il caldo torrido della bassa Valle dell’Omo è oramai soltanto un ricordo, il clima è decisamente più fresco, piacevolissimo. Verdissimi prati, con tanti bovini che pascolano tranquillamente, rendono questo paesaggio davvero bellissimo, quasi più….svizzero che africano! Ogni tanto scrosci di pioggia si alternano ai raggi del sole e fanno la loro comparsa anche due splendidi arcobaleni, che sembrano uscire magicamente dal un lato di una montagna per poi sparire nella montagna di fronte. Ma i problemi purtroppo non sono ancora finiti. Ad un cinquantina di chilometri dall’agognata meta, quando oramai si è già fatto buio, siamo sorpresi da un violentissimo e duraturo temporale che rallenta non poco la nostra marcia, anche perché i tergicristalli non funzionano (sgradita ed inaspettata sorpresa) e l’autista deve guidare tenendo spesso la testa fuori dal finestrino! Ed in più la strada è stretta, buia e percorsa da un numero incredibile di persone a piedi che non si capisce proprio dove stiano andando visto il tempo che c’è. Il nostro nervosismo cresce chilometro dopo chilometro, il rischio di mettere sotto qualcuno, di finire fuori strada o in qualche dirupo è davvero reale. Passi per i buchi nella carrozzeria e per gli ammortizzatori per così dire un po’ sgangherati, ma i tergicristalli proprio no, quelli almeno dovevano essere funzionanti! Bellete è silenzioso, proprio tranquillo non è, non sa più che dire . Non mi posso più trattenere dal rimproverarlo duramente per come stanno andando le cose e soprattutto per come sono state gestite. Comunque giungiamo tutti interi a destinazione, nel bellissimo Aregash Lodge. Sono oramai le 20 e siamo adiratissimi, io in particolare e così prima di andare nella camera assegnataci, chiamiamo l’agenzia e mettiamo al corrente il buon Davide (sempre lui, poveretto…) di quanto accaduto in giornata (ma soprattutto di quello che sarebbe potuto accadere…), concordando quindi un incontro una volta giunti ad Addis, per avere spiegazioni su alcune cose che non ci sono molto chiare e che, pensiamo, siano state riportate in maniera non proprio esatta. Per oggi basta così, adesso a cena e poi a subito a nanna, per sbollire la rabbia con un sonno ristoratore.
E’ una bella giornata di sole quella che ci regala l’Etiopia per il nostro ultimo giorno di tour. E a renderla ancora più bella, ecco parcheggiata davanti all’ingresso del lodge la nostra nuova auto. Finalmente! Oggi ci attende l’ultima visita , quella al mercato del pesce di Awasa.
Awasa , distante da qui circa 30 chilometri, è una cittadina piuttosto grande, sorge sulle sponde dell’omonimo lago ed è bella e pulita. Il mercato del pesce si tiene proprio sulla riva del lago. Molti pescatori stanno scaricando il pesce appena pescato, altri stanno sistemando le reti, diverse piccole barche stanno avvicinandosi a riva con il loro carico. I pesci più comuni sono la tilapia, la carpa ed il pesce gatto. Tra i pescatori, sulla riva, si aggirano molti marabù e pellicani che, sornioni, aspettano il momento giusto per potersi appropriare di qualche bel pesciolino senza dover fare molta fatica. Vi sono poi alcune bancarelle che vendono delle invitanti fritture ed altre che offrono piccole focaccine di mais, che proviamo e troviamo davvero molto buone. Nei pressi, all’interno di un grande capannone, si tiene il mercato vero e proprio, dove i venditori espongono i loro prodotti e dove fervono le contrattazioni, con molta gente che si accalca sulle postazioni di vendita cercando di accaparrarsi i pezzi migliori.
Girovaghiamo un po’ su e giù per il mercatino, osservando tranquillamente lo svolgersi delle varie attività, ma il tempo è tiranno e si è già fatta l’ora di riprendere il nostro cammino verso Addis, per raggiungere la quale ci sono ancora da percorrere circa 270 chilometri. La giornata è splendida, un caldo sole ci accompagna e la strada è in ottimo stato. C’è soltanto parecchio traffico. Fila tutto liscio fino a quando due mucche (si, proprio così, due mucche!) non decidono di attraversare improvvisamente la strada. Per evitarle il nostro autista rallenta con decisione quasi fino a fermarsi ma l’auto dietro di noi non fa altrettanto e allora…..bumm, eccoci tamponati e a finire lentamente fuori dalla carreggiata! Ci mancava pure questa! Ma nella sfortuna possiamo ben dire che ci è andata bene. Ci sono infatti anche molti grossi camion in transito e se fossimo stati colpiti da uno di questi bestioni le conseguenze sarebbero state ben diverse. Inoltre nel punto in cui siamo finiti fuori strada, questa declina in basso dolcemente e non ci sono fossati o dirupi. La nostra auto ha soltanto qualche ammaccatura, l’altra sul davanti è praticamente accartocciata su se stessa. Comunque, cosa più importante, nessuno di noi quattro e degli occupanti l’altra vettura si è fatto male. Arriva prontamente la polizia che fa tutti i rilievi del caso, controlla i documenti e tutto quanto c’è da verificare e quindi dopo circa un’oretta possiamo ripartire. Siamo oramai a soli 40 chilometri da Addis, speriamo non accada altro. Giunti nella capitale ci rechiamo subito al mercato centrale per completare gli acquisti. Alcuni venditori si ricordano di noi, proprio vero che i buoni clienti non si scordano tanto facilmente! Quindi raggiungiamo gli uffici dell’agenzia dove ad attenderci troviamo il buon Davide, con il quale parliamo del nostro viaggio, delle nostre impressioni e commenti e soprattutto chiariamo il fattaccio auto-rotta e auto-rotta..me. Noi raccontiamo le nostre verità, Davide le sue e al termine della conversazione ci viene anche corrisposto un buon rimborso a compensazione dei disguidi subiti negli ultimi quattro giorni. Ora è finita per davvero, ci rechiamo nell’ hotel dove abbiamo prenotato una camera fino alle 21,30 (il volo partirà infatti dopo mezzanotte) e dove consumiamo l’ultima cena etiope con il nostro Bellete. Dopodichè via verso l’aeroporto, dove però possono entrare solo i possessori di un biglietto aereo, per cui con Bellete ci salutiamo all’esterno: abbracci e pacche sulle spalle, qualche luccicone agli occhi di tutti e tre e la promessa di scriverci e di rimanere in contatto, così si chiude la nostra avventura in Etiopia.
Parlando un po’ di questo straordinario Paese, va detto che lo abbiamo trovato migliore delle aspettative, più pulito di molti altri stati africani visitati e la popolazione non ci è parsa bisognosa di cibo, in quanto le grandi mandrie di bovini viste un po’ dappertutto, i grandi laghi ricchi di pesce, le vaste aree coltivate, garantiscono a questa gente il fabbisogno necessario. Anche nelle zone più remote, ad esempio, non abbiamo mai visto bimbi malnutriti e questo ci ha rallegrato davvero tanto. Piuttosto, secondo noi, c’è necessità di potenziare le strutture scolastiche per garantire un buon livello di istruzione ma soprattutto si avverte il bisogno di migliorare e modernizzare le strutture sanitarie esistenti e il bisogno di costruirne di nuove, più distribuite sul territorio e quindi maggiormente accessibili. Se pensiamo infatti al bimbo visto in un villaggio, con un orecchio devastato ed infetto e pieno di mosche, per il quale nessuno sapeva cosa fare lasciandolo così al proprio destino, ci vengono ancora adesso i brividi. Nel 2010, nel tempo di internet, delle missioni spaziali e dei satelliti che vedono anche quando vai in bagno, questo è decisamente assurdo ed inaccettabile. E pensare che per la restituzione (dovuta, per carità) dell’obelisco a suo tempo sottratto e ora svettante nuovamente ad Axum il nostro governo ha speso alcuni milioni di euro. Ma quanti bambini si sarebbero potuti curare con tutti quei soldi, quanti medicinali si sarebbero potuti acquistare, quante vite si sarebbero potute salvare? Tantissimi bimbi, tantissimi medicinali, tantissime vite.
Prima della nostra partenza amici e conoscenti si mostravano preoccupati sulla possibile pericolosità del Paese, ma noi non abbiamo mai avvertito la benché minima sensazione di pericolo, anche quando abbiamo girato da soli. Anzi, le persone incontrate si sono sempre dimostrate gentili e nessuno, dico nessuno, ci ha mai infastidito. Durante il tour, in particolare nella parte meridionale del Paese, abbiamo visto molta gente armata, anche ragazzini, molti pastori invece del bastone portavano in bella mostra un potente kalashnikov. Questo probabilmente perché i rapporti tra le varie tribù non sono proprio idilliaci, di animali feroci, a parte qualche iena, infatti non ve ne sono.
Abbiamo notato molta differenza tra la gente del nord e quella del sud. Al nord i sorrisi ricevuti ci sono sembrati più genuini e sinceri, le persone sono meno attaccate al denaro. Certo, cercano di venderti qualcosa, è normale, ma non sono insistenti in alcuna maniera. A Lalibela, ad esempio, le bambine che tenendoci per mano ci hanno accompagnato fino all’hotel, erano davvero felici di farlo, non ci hanno chiesto nulla, né proposto l’acquisto di chissà cosa. Anzi, alla fine ci hanno pure donato le loro collanine! Erano semplicemente felici di stare con noi, lo si capiva guardando i loro occhioni scuri e dalle manine che si stringevano sempre più alle nostre, come per paura di perderci. Al sud invece il rapporto è quasi esclusivamente commerciale. Arrivi in un villaggio e tutti ti corrono incontro, ma per cercare di convincerti a scegliere uno piuttosto di un altro per fare la foto che poi dovrai pagare. Anche i sorrisi e le strette di mano sembrano più rivolte a questo che ad altro, anche perché dopo aver pagato, ognuno se ne va per i fatti suoi. Certo, non tutti sono così, ma per la maggior parte dei casi funziona in questo modo. Queste popolazioni, che vivono in ambienti difficili ed in un modo quasi “primitivo”, sanno benissimo che i turisti hanno voglia di cose “strane” ed esotiche e tutte queste cose ovviamente se le fanno pagare. Insomma, è un po’ il loro nuovo lavoro. Del resto, dove puoi trovare persone con un grande disco di argilla inserito nel labbro come i Mursi oppure con un chiodo di ferro conficcato in bella mostra nel mento come i Karo?
E’ stato un viaggio un po’ faticoso, anche per via dei lunghi trasferimenti, spesso su strade sterrate, un viaggio che in alcune situazioni ha richiesto un certo spirito di adattamento, ma che siamo ben felici di aver fatto per tutto ciò che abbiamo potuto vedere e per le emozioni che abbiamo provato. Alcuni hotel dove abbiamo pernottato erano davvero bellissimi e lussuosi, altri decisamente più semplici e non molto ben tenuti, soprattutto i servizi igienici. Nelle sistemazioni più semplici, la nostra guida e a volte anche l’autista, verificavano sempre la camera e il bagno prima di prenderne possesso e se qualcosa non andava bene veniva chiesto il cambio. Siamo soddisfatti per l’organizzazione e la disponibilità del tour operator Lake Tana, anche se pensiamo che forse sarebbe meglio avessero una o due macchine di scorta pronte a partire in caso di imprevisti, per altro sempre possibili in un Paese così. Questo per garantire una maggior sicurezza a tutti i loro clienti. Ad esempio, come e quando saremmo tornati ad Addis (senza contare le visite eventualmente perse) dal profondo sud se non ci fosse stata l’auto-catorcio? Gli autisti che ci hanno accompagnato sono sempre stati anch’essi molto gentili e disponibili e per finire due parole sulla nostra guida, Bellete: si tratta di una bravissima persona, educato e sempre pronto a soddisfare le varie esigenze in ogni momento e ci spiace davvero tanto aver alzato la voce con lui, ma in quei particolari momenti al sud ci è sembrato un po’ spaesato, incapace di prendere iniziative velocemente e un po’ troppo superficiale nell’affrontare i problemi, probabilmente perché non si è mai trovato in una situazione del genere. Siamo sicuri che ciò gli servirà da lezione e che in futuro (speriamo comunque non ne abbia bisogno) agirà diversamente. Ma, ripetiamo, è una persona squisita ed è stato piacevole fare questo viaggio con lui.
Questa è stata la nostra Etiopia, un Paese meraviglioso dove storia ,natura e popoli incredibili si mescolano dando vita ad un cocktail di emozioni uniche ed indimenticabili. E’ stata l’Etiopia dei grandi monasteri, delle incredibili chiese di Lalibela, dei suoi inquietanti misteri, delle polverose strade sterrate, dei panorami su spazi infiniti, l’Etiopia dei coloratissimi mercati, dei grandi coccodrilli e delle tante tribù che abbiamo potuto incontrare, ognuna con le sue usanze e le sue tradizioni. Ma è stata soprattutto l’Etiopia di tante piccole mani, di tanti sguardi curiosi, di tanti occhioni scuri, di tanti sorrisi e di tanti saluti, ed è senz’altro questa la cartolina più bella che abbiamo messo in valigia , una cartolina che non potremo mai spedire ma che porteremo per sempre nel nostro cuore.