Due Viandanti in India sulla Via delle Samosa di Parte 1 – Kerala e Tamil Nadu

L'India, terra a forma di triangolo tra l'Arabia e l'Indocina. Fin da bambino, l’associavo al Libro della Giungla di Rudyard Kipling e poi ad indiana Jones...
Scritto da: Franz_Zena
due viandanti in india sulla via delle samosa di parte 1 – kerala e tamil nadu
Partenza il: 01/11/2012
Ritorno il: 23/11/2012
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
Mettere il principio all’inizio

Indice dei contenuti

E’ giugno, caldo soffocante in una Genova che ha già messo il primo piede nell’estate. Io e Lula eravamo sdraiati in spiaggia in un sabato come tanti, con una certezza in testa: in autunno saremmo andati in India. Avevamo già fatto un po’ di esperienza in viaggi precedenti e ci rendevamo conto che, avendo i tempi stretti da ferie da impiegati standard, avremmo dovuto organizzare un sacco di cose. E sembrava tutto tranne che facile, anche perché in ogni momento scoprivamo nuove mete che avremmo voluto visitare.

Noi abbiamo la convinzione che solo viaggiando da soli si possa tastare il polso di un paese. Quindi, nessun tour organizzato, avremmo predisposto tutto noi dall’Italia: abbiamo acquistato i biglietti aerei, prenotato qualche albergo, studiato due Lonely Planet e consultato un numero molto vicino all’infinito tra siti e diari di viaggio. Tra i siti che consigliamo ci sono:

Www.turistipercaso.it – www.tripadvisor.com – www.booking.com – www.hotels.com – www.lastminute.com

Ecco, eravamo pronti per l’India! … No, nessuno può essere pronto per l’India, ma noi ci eravamo illusi…

Giorno 1 – Kochi – Clacson ergo sum

Siamo partiti il giorno 1 Novembre da Milano Malpensa e dopo aver fatto scalo a Doha siamo atterrarti a Kochi, in India, la mattina del 2 Novembre e subito siamo stati proiettati nel caos indiano. Lula era già vaccinata all’impatto con l’India, io no. Dopo aver acquistato una SIM locale precaricata di 500 Rupie, abbiamo preso un taxi e ci siamo fatti portare a Fort Kochi. Il traffico era un insieme di veicoli in movimento come particelle di un’entropia mai vista (forse solo la mummia che mi insegnava fisica all’università ci avrebbe capito qualcosa). Ognuno suonava incessantemente il clacson mentre si viaggiava nell’anarchia stradale più completa: la linea di mezzeria è solo una decorazione sull’asfalto, dei rari semafori nessuno ne conosce l’utilità. Ero inchiodato sul sedile posteriore del Taxi guardando auto, camion variopinti e motorini con una, due, tre o anche più di quattro persone sulla sella che sfrecciavano spesso sfrontatamente contromano, immersi in una incredibile cacofonia di clacson. Se ci fosse stato Cartesio in India avrebbe esclamato “Clacson Ergo Sum”… gli indiani e la loro simbiosi coi loro clacson!

In Thailandia gli autisti mettono ghirlande appese allo specchietto come monili, in Italia trovi santini che auspicano una benedizione, il nostro autista aveva un grappolo d’uva di plastica che pendeva dallo specchietto… Che sia stato un adepto del culto di Bacco?

Dopo circa un’ora siamo arrivati a Fort Kochi dove siamo stati scaricati davanti al nostro hotel, il Tag und Nacht: per chi fosse interessato ci tengo a dire che è stata una piacevole scoperta, l’albergo è piuttosto vicino all’area turistica di Fort Kochi ma anche in posizione tranquilla, la camera era pulita ed il personale molto cordiale: Antonio, un indiano sposato ad una Tedesca, ci ha accolti con un bel sorriso e dopo il check-in ci ha mostrato alcuni opuscoli dove offriva day-trips, e vedendo che i prezzi erano buoni, abbiamo prenotato per la sera stessa lo spettacolo di Kathakali ed una day-trip per il giorno successivo nelle Backwaters del Kerala. Dopo aver disfatto gli zaini siamo partiti all’esplorazione di Kochi. Usciti dall’albergo siamo stati investiti dal tepore del sole tropicale; dopo le prime giornate di freddo alle nostre latitudini, la sensazione di quei raggi di sole sulla nostra pelle sembrava come una benedizione e ci infondevano nuova vitalità. Per raggiungere Fort Kochi abbiamo seguito la strada verso nord, passando sotto alberi enormi dalle cui fronde pendevano liane tagliate con la maestria di un barbiere pazzo.

La prima tappa è stata la spiaggia di Kochi (Fort Cochin Beach), anche se “spiaggia” è un mezzo abuso del termine: è una piccola distesa di sabbia marroncina e sporca che si lancia in un mare di alghe così fitte da farlo sembrare un prato. Ci hanno detto che sia stata colpa del monsone, ma dalle foto su internet quelle alghe sembrano, più o meno, sempre presenti.

Siamo arrivati sulla battigia dove la sabbia era umida e fresca ed un leggero vento marino accarrezzava i nostri visi. Ai nostri lati alcuni indiani vestiti di tutto punto stavano seduti a piccoli gruppi, circondati da cartacce e quant’altro guardando il mare, come in attesa di un tramonto che sarebbe arrivato solo molto più tardi, quando il cielo sarebbe imbrunito in concomitanza dell’innalzarsi della marea nascondendo la raffineria (Petronet LNG Limited) che sorgeva sull’altro lato dello specchio d’acqua. Abbiamo consultato la mappa sulla guida ed abbiamo visto che vicino a noi c’erano due punti di interesse, il primo era il piccolo Cimitero Olandese, e poco più a nord ci sarebbero state le famose Reti da Pesca Cinesi.

Il Cimitero Olandese sorge proprio alle spalle della spiaggia, ci siamo avvicinati al cancello arrugginito ed abbiamo sbirciato tra le sbarre di ferro; antiche sepolture segnate dal tempo sorgevano tra alte erbacce, abbandonate e poi dimenticate. Forse non era il caso di disturbare il guardiano che aveva di sicuro cose più importanti ed impellenti da fare anziché venire ad aprirci il cancello. La scusa reggeva, ed allora, abbiamo fatto a ritroso la strada da cui eravamo arrivati. Da qui siamo tornati alla spiaggia ed abbiamo proseguito sul lungomare.

A nord della spiaggia c’è una piacevole passeggiata lungo una scogliera artificiale fatta di macigni. Lungo la passeggiata si possono trovare alcune bancarelle che vendono gelati, mentre a intervalli regolari si incontrano molti cestini per rifiuti dalla forma di simpatici animali dalla bocca aperta. Tuttavia, i cestini non sembrano attirare l’attenzione degli indiani che preferiscono abbandonare i propri rifiuti lungo tutta la passeggiata e tra gli scogli.

Arrivati in fondo alla passeggiata abbiamo raggiunto quella che dovrebbe essere un’altra delle migliori attrazioni di Kochi: le famose “Reti da Pesca Cinesi”. Forse le nostre aspettative erano troppo alte, ma le mie memorie di reti a bilancia nel delta del nostro Po, in tramonti romagnoli di tanti anni fa, si rinvigorivano di rinnovata meraviglia in confronto alla delusione di quanto avevo davanti. Io in genere sono esterofilo, ma questa volta non riuscivo ad accettare che ciò che avevo davanti potesse essere un’attrazione. Esse apparivano semplicemente come strutture traballanti di legno che affioravano da una distesa di alghe e tanti rifiuti. Tra le reti c’erano molti pescatori intenti in lavori di riparazione delle proprie reti e delle barche, il tutto fatto con strumenti rudimentali usati con una maestria di altri tempi.

Poi abbiamo proseguito verso nord, verso la cima di Fort Kochi. Lungo la strada siamo passati davanti numerose bancarelle che vendevano pesce; diversi uomini e ragazzi ci esortavano a comprare quei pesci, neri di mosche, per farceli cucinare dai ristoranti di fronte, continuavo a chiedermi quale fosse la provenienza di quel pescato.

Poco distante abbiamo raggiunto Princess Street, area con moltissimi negozi per turisti e tanti ristoranti, diversi dei quali vegetariani.

Inizialmente la nostra idea era quella di proseguire lungo la strada costiera fino ad arrivare al Palazzo Olandese ed il Quartiere Ebraico. Tuttavia, lungo la strada la mia attenzione è stata catturata dall’insegna di uno studio di medicina Ayurvedica, così, abbiamo deciso di entrare .Qui abbiamo conosciuto il Dott. K. J. Krishnakumar il quale ci ha accolti con un bellissimo sorriso nel suo studio costituito da una sala d’aspetto pulita e sguarnita, separata da un siparietto dal suo angolo che funzionava da studio, dove invece, in contrapposizione, regnava un caos fatto di libri e strumenti medici impolverati.

Mentre il dottore ci ha proposto il suo listino di prezzi ha trovato il tempo per scrivere una ricetta per farmaci ayurvedici ad un signore che si è presentato nello studio. Allora era uno studio medico vero! Cosi’ abbiamo contrattato per farci fare due massaggi ayurvedici completi e due Shirodara. Subito è partito a farci una scheda medica con anamnesi e misurazione della pressione. La prima a sottoporsi al massaggio è stata Lula. Lo Shirodara lo faceva solo il dottore, mentre il massaggio al corpo alle pazienti lo avrebbe fatto la sua aiutante, che poi si è rivelata essere sua moglie. Poi è toccato a me: sia il massaggio Shirodara con l’olio caldo sulla testa che il massaggio Ayurvedico con olio profumato sono stati fantastici, forse i migliori che ho mai provato. Dopo il massaggio sono stato portato in un bagno dove il dottore stesso mi ha lavato con un sapone scrub alle erbe che sembrava carta vetrata e uno shampoo ayurvedico che però non sgrassava. L’acqua era fredda, ma non era un problema col caldo di Kochi. Una volta usciti sia io che Lula eravamo concordi che il massaggio era stato fantastico ed ora ci sentivamo ricaricati dopo tutto il viaggio che avevamo fatto per arrivare in India. Questa meraviglia di massaggio ci era costata un po’ meno di 20 Euro a testa, per un massaggio di circa 2 ore ognuno.

Nel buio di Kochi, perchè nel frattempo il sole era già tramontato, siamo corsi al Kathakali Centre, il quale si trovava vicino alla Basilica di Santa Cruz. Noi avevamo appuntamento per le ore 17.00. Lo spettacolo inizia per le ore 18.00, ma già un’ora prima si può assistere alla cerimonia del trucco durante la quale un presentatore introduce agli spettatori alcune nozioni sul Kathakali come il significato dei colori, delle espressioni e dei gesti. Il Kathakali è molto complesso e quello che viene offerto ai turisti è solo un estratto semplificato e breve; infatti alcune rappresentazioni per appassionati possono durare anche una notte intera.

Lo spettacolo rappresentava una vicenda raccontata nel poema epico Mahabharata dove l’eroe Aryuna affronta senza saperlo il Dio Shiva. Sia la fase del trucco che la rappresentazione sono stati davvero interessanti e ci siamo divertiti molto ad assistere a questo primo assaggio della cultura indiana.

Dopo lo spettacolo siamo andati in un ristorante per una cena a base di pesce consci che per il resto del viaggio sarebbe stato difficile trovarne altro. Lungo la strada di ritorno all’albergo siamo incappati nel nostro primo black-out del viaggio: sono stati un appuntamento di ogni sera e siamo stati contenti di esserci portati due torce. Gli altri strumenti fondamentali per il viaggio sono stati i nostri sacchi lenzuolo, ma l’avremmo scoperto qualche giorno dopo.

Giorno 2 – Kerala Backwaters – Crociera romantica nella quiete lagunare al sapore di spezie.

Il secondo giorno è iniziato alle 7.00 del mattino. La nostra sveglia ha suonato che noi eravamo già svegli da un po’. In India il sole sorge molto presto e con lui gli indiani iniziano subito col loro caos. I vicini hanno deciso di svegliare il quartiere alzando il volume della radio a palla, più in lontananza c’era il rumore di tamburi proveniente da qualche tempio e immancabili i clacson dalla strada.

In una sorta di giardino-veranda con due tavolini ci è stata servita la colazione dalla moglie di Antonio con le cornacchie e gli scoiattoli come spettatori sugli enormi alberi davanti all’albergo.

In perfetto orario è arrivato il pick-up che avevamo prenotato il giorno prima, con il quale siamo partiti alla volta delle backwaters assieme ad una decina di turisti tedeschi.

Quando siamo arrivati ai primi “docks” che in realtà erano un tratto di argine di un fiume segnato da due pali, siamo stati divisi in due piccoli gruppi e siamo stati caricati su due lunghe barche a fondo piatto. Con noi c’erano due rematori che usando lunghi pali ci hanno traghettato prima lungo il grande fiume che si apriva davanti a noi, e poi in una rete di piccoli canali dove regnava la tranquillità.

Nel primo tratto gli argini erano costellati da fiori di loto ed alberi che affondavano le proprie fronde nell’acqua. La corrente conferiva ai rami un moto ondeggiante, che infondeva calma, come un mantra silenzioso. Ogni tanto, a tratti, emergeva tra la vegetazione il profilo di qualche bassa abitazione e persone intente a lavarsi o a fare il bucato.

D’un tratto i barcaioli hanno virato la barca e dopo aver attraversato il grande fiume, siamo entrati in uno stretto canale. Dal sole cocente siamo passati in un’area di ombra ed alberi che soffocavano quasi completamente il rumore delle strade vicine. Siamo stati traghettati in un’area dove producevano la fibra di cocco e in un’altra dove venivano coltivate spezie: le piante del pepe, il basilico indiano, l’albero della noce moscata il cui seme è coperto da una scorza rossa brillante, l’albero della cannella ed altre tipologie. Lasciata l’area delle spezie abbiamo continuato il nostro tour dei canali avanzando lentamente in uno scenario di assoluta quiete tra bellissimi esemplari di Martin Pescatore coi loro piumaggi blu.

Quando era ormai quasi mezzo giorno abbiamo invertito la rotta e siamo tornati al pullmino che, dopo una breve corsa, ci ha portati in uno specchio d’acqua più grande dove ci aspettava una grossa barca: una sorta di House Boat che ci ha condotto su un’isoletta per pranzare. Una capanna era stata allestita con tavolate dove ci hanno fatto accomodare e ci hanno portato delle foglie di banana da usare come piatto, sulle quali una fila di camerieri ha versato il riso e tutti quegli alimenti che compongono il Thali. Molti mangiavano con le mani e anch’io mi sono adattato. Dopo il pranzo abbiamo avuto una mezz’ora di libertà nella quale ne abbiamo approfittato per fotografare l’isoletta disabitata di fronte. Mentre aspettavamo, abbiamo fatto una scoperta allarmante: sia i bicchieri che le stoviglie usate le il pranzo venivano lavate nell’acqua del lago, proprio a fianco allo scolo del bagno. E’ stato in quel momento che sono stato contento di aver mangiato con le mani e non aver usato quelle stoviglie!

Il tour del pomeriggio comprendeva una lunga navigazione lungo le coste del lago usando l’House Boat. Non appena siamo partiti, siamo tutti sprofondati in un religioso silenzio. Gli unici rumori erano lo sciabordio dell’acqua ed i richiami degli uccelli che abitavano le rive del lago. Questa parte del tour è stata dedicata alla pace, la serenità ed al relax. Ecco le Backwaters che cercavamo, le avevamo trovate.

Nel tardo pomeriggio siamo tornati al pullmino che facendo il percorso inverso ci ha riportati a Kochi, al nostro albergo.

Non appena siamo scesi dal pullmino abbiamo visto Antonio correrci in contro sbracciando, con lui c’era un altro uomo: si è presentato come Mr. Simon della Moksha Tours, l’agenzia di autisti che avevamo contattato dall’Italia per farci accompagnare da Kochi a Chennai. Subito Simon ci ha detto che era venuto a prendere l’acconto della spesa per il trasporto, ma che c’era stato un imprevisto. Il mio pensiero è stato “Ecco, iniziamo con le fregature!”. Simon, gesticolando mi ha detto che la macchina, una bellissima Ambassador, che avevamo prenotato dall’Italia aveva avuto dei problemi e non era più disponibile, cosi’ ci aveva fatto un upgrade mantenendo il prezzo pattuito! Avremmo avuto un SUV e ci era stato assegnato un autista molto capace e che parlava molto bene l’inglese. Quindi tutto sembrava andare per il verso giusto!

Dopo aver dato l’anticipo a Mr. Simon abbiamo lasciato l’albergo e ci siamo diretti a Fort Kochin. Per prima cosa siamo andati a prenderci un the nel TPot Bar, un locale dove si possono degustare diverse tipologie di the in un ambiente arredato con tavoli ricavati dagli alberelli di the o dalle casse che venivano usate per il trasporto. Inoltre, il proprietario negli anni ha collezionato una vasta raccolta di teiere e set da the, che possono essere visti esposti nelle teche all’interno del locale.

Ci siamo seduti in un tavolino d’angolo nella sala principale e abbiamo ordinato un Masala Chai per Lula e un “White Tea” per me. La giornata era stata dedicata al relax, e anche in questa occasione ci siamo rilassati chiacchierando e sbirciando la vita di Kochi scorrere fuori dalla porta del locale, mentre i nostri Te arricchivano la scena con un profumo aromatico e dolce.

Siamo tornati verso Princess Street che ormai stava imbrunendo. Lungo la strada abbiamo trovato alcune bancarelle di frittelle affollate da molti indiani. Come vuole la nostra regola, se c’erano tanti nativi voleva dire che il cibo era buono. Così ci siamo messi in fila ed abbiamo acquistato due Bhaja, cioè frittelle ripiene di verdura condita con spezie avvolte in carta da giornale: erano molto calde e molto buone, e questo si è rivelato essere un ottimo aperitivo.

La tappa successiva è stata il Palazzo Olandese, che abbiamo raggiunto solo dopo una lunghissima camminata attraverso aree buie e tremendamente trafficate. Lungo il tragitto abbiamo visto anche un grosso assembramento di persone ed abbiamo poi scoperto che era una sorta di festività cristiana un salsa Indù. Intendo, una ressa pazzesca, disordine e offerte che non si discostavano molto dalle Puja induiste.

Il Palazzo Olandese ci è apparso come un edificio buio e spettrale che affiorava nell’oscurità della notte al dilà di un cancello di ferro arrugginito. Ombre di rami si proiettavano simili ad artigli oscuri sulle facciate decadenti del palazzo. Se Tim Burton avesse disegnato questo angolo di Kochi, il risultato non sarebbe stato molto diverso.

Siamo tornati attraverso il quartiere popolare che avevamo già attraversato quando un altro black-out ci ha sorpresi, era il secondo della serata. Fortunatamente, dopo una buona mezz’ora di cammino siamo arrivati al ristorante dove avevamo cenato la sera prima. Questa volta abbiamo provato i Sizzler, cioè, piatti fumanti con verdure e carne o pesce cotti nel burro. Io ho assaggiato il montone, mentre Lula ha preso i gamberi. Abbiamo anche ordinato del riso al vapore ed del Naan, il pane indiano che avremmo mangiato più spesso durante il nostro soggiorno in India.

Dopo cena, altro black-out; siamo tornati in zona Princess Street ed abbiamo cercato un locale dove passare la serata. L’unico che serviva birra era una sorta di circolo ricreativo dove c’erano solo uomini; prima etichetta da collezionare della Kingfisher! La sera si è conclusa con una passeggiata sul lungomare dove ci siamo seduti su una panchina; le luci intermittenti della raffineria dall’altra parte dello specchio d’acqua ci faceva l’occhiolino in questa notte tropicale stellata, mentre la brezza marina ci coccolava con le sue carezze tiepide. Purtroppo, il quadro era rovinato dall’immondizia e da un bel topo enorme che continuava a girarci attorno.

Era arrivata l’ora di tornare all’albergo visto che l’indomani sarebbe stato impegnativo.

Giorno 3 – Munnar tra coltivazione di Te, mercati e sanguisughe.

Era l’alba quando ha suonato la nostra sveglia, ci siamo alzati, abbiamo fatto gli zaini e siamo scesi al piano terra per la colazione. La “Sig.ra Tag und Nacht” ci ha portato una bella colazione di toast con la marmellata, diversi tipi di frutta, formaggio e te. Tutto buonissimo.

Nel frattempo è arrivata un’auto davanti al cancello dell’albergo. Un signore, magro, non tanto alto, baffuto e con un sorriso solare ci è venuto incontro. Subito si è presentato, era Sami il nostro autista della Moksha Tours. Siamo saliti sulla spaziosissima Toyota Innova e siamo partiti. Non appena allontanati dall’albergo Sami mi ha chiesto dettagli sul viaggio, che erano già stati in gran parte accordati con l’agenzia in sede di preventivo, e poi, nel giro di pochi minuti, abbiamo iniziato subito a parlare come se ci conoscessimo da sempre. Lui era molto cordiale e guidava benissimo. Cosa strana, viste le scene continue del traffico indiano.

La strada prima ha attraversato le aree che avevamo già visto il giorno precedente, poi dalle città siamo passati per un breve tratto di campagna, per poi iniziare l’ascesa verso Munnar, dove abbiamo iniziato a toccare le aree meno turistiche alle spalle di Kochi. Il paesaggio era lussureggiante e, dove non c’erano città, la natura esplodeva rigogliosa, sebbene la presenza di rifiuti era una presenza costante. Lungo la salita verso Munnar, la prima tappa è stata alle cascate Cheeyappara. Sami ci ha fatti scendere dall’auto e noi ci siamo dedicati a fare qualche bella foto alle scimmie che popolano la zona ed alle cascate. Purtroppo, grossi parapetti di cemento sono ai bordi della strada davanti alle cascate e orde di turisti, quasi solo indiani, invadono il posto. Per fare delle belle foto siamo dovuti passare da un lato del parapetto e scendere sulle rocce alla base della cascata. In breve siamo risaliti sulla strada ed abbiamo raggiunto Sami che ne aveva approfittato per fare colazione con dei dolcetti e del Masala Chai.

Subito siamo partiti e abbiamo proceduto lungo la strada, per poi fare una breve sosta a vedere da lontano le Attukal Waterfalls. Questa cascate, che sono lontane dalla strada sono bellissime. Il Kerala è uno stato ricco d’acqua e nel nostro percorso attraverso questo stato abbiamo potuto vedere numerose cascate.

Arrivati in prossimità di Munnar sono apparse le prime piantagioni di te. La pianta del te, la Camelia Sinensis è in realtà un albero che può crescere fino a diversi metri di altezza, ma nelle piantagioni, esse vengono potate a forma di cespugli alti circa 1,20 m. A Munnar le colline sono totalmente ricoperte di piantagioni di te e a tratti il paesaggio sembra un enorme mosaico tridimensionale, fatto da tante minuscole tessere in varie tonalità di verde.

L’attività nei campi di Tè è incessante, e mentre eravamo lungo la strada abbiamo incontrato diversi trattori stracarichi di sacchi di foglie destinati alle varie fabbriche della zona.

La tappa successiva è stato il Kannan Devan Tea Museum. La scelta è caduta su questo museo perché non è permesso visitare gli stabilimenti di produzione. Davanti al Museo vi è un grosso parcheggio strapieno di automobili e pullman, segno che la pubblicità sulla Lonely Planet e Tripadvisor funziona. Così, io e Lula ci siamo messi in coda cercando di non farci passare avanti dagli indiani che per i quali, il concetto di coda corrisponde a “una bizzarra disposizione di persone, una dietro l’altra, tipica degli occidentali che non sanno quanto sia meglio spintonarsi strillando in una ressa disordinata” ed abbiamo fatto il biglietto (Adulti: 75 Rs, Bambini: 35 Rs, Macchina Fotografica: 20 Rs). Il museo comprende una sosta in una sala di proiezione dove viene mostrato un video che riassume la storia delle piantagioni di Munnar, a partire dal colpo di genio Sir. A.H. Sharp magnate britannico che con la sua prima piantagione ha innescato la reazione a catena che ha portato Munnar a diventare una delle principali aree di produzione di Te. Dopo il video si viene guidati attraverso un capannone dove sono disposti alcuni macchinari che esemplificano i processi di produzione del te. Dopo di che viene offerta una tazza di Masala Tea istantaneo (fatto da una macchina elettrica) prima di passare attraverso il tipico negozio del museo dove vengono vendute svariate tipologie di Te e altre spezie.

Vicino al Museo c’è invece il paese di Munnar: è una località turistica indiana, dove gli indiani trascorrono i weekend, ed essendo ormai vicini al Diwali e c’era una terribile frenesia per la ricerca dei regali.

Ci piace entrare in contatto con la gente del luogo visitando i loro mercati. Qui, era un intrico di bancarelle sulla terra e nel fango, che vendevano qualsiasi tipo di frutta, verdura, spezie ed enormi cumuli di foglie di Betel. Qui, ai margini del mercato, abbiamo trovato una bancarella che vendeva delle Vada, frittelle simili a ciambelle dalla pasta bianca praticamente insapore, e frittelle simili a Falafel, con le quali abbiamo pranzato.

Era troppo presto per rimanere inchiodati in questo villaggio, così abbiamo chiesto a Sami se conosceva qualche posto dove fare una passeggiata nelle piantagioni. In breve siamo arrivati in una piccola valle dove i due lati erano coperti dalle piante di Te. Qui siamo scesi e dopo aver attraversato un ponte sospeso, abbiamo iniziato ad inerpicarci su per la collina.Le piante ci circondavano e sembrava che quel caos disordinato che domina e regola la vita degli indiani per un attimo si fosse allontanato. Le piante potate sapientemente, da lontano sembravano tanti batuffoli verdi, ma poi, quando gli si passava vicino, in molte di essere, si potevano vedere i rami legnosi punteggiati da fiori profumatissimi. Abbiamo scollinato e ci si è aperta davanti una vista formidabile: una valle tutta coperta di piante di te. Lungo il cammino di ritorno verso la macchina abbiamo anche scovato un piccolo tempio, fuori da esso vi era il tridente di Shiva, mentre dentro vi erano numerose statue di una divinità con un mano un machete. Abbiamo pensato che forse, quello sarebbe potuto essere il tempio privato di qualche famiglia, e magari quella era la divinità protettrice dei contadini.

Quando siamo tornati da Sami l’abbiamo trovato che dormiva beato in macchina, quindi abbiamo deciso di concederci un’altra passeggiata. Lungo la strada abbiamo incontrato alcune donne dai saree colorati; all’inizio reticenti poi invece, è bastato un sorriso e un “Namaste”, che si sono aperte in bellissimi sorrisi. A volte basta poco per rompere una barriera.

Sami ci ha poi portati al nostro albergo: il Munnar Rock Hotel. Sul sito dove l’abbiamo prenotato sembrava essere a solo due miglia da Munnar, invece, le miglia erano 8, e per giunta, su strada di montagna.

Dall’esterno era piuttosto carino, ma all’accoglienza è sorto subito un problema: nonostante avessimo la ricevuta di pagamento, sostenevano che non era stata pagata la quota. Solo quando ho contattato il sito dove ho prenotato l’albergo, improvvisamente e incredibilmente senza guardare alcun registro, hanno trovato il nostro nominativo e ci hanno fatto accomodare in camera: muri coperti di muffa, odore di canfora, pavimento sporco, bagno sporco, doccia costituita da un buco nel muro dal quale scorreva giù acqua fredda. Io e Lula ci siamo guardati e con un sospiro di rassegnazione abbiamo detto “è India… Mi sa che stanotte si tirano fuori i sacchi lenzuolo”. Dopo un paio di foto per testimoniare quella baracca, abbiamo lasciato gli zaini in camera e siamo tornati da Sami col quale siamo tornati a Munnar.

Di sera a Munnar fa molto freddo, e abbiamo rimpianto i nostri maglioni lasciati in camera. Abbiamo visitato la Mount Carmel Church: come da tradizione indiana, l’irrefrenabile istinto kitsch indiano ha portato a montare sui santi indiani delle aureole al neon intermittenti che ricordavano vagamente i cartelli “Kebab” che si vedono in giro per le nostre città.

Ci siamo aggirati infreddoliti prima a vedere degli indiani che lavoravano dell’argento soffiando su una fiamma di Butano respirandone i gas combusti. Era l’ora di bere un bel tè fumante, così siamo entrati in una “Tea House”, che non era altro che un emporio attrezzato con tre tavoli di formica dove veniva servito solo ed esclusivamente del “Masala Chai”. Fuori si era fatto buio ed un freddo pungente entrava nel locale ogni volta che qualcuno apriva la porta. Una volta finito il tè ci siamo messi alla ricerca di qualcosa per coprirci. In India può essere difficile trovare una maglia a manica lunga che potrà essere riutilizzata in Italia. Il trofeo del peggio è stata una camicia con mezzo petto a righe, mezzo a quadri e taschini in similpelle alla texana “Oh this is beautifuuuul” diceva il commesso, ed io mentivo “Yeah, great… Unluckily I’ve not matching shoes for such a beauty…”. Per scaldarci fino all’ora che avevamo pattuito con Sami ci siamo rintanati in un ristorante con cuoco arabo dove abbiamo mangiato Riso Byriani e pane Naan.

Alle ore 21.00 ci siamo incontrati con Sami che ci ha riportati al Munnar Rock Hotel e qui l’altra scoperta: quando abbiamo tolto le coperte, abbiamo trovato delle piccole sanguisughe nel letto. Ci siamo messi a guardare attentamente e sia sul muro che nel soffitto c’erano diverse di quelle bestie. Allora abbiamo preso gli zaini e siamo scappati da quel posto. Sebbene fosse già molto tardi, Sami ci ha aiutati a trovare un altro hotel: il Green Ridge Holiday Home. La hall era molto bella e apparentemente lo era anche la camera. Quando però abbiamo tolto le coperte, abbiamo trovato una bella macchia gialla. Era una congiura contro di noi? Così abbiamo chiuso il letto, abbiamo tirato fuori i sacchi lenzuolo e ci siamo augurati la buona notte tirando le zip come lupetti.

La giornata era stata intensa, e dentro di noi vivevamo il contrasto tra la bellezza del paesaggio e la sporcizia degli alberghi. Eravamo ancora al terzo giorno di viaggio e ci chiedevamo che cosa ci avrebbe tenuto in serbo l’India per le prossime tre settimane. Buona notte India. Shuba-ratri India.

Giorno 4 – Madurai – Tramonto tra cunei che fendono il cielo

Entrambi ci siamo svegliati avvolti nei nostri sacchi lenzuolo chiedendoci se sembrassimo forse più mummie che crisalidi. Domanda difficile da rispondere mentre si è avvolti dalle spire del proprio sacco lenzuolo.

Dopo aver rifatto gli zaini siamo scesi a fare colazione tra una miriade di indiani che sciamavano in tutti i piani dell’albergo. Era infatti un lunedì e gli indiani che avevamo passato il weekend in questa località turistica si stavamo preparando per fare ritorno nelle loro città. I piani dell’albergo erano un intrico di corpi che si spostavano ad ordine sparso.

Sia io che Lula ci siamo fatti strada fino al piano interrato dove c’era il ristorante. Quello che ci si parava davanti era una bolgia di gente che si spintonava per accaparrarsi una colazione, mentre tutti i tavolini erano occupati e gli spazi tra i vari tavolini erano già costellati di avanzi e rifiuti.

Noi ci siamo fatti avanti e, calandomi nella parte di un indiano molto più pallido e che non parla Hindi, sono riuscito a procurarmi una colazione a base di riso al masala, pane e un caffè terribile. Lula che istintivamente è più composta di me è riuscita a far colpo su una signora attempata, paffuta e dal saree sgargiante, che l’ha aiutata a procurarsi una colazione. Poi, coi nostri vassoi ricolmi abbiamo trovato due posti su un tavolino coperto di avanzi a fianco ad una famiglia che stava finendo di mangiare. Poi gli indiani che avevamo a fianco, digerendo rumorosamente, si sono alzati e se ne sono andati per fare posto ad una coppia di giovani che si sono seduti vicino a noi. La colazione, ad eccezione del caffè di segatura, è stata comunque buona.

Usciti dall’albergo abbiamo dovuto aspettare per un po’ Sami, ma poi è apparso con la sua bella macchina e siamo partiti alla volta di Madurai. Lungo la strada verso il Tamil Nadu abbiamo potuto vedere vallate coperte da piantagioni di te con scorci assolutamente imperdibili sotto quel cielo dal colore turchese intenso: boschi si alternavano a piantagioni puntellate da Silvertop (albero di Eucalipto) e di tanto in tanto appariva qualche cascata che si lanciava in una corsa sfrenata giù dalle cime dei monti delle Western Ghats dritti verso il mare tropicale che non si vedeva già più dal giorno prima.

Il traffico era moderato e quando incrociavamo un pullman, spesso ci trovavamo a dover fare manovre assurde in quella stretta strada di montagna. Sui muri degli edifici e lungo la strada ormai erano onnipresenti le bandierine rosse del partito comunista locale con l’immancabile falce e martello. Si, perché qui, in Kerala, il Partito Comunista aveva governato per numerose legislature, mentre sembrava esserci appena stato un cambio verso il Congress Party. “Sai, il Congress Party, very good!” diceva Sami, e poi “La leader del partito è Sonia Gandhi! Lei molto brava!”, ho quindi provocato Sami “allora adesso vi governa la Sonia?”, Sami per un attimo ha esitato e poi, ridacchiando sotto i baffoni e cercando di non farsi sentire da Lula “no, il leader è Manmohan Singh, Sonia è una donna e non indiana! Eh-eh” per poi continuare con “Lei è Italiana, come te! Lo sapevi?”, “Si, l’ho sentito dire da qualche parte…”. Per un attimo mi è passata per la mente l’immagine impettita, un po’ simile a mia nonna quando da bambino mi sgridava per qualche danno che le avevo fatto in casa, della sciura Antonia Edvige Albina Maino, più nota come Sonia Gandhi, decretata dalla rivista Forbes come una delle persone più influenti del pianeta. Si, caro Sami, ho sentito dire che a tirare le redini di Singh e di questo paese di base sessita e nazionalista avete in realtà un’italiana… Ma questo non gli l’ho detto.

Siamo scesi dai monti ed addentrati in una fitta boscaglia, qui abbiamo raggiunto l’area di Poopara dove Sami ci ha suggerito di fare una sosta allo “Spice Garden”. Eravamo già in auto da un bel po’ e l’idea di farci una sosta non ci dispiaceva affatto. Ovviamente si trattava di un’area dove noi avremmo fatto il nostro giro turistico a vedere le varie piante di spezie e Sami si sarebbe preso la sua bella mancia, ma visto com’era stato gentile la sera prima ad aiutarci, ci è sembrato un buon compromesso.

Appena entrati nello “Spice Garden” ci è venuta incontro una ragazza che, dopo aver pagato il biglietto ad un prezzo irrisorio, ci ha accompagnati a fare il tour del giardino. La ragazza ci ha mostrato molteplici tipologie di spezie. Una delle star del tour è stato il pepe che ci ha spiegato come venga lavorato per essere venduto nelle diverse tipologie nera, rossa, bianca e verde. Poi ci ha fatto vedere tantissime altre piante, tra le quali il mio tanto detestato coriandolo (Sawtooth Corainder o Eryngium foetidum) ed il delizioso cardamomo. La ragazza ci ha fatto assaggiare dei semi freschi di cardamomo e sembravano simili alle caramelle balsamiche. Assolutamente ottimi, tanto che me ne sono fatto regalare alcuni da mangiare più tardi. Finito il tour ci ha accompagnati all’entrata dove ci ha offerto un Masala Chai.

Proseguendo il nostro viaggio abbiamo attraversato un tratto di pianura circondati dalle propaggini orientali dei Western Ghats per arrivare alla tappa più importante del giorno, Madurai. Qui Sami prima ci ha portati al motel dove avremmo pernottato, l’Arulmuthu Residency. La camera era pulita, ma il lenzuolo presentava macchie. Allora, quando siamo usciti abbiamo chiesto di cambiarle. Inizialmente abbiamo riscontrato resistenza visto che in India, un lenzuolo con meno di 10 macchie è ancora considerato pulito, ma poi, hanno desistito e ci hanno assecondati.

La prima tappa a Madurai è stata il palazzo Thirumalai Nayakar Mahal (Nativi: 10 Rs; Stranieri: 50 Rs; Macchina Fotografica: 30 Rs). La zona antistante al palazzo è costituita da una piccola piazza adibita a parcheggio, dove i veicoli si incastrano in una sorta di enorme Tetris motorizzato e di lamiera. Alla vista degli stranieri molti indiani si alzano e corrono incontro per cercare di vendere qualche cartolina o collanina, ma sorprendentemente una volta detto un semplice “No” se ne andavano. Molti nostri connazionali hanno parlato di essere stati assediati da queste persone, ma noi non abbiamo mai avuto esperienza del genere. Forse il nostro aspetto da backpacker ci faceva identificare come “squattrinati” e quindi non appetibili ad essere spremuti. Il prezzo del biglietto è stato per noi di 130 Rupie, una coppia indiana prima di noi ne ha pagate 20, e questo mi ha irritato parecchio. Una volta entrati ci siamo trovati davanti una sorta di chiostro, la piazza era circondata da un loggiato con linee di alte e massicce colonne. Nella piazza centrale erano state disposte numerose file di sedie perché ogni sera qui si tiene lo spettacolo di “luci e suoni” (prezzo: Adulti 50 Rs; Bambini 25 Rs). Noi ci siamo aggirati per questo palazzo. Abbiamo prima visitato il loggiato che è tenuto parecchio male, le colonne sono coperte di scarabocchi e frasi lasciate dagli indiani oltre che con un alone marrone-bruno dai segni delle mani. Ad intervalli regolari vi erano piccoli cumuli di guano di piccione. Sul lato opposto all’ingresso vi è la sala del trono che è una delle aree dove vi sono le principali decorazioni del palazzo. Lavori di pregio di stucco e affreschi sul soffitto arricchiscono una sala altrimenti disadorna. Attenzione che anche qui, sul pavimento vi è una trasfigurazione delle forme del soffitto fatta col guano di piccione accumulato nei giorni precedenti. La sala forse più bella è la “Dance Hall”, cioè la sala dove il Re incontrava i dignitari in udienza e dove venivamo tenuti spettacoli di danza. Qui la sala è ricca di decorazioni e sotto il loggiato interno oggi è stato allestito un piccolo museo di statue di divinità oltre che del Re con le consorti. Ultima tappa nel palazzo è stato un giardino dove sono state disposte su quattro file ed alla furia degli elementi numerose statue antiche. E’ stato triste a vedere con quale incuria viene trattato quel patrimonio storico ed artistico. Si, l’India ha ben altri problemi, ma questo è letteralmente buttare alle ortiche, che crescono tutt’attorno, un patrimonio che sarebbe invece da conservare gelosamente.

Usciti dal palazzo e dopo un milione di manovre per lasciare il parcheggio, Sami ci ha portati in prossimità del Meenakshi Temple con la promessa di venire a riprenderci per le 21.30.

Il centro di Madurai era un grandissimo ingorgo nel quale nessuno, ma proprio nessuno, rinunciava a suonare il clacson. Un rumore incredibile e le strade erano muri di lamiere e motori intervallati da qualche mucca e carretto. Il grigio della città era ravvivato dai saree delle donne coi colori sgargianti.

Siamo scesi dalla macchina ed abbiamo iniziato ad aggirarci per il quartiere e le vie laterali. Le persone sembravano in preda al delirio, una trepidazione simile a quella delle folle di persone che da noi acquistano i regali Natale, ma elevato in maniera esponenziale. A giorni ci sarebbe stato il Diwali e tutti volevano acquistare qualcosa per ogni membro delle loro enormi famiglie. Ovunque si vedevano fiumi di persone dirigersi verso le aree commerciali, tanta gente a contrattare e poliziotti che non regolavano il traffico automobilistico, ma quello delle persone in ingresso e uscita dai negozi con le offerte speciali.

In questo labirinto di viuzze, strade ed incroci immobili dagli ingorghi del traffico, io e Lula ci siamo aggirati in uno stato di coscienza alterata. Odori di ogni genere si fondevano e migliaia, forse milioni di occhi che ci puntavano, fissavano, studiavano, si distoglievano quando li fissavi, per poi tornare a puntarti quando credevano che non li guardassi più. Eravamo noi l’anomalia in questo quadro: io e Lula ci siamo guardati e ci siamo resi conto che eravamo gli unici “non indiani”. Era ora di cercare qualcosa da mangiare; una bancarella aveva finito le sue frittelle e ne stava facendo di nuove e c’era una gran folla. La signora alla padella ha tirato fuori le frittelle, con un gesto felino le ho allungato 10 Rs e lei me ne ha date tre. Erano peperoncini verdi farciti e fritti. La signora, ridendo e gesticolando ha iniziato a ridere dicendo che erano molto piccati. Io li ho in parte associati ai friggitelli nostrani. Li ho assaggiati, già temendo la leggendaria piccantezza indiana, del resto il peperoncino più piccante al mondo il Jolokia è proprio indiano, tuttavia, di piccante avevano proprio poco. Li abbiamo tanto gustati che ne abbiamo comprati altri tre.

Nel tardo pomeriggio siamo entrati nel Meenakshi Temple: questo è stato probabilmente il tempio più bello che abbiamo visitato nell’India del Sud. La pianta del tempio è quadrata e su ogni lato gli accessi sono contraddistinti dalle tipiche torri Gopuram a base rettangolare che si alzano vertiginosamente restringendosi simili ad alte e strette piramidi. Lungo le pareti esterne i Gopuram hanno migliaia di bellissime statue colorate di divinità o creature mitologiche.

Appena entrati si trova la“Sala delle 1000 colonne” (Nativi: 5 Rs; Stranieri: 55 Rs; Macchina Fotografica: 50 Rs), la parte centrale è davvero molto bella, ma il resto è solo un’insieme di tante colonne nude intervallate da qualche teca polverosa con all’interno qualche statua. La parte centrale è un corridoio lucido che porta dritto ad un santuario, il percorso è fiancheggiato da bellissime colonne scolpite con le fattezze di guerrieri, creature mitologiche e quel che sembravano sinuose ballerine. Le stesse colonne, nelle parti non occupate dalle sculture presentano bassorilievi con scene di santi Hindu, animali e qualche rara rappresentazione erotica.

Siamo usciti dalla “Sala delle 1000 colonne” ed abbiamo proseguito con la visita del tempio. La parte centrale, la Sancta Sanctorum è vietata ai non Hindu, quindi abbiamo solo potuto spiare dalle porte mentre dei Bramini ci fissavano pronti a fermarci se ci fossimo avvicinati. Poi abbiamo trovato la Lotus Pond, bel lago con ghat ai lati che sono stati purtroppo colorati di rosso e bianco. Qui ci siamo fermati per qualche attimo a fotografare i Gopuram che si stagliavano nella luce del tramonto e riflessi in acqua. La Lonely diceva che c’erano ancora due cose da visitare, una statua della Dea Kali sulla quale gli indiani lanciano palline di burro per placarne l’ira. Poi, sul tardi ci sarebbe stata una cerimonia da non perdere. Quindi ci siamo messi alla ricerca della statua sulla quale viene lanciato il burro. La ricerca è stata lunga e alla fine non abbiamo trovato nulla. Così abbiamo deciso di passare un po’ di tempo a vedere se tra le tante bancarelle ce ne fosse stata una che vendeva caffè o te. Nel nostro girovagare abbiamo incontrato una simpatica signora, padrona di una bancarella, che ci voleva portare a tutti i costi nel suo negozio. Appena entrati ha spedito un ragazzo a comprarci il te, e poi abbiamo parlato un po’ mentre si avvicinava l’ora di chiusura del tempio. Poco prima della chiusura ci sarebbe stata la cerimonia. Mentre eravamo con la signora le abbiamo chiesto della statua della Dea Kali di cui avevamo letto prima, e lei ci ha spiegato che sono diversi anni che quella pratica è stata abolita. Il burro sporcava troppo ed è stato sostituito con dell’acqua che viene versata sulla statua.

La cerimonia è iniziata con un rullo di tamburi. Una processione di uomini è uscita dalla Sancta Sanctorum, alcuni imbracciando dei grossi tamburi, altri portando a spalla un’arca ed altri portando offerte ed incensieri. La processione ha fatto un percorso attorno alla Sancta Sanctorum e si è fermata all’ingresso opposto dal quale erano usciti, vicino al Lotus Pond. La cerimonia è durata una ventina di minuti. Poi, finita la cerimonia, gli uomini della processione si sono caricati in spalla tutte le loro cose e sono ritornati nella Sancta Sanctorum, chiudendoci fuori. Noi ci siamo guardati e ci siamo chiesti se ne sia valsa la pena aspettare tutto quel tempo per quei venti minuti. Usciti dal tempio abbiamo incontrato Sami che ci aspettava fuori dal portale e ci ha portati in un ristorante che conosceva lui. A cena io e Lula abbiamo ordinato del riso fritto, mentre Sami ha ordinato un piccolissimo piatto di riso e Masala. Io ho specificatamente chiesto che il mio riso fosse molto piccante e Sami s’è messo a ridere credendo che in India tutto sia troppo piccante per i turisti. Mentre aspettavamo i camerieri ci hanno portato diverse ciotole di condimenti tra i quali dei peperoncini verdi a fette sott’aceto, e Sami c’è rimasto stupito quando mi ha visto mangiarli dalla ciotola. Poi è arrivato il riso e mi ha chiesto “E’ abbastanza piccante?”, “No, non lo è affatto…” ed ho rovesciato la ciotola di peperoncini verdi sul mio riso. In India non sanno mangiare piccante, questo è assodato.

Dopo cena Sami ci ha portati all’albergo e ci siamo dati appuntamento per il giorno successivo alle 8.30. Era ora di andare a dormire, ma questa volta senza sacchi lenzuolo.

Giorno 5 – Trichy e Tanjore – Il Ghat sacro

Quando sono arrivato in India mi sono reso conto di una cosa: non è il paese che credevo. Io mi immaginavo un paese spirituale, dove tanta gente parla di meditazione, pratica yoga, ci sono tutti quei santoni e mistici, la terra del karma, dello shanti e quant’altro, la terra dai milioni di divinità, dove anche le mucche sono sacre… Ma qui è stato tutto diverso e della spiritualità che fino ad allora immaginavo, non ne avevo trovato traccia. Dov’era finita? Ma poi, alla fine, siamo sicuri che quelle convinzioni fossero fondate?

Il giorno in cui siamo andati da Madurai a Tanjore molti altri dubbi sono sorti, in particolare sul rapporto degli indiani con la morte. Tanti avranno in mente le scene da documentario registrate nella sacra Varanasi, magari con un sottofondo di una musica aggiunta ad hoc. Trovarsi invece in mezzo a scene simili è stato ben diverso e surreale. Che cosa permeava nell’animo degli indiani? Cinismo? Interiorizzazione del dolore? Egoismo? Rispetto per i defunti? Superficialità? Osservazione di qualche precetto religioso precluso agli stranieri?

Tornando al diario…

L’alba è esplosa in un cielo terso sopra Madurai. I Gopuram del Meenakshi temple si sono colorati di tonalità dorate e la vita di tutti i giorni è ripresa in un crescendo di frenesia.

Io e Lula ci siamo svegliati di buon mattino visto che la tappa odierna sarebbe stata lunga. Senza fare colazione, abbiamo preso gli zaini e abbiamo raggiunto Sami. Subito siamo partiti con l’intento di lasciare Madurai prima che aumentasse il traffico. Il Tamil Nadu si è presentato come una vasta pianura a tratti adibita a coltivazioni che si alternavano a boscaglie. Di tanto in tanto qualche monte appariva ai lati della strada ed abbiamo notato che gli indiani ne avevano convertito le rocce piatte in enormi cartelloni pubblicitari dipingendovi sopra slogan ed indirizzi di negozi.

Ci siamo fermati a una specie di autogrill: la colazione era costituita da un piatto tipico, quello che Sami pronunciava “gyros”: si trattava di una sorta di pancake sottilissimo, salato ed avvolto su se stesso a formare un cono; era al centro di un piatto in acciaio circondato da una miriade di salsine in cui intingerlo tra cui una a base di yogurt e una molto piccante. Da bere abbiamo preso due bei caffè fumanti. Il “gyros” si è rivelato essere molto gustoso, sebbene molto unto.

Durante il tragitto Sami mi ha detto “Conosci Varanasi?”, “Si, ma non è un po’ fuori mano (circa 1700 Km)?” e lui “Abbiamo una piccola Varanasi qui… Volete vederla?” noi abbiamo consultato la Lonely e abbiamo constatato che non parlava di questo posto. Così Sami ci ha descritto una località, appena fuori da Trichy, dove vi è un ghat che entra nel fiume locale, che per inciso sembra essere sacro, ed in quel posto vengono eseguiti i riti funebri. Ovviamente, abbiamo risposto a Sami di si, che ci saremmo voluti andare.

Una volta arrivati, siamo entrati nel tempio e Sami ci ha condotti alla sinistra dell’entrata dove in una casetta un bramino stava tagliando i capelli a diversi bambini. Io avevo già visto questo rito a Kuala Lumpur, presso le Batu Caves, ed ho chiesto a Sami se fosse stato una sorta di battesimo. In realtà quello era una sorta di voto che veniva offerto agli Dei; le richieste erano le più disparate, dai bei voti a scuola a cose ben più serie. Finita la rasatura, ai bambini veniva messa una pasta gialla sulla testa per calmare l’irritazione. Abbiamo lasciato quella casetta e ci siamo diretti verso il fiume, qui c’erano numerosi bramini che facevano cerimonie su commissione. Sami ci ha spiegato che gli indiani sono molto superstiziosi, e quando si fanno leggere il futuro capita che si rivolgano a questi bramini per far svolgere i riti propiziatori. Per terra, davanti a questa schiera di bramini vi erano numerosi quadrati fatti di mucchietti di sabbia con disposte all’interno piccole lampade a olio. In una piazza a fianco ad una stele c’era un elefante incatenato, ai piedi c’erano 9 piccole statue che rappresentavano il sistema solare. Quando siamo arrivati, nella piazza del tempio si stavano tenendo dei riti funebri e proprio in quel momento un gruppo di persone si è riunito in un corteo funebre diretto al fiume. Il corteo è entrato nell’acqua che scorreva piano, putrida, piena di rifiuti e chissà che altro. Un bramino portava in spalla un fardello contenente le ceneri di un defunto, e dopo un breve rito, hanno sciolto il fardello in acqua disperdendo le ceneri. La scena che avevamo davanti era triste, ma a trasformarla in grottesca era il fatto che nell’acqua sotto allo stesso ghat c’erano anche persone che si stavano lavando, gente che lavava i panni e due donne che si immergevano nell’acqua con due setacci e filtravano il limo del fondale alla ricerca di qualcosa di prezioso appartenuto a qualche defunto. “Incredible India” dice il claim dell’ente del turismo indiano, si lo è per davvero!

Mentre tornavamo verso la macchina Sami ci ha fatto notare un’altra scena, questa volta si trattava di una ragazza, un bramino ed un albero di banano. Sami ci ha spiegato che lei era una giovane vedova ed il rito che stava eseguendo era per rescindere il legame con l’ex marito e potersi risposare. In questo caso, l’albero rappresentava l’ex marito e lei, simbolicamente, gli rendeva i doni di matrimonio. Per esempio, legava un pezzo di spago giallo attorno al fusto come a rendere la catenina d’oro che in genere viene donata dai mariti nei matrimoni indiani. Poi, il bramino le ha dato un coltello e lei ha reciso la pianta. Ora aveva tagliato tutti i legami col marito. Il bramino l’ha lavata con una brocca contenente l’acqua del fiume, e il suo rito è finito. Io credevo che in India le vedove perdessero ogni status sociale, ma Sami ci ha spiegato che nel sud tutto è diverso, in Tamil Nadu e Kerala c’è più ricchezza e una maggiore istruzione, quindi le persone sono molto meno legate a tradizioni arcaiche. Ai giorni nostri stanno crescendo le separazioni ed in India è sempre più comune che qualora delle persone rimangano vedove da giovani, si risposino, cosa impensabile fino poco tempo fa. Qui il miracolo l’ha fatto la cultura, non gli dei colorati circondati da insegne al neon!

La prossima tappa sarebbe stata il Ranganathar Swami Temple.

Il tempio è proprio nel centro di Trichy e, come era anche per il Meenakshi Temple di Madurai, a contraddistinguerlo sono i bellissimi gopuram. In un passato ormai lontano il tempio era separato dalla città da cinta murarie e per arrivarvi si dovevano attraversare diverse linee di gopuram. Oggi il tempio è fuso nel tessuto cittadino e le mura esterne del tempio sono diventate parte dei muri di numerose case. Noi siamo entrati nel tempio che come tutti gli altri templi va visitato rigorosamente scalzi. In alcuni è ammesso l’uso di calzini, mentre in altri le guardie all’ingresso obbligano a far togliere anche quelli. Vi sono numerosi gopuram e alcune aree con sculture davvero belle. Noi abbiamo iniziato il nostro tour salendo sul tetto (Nativi: 2 Rs; Stranieri: 10 Rs; Macchina Fotografica: 50 Rs; Videocamera 100 Rs). Qui ci ha raggiunti un signore che si è identificato come guida del tempio esibendo un tesserino che poteva essere qualunque cosa, anche l’abbonamento al bus o al ristorante masala all’angolo, ma sembrava simpatico e ci ha fornito molte informazioni non scritte nella guida. Dal tetto si ha una vista sui gopuram da una bella prospettiva. Da qui abbiamo potuto scorgere il tetto dorato del tempio dov’è conservata la statua di Vishnu che dorme su un letto di serpenti. Quest’area del tempio è vietata ai non induisti, quindi, ci si deve fidare delle descrizioni dei nativi e della Lonely.

I gopuram svettano, leggeri, colorati e ripidi a marcare i quattro punti cardinali. Tra questi abbiamo visto che ce n’era uno candido, alcuni dai colori vivaci ed altri dai colori più opachi. Mr. Guida Del Tempio ci ha spiegato che, diversamente da Madurai, dove i gopuram vengono dipinti ogni 4-5 anni, a Trichy si basano solo sulle offerte di fondazioni, quindi, se non vi sono fondazioni che si prendono in carico la pittura dei gopuram, essi possono rimanere per decenni senza manutenzione. Tra i vari gopuram ce n’è uno tutto bianco. Allora ho chiesto a Mr. Guida Del Tempio se quel gopuram fosse nuovo ed aspettasse di venire ridipinto, e ci ha spiegato che quel gopuram è sempre stato bianco in quanto rappresenta la purezza di Vishnu.

La nostra nuova guida ci ha accompagnati giù per le scale e ci ha portati a fare una visita per il tempio. E’ stato molto simpatico e ci ha fatto vedere scorci molto interessanti, e a volte faceva sorridere la sua interpretazione religio-nazionalistica-fondamentalista su cui improntava alcune spiegazioni. Prima siamo andati a vedere dei bassorilievi piuttosto belli, dove rappresentazioni di ragazze procaci si alternavano con musicisti e santoni. Siamo così poi passati davanti ad una bellissima statua di Hunuman .Poi siamo passati davanti al tempio di Vishnu dove ci ha ripetuto circa 12.000 volte che, non essendo indiani, non avevamo diritto ad entrare. Abbiamo fatto il giro attorno al tempio e ci ha portato in piazzali soleggiati, attraverso portali per poi arrivare in una piazza con colonne alle due estremità. Il lato più ricco di sculture è caratterizzato da una serie di colonne di granito il cui versante della piazza è scolpito con bellissimi cavalli rampanti cavalcati da soldati e che schiacciano coi loro zoccoli delle tigri. Le sculture sono magnifiche ed originariamente erano ricavate da singoli blocchi di roccia, oggi sono state restaurate e si vedono bene i punti dove sono stati riattaccati col cemento i pezzi che si erano staccati. La guida ci ha spiegato che queste sculture rappresentano la magnificenza indiana, identificata nei cavalli, che letteralmente schiacciano gli infedeli musulmani. Chissà con ne penserebbero i loro dirimpettai del Pakistan.

Nello spazio con le colonne dietro a questi pilastri si possono trovare altri bassorilievi, tra i quali, delle rappresentazioni delle diverse incarnazioni di Vishnu. Una delle ultime è quella che per me è stata la più interessante, infatti, è Buddha! Secondo la dottrina induista, Buddha è parte dell’olimpo induista perché lui non è altro che una delle incarnazioni di Vishnu. Quindi, non potendo sconfiggere il dilagare della dottrina buddhista, gli induisti hanno trovato più pratico e veloce integrare il buddismo facendolo diventare lui stesso parte della filosofia hindu.

Dopo questa sala abbiamo ancora visitato qualche piccolo tempio, come quello dedicato al semidio Garuda, la cavalcatura di Vishnu e poi siamo usciti. Il simpatico signore si è meritato la sua mancia e ci ha scortati fino all’uscita del tempio. Qui abbiamo ancora girovagato un pochino per le strade caotiche, siamo passati sotto alcuni gopuram nelle direttrici cittadine e poi siamo tornati da Sami che ci aspettava per proseguire verso la prossima tappa.

Appena partiti ci ha chiesto se avessimo voluto vedere il Rock Fort Temple (Adulti: 5 Rs, Macchina Fotografica: 20 Rs). Ma non se ne può visitare la maggior parte perché non indiani, quindi, abbiamo detto a Sami se si fosse potuto fermare in un punto dove poterlo vedere bene da fuori e poi saremmo ripartiti per Tanjore. Sami ha trovato un posto vicino ad una riserva d’acqua della città con una bella vista sul tempio. Qui siamo scesi dalla macchina ed abbiamo fatto alcune foto. Mentre tornavamo all’auto ci siamo resi conto che eravamo anche davanti alla bellissima cattedrale di S. Maria di Lourdes, ma che purtroppo era chiusa.

A questo punto siamo ripartiti alla volta di Tanjore, dove siamo arrivati nel primo pomeriggio. Il cielo minacciava pioggia sopra un’autostrada trafficata da camion dai colori sgargianti e tanti veicoli che suonavano il clacson all’impazzata. Sami guidava sicuro e tranquillo in un’autostrada dove tutti facevano ciò che volevano.

Abbiamo chiesto a Sami informazioni sulle scuole indiane, e ci ha dato interessanti nozioni su come sia strutturato il ciclo scolastico ed anche il servizio mensa. Quest’ultimo praticamente non esiste perché i bambini si portano il cibo da casa, quasi sempre riso. Arrivati a Tanjore abbiamo preso una stanza al P.La Hotel. La scelta è ricaduta su questo hotel per il basso costo, circa 900 Rs ed il fatto che non era nel pieno centro, ma sempre comunque a distanza di passeggiata. Il giorno dopo saremmo dovuti partire presto e non volevamo rimanere intrappolati nel traffico del centro di Tanjore.

L’hotel rientra nella media indiana, cioè: letto al limite del pulito, bagno fatiscente, vetri sporchi, ventola del ventilatore cigolante e forte odore di canfora. Le finestre si aprivano solo in parte, e lasciavano uno spiffero che dava su una sorta di lungo balcone con un secondo set di vetri che non si potevano aprire, e quindi, non vi era circolazione d’aria.

Saremmo voluti uscire subito per esplorare la città, ma poi s’è scatenato un temporale e siamo dovuti stare una buona ora in camera ad aspettare che spiovesse.

Siamo usciti dall’albergo che stava smettendo di piovere e la città era costellata da pozzanghere fangose. Con la mappa, siamo partiti per il centro di Tanjore, alla nostra sinistra svettava la famosa Torre Campanaria. Le strade, complice anche l’imminente festività dal Deewali erano molto trafficate, sebbene non fossero nulla a confronto con Madurai del giorno precedente. Abbiamo seguito così le indicazioni stradali e dopo una lunga camminata siamo arrivati al Brihadeeswarar Temple. La strada che porta al tempio era costellata da barbieri all’aperto ed indovini. I negozi dei barbieri erano costituiti da una sedia ed uno specchio messi all’ombra di albero ai margini di una strada. Invece, gli indovini presentavano una lunga gamma di strumenti per predire il futuro: ve ne erano specializzati in lettura della mano, altri usavano conchiglie e sassetti, altri dei pappagallini ai quali facevano estrarre delle carte da un mazzo. Lungo la strada, al di là degli alberi abbiamo visto apparire le mura del tempio. Come prima impressione sembravano le mura di cinta di una fortezza. Bastioni possenti si presentavano come un ostacolo quasi insuperabile sull’altra sponda di quel che sembrava essere un fossato asciutto.

Noi ci siamo avvicinati e abbiamo varcato l’ingresso. Una volta lasciate le scarpe al deposito abbiamo dovuto superare un tratto coperto di fango prima di arrivare al tempio vero e proprio. Qui, vicino al deposito delle scarpe vi era anche un povero elefante incatenato, costretto ad essere un’attrazione per i turisti.

Il tempio ha gopuram bassi e massicci, decisamente diversi da quelli di Madurai e Tanjore. La pietra è a sua volta rossastra e al tramonto s’incendia di un alone caldo, malinconico ed avvolgente. Il tempio di Shiva sprofondava nel tramonto, il cielo si scuriva da est, e il sole stava scendendo lungo la torre principale del tempio. Nandi, la cavalcatura di Shiva, era seduto placido e guardava con noi questa scena. Ci siamo affrettati ad entrare nel tempio principale dove risiede il Lingam di Shiva. Qui abbiamo fatto una puja e ci siamo fatti benedire dal bramino di turno con della cenere sulla fronte. Una volta usciti dal tempio principale abbiamo fatto un giro attorno al giardino dove abbiamo trovato alcuni bellissimi scorci. Siamo usciti dal tempio sporchi di fango, e ci siamo messi sulla strada del ritorno. Una volta arrivati in centro abbiamo girovagato per un mercato e qui abbiamo avuto un’altra esperienza da vera India: c’era una fila di bancarelle di frutta e verdura separate dalla strada da una banchina di fango ed immondizia di ogni genere; li in mezzo a quel brulicare di gente che guardava la merce c’era un uomo sdraiato nel fango con occhi sbarrati e spenti, ma la gente attorno parlava come niente fosse. Questa è l’incredible India?

Siamo andati oltre alle bancarelle che offrivano frutta a prezzi stratosferici e ci siamo diretti sul lato opposto della strada dove una lunga linea di palazzi fatiscenti ospitavano centinaia di negozi di ogni tipo. Qui, armati di pazienza ed una gran voglia di caffè abbiamo provato a chiedere al primo “Coffee Shop” se avessero avuto due “Black Coffee”, no solo caffè col latte. Poi, siamo entrati in un altro ed ho chiesto due caffè neri e mi hanno risposto che ne avevano solo col latte… Ho provato col terzo paventando un’ipotetica allergia al latte, ma mi hanno detto di sedermi che non c’era problema, ma poi è saltato fuori che avevano solo caffè col latte. Ma non potevano farmi un caffè senza metterci il latte? Non hanno altro modo di smaltire il latte di quei miliardi di vacche indiane che metterlo nel mio caffè? Così siamo usciti. Solo all’ultimo locale della fila, un ristorante arabo con proprietario e camerieri indiani ho risolto la faccenda chiedendo un caffè le lui mi ha risposto “Abbiamo solo caffè nero… Siiiii!!!

Così dopo una pausa passata con un vecchietto che cercava di parlarci e che ha pensato bene di raffreddare il mio caffè travasandolo mille volte dal bicchiere pubblico sul tavolo a quello in latta, ci siamo diretti, ormai al buio, all’altra attrattiva di Tanjore: il Tanjore City Palace.

La città era sprofondata nell’ennesimo black-out e con l’aiuto delle nostre torce ci siamo fatti strada fino al Tanjore City Palace, che però abbiamo trovato chiuso. Abbiamo fatto il giro attorno al palazzo e sul retro, attraverso una rete di piazzette e vicoli, siamo arrivati ad una larga piazza in terra battuta dove era stato allestito un Luna Park, che per l’occasione era chiuso. Gruppi di indiani erano a parlare nelle aree semibuie della piazza. Qui ci siamo guardati un po’ attorno e poi siamo tornati sui nostri passi. Una volta tornati in centro abbiamo vagato per le vie principali mischiandoci tra la gente delle bancarelle. In giro c’era un’euforia da acquisti diffusa, il Deewali si avvicinava a grandi passi e tutti stavano cercando di accaparrarsi dei regali. Lungo le vie abbiamo visto una miriade di negozi di oro e gioielli. Noi ci aspettavamo una India povera, ma qui le gioiellerie erano tutto un susseguirsi ed una era più lussuosa dell’altra. Proprio davanti alle gioiellerie più grandi c’era anche la stazione dei Pullman, che gremiti di persone e pacchi di regali, partivano per chissà quali località remote in mezzo al buio nulla dell’entroterra indiano. Solo i palazzi con generatori autonomi erano illuminati. Al chiaro delle nostre torce abbiamo consultato la Lonely, la quale consigliava un paio di ristoranti locali, ma la scelta poi si è ridotta a l’unico che abbiamo riconosciuto, il Sathar’s in Gandhiji Road. Il ristorante è su due piani, si dice che quello inferiore sia puro vegetariano, mentre quello superiore è misto. Noi, quando siamo entrati, senza chiederci nulla, ci hanno fatti salire al piano superiore. Qui abbiamo ordinato due chapatti, un piatto di montone e verdure al masala, uno di gamberi e verdure al masala ed uno di verdure bollite. Alla fine tutto aveva lo stesso sapore l’unica differenza tra i tre piatti era che il mio montone aveva la stessa consistenza di una gomma filacciosa, per il resto, nemmeno la verdura bollita sapeva di verdura visto che era anch’essa al masala. Quindi, alla fine, pollice verso per questo locale, avremmo fatto mille volte meglio a mangiare samosa o frutta ad una bancarella lungo la strada.

A questo punto, mentre tutte le persone tornavano a casa, anche noi ci siamo diretti all’albergo.

Quella notte è stata praticamente insonne per colpa del caldo e del rumore della ventola della camera.

Un altro giorno indiano era trascorso velocemente in un susseguirsi di scoperte. L’India stava iniziando a farsi vedere attraverso la fessura di una tenda che si stava lentamente aprendo.

Giorno 6 – Pondicherry – Templi e Tramonto hippy sul Golfo del Bengala

La notte di Tanjore era passata lenta e buia. Una coltre di nuvole aveva reso il cielo scuro di pece e la città sotto un lungo black-out a tratti aveva dato idea di un luogo abbandonato. Ogni tanto, questa quiete, resa insopportabile dal caldo soffocante della nostra camera, era interrotta dal rumore di qualche autobus che passava suonando il clacson. Poi, segnato da un aumentare della luce da fuori della finestra e un ripetersi sempre più frequente di clacson, anche il giorno è arrivato, portando un sole che sembrava spingere via le nuvole, e con lui, anche la mia sveglia ci ha ricordato che avremmo dovuto alzarci. Dopo una bella doccia fredda, perché in questo albergo come in quasi tutti gli altri non c’era acqua calda, siamo usciti dalla stanza. Ci siamo diretti al piano terra ed abbiamo fatto colazione. Lula si è accaparrata un bel piatto di toast, marmellata e un caffè fumante; mentre io ho scelto una colazione indiana: una sorta di zuppa, una specie di stufato di verdura al masala con degli Idli e un caffè nero. Gli Idli sono dei dischi lenticolari di una pasta soffice e spugnosa dal colore candido, il cui sapore è praticamente nullo. Credo che lo scopo degli Idli sia di avere qualcosa da intingere nei sughi o stufati di verdura senza che venga alterato il sapore di masala. Non fosse mai detto…

Fortunatamente quel giorno Sami, il nostro autista preferito, è arrivato all’albergo con un po’ di anticipo, così siamo riusciti a partire quasi subito nella direzione di Pondicherry.

Tanjore è sparita nel vetro posteriore dell’auto, mente davanti a noi si è aperta una strada molto trafficata che si lanciava in una campagna di coltivazioni, fattorie, boschi e vivaci villaggi. Il cielo sopra di noi variava dal blu di un cobalto tropicale a nubi violentemente bianche per poi sprofondare in un cupo e minaccioso grigio all’orizzonte. E tra tutte le direzioni della bussola, la nostra era proprio verso quel grigio.

Automobili di ogni misura ed era geologica di produzione affollavano l’autostrada, autobus che pendevano pericolosamente sul lato delle porte, con gente attaccata quasi a volerlo far ribaltare. Motorini che suonavano i clacson dai rumori simili a zanzare che sparivano appena noi li superavamo e clacson da baritoni dei camion sgargianti. Mucche, capre, pecore e cani affollavano la strada. Ad arricchire il tutto, uomini vestiti di bianco e donne ammantate nei loro saree dai colori vivaci marciavano in lunghe file sui margini della carreggiata.

Io parlavo con Sami e ho notato che anche lui come tanti indiani, mentre parlava tendeva a far ondeggiare la testa. Così gli ho chiesto se quel gesto avesse un significato visto che per me poteva essere inteso come una rappresentazione di dubbio. Come a chiedere ad un amico “Ti è piaciuto il film?” e lui mi risponde ondeggiando la testa “così-così…”. Ma Sami mi ha spiegato che in India ha connotazione di assenso, quindi equivale a dire di “Si”. Dovevo stare attento ora a dare risposte in India!

La prima tappa della giornata è stata al tempio Darasuram Airavateswarar il quale è circondato da un giardino curato. Qui vi sono persone incaricate della raccolta dei rifiuti e vi sono anche dei cestini, ma turisti indiani avevano già lasciato traccia del loro passaggio abbandonando rifiuti sui prati dei giardini.

Siamo partiti all’esplorazione del tempio e qui ci siamo accorti che era allagato. Questa parte del tempio è a un livello più basso nel terreno circostante e il temporale della sera precedente aveva accumulato acqua come se fosse stato una sorta di cisterna. Ci siamo tolti le scarpe pronti a guadare il fossato,quando un ragazzo ci ha mostrato un ingresso secondario al tempio il quale non era allagato, con la promessa di venderci qualcosa alla fine della nostra visita.

Siamo così entrati nel tempio e dopo esserci arrampicati su una scala traballante di ferro arrugginito, siamo arrivati al livello superiore che permetteva di passeggiare tutto attorno al tempio al riparo dal sole. Qui abbiamo incontrato un simpatico signore che improvvisandosi guida ci ha fatto vedere alcune statue recuperate nei lavori di restauro del tempio. Successivamente ci ha portato ad un passaggio per scendere al piano inferiore fino al tempio centrale. Come in molti altri templi Hindu, c’era una sorta di loggiato rialzato che lo circondava, un’area ribassata di passaggio, ed il tempio centrale nuovamente rialzato. Il fatto che il tempio fosse allagato lo rendeva bellissimo. I fregi sulle pareti, i bassorilievi e le fattezze stesse del tempio si riflettevano sulla superficie dell’acqua, che ne moltiplicava la magnificenza. Quello che avevamo davanti e tutto attorno a noi era una meraviglia da togliere il fiato e qui, ci siamo impegnati a scattare una quantità incredibile di fotografie. Probabilmente se non fosse stato allagato, avrebbe perso molto del suo fascino. Quindi, questa volta, siamo stati fortunati.

Abbiamo girato per il tempio per un bel po’, e poi siamo tornati all’auto da Sami evitando attentamente di non farci rivedere dal procacciatore di clienti che avevamo incontrato prima.

Subito abbiamo lasciato questa area, e spostandoci a est, in breve siamo arrivati al Tempio Gangaikonda Cholapuram. Questo tempio è innalzato ai livelli dei migliori templi di tutta l’India e sembra essere una fermata obbligata per ogni turista che passi per quelle parti. La via d’accesso è attraverso un gopura che fa entrare nel tempio alle spalle del toro Nandi. L’ingresso, come di regola, è a est del tempio e una volta passato Nandi, ci si trova davanti all’altissima torre centrale ottagonale del tempio, che sembra essere seconda solo alla torre del tempio di Tanjore. Qui, le guide fanno una larga profusione di elogi per le sculture, definendole come impareggiabili.

C’è da dire che il tempio è interessante anche se poi si incontrano aree restaurante che stonano un pochino con il resto. Probabilmente gli studiosi che hanno condotto il restauro hanno cercato, giustamente, di applicare una anastilosi, ma, per un profano come me, appare fin troppo sfacciatamente stonata e a volte sproporzionata rispetto gli antichi capolavori che si trovano qui.

Il cielo era una distesa screziata di blu e di nuvole gonfie di pioggia che ci stavano raggiungendo a grossi passi. Il sole bruciava sulla pelle e il riverbero era violento, ma a rompere l’incanto era un fastidioso gruppo di ragazzini che non smettevano di girarci attorno . Abbiamo così lasciato il tempio e con Sami abbiamo preso una strada in direzione nord-est, verso la costa del Golfo del Bengala verso l’antica colonia francese di Pondicherry.

La strada si era tramutata in un susseguirsi di centri abitati, strade caotiche, strade che si restringevano a diventare ad una sola corsia quando si incontravano delle sorte di lavori in corso dove persone mettevano tronchi di traverso sulla strada e spargevano uno strano pietrisco giallo sull’asfalto lungo tutta una corsia (scopriremo solo più tardi che era mais messo ad essicare), poi vi erano incroci di una frenesia tale che ricordavano un roulette russa dove si mette in giorno la sorte tentando di attraversarli sempre senza smettere di suonare il clacson. In questo sciamare di veicoli che sembravano riuscire ad invadere qualsiasi direzione mai immaginata, Sami, col suo tipico sorriso e testa dondolante si è girato a guardarmi e mi ha chiesto se avessimo avuto fame perché conosceva un negozietto li vicino che faceva uno dei suoi snack preferiti e ci avrebbe tenuto a farceli assaggiare. Così abbiamo accettato di esplorare anche il lato culinario di questo angolo di Tamil Nadu e lui, pochi incroci più avanti, si è fermato in seconda fila e ci ha accompagnati dall’altro lato della strada dove c’era un negozio brulicante di persone. Si trattava di una “Bakery” che non corrispondeva esattamente alla traduzione dall’inglese di panificio, ma era un misto tra una pasticceria, un panificio, un ortofrutta ed una caffetteria. Sami ci ha accompagnati dal bancone dove abbiamo ordinato due sacchetti di quelli che lui chiamava “Pops” simili a pezzi di pasta sfoglia grandi come francobolli fritti impepati e piccanti, quattro tortini di pasta sfoglia ripieni di verdure, che anche questi lui chiamava “Pops” e dell’acqua. Tornati in auto è iniziata una violenta tempesta. Lampi illuminavano campi che da un verde vivace erano sprofondati in una tonalità cupa e grigiastra, i tuoni che seguivano sembravano esplodere sopra di noi e la pioggia era tale che a tratti nemmeno i tergicristalli riuscivano a permetterci di vedere in quale direzione che stavamo andando. Io mi ero sporto affianco a Sami per cercare di avvistare qualche possibile ostacolo lungo la strada. Nei momenti in cui la tempesta si calmava, allora, riuscivamo a vederci attorno. Le persone che, come avevamo già visto diverse volte quello giorno stesso, avevamo messo tronchi sulla strada per delimitare il mais sull’asfalto, ora stavano correndo con carretti a recuperarlo aumentando il rischio di incidenti, come se l’andare contromano alla cieca nella tempesta con camion che venivano in senso opposto, nell’unica corsia lasciata libera da quei contadini non fosse già abbastanza.

La tempesta, come era arrivata è passata ed in breve davanti a noi si è rivelato un nuovo paesaggio di boschi e tante palme. Poi, a segnalare che eravamo quasi a Pondicherry, è apparsa alla nostra sinistra la famosa cupola dorata di Auroville. Una semisfera dorata in cui la spiritualità di Aurobindo brillava, come un richiamo, oltre le cime degli alberi… E tra i tralicci dell’alta tensione.

Aurobindo, il famoso Guru o santone che sia, ha cercato di fondare la città perfetta, dove non vi devono essere distinzioni di razza, credo politico o qualsiasi altra cosa. Qui deve dominare la pace, la convivenza e la ricerca per la propria crescita spirituale.

Inevitabilmente siamo finiti per chiedere a Sami di parlarci della meditazione e la spiritualità. La sua risposta è stata “Eh? La meditazione? Quella è roba da gente di Mumbai”. Ma come, siamo in India, la terra della meditazione, del Karma… Lui sembrava divertito dal nostro spaesamento dicendo che “La meditazione la fa chi ha tempo, vi sembra che gli indiani abbiano tanto tempo da perdere? Sono cose da occidentali in vacanza e middle-upper class di Mumbai!”, ma allora tutti i centri massaggi, Yoga e meditazione del Kerala e Tamil Nadu? Non sono veri? E lui “I turisti cercano queste cose, e sono disposti a pagare, e allora, noi gliele diamo”. Eravamo disarmati. E allora Aurobindo? “S’è fatto un impero, vedrete a Pondicherry”. I guru che meditano nei templi e sui chiodi? “Ne avete visti nei templi o per strada?” No… E allora come la mettiamo con Osho? Lui è famoso, no? “Eh? Chi? Osshhoo? No, non lo conosco… No, sicuramente non è del Tamil Nadu…”. Con un gesto mi ha passato il suo smarthphone e mi ha chiesto di cercare su google informazioni su Osho :“Allora, Chandra Mohan Jain, conosciuto anche come Acharya Rajneesh e dal 1960 anche come Bhagwan Shree Rajneesh, nato l’11 Dicembre 1931 a Kuchwada Village nel Madhya Pradesh, diventato famoso come il guru del sesso…” a questo punto Sami s’è messo a ridere e ha detto “Te l’ho detto, non è Tamil! Ahahahahah! …Guru del sesso! Ahahah! …ecco perché piace!” E con questo Sami ha spazzato via le ultime briciole che avevo dell’idea di misticismo indiano.

Poco più tardi siamo arrivati nella bella Pondicherry, conosciuta anche come Puducherry. Essa è una ex colonia francese ed il sud della città sembra davvero una cittadina europea, con tanto di ordine tassativo di non suonare il clacson. Abbiamo scelto come hotel il Park Guest House che risulta essere un ashram di Aurobindo.

Siamo così entrati nella hall e siamo stati accolti da due consierge in abito bianco e sguardo severo, entrambi sorvegliati da un inquietante ritratto di Aurobindo seduto su un trono con postura da Odino in abiti da Zeus, ma quando ho sentito che una camera aveva il ridicolo prezzo di circa 8 Euro a notte, ho scoperto un fascino e particolare pace e dolcezza in quella fotografia di Aurobindo… Cinismo Genovese… La signora della consiergerie dopo aver copiato tutti i dati dei nostri passaporti, ci ha dato un foglietto da leggere e firmare: erano le regole dell’ashram. Per essere sicura che capissimo le più importanti ce le ha anche dette anche a voce “n. 1L’Ashram chiude alle 22.00, se si è fuori, non si entra,n.2 è vietato introdurre alcool, n. 3 l’Ashram è una comunità di vegetariani”. Avrei anche voluto aggiungere la battuta di Pino e La Lavatrice “Non c’è problema, tu dimmi quello che devo fare e io lo faccio”, ma senza ulteriori test, ci hanno portati alla nostra camera.

Ogni camera era contrassegnata dal nome di un sentimento; la nostra si chiamava: “Adoration”. Una volta entrati abbiamo scoperto che il bagno era piuttosto spartano, la camera aveva arredamento dettato da una monaca ospedaliera, ma era dannatamente pulita. E ci sembrava fantastica. Ma il meglio è stato quando abbiamo aperto la finestra sul nostro balcone: si vedeva il curatissimo giardino dell’Ashram contornato da palme che ondeggiavano nella brezza marina in riva ad un mare blu cobalto. Siamo rimasti a bocca aperta! Ripresi da quella meraviglia, abbiamo steso la corda da 10 metri sul balcone per appenderci il bucato che finalmente riuscivamo a fare dopo una settimana di viaggio. Dopo di che, una volta indossati i nostri completi da Hippy occidentali ci siamo diretti all’esplorazione di Pondicherry. La promenade era costituita da un lato da una strada costiera con edifici che sembravano essere stati importati direttamente da Nizza, e dall’altro lato l’oceano. Purtroppo lungo tutta la promenade non c’è la benché minima spiaggia, solo macigni. Qui abbiamo scovato un locale sul mare chiamato “Le Cafè” arredato in stile coloniale che prometteva bene, ed abbiamo deciso di provarlo il mattino successivo per la colazione.

Lungo la promenade abbiamo anche visitato il monumento a Gandhi ed il monumento ai caduti in guerra Francesi. Alla fine della strada, abbiamo deciso di visitare un tempio dedicato al Dio Ganesh, il Arulmigu Manakula Vinayagar. Man mano che scendeva il tramonto, ci sembrava di trovarci in una cittadina francese di notte. Alla fine della stradina, dopo essere passati affianco alla Sri Aurobindo Ashram (vicino a tante altre strutture della fondazione Aurobindo), abbiamo raggiunto il tempio, circondato da bancarelle che vendono un po’ di tutto. Essendo che il tempio dedicato al Dio Ganesh, gli indiani hanno pensato bene di incatenare un povero elefante proprio all’ingresso del tempio. Noi abbiamo fatto un breve visita: è presente una vasta collezione di quadri che raffigurano il Dio Ganesh ed anche un piccolo tempio centrale dove c’è la statua del Dio dove gli indiani portano frutta in dono. La città era sprofondata in un black-out, solo giorni dopo avremmo scoperto che molti di questi black-outs erano programmati ed gli indiani sapevano esattamente a che ora avrebbero dovuto accendere i generatori, o le candele.

Noi abbiamo lasciato l’area del tempio facendoci luce con la nostra torcia e ci siamo addentrati verso il quartiere indiano.

Abbiamo proseguito per un pezzo per la HM finchè non abbiamo svoltato a sinistra verso il mare entrando nella strada Lal Bahadur Shastri Street ed alla prima traversa sulla destra, La Bourdonnais Street, abbiamo trovato il consigliatissimo locale “L’E-Space”. Lo staff ci ha accolti e ci ha accompagnati sulla terrazza dove siamo sprofondati su due comodissime poltrone. Una fresca brezza soffiava su di noi ed una musica reggae era diffusa sulla terrazza. Dopo qualche minuto è arrivato un ragazzo dello staff con una lavagna con sopra scritti i cocktails del bar. Io ho guardato Lula e ci si è materializzata nella mente la concierge dell’albergo col suo sguardo severo, ma con Bob Marley alle sue spalle al posto dello Zeus Aurobindo, che alzando il dito mi diceva “Regola n. 2 E’ vietato introdurre alcool!”, non si preoccupi, lo beviamo prima e in coro “Due Cuba Libre!”. Ora, musica reggae, Cuba Libre, brezza marina tiepida su una terra tropicale …non avrei voluto niente di più da quel momento.

Abbiamo trascorso nel locale un lungo tempo e poi siamo tornati per strada, siamo tornati alla Lal Bahadur Shastri Street e l’abbiamo seguita fino al mare. La promenade, che è Goubert Avenue era stata chiusa ed era diventata totalmente pedonale.

Ora che avevamo fatto l’aperitivo ci siamo diretti, passeggiando con estrema calma, a cenare. Abbiamo deciso di trasgredire la regola n.3 e di andarci a mangiare una grossa bistecca, così siamo arrivati al Satsanga e siamo stati accolti da uno staff molto cordiale che ci ha accompagnati alla terrazza. Così ci siamo guardati ed abbiamo ordinato due bistecche, una al sangue che faceva ancora “muuuu”, un piatto di patatine, un’ insalata e due bottiglie di birra Kingfisher, il tutto per 11 Euro, una spesa oltraggiosa in India, ma il richiamo della bistecca era troppo forte.

Più tardi siamo tornati nell’Ashram. Il nostro bucato era asciutto e siamo andati a dormire con la finestra aperta. Ci era piaciuta Pondicherry! Il mare ci ha cantato una ninna nanna tropicale, un’onda, il rumore di una seconda onda, alla terza stavamo dormendo.

Giorno 7 – Da Mamallapuram a Chennai – Dove le leggende sono incise sulla roccia

La notte a Pondicherry è passata veloce, e nonostante fossimo stati svegliati dalle zanzare e abbiamo dovuto montare le zanzariere sui letti,ci siamo svegliati di buon umore. Una camera pulita, il sole ed il mare fanno un gran bell’effetto.

Abbiamo deciso di fare colazione in riva al mare nel locale “Le Cafè” sulla promenade. Il locale era bello, nonostante presentava i segni lasciati dal tempo, ma stare seduti nella veranda davanti al mare con due caffè e latte e due croissant era fantastico.

Siamo tornati all’Ashram e dopo aver preso gli zaini abbiamo incontrato Sami e siamo partiti per Mamallapuram.

L’auto si è diretta verso nord, seguendo una costa celata da una fitta boscaglia di palme. A tratti gli alberi ai nostri lati sembravano essere cresciuti inclinati. Allora, ho chiesto a Sami se gli alberi fossero stati piegati dallo Tsunami del 2004. Lui ci ha spiegato che nonostante lo Tsunami avesse colpito duramente quel tratto di costa, il motivo della crescita in diagonale degli alberi era un altro: quel tratto di costa di recente era stato colpito da un tifone di violenza inaudita, ed erano stati i venti a piegare gli alberi.

Il parco archeologico di Mamallapuram è sulla costa, sulla strada che va da Pondicherry a Chennai, a circa due terzi di strada. In tarda mattinata siamo arrivati al parco e Sami ci ha lasciati davanti all’icona di Mamallapuram, quella che viene chiamata “La Palla di Burro di Krishna”. Il parco archeologico è appunto un’area delimitata da muri e steccati dove sono stati scoperti antichi templi e bassorilievi. Secondo quanto ho letto, ma non sono sicuro sia la verità, sembra che più che a scopo religioso, questi templi fossero esempi a grandezza naturale per la locale scuola d’arte. Le grosse rocce che emergono dal terreno avevano contribuito al fiorire di questa scuola ed i lavori che possiamo vedere oggi, probabilmente, non erano altro che una sorta di grande catalogo o libro di testo.

Il primo monumento, se così lo si può definire è una grossa roccia che sembra messa in equilibrio precario sul pendio di roccia di una collina che sfida le leggi di gravità. In realtà nella parte posteriore è molto allungata, quindi il baricentro è indietro evitando che rotoli giù dalla montagna. Ecco, la fisica spiega il miracolo della pietra in equilibrio. Qui tanti turisti si cimentano in pose strane davanti alla sfera e anch’io ho rievocato la scena in cui Indiana Jones fugge dalla palla di pietra nel film “I Predatori dell’Arca Perduta”.

Abbiamo proseguito verso sud, lungo il crinale della collina dove abbiamo trovato altri templi scavati nella roccia ed abbiamo raggiunto un punto panoramico che dominava la pianura tutt’attorno, tra cui un faro.

Tra i templi della zona è stato interessante il tempio della Dea Durga: un tempio piccolo, sulla cui parete vi era una bellissima rappresentazione della Dea, la quale è l’incarnazione della Shakti, la forza creatrice, nella sua veste adirata.

Siamo scesi da quest’area che era già mezzo giorno. Il sole era alto nel cielo e una moltitudine di turisti sembravano apparire da ogni direzione. Siamo così arrivati alla strada ed ho acquistato una noce di cocco dalla quale bere il latte. La signora, operando con una mannaia con una precisione da orologiaia ha aperto la noce per noi, e poi ci ha messo due cannucce. L’acqua all’interno era dolce e l’abbiamo finita mentre vagavamo per l’area archeologica. Abbiamo notato che dentro vi era molto polpa;allora, col mio coltellino ho iniziato a farmi strada nel piccolo buco che aveva fatto la signora; non avrei mai immaginato che la noce, sebbene ancora verde, potesse essere così dura, ma alla fine, la mia testardaggine e l’affilatura del coltellino hanno avuto la meglio ed ho raccolto buona parte della polpa. E’ stato inevitabile pensare al film Cast Away nel quale Tom Hanks continua a ricordare dell’effetto lassativo del cocco. Che il santo Imodium ci protegga! Siamo tornati alla strada ed abbiamo proseguito verso quello che è forse la Superstar di Mamallapuram: un bassorilievo lungo nove metri che viene chiamato sia come “La Discesa di Ganga” che come “La Punizione di Arjuna”, in quanto in esso vi sono riferimenti ad entrambi gli episodi. Questo bassorilievo era assolutamente fantastico e siamo rimasti ad ammirarlo per molto tempo; sul lato superiore vi è una sorta di cisterna che nei tempi d’oro di Mamallapuram veniva usata per far scorrere acqua lungo la fenditura a metà della rappresentazione in modo simulare lo scorrere del fiume Gange.

Poi abbiamo visitato il “Ganesha Ratha”, cioè “Il Carro di Ganesha”, che è un piccolo tempio e sul lato opposto il “Trimurti Temple”, che è un piccolo tempio rupestre dove, in tre nicchie separate, vengono rappresentate le tre divinità della Trimurti, Brahma, Vishnu e Shiva. Anche questo tempio era bello, ma l’area tutt’attorno era piuttosto sporca.

Siamo tornati da Sami e con lui ci siamo diretti ai “Pancha Rathas” o “Cinque Carri”. L’ingresso di questa area è a pagamento e il biglietto permette di visitare anche un altro tempio, lo “Shore Temple”. Purtroppo, il prezzo è smisurato per quello che si visita: un cartello alla biglietteria dice, in chiare lettere “indiani 10 Rs, Altri 250 Rs”! Cioè, ogni straniero deve pagare venticinque volte più di un indiano. Abbiamo comunque acquistato due biglietti e siamo andati a visitare i Rathas. Secondo le guide risulta che questi cinque templi siamo stati ricavati da un singolo grosso monolite. Oltre ai templi che nonostante il restauro non mostrano bassorilievi di pregio a parte quelle del Draupadi’s Ratha che mi sono sembrate quelle meglio conservate, sono anche presenti tre belle sculture, una di un leone, una del toro Nandi ed una di un enorme elefante. La cosa curiosa è che il motivo della conservazione nel corso dei secoli sembra essere che quest’area si rimasta sepolta sotto la sabbia, e di conseguenza non è stata sottoposta alla furia degli eventi. Un’altra cosa curiosa è che sul Bhima’s Ratha, il terzo Ratha, vi sono delle sculture di volti: secondo quanto abbiamo letto, sembra che siano rappresentazioni di visi di antichi romani che gli indiani del tempo prendevano come grande ispirazione.

Il monumento successivo è stato lo Shore Temple che come dice il nome è sulla costa. Sulla piazza davanti alle due torri, ho preso il mio libretto rosso dallo zaino ed ho letto uno stralcio dei miei appunti a Lula:

John Godhingam nel 1798 riferì che nella zona di Mamallapuram persisteva una leggenda. Sembrava che il tempio sulla spiaggia undici secoli prima facesse parte di una sorta di diga, o cinta muraria sacra costruita sulla spiaggia, ed aveva addirittura altre sei pagode gemelle. Questa cinta muraria era stata costruita per difendere i templi della zona contro l’erosione da parte del mare. La leggenda dice che dal giorno della sua costruzione, le opere d’arte non abbiano sofferto il benchè minimo deterioramento. Ma non vi era traccia di altri templi lungo la costa”.

Oggi lo “Shore Temple” è costituito da due piccole torri, una a fianco all’altra. Tutt’attorno vi erano anche numerose statue e cisterne per l’acqua. Abbiamo scoperto che passando attraverso un angusto passaggio si accede al retro della torre, dove è visitabile una stanza sconsacrata con una bellissima statua di Vishnu che dorme su un letto di serpenti.

Siamo così poi andati sulla spiaggia ed abbiamo messo i piedi in acqua. Il mare oceanico era agitato e l’acqua era fresca. Qui, sulla battigia, con tanti indiani che come noi stavano coi piedi in acqua, ho preso il mio libretto rosso ed ho continuato a leggere a Lula:

La leggenda descritta da John Godhingam era resistita per ben undici secoli, e continuò a venire raccontata per più di due secoli, finchè il 26 Dicembre 2004, qui…” e puntavo col dito perterra “…si scatenò la furia inaudita di uno Tsunami di cui non vi era memoria di qualcosa di eguale. Tutta l’area fu allagata e cosparsa di detriti. Ma quando l’acqua si ritirò, riportò via un’enorme quantità di detriti e ci fece un dono di altissimo valore culturale… Era emerso… Quello!” e ho puntato un gruppo di massi sulla spiaggia.

Lula li ha guardati e con voce scettica mi ha chiesto “Quei due che stanno pomiciando in mezzo ai rifiuti?”, ho guardato con attenzione e ho precisato “No, i sassi che sono dietro!”

Infatti, queste due rocce presentavano dei bassorilievi erosi dal mare, testimoniavano che la leggenda di John Godhingam era vera. Sotto tutta quella sabbia vi era la diga e le altre sei pagode. Li c’era la “Sunken City”, la “Città Sommersa” che i ricercatori indiani stanno faticosamente studiando per riportarla alla luce. Se solo gli stessi indiani avessero un po’ più di senso civico e non scambiassero i monumenti per discariche a cielo aperto!

Siamo tornati da Sami e con lui abbiamo visitato due altri templi lontani circa cinque chilometri da Mamallapuram nella direzione verso Chennai. Il primo era la “Tiger Cave” che non è la casa dell’Uomo Tigre, ma un gigantesco monolite scavato da un lato con numerose teste di tigre tutte attorno a quello che potrebbe sembrare una sala o un palco. Davanti alla “Tiger Cave” vi era una grossa riserva d’acqua che aumentava la bellezza del posto. Alla nostra destra vi era prima un enorme monolite affusolato e sempre nella stessa direzione vi era il tempio di Shiva, caratteristico in quanto una parte del tempio era letteralmente coperta di scritte scolpite nella roccia.

Abbiamo ripreso il viaggio verso Chennai. La strada e le campagne lentamente si sono tramutate in superstrade dalle molte corsie ed i campi sono diventati palazzi e distese di grigio. Ecco, Chennai era apparsa, e con essa una gran confusione: il traffico sembrava impazzito e i clacson erano tornati ad essere quella cacofonia che ci ha accompagnato quasi ogni istante in India.

Il nostro albergo era vicino all’aeroporto e si chiamava Kek Accomodation, in un quartiere che si avvicinava moltissimo ad uno slum: cumuli di immondizia, corsi d’acqua limacciosa di liquami, traffico, edifici dimessi, miliardi di persone, cani randagi e vacche ovunque.

“Sir!” era Sami che ci informava che eravamo arrivati. Una mucca mi fissava dall’altra parte del finestrino, mentre un meccanico riparava un motorino vicino alla sua coda. Mi sono girato e l’unico edificio che si differenziava dagli altri per le vetrate più o meno pulite era contrassegnato da un’insegna inconfondibile che diceva “Kek Accomodation”.

Siamo scesi dalla macchina e siamo entrati nell’hotel. L’interno era bello e pulito, la camera perfetta con anche una TV Led enorme. Così abbiamo espletato tutte le formalità per il check-in, abbiamo pagato la camera e abbiamo sistemato gli zaini.

Era arrivato il momento di salutare Sami. E’ stato davvero un bravissimo autista e gli siamo stati riconoscenti per la sua gentilezza e professionalità. La mancia se l’è più che meritata. Così con un bel sorriso ci ha salutati ed è sparito nel traffico.

Nuovamente noi due soli, ora ci sentivamo nuovamente liberi, eravamo in uno slum di Chennai, un respiro di libertà, ecco, era aria con odore di gas di scarico, bestiame ed acqua stagnante!

La luce stava calando in quelle strade trafficate e trapuntate da tantissime gioiellerie. Tutto attorno a noi vi era una gran confusione per l’imminente Deewali. A tratti i marciapiedi sembravano un unico blocco multicolore di persone che ondeggiavano e si scambiavano i posti con moti inspiegabili. Siamo entrati in un supermercato per cercare i confetti la finocchio che ci davano sempre a fine pasto e quando ho chiesto informazioni ad un commesso,lui ha interpellato tutto il reparto cosicché mi sono trovato in piedi su una scala con tutti gli indiani che mi parlavano contemporaneamente ed io che li interpellavo come un direttore d’orchestra pazzo che dirige di un coro di voci da supermercato. Alla fine, tra una risata e l’altra, nell’euforia generale della confusione che ero stato in grado di creare, sono riusciti a procurarci i confettini che cercavamo.

Più tardi abbiamo cenato al ristorante Sree Gupta Bhavan, che sembra una pasticceria, ma ha anche tavolini e serve anche salati. Abbiamo ordinato due bei piatti di riso e poi, come dessert, due deliziosi dolcetti coperti di argento alimentare. Una cena assolutamente deliziosa. Naturalmente, abbiamo mangiato con le mani, come si usa in India.

Era ormai tardi e siamo tornati all’albergo e dopo aver visto un programma su Discovery Channel, siamo crollati a dormire. Il giorno successivo ci saremmo dovuti alzare prestissimo per una tappa lunga ed impegnativa.

Buona Notte Chennai!

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