Due ghepardi a caccia nel bush… di 1° parte

La giraffa ha il cuore lontano dai pensieri: si e’ innamorata ieri e ancora non lo sa”. (antico detto San)La Tovaglia, la nuvola nata dall’incontro tra le calde correnti provenienti dall’Oceano Indiano e la fredda aria atlantica, che copre la cima della Table Mountain trasformandola in un misterioso e ribollente...
Scritto da: Sara Bruno 3
due ghepardi a caccia nel bush... di 1° parte
Partenza il: 27/01/2003
Ritorno il: 10/02/2003
Viaggiatori: in gruppo
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La giraffa ha il cuore lontano dai pensieri: si e’ innamorata ieri e ancora non lo sa”.

(antico detto San)

La Tovaglia, la nuvola nata dall’incontro tra le calde correnti provenienti dall’Oceano Indiano e la fredda aria atlantica, che copre la cima della Table Mountain trasformandola in un misterioso e ribollente pentolone da cui sgorgano densi vapori bianchi pronti a scivolare senza sosta sulle pendici di quel grigio blocco di arenaria, alto 1.073 m, ai cui piedi si è sviluppata Città del Capo. Due ghepardi che si muovono leggeri in cerca di un impala o di una zebra nel caldo pomeriggio africano, i gialli occhi vigili, il corpo snello, le lunghe gambe pronte allo scatto. Forse non si sono accorti dello sgambettare furtivo dello sciacallo che li segue ben nascosto tra gli alberi e l’erba secca del bush, determinato a farsi avanti quando i due fratelli avranno catturato la loro preda e saranno talmente stan-chi da non riuscire a difenderla.

L’acqua dello Zambesi che mi piove addosso, mi bagna i capelli, scivola sul viso, sulle mani, sulla schiena fino a quando non raggiunge le scarpe, ormai grondanti; i miei occhi che si perdono nell’immensità delle Cascate Vittoria, imponenti, invincibili, a un passo da me; la nuvola tonante di vapore e ac-qua che avvolge ogni cosa e si innalza per metri e metri nell’azzurro del cielo, in uno spumeggiante saluto rivolto a chi ha la fortuna di trovarsi di fronte a questo meraviglioso tempio della natura.

Sono queste le tre immagini più significative, quelle che più profondamente si sono impresse nella memoria e che rimarranno lì per tutta la vita a ricor-darmi questo favoloso viaggio in Sudafrica e alle Cascate Vittoria che ormai sta per giungere al termine.

L’aereo si è alzato dalla pista di Johannesburg circa dieci minuti fa lasciandosi alle spalle la distesa senza fine di luci accese ad illuminare palazzi, ville, townships, piazze e vie di quell’immensa metropoli nata attorno a quattro fattorie solo poco più di un secolo fa ed oggi distesa su una su-perficie di 2.500 km2. L’impressione, sollevandosi sopra la città, è di posare gli occhi su una gran quantità di preziose pepite dorate, le stesse pepite, gli stessi ma-gici luccichii che, verso la fine del 1800, hanno attirato qui numerosi avventurieri, stregati dall’illusione di facili guadagni e pronti a giocarsi tutto pur di ottenere una conces-sione. Johannesburg o Egoli, la città dell’oro, è nata proprio così, grazie alla fortuita scoperta di un cercatore australiano, George Harrison (sì, proprio lo stesso nome di uno dei quattro scarafaggi di Liverpool!), che, nel marzo del 1886, trovò tracce d’oro in questa remota zona del Transvaal. Il destino, però, non arrise al povero George che, ignaro di trovarsi di fronte all’unico fi-lone superfi-ciale del più ricco gia-cimento d’oro mai sco-perto, vendette la sua proprietà per sole 10 sterline! Forse è per ricordare lui e gli altri milioni di cercatori che hanno visto sfumare i loro sogni che alcuni cumuli di scarti di miniera del tempo sono stati pro-clamati monumenti storici ed oggi torreggiano alla periferia della città, giallastri ed anonimi a prima vista, ma sicu-ramente carichi di storia e storie e so-prattutto an-cora zelanti custodi di fulgidi scintillii. Proprio a Johannesburg siamo atterrati tredici giorni fa, in una calda e soleggiata mattinata. E da lì siamo subito ripartiti alla volta della “città madre”, Cape Town, raggiunta dopo poco più di un’ora di volo. La Table Mountain, coperta dalla sua quasi inseparabile Tovaglia, ci ha dato il benvenuto in città. Quella nuvola è così strana: adagiata molle-mente sul pianoro della montagna, ogni tanto lascia scendere qualche sua morbida propaggine lungo i pendii scoscesi e conferisce al luogo un’atmosfera incan-tata, assoluta-mente fuori dal tempo. Secondo una vecchia leggenda afrikaaner è solo il fumo della pipa di un attempato cittadino, ostinato a fumare più del diavolo. A mio parere, la Table Moun-tain non è altro che un magico calderone in cui una rinsecchita strega strampalata sta cuocendo un torbido intru-glio. A detta dei più realistici meteorologi, invece, è il Cape Doctor, il vento che soffia da sud-est e che libera la città dai germi (per questo motivo si chiama così!), il responsabile di tutto. È lui, infatti, che, attraversando la corrente di Agulhas e di False Bay, si carica di umidità ed è sempre lui che, incontrando la Table Mountain, sale e si condensa in fitte nuvole lattee quando viene a contatto con aria più fre-sca. Che sia il vecchio fumatore, la strega pazza o il venticello purificatore rimane il fatto che la salita sulla montagna per oggi è sfumata, quindi non ci resta che dedicarci ad una visita dei più significativi monumenti della città.

Decidiamo di cominciare dal Castello di Buona Speranza, costruito tra il 1666 ed il 1679 accanto al sito su cui i primi europei, guidati da Jan Van Riebeeck, leader della Compagnia Olandese delle Indie Orientali – la VOC – avevano eretto un semplice fortino dalle mura di fango. At-torno ad esso si era poi sviluppata una base commerciale molto utile per le navi dirette verso l’Oriente che vi facevano scalo per rifor-nire le loro stive di carne, frutta ed or-taggi freschi e per permettere ai loro marinai di toccare nuovamente terra dopo giorni e giorni passati in mare a lottare con-tro lo scorbuto.

Fu così che Kaapstad, o Città del Capo, divenne nota come la “Taverna dei Mari”. Fu così che i leoni, gli elefanti, gli ippopotami, i rinoceronti neri, i bu-fali, le iene ed i leopardi, largamente diffusi nella zona prima dell’arrivo degli Euro-pei, furono quasi completamente sterminati. E fu così che i Khoikhoi e i San, da sempre abitanti della zona, furono cacciati dalle loro terre, decimati dalle malattie ed annientati dalla supe-riorità delle armi, oppure ridotti in schiavitù sia per la manodopera sia per soddisfare i bisogni sessuali dei bianchi. Ma Jan Van Riebeeck non si fermò qui: per far fronte alle sempre crescenti richieste da parte delle navi in transito, deportò migliaia di schiavi dal Mada-gascar, dall’Indonesia e dalla Malesia. Questi, prima di essere venduti al loro futuro padrone, di solito residente nel quartiere di Bo-Kaap, oggi noto come quartiere malese, venivano ammassati nello Slave Lodge, la costruzione che oltrepassiamo prima di rag-giungere la Catte-drale anglicana di St. George, fino a pochi anni fa retta dall’Arcivescovo Desmond Tutu, premio nobel per la pace nel 1984 per il suo impegno contro la pazzia dell’apartheid.

Sua è infatti la frase “Senza perdono non esiste futuro, ma senza confessione non ci può essere perdono” alla quale si è ispirata la Truth & Re-concilia-tion Commission, la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, che, dal 1994 al 1999, ha analizzato i crimini legati a quel periodo in cui i fonda-mentali diritti civili di milioni di persone sono stati negati semplicemente sulla base del colore della pelle.

Molte, moltissime storie di terribile brutalità, di omicidi e massacri, di pestaggi e abusi di qualsiasi genere sono passati al vaglio della Commis-sione che, ba-sandosi sul motto dell’Arcivescovo, permetteva ai colpevoli disposti a confessare i loro crimini di ottenere il con-dono della pena.

E così si è venuti a conoscenza delle violenze commesse nelle prigioni, delle agghiaccianti applicazioni delle leggi discriminatorie e addi-rittura degli esperimenti compiuti per cercare di sintetizzare un veleno che agisse solo sui non bianchi.

Ma il limite della Commissione sta nel fatto che, sebbene molti poliziotti, soldati e cittadini abbiano confessato le loro colpe, coloro che hanno deciso le politi-che ed impartito gli ordini, responsabili di atroci crimini contro l’umanità, rimarranno con ogni probabilità impuniti, poiché è arduo trovare prove che dimo-strino la loro colpevolezza, nonostante questa sia rimasta sotto gli occhi di tutti per quasi mezzo secolo… Un’altra celebre e sicuramente più allegra frase dell’Arcivescovo, che campeggia su tutte le guide turistiche ed i cataloghi che pubbliciz-zano viaggi in questa zona, è quella che riguarda la definizione di Rainbow Nation, Nazione Arcobaleno, attribuita al Paese per sintetiz-zare la sua com-plessità etnica e paesaggistica.

Il Sudafrica è infatti un melting pot di razze, culture ed etnie che unisce quasi trentaquattro milioni di neri, tenacemente orgogliosi della loro apparte-nenza ad una determinata tribù, circa cinque milioni di bianchi, in prevalenza discendenti da immigrati inglesi, olandesi, te-deschi o fran-cesi, quattro mi-lioni di coloureds, i meticci nati dall’incontro tra gli europei e gli schiavi importati nei primi anni di vita della Colonia del Capo, ed un milione di asiatici, soprattutto di origine in-diana.

E queste persone possono decidere di vivere in grandi città o in paesini sperduti tra le montagne o abbarbicati in riva al mare, e di pas-sare le loro va-canze sulle calde spiagge dell’Oceano Indiano, tra le suggestioni infinite del deserto del Kalahari o nel bushveld inconta-minato dei parchi nazionali. Davvero un paese eterogeneo, non c’è che dire! Anche il nostro ingresso nella cattedrale, progettata dall’architetto Sir Herbert Baker nel 1897, è salutato da un arcobaleno, quello creato dalle vetrate e dai rosoni policromi illuminati dai raggi del sole, davanti ai quali rimaniamo come ipnotizzati mentre la guida ci spiega che qui in Su-dafrica non esiste una religione di stato, infatti la maggior parte della popolazione è cristiana, ma ci sono anche nu-merosi induisti, musulmani ed animisti. All’uscita, dopo aver percorso pochi metri, ci soffermiamo ad ammirare lo splendido esempio di architettura coloniale inglese offerto dalle Houses of Parliament, risalenti al 1885, dove Nelson Mandela, il 10 maggio 1994, fu proclamato primo presidente della nazione eletto democra-tica-mente, e poi varchiamo l’ingresso dei Company’s Gardens, sorti su una parte dell’appezzamento di diciotto ettari su cui gli uomini di Jan Van Riebeeck coltivavano insalata, cavoli, zucche ed altre verdure da vendere ai marinai di passaggio.

Oggi che Cape Town non è più la Taverna dei Mari, ma una vivace città visitata ogni anno da milioni di turisti, i campi coltivati hanno tro-vato dei degni sosti-tuti nelle aiuole di rose dal profumo inebriante, nei prati da cui curiosi scoiattoli spiano i passanti sgranocchiando qualche nocciola e negli alberi secolari, ge-nerosi dispensatori d’ombra.

Così, dove un tempo uomini e donne seminavano mais e spinaci, adesso svetta la statua di Cecil John Rhodes, Primo Ministro della Co-lonia del Capo dal 1890 al 1895. Ed è proprio a quegli anni che ci riportano il suo sguardo ed il suo braccio rivolti verso nord, gli anni in cui que-sto piccolo inglese mala-ticcio, arricchitosi con i diamanti di Kimberley e l’oro del Transvaal, progettava di unificare l’Africa dal Capo al Cairo sotto la giurisdizione britannica. Per realizzare questo sogno non esitò ad utilizzare ogni mezzo a sua disposizione ed in particolare sfruttò i missionari per imbrogliare i capi delle varie tribù stanziate lungo il percorso.

Fu in questo modo che riuscì a farsi gioco di Lobengula, il re degli Ndebele, una tribù che in breve tempo venne massacrata e sfrattata dalle terre a sud dell’attuale Zimbabwe in cui si era stabilita pochi anni prima, nel 1823, per sfuggire al regime di terrore imposto dal sangui-nario re zulu Chaka.

A poco servirono i lunghi scudi e le lance affilate contro le armi e la polvere da sparo dei bianchi… Fortunatamente, però, questo pazzo sogno imperialistico era destinato a rimanere tale: il Capo ed il Cairo non furono mai uniti, Cecil John Rho-des passò a miglior vita a soli quarantanove anni ed ancora oggi, dalle colline di Matobo Hills, in Zimbabwe – l’ex Rhodesia – dov’è sepolto, il suo sguardo è fisso verso il tanto anelato, ma ormai irraggiungibile, nord.

Lasciata alle spalle la statua, diamo una rapida occhiata alla South African National Gallery prima di raggiungere il quartiere malese di Bo-Kaap, dove ci ritro-viamo circondati da una moltitudine di basse case variopinte.

È qui che vivono i musulmani del Capo, discendenti degli schiavi importati dall’Asia da Jan Van Riebeeck, ed è qui che, nel 1794, è stata co-struita la prima mo-schea della città, la Auwal Mosque, fortemente voluta da Tuan Guru da Tidore, carismatico leader islamico che la VOC esiliò a Cape Town nel 1780. Oggi la sua tomba si trova nel cimitero Tara Baru, sempre in questo quartiere: è uno dei venti kara-mats, le tombe di santi musulmani, che cir-condano Città del Capo ed ogni anno è visitata da numerosi fedeli.

Noi, però, evitiamo questo pellegrinaggio: preferiamo percorrere Chiappini Street, la via che prende il nome da un pittore veneziano arric-chi-tosi in In-dia e di-venuto famoso qui come mercante di vino e consigliere della città.

Le case dal tetto piatto, ognuna di un colore diverso, scorrono davanti ai nostri occhi: la prima è blu elettrico, quella accanto è lilla pal-lido, poi c’è il verde acido, il giallo canarino, il rosa, il rosso, il turchese… una vera esplosione di allegria, su cui vegliano la spianata neb-biosa di Table Mountain e la vetta felina di Lion’s Head.

Dopo questo bombardamento di colori, stanchi, ma smaniosi di scoprire ogni angolo della città, ci dirigiamo verso il Victoria & Alfred Waterfront, il vec-chio porto tuttora utilizzato da piccole navi e pescherecci ed allo stesso tempo in grado di ospitare, nei suoi edifici ri-salenti alla fine del se-colo scorso, uno scintil-lante centro commerciale. Il sole è ancora caldo, nonostante stia già calando la sera, ma la fresca brezza del Cape Doctor, che sferza la zona portando con sé il profumo del mare, mi-tiga il clima e fa sventolare le tante bandiere sudafricane sistemate a poppa delle imbarcazioni all’ancora.

Tra queste, sta sguazzando tranquillo un leone marino in cerca di cena. Il suo corpo, scuro e lucido, a tratti emerge dall’acqua, attirando gli sguardi incu-riositi dei passanti, di fronte ai quali sembra quasi pavoneggiarsi. Dopo una breve ma infruttuosa ricognizione, si lascia alle spalle l’Alfred Basin per diri-gersi speran-zoso verso il più grande Victoria Basin: purtroppo, anche qui la caccia non dà i risultati spe-rati, così non gli ri-mane che abbandonare il porto e raggiungere le fredde acque dell’Atlantico, dove sicuramente troverà di che sfa-marsi. Un ultimo colpo di coda ed ecco che il suo corpo sparisce sott’acqua, decretando la fine dello spettacolo… Gli occhi dei turisti possono quindi tornare a posarsi sulle vetrine dei negozi mentre i nostri sono attratti da un palo nero situato lì vicino sulla cui som-mità al-cune frecce indicano la distanza dai punti più significativi della Terra. È così che scopriamo che sono sufficienti 6.131 km per sbarcare sui ghiac-ciai del Polo Sud, che bisogna percorrerne quasi il doppio, ovvero 12.202, per ammirare l’Opera House e l’Harbour Bridge di Sidney e che, dopo 16.192, si atterra nella fredda Vancouver.

Fortunatamente, bastano pochi passi per raggiungere, sull’altra parte del molo, la rossa Torre dell’Orologio che, ligia al suo dovere, ci ricorda che è arri-vata l’ora di tornare in albergo per la cena. Saziato lo stomaco, la stanchezza si impossessa definitivamente dei nostri corpi, così crol-liamo in un sonno profondo fino all’indomani mattina quando la sveglia, puntata alle 7.00, ci avverte, senza alcuna pietà, che è giunta l’ora di sve-gliarsi. La prima tappa della giornata è a Camps Bay, dove i Dodici Apostoli, dodici speroni rocciosi che si staccano verso sud dalla Table Mountain, si gettano nell’Oceano Atlantico, oggi illuminato da mille tonalità di blu create dal sole, già alto nel cielo, e percorso da nu-merose macchie bianca-stre di plancton che, tra giugno e novembre, verranno spazzate via dalle voraci balene giunte in queste zone dai gelidi mari antartici per ripro-dursi. Ancora alcuni chilometri ed eccoci arrivare ad Hout Bay, un paese che deve il suo nome ai fitti boschi, un tempo intensamente sfruttati, che si esten-dono alle sue spalle, infatti in afrikaans “Hout” significa “legno”. Qui, ci imbarchiamo per raggiungere, dopo una ventina di minuti, Duiker Island, una piccola isola roc-ciosa divenuta la casa di migliaia di foche. È uno spettacolo davvero incredibile! Gli scogli sono completamente ricoperti da questi animali così buffi: alcuni sono intenti a giocare, alcuni a sonnec-chiare, mentre altri, sentendo la barca avvicinarsi, si muovono goffamente sulle rocce per raggiungere l’acqua dove, senza doversi preoccupare della presenza del loro peggior nemico, lo squalo, tenuto lontano dalle correnti fredde, sono liberi di mettere in scena uno spetta-colo ricco di tuffi, acrobazie ed audaci giravolte a cui partecipano anche i cuccioli, pazientemente sorvegliati dalle mamme. A poco a poco, il tempo comincia a volgere al peggio: uno stuolo di nuvole minacciose si muove veloce a coprire il sole mentre dal mare una malinco-nica neb-biolina sale verso la costa, così il nostro ritorno verso il porticciolo, scortato da un numero indefinito di onde infu-riate e da un vento sferzante, si rivela al-quanto movimentato! Le nuvole basse e grigie ci accompagnano anche al Capo di Buona Speranza, creando la giusta atmosfera per visitare questo impervio lembo di terra proteso nell’Oceano Atlantico che Sir Francis Drake, nel lontano 1580, quand’era ormai giunto alla fine del suo giro del mondo, definì “la cosa più mae-stosa e più bella che abbiamo mai visto sulla faccia della terra”. Per raggiungerlo, attraversiamo il Cape Peninsula National Park, patria incontrastata del Cape Floral Kingdom, il regno floristico più pic-colo ma più ricco al mondo, esteso su una zona molto limitata, quella compresa tra Cape Point e Grahamstown, ma in grado di ospitare oltre 1.300 spe-cie vegetali ogni 10.000 km2, la stessa superficie sulla quale, nella rigogliosa Foresta Amazzonica, se ne contano appena 400… Pochi alberi, sicuramente dotati di una grande resistenza, riescono a crescere su questa terra costantemente battuta dai venti, dove il re indi-scusso è il fynbos, la “piccola macchia” costituita da protee, eriche e canne che, con le loro foglioline strette e la loro natura cespu-gliosa, si sono rivelate meno vulnerabili agli attacchi sferrati ogni giorno dall’impetuosa aria atlantica.

Ed è proprio da un cespuglio di protee, il fiore simbolo del Paese, che il botanico Linneo battezzò con il nome del dio greco dalle mille forme per elo-giarne le trecento differenti specie, che dieci babbuini sbucano all’improvviso, bloccando la strada che ci sta portando a Cape Point.

Il primo a mostrarsi è un vecchio maschio, probabilmente il capo. Si avvicina al nostro pulmino con passo deciso e poi, fermo sul ciglio della strada, ci osserva con la sua espressione aggressiva ma allo stesso tempo ottusa, come a volerci sfidare. A poco a poco, anche il resto del gruppo lo raggiunge, per poi sparpa-gliarsi tutt’intorno. Due giovani maschi prendono d’assalto i rami di un alberello lì vicino, alla ricerca di qual-cosa da sgranocchiare, mentre un piccolo, sfuggito al controllo della mamma, sgambetta tra l’erba, nel vano tentativo di catturare un insetto. Qualcuno si corica all’ombra delle protee, ma con gli occhi fissi a scrutare ogni nostro movimento; altri si allon-tanano con la loro andatura lenta ed indifferente e la lunga coda che dondola a de-stra e a sinistra.

Dopo qualche minuto passato ad osservarli, decidiamo di allontanarci anche noi e, percorsi ancora pochi chilometri, ecco apparire da-vanti ai nostri oc-chi, spietato e crudele, l’incubo di tutti i più consumati uomini di mare: il famigerato Capo di Buona Speranza! Nel corso dei secoli, numerose navi si sono inabissate in queste acque irrequiete, punto di incontro della fredda corrente del Benguela e delle calde onde pro-venienti da Cape Agulhas, ed i loro relitti giacciono oggi sul fondo dell’oceano, con le capienti stive, un tempo tra-boccanti di oro, the e spezie, invase da alghe e crostacei.

Il primo europeo a riuscire nell’impresa di doppiare questo infausto sperone di roccia fu un navigatore portoghese, Bartolomeus Dias. Il Re del Portogallo, Giovanni II, gli aveva affidato una missione importantissima: aprire una via marittima verso i preziosi mercati delle Indie, una nuova via che sostituisse quella di terra, chiusa nel 1453, dopo che Costantinopoli era caduta in mano ottomana.

Accettata la sfida, con due caravelle ed una “naveta” per i rifornimenti, Dias salpò da Lisbona nell’agosto del 1487 ed il 3 febbraio dell’anno suc-cessivo, dopo aver perso ogni speranza in seguito ad una tempesta che aveva trascinato la nave fuori dalla rotta prefis-sata, si accorse di essere inaspettata-mente giunto nell’Oceano Indiano: la costa del continente africano, infatti, non era più rivolta verso l’ignoto sud, ma saliva verso nord-est, lo stesso nord-est in cui si tro-vava l’Asia con le sue terre coltivate a coriandolo, pepe, cannella e paprica. Ma i viveri sulla nave di Dias cominciavano a scarseggiare e così gli ufficiali portoghesi gli ordinarono di riprendere la via di casa. Supe-rato con facilità Cape Agulhas, il punto più a sud del continente, dove le acque atlantiche incontrano quelle indiane, all’orizzonte emerse inaspettato un nero baluardo roccioso, pro-teso come un pugnale pronto a colpire. Ben presto la nave divenne preda di onde altissime, mentre correnti ingovernabili minacciavano di scagliarla a riva. Nonostante tutto, Dias riuscì a sog-giogare la forza del mare e, a ricordo della battaglia vinta, decise di battezzare il suo avversario Cabo Tormentoso. Questo nome, evocatore di tempeste e disgrazie, però, non piacque a Re Giovanni che, pervaso da un nuovo ottimismo al pensiero che l’Oriente po-tesse nuo-vamente essere raggiunto, decise di cambiarlo nel più benaugurante Cabo de Boa Esperança.

Molti navigatori da allora approdarono sulle coste asiatiche, ma Dias non fu tra questi: nel 1500 si trovò ancora una volta a fronteggiare il Capo, ma questo, tornato Tormentoso, si vendicò di colui che aveva violato il suo segreto trascinando la nave nei suoi abissi. Oggi, il nome di Dias echeggia ancora tra le nebbie del Capo: a lui è infatti dedicata la spiaggetta incastonata tra i due promontori di Cape of Good Hope e Cape Point, su cui si infrange il bianco spumeggiare dell’oceano. Ed è proprio su quella spiaggia che si posa l’unico raggio di sole che per pochi secondi illumina la nostra visita quaggiù, a 34° 21′ 24″ di latitu-dine sud e 18° 29′ 51″ di longitudine est: la sabbia cupa prende improvvi-sa-mente vita colorandosi di giallo ed arancione mentre gli evanescenti luccichii del mare si prodigano per darle un aspetto ancora più prezioso. Ma si tratta di un’apparizione fugace: in breve tempo le nuvole pren-dono di nuovo il sopravvento e l’oro della sabbia perde tutta la sua brillantezza. Noi ammiriamo tutto questo dall’alto del Cape Point Peak, raggiunto attraverso una funicolare ed un sentiero a gradoni. Quassù, a ben 249 me-tri sul livello del mare, svetta ancora il vecchio faro, un tempo il più potente del mondo, che è stato mandato in pensione nel 1911, dopo il nau-fragio della nave portoghese “Lusitania”, avvenuto perché la sua luce bianca, anche se intensissima, non riuscì a pe-netrare la coltre di nebbia e nuvole che quel giorno affliggeva il Capo. Da allora, il compito di mettere in guardia i marinai che si avven-turano tra queste acque è svolto da un altro faro, situato sul sottostante Diaz Point, ad appena 87 metri sul livello del mare. Chissà se la sua luce viene scorta anche dal Capitano Van Der Deken, meglio conosciuto come l’Olandese Volante, condannato a vagare in que-ste acque nei giorni di tempesta con il suo veliero dalle rosse vele sbrindellate… Narra infatti la leggenda che egli si vantava di po-ter circumnavigare tutti i mari del mondo con qualsiasi burrasca; arrivato al Capo di Buona Speranza, se ne trovò davanti una degna di questo nome e decise di sfidarla, anche se l’equipaggio ed i pas-seggeri cercarono di convincerlo a desistere. Ma lui non diede retta alle loro lamentele: avrebbe dimostrato a tutti la sua abilità ed il suo coraggio. Fu in quel momento che un an-gelo apparve sulla nave e lo supplicò di cambiare idea per il bene suo e delle persone che erano a bordo. Al sentire quelle parole, il capi-tano alzò la pistola per spa-rargli, ma l’angelo riuscì a rimandare indietro il colpo, ferendo Van Der Deken alla mano. Arrab-biato, quest’ultimo alzò l’altro pugno, ma si ritrovò con il braccio paralizzato. L’Olandese Volante cominciò quindi ad insultare l’angelo che, in un batter d’occhio, fece sparire l’equipaggio ed i pas-seggeri e lo condannò a percorrere per l’eternità i mari in tempesta, senza cibo e senza acqua, solo con l’acido del suo stomaco. Ecco perchè, quando le tem-peste si accaniscono sul Capo, rendendolo an-cora una volta Tormentoso, tra la furia dei ca-valloni im-pazziti molti giurano di scorgere un vecchio vascello dalle vele ormai ri-dotte in brandelli… Oggi, all’orizzonte campeggiano molte nubi grigie ma di sicuro non porteranno né lampi né tuoni, quindi lasciamo che la nebbia continui ad av-volgere le in-quietanti urla del capitano ed il suo veliero trascinato alla deriva e, dopo aver avvistato due eland impegnati a brucare tra i cespugli del fynbos, co-steggiamo la False Bay, lasciandoci affascinare dalle sue acque, all’apparenza tranquille ma in realtà respon-sabili di tanti tragici naufragi, che si infran-gono su scure rocce affilate o calde spiagge sabbiose.

In breve, arriviamo a Simon’s Town, tristemente nota ai tempi dell’apartheid per essere stata una “whites only area”, dove pran-ziamo a base di pesce a bordo di una nave ancorata nel porto militare, e poi, nel pomeriggio, accompagnati da un inaspettato sole che, assistito dal vento, ha provveduto a spazzar via le nuvole, raggiungiamo Boulders Beach, per il tanto atteso incon-tro con la colonia di pinguini che da parecchi anni vive qui. La loro casa è una piccola distesa di sabbia finissima racchiusa tra bianchi massi granitici, i famosi “boulders” che hanno dato il nome al luogo. È qui che que-sti simpatici uccelli passano la maggior parte della loro giornata, intenti a covare, giocare o semplicemente dormire su una pietra o all’ombra di un cespuglio. È qui che ritornano ad asciugare le loro piume dopo una tranquilla nuotata nelle acque trasparenti della False Bay da cui escono cion-dolando a destra e a sini-stra e provocando numerosi sorrisi sui volti dei turisti. Ed è sempre qui che si mettono in posa davanti alle tante macchine fotografiche pronte a scattare, che allungano il collo ed il becco verso il cielo per rivolgergli il loro strano grido simile al ra-glio di un asino e che si esibiscono nella loro buffa andatura ondeg-giante. Ma soprattutto è qui, su questa spiaggia appartenente al Cape Peninsula National Park, che questi animali, sottoposti a continue mi-nacce di estinzione, tro-vano un luogo sicuro per deporre le loro uova, spesso raccolte per uso alimentare, ed un mare incontaminato dove le sardine e le acciughe, il loro cibo prefe-rito, non mancano di certo. Ogni giorno, sulla passerella in legno che porta alla spiaggia, si accalcano orde di turisti. La maggior parte dei pinguini sembra ormai essersi abituata ai loro occhi indagatori ed al loro chiasso, ma qualcuno rivela ancora una certa curiosità. È il caso del pinguino che ci segue mentre ci dirigiamo verso l’uscita. Le sue ali nere, che millenni di evoluzione hanno trasformato in agili pinne, risplendono sotto i caldi raggi del sole, mentre le sue corte zampe si muovono veloci la-sciando piccole impronte nella sabbia. Dopo i primi passi un po’ titu-banti sembra farsi più ardito, ma, ap-pena si accorge di essere stato scoperto, il suo corag-gio viene meno ed in pochi secondi eccolo nascon-dersi dietro un cespuglio lì vi-cino. Mentre noi ci allontaniamo, solo un pic-colo becco curioso ed alcune piume bianche del petto spuntano tra i rami e le foglie a rive-lare la sua pre-senza… Dopo questo bizzarro incontro, ci attendono i Giardini Botanici di Kirstenbosh, distesi ai piedi delle pendici orientali della Table Mountain, dove si colti-vano quasi 9.000 delle 22.000 specie vegetali sudafricane. Il periodo migliore per visitarli sarebbe tra settembre e ottobre, quando la mag-gior parte delle piante esplode in mille colori, ma anche in questa calda giornata di gennaio si rivelano un luogo molto affascinante. Un sole splendente illumina infatti la sconfinata distesa blu cobalto del cielo, su cui qualche soffice nuvola vaga senza una meta precisa, mentre la rigida Table Mountain, spalleg-giata dai raggi infuocati che fanno brillare ogni sua pietra, sembra volersi disfare per un attimo di un po’ della sua au-sterità. Camminiamo senza fretta, lasciandoci avvolgere da morbidi prati intervallati da cespugli di protee, distese di erica ed alberi dai rami contorti, sempre se-guiti da un leggero venticello, la gioia dei nostri corpi accaldati, che ci sferza il viso e ci scompiglia i capelli; ogni al-bero, ogni foglia, ogni ciuffo d’erba intorno a noi sembra impegnarsi per creare infinite to-nalità di verde e, mentre i miei occhi si stupi-scono di fronte ai colori ed alla forma di un’inaspettata pro-tea fiorita ed il profumo di una strana pianta dal nome impro-nunciabile mi solletica il naso, devo rassegnarmi a riconoscere almeno un merito a quel pazzo sterminatore che fu Cecil John Rhodes: è stato lui, in-fatti, nel 1895, ad acquistare questo terreno per preservarlo dalla costruzione scriteriata di case e palazzi e a lasciarlo in ere-dità alla città po-chi anni dopo, con la promessa che, nel corso dei secoli, non una pietra, un mattone o un granello di cemento avreb-bero con-taminato que-sto angolo di Table Mountain. Anche un altro europeo, a cui però dubito riuscirò mai a riconoscere un merito, ha lasciato il segno in questa zona, ma prima che ve-nisse tra-sfor-mata in un giardino botanico. Correva l’anno 1652 quando Jan Van Riebeeck approdò al Capo con un manipolo di dipendenti della Compagnia Olandese delle Indie Orientali e l’intento di creare una base commerciale per le navi che facevano la spola tra l’Europa ed i ricchi mercati asiatici, ma, con suo grande disap-punto, trovò la terra già abi-tata dai San e dai Khoikhoi. Col passare del tempo e l’aiuto delle armi, avrebbe sterminato queste popolazioni, ma il primo provvedimento che decise di pren-dere per proteggere la pura razza europea dall’inciviltà fu quello di piantare una barriera di mandorli amari dalle pendici di Table Mountain fino a Table Bay. Ancora oggi alcune di queste piante svettano nella parte nord del giardino, ma noi non abbiamo il tempo di raggiun-gerle. Per concludere degna-mente la giornata abbiamo infatti pensato a qualcosa di più spettacolare: approfitte-remo del temporaneo divorzio tra la Ta-vola e la sua Tovaglia per ammirare Città del Capo da 1.073 metri di altezza.

Diamo ancora una rapida occhiata al Conservatorio, una specie di serra all’interno della quale sono coltivate quelle piante che all’aperto non tro-vereb-bero un clima adatto, come gli indomiti arbusti provenienti dal deserto del Karoo o dalle vette dei Drakensberg e le felci e le orchidee abi-tuate all’umidità delle foreste costiere, e poi lasciamo i giardini per dirigerci verso la stazione di partenza della funivia.

Sono sufficienti pochi minuti per superare i ripidi fianchi e ritrovarsi sulla vetta, un’enorme spianata lunga quasi tre chilometri di cui per-corriamo ogni angolo, totalmente affascinati dalla vista di cui si gode da quassù.

Città del Capo, distesa ai nostri piedi, dà l’impressione di voler cercare verso l’oceano una via di fuga dalle montagne che da sempre la asse-diano, im-placabili. L’incursione nel centro cittadino è affidata alla coraggiosa Signal Hill, la bassa collina ricoperta di pini ed eucalipti pronta a farsi strada col suo famoso cannone che tutti i giorni, tranne la domenica, a mezzogiorno, spara un colpo a salve – il “Noon Gun” – per salutare le navi ancorate nel porto, e alla fiera Lion’s Head, questa sera incappucciata da un’innocente nuvoletta bianca, mentre il controllo del fianco destro è lasciato al diabolico Devil’s Peak, deciso ad incutere timore sia col suo nome che con la sua cima aguzza. Anche il lato sud è coperto: i Dodici Apostoli sono infatti rigorosamente schierati per contrastare l’avanzata di Camps Bay. Nulla da eccepire quindi al massiccio della Table Mountain che sembra svolgere alla perfezione il ruolo di esperto comandante al quale è stato chiamato.

Ma questa non è la sola sfida che si sta giocando sotto i nostri occhi. Sono infatti le 6.00 di sera ed i raggi del sole, sconfitti dalle in-gorde ombre che hanno già conquistato interi quartieri, si stanno preparando ad abbandonare la città. L’unico loro alleato sembra es-sere rimasto l’oceano, an-cora com-pletamente illu-minato, sulle cui acque, che sfumano dall’allegro azzurro della riva, pronto a sedurre migliaia di bagnanti e wind-surfers, al cupo blu delle profondità percorse dagli squali, stanno danzando, sospinte dalle onde, numerose barche già ormeggiate. Presto si unirà a loro anche il battello che si sta allontanando dalla cru-dele Robben Island, sospesa all’imboccatura della Table Bay. Noi, imbacuccati nelle nostre giacche che però nulla possono contro il vento ostinato che ci sta avvolgendo con tutta la sua forza, se-guiamo per un at-timo la sua scia biancastra diretta verso il porto e poi, dopo un ultimo sguardo alla città, risaliamo sulla funivia. Per tornare in albergo, affidiamo i nostri dieci corpi, stipati su un pulmino da sette posti, nelle mani di un autista che sembra impegnarsi di più a ridere e a gesticolare che a seguire ciò che succede sulla strada davanti a lui, ma, nonostante tutto, riusciamo ad arrivare sani e salvi per la cena e per quattro chiacchiere a bordo piscina, le uniche cose che riusciamo a concederci prima di crollare esausti sui nostri letti. La mattina seguente, è uno stuolo di nuvole grigie ad accompagnarci a Robben Island, l’isola che deve il suo nome ai tanti leoni marini (i “robbe” in olandese) che, prima di essere quasi sterminati per la carne, la pelle ed il grasso, vivevano sulle sue coste, ma che è di-ventata fa-mosa in tutto il mondo per un altro triste motivo. Durante il periodo dell’apartheid, infatti, la pazzia dell’uomo l’ha trasformata in un’atroce pri-gione per migliaia di neri, rei sol-tanto di aver lottato contro un regime che non riconosceva loro alcun diritto, se non quello di venire trattati come esseri inferiori. Un regime folle e discriminatorio che classificava ogni persona in base alla razza e che, in accordo con il suo significato, “segregazione”, preve-deva aree e strutture separate a seconda del colore della pelle.

Un regime che aveva confinato la popolazione nera all’interno di dieci territori quasi privi di risorse, le homelands, per uscire dalle quali era ne-cessario il passaporto ed un permesso particolare.

Un regime che, con la sua assurda politica basata sulla tortura, sull’incarcerazione senza processo e sulla censura dei mezzi di informa-zione, è riuscito a governare il Paese dal 1948 al 1994, anno in cui uno degli ex prigionieri di Robben Island, Nelson Mandela, scarcerato l’11 febbraio 1990, ha vinto le prime elezioni multirazziali della storia del Sudafrica.

Da allora, l’isola ha abbandonato la sua triste funzione di prigione e, col passare degli anni, è stata trasformata in un museo. I turisti che vi approdano, noi compresi, cominciano la visita con un giro in pullman che tocca tutti i punti più significativi, dal villaggio delle guardie car-cerarie alla casa dove era imprigionato Robert Sobukwe, leader del Pan African Congress, tenuto lontano dagli altri pri-gionieri per paura che potesse incitarli alla ribellione, fino alla cava di calce in cui i detenuti erano costretti ai lavori forzati.

È qui che si trova uno dei monumenti più importanti di tutta l’isola. Si tratta di un semplice cumulo di pietre, la prima delle quali è stata posta da Nelson Mandela, poi seguito da altri prigionieri. La particolarità sta nel fatto che non una di queste pietre è uguale alle altre. Tutte hanno una loro forma, di-mensione o composizione. Eppure si trovano insieme, nello stesso posto… Il sogno di tutti i detenuti di Robben Island, ossia il raggiungimento dell’unione tra diverse razze, diverse culture e diversi pensieri, non poteva essere rappresentato in modo migliore.

Dopo un’oretta, il pullman si ferma davanti alla prigione. Appena scesi, conosciamo la nostra guida, un ex prigioniero, e con lui ne var-chiamo i cancelli. La sua voce è comprensibilmente amareggiata mentre ci mostra i diversi settori in cui l’edificio era suddiviso: quelli contrassegnati dalle lettere D, E e F erano riservati ai detenuti “normali”, ammassati in più di trecento all’interno di una stanza e co-stretti a fare i turni per dormire perché non c’era abba-stanza spazio per terra, mentre nel B venivano rinchiusi i leaders. Questi ultimi avevano a disposizione una cella di 6 m2 ciascuno, ma erano totalmente isolati dal resto dei carcerati e le uniche persone con cui pote-vano scambiare qualche parola erano le guardie. Anche Nelson Mandela, il prigioniero n. 466/64, fu rinchiuso in questo settore. Vi ri-mase dal 1964 al 1984, quando venne trasferito nel carcere di Pollsmoor, a Cape Town, e fu tra queste mura che iniziò a scrivere “Il lungo cammino verso la libertà”, il libro che ripercorre tutte le fasi della sua vita, dall’infanzia trascorsa in un piccolo villaggio del Transkei di cui il padre era il capo, agli studi da avvocato, fino agli anni della lotta con-tro la segregazione razziale. Dopo aver visto la sua misera stanza, tralasciamo il settore C, utilizzato come raggio punitivo di isolamento, e ci soffermiamo in quello contrad-distinto dalla lettera A, destinato alla tortura. La guida ci spiega che le punizioni più utilizzate erano due: il buco di pietra, con il quale il dete-nuto veniva seppel-lito nella sabbia fino al collo e lasciato in queste condizioni fin quando non dava segni di soffocamento, e l’aeroplano, che consisteva nell’appendere il prigioniero a un palo a testa in giù per diverse ore. Ma la tortura più difficile da sopportare per i reclusi di Robben Island era forse il totale isolamento dal resto del mondo. In tutto l’anno, pote-vano rice-vere solo due visite e tre lettere, contenenti non più di 120 parole e rigorosamente scritte in afrikaans, in modo che le guardie potes-sero controllarle prima di passarle ai destinatari. La lingua dei poliziotti, infatti, era la sola che si poteva utilizzare all’interno della prigione e, a causa di questo, molti pri-gionieri, capaci di parlare solo il dialetto della propria tribù, finirono col chiudersi in un triste mutismo.

Con il settore A termina la nostra visita. Un ultimo saluto alla guida e poi non ci resta che dirigerci verso il porticciolo dove il battello ci starà già aspet-tando. Lungo la strada, mi soffermo a guardare alcune gigantografie appese sui muri che riproducono lo sbarco dei dete-nuti sull’isola. Ed è mentre i miei occhi osservano le divise immacolate ed i lunghi fucili dei bianchi puntati contro le spalle chine ed i visi smunti dei prigionieri che mi tornano in mente le parole lette su una rivista di viaggi poco prima di partire dall’Italia: “Quando creò quel lembo di terra, la natura voleva farne solo un paradiso per pinguini e per certe antilopi rare, dette bontebok, ma poi l’uomo la destinò ad altri usi”… Decido di scattare una foto ad una di quelle gigantografie: sarà la sola fatta a Robben Island… Il battello si lascia ben presto alle spalle l’isola, con il suo alone di tristezza e le sue nuvole grigie, e in poco tempo raggiunge il Victoria & Alfred Waterfront, dove ci fermiamo per il pranzo e per un giretto veloce tra i tanti negozi. Dopo aver acquistato qualche souvenir e scattato un’ultima foto alla Table Mountain, decidiamo di concludere le nostre due giornate a Cape Town con un rilassante bagno nella piscina del nostro albergo.

Il giorno dopo, infatti, ci tocca salutare la Taverna dei Mari per inoltrarci verso l’interno e raggiungere così Oudtshoorn, il paese degli struzzi. Lungo il primo tratto di strada ci accompagnano i vigneti di Stellenbosh, la seconda città più vecchia del Sudafrica, fondata dal gover-natore Van Der Stel nel 1679, e di Paarl, famosa per essere stata, un tempo, una delle roccaforti degli afrikaner. Qui venne infatti fon-data, nel 1875, l’Associazione dei Veri Afrikaner e sempre qui vennero stampati i primi libri in afrikaans, l’idioma in origine chiamato “kitchen dutch”, ossia “olan-dese da cucina”, poiché si trattava di una versione molto semplificata, e quindi facile da insegnare agli schiavi, della lingua madre dei primi co-loni, ma che, col passare del tempo, ha su-bito le influenze del tedesco, del francese, del malese, dei dia-letti africani e dell’inglese, trasforman-dosi così in una lingua indipendente, riconosciuta tra quelle ufficiali del Sudafrica nel 1925.

A poco a poco, le rinomate viti delle Winelands lasciano il posto ad alte rocce dolomitiche ricoperte di arbusti dagli allegri fiori rossi e gialli che ci scor-tano fino a Montagu, dove il compito di vivacizzare le tante vecchie case dal tetto di paglia è affidato a numerosi cespu-gli di bugan-villee e di oleandri dai colori molto intensi. Dopo il paese, ci accoglie una zona quasi desertica. Qui, dalla terra bruna, arsa da un sole implacabile, spuntano solo miseri cespugli rinsecchiti, qualche aloe e rare piantagioni di rooibos, il “cespuglio rosso” dalle cui foglie gli schiavi malesi ricavavano un particolare te, più leggero delle miscele normali, ancora oggi molto diffuso in tutto il Sudafrica… un te il cui strano aroma pungente ci sveglierà ogni mattina in queste due set-timane.

E finalmente, dopo quasi cinque ore di viaggio, ecco apparire i primi allevamenti di struzzi che caratterizzano tutta la zona di Oudtshoorn. Intorno a noi, si scorgono solo vaste distese incolte percorse da questi uccelli enormi che con l’evoluzione hanno perso la capacità di volare, ma sono diventati degli ottimi corridori, in grado di raggiungere i 50 km/h di velocità. Ci sono grossi maschi dalle piume bianche e nere che ci scrutano con un’espressione poco amichevole, piccoli di pochi mesi che sgambettano scontrandosi l’uno con l’altro e fem-mine intente a covare o a razzolare tra l’erba alla ricerca di qualcosa di commestibile.

Sono questi animali che hanno fatto la fortuna di Oudtshoorn verso la fine del secolo scorso, quando la moda voleva i cappelli e gli abiti da si-gnora or-nati di piume svolazzanti. A quel tempo, nella regione vivevano 750.000 struzzi ed un chilo di piume costava quanto un chilo d’oro. Gli allevatori, detti baroni delle piume, si arricchirono a dismisura e poterono costruire sontuose ville, i “Palazzi delle piume”, alcuni dei quali oggi sono stati dichiarati mo-numento nazionale.

Ma con la prima guerra mondiale e l’avvento delle automobili scoperte la moda cambiò e le piume persero inevitabilmente valore. Oggi, ven-gono utiliz-zate quasi esclusivamente per adornare i vestiti succinti delle ballerine del Moulin Rouge di Parigi o del Carnevale di Rio de Janeiro, così gli allevatori, che ormai hanno perso il loro titolo nobiliare, sono stati costretti a diversificare la produzione, puntando sulla pelle, utilizzata per borse, scarpe e porta-fogli, sulla carne, seccata e trattata per produrre il biltong, e sulle uova, uno dei quali equivale a ventiquattro di gal-lina.

Ma una cospicua fonte di guadagno per questi allevatori deve essere anche la curiosità dei turisti. Sono molti infatti quelli che ogni giorno visi-tano gli allevamenti… e anche noi siamo tra questi! Dopo il pranzo, naturalmente a base di carne ed uova di struzzo, ci dirigiamo verso i campi in cui questi uccelli scorrazzano. Siamo scortati da una sim-patica guida armata di un ramo di acacia spinosa, utile per difendersi dagli attacchi sferrati non tanto con il becco, quanto piuttosto con le zampe, mu-nite di un pericoloso artiglio capace di sventrare un uomo. Il nostro primo incontro è con un grosso maschio occupato a covare: sotto le ali nasconde più di dieci uova. Non c’è ombra di dubbio: questo esemplare deve essere un gran seduttore. Gli struzzi, infatti, sono tutt’altro che monogami: ognuno di essi è libero, natural-mente dopo aver dato prova delle proprie qualità attraverso un’elaborata danza di corteggiamento, di accoppiarsi con più femmine, che poi deporranno le loro uova, al massimo cinque ciascuna, tutte nello stesso nido. Qui, i futuri pulcini saranno covati solo dalla prima fem-mina, aiutata dal maschio, mentre le altre non potranno più occuparsi della loro prole. Alcune volte un uovo viene lasciato fuori dal nido, ma gli studiosi non hanno ancora capito per quale motivo. I Boscimani hanno fornito una loro ver-sione, sicuramente non molto veritiera, ma interessante, per spiegare questo comportamento. Si tratta di un’antica leg-genda che risale ai tempi in cui il mondo era ancora giovane e in cui l’unico dio era la mantide religiosa. Questa, molto golosa, divenne ben presto amica dello struzzo, capace di stupirla ogni giorno con nuovi manicaretti, e volle a tutti i costi carpire il segreto di quel cuoco provetto. Fu così che una sera lo spiò e scoprì che quei piatti, così appetitosi e soprattutto impossibili da imitare, venivano cucinati uti-lizzando una strana meraviglia totalmente sconosciuta sia a lei che al resto degli esseri viventi. Una meraviglia che lo struzzo teneva nascosta sotto la sua grande ala: il fuoco! Decisa a rendere partecipe il mondo intero di quella scoperta, la mantide pensò per giorni e giorni al modo in cui raggirare lo struzzo, fino a quando non gli venne una splendida idea: lo invitò sotto un albero di marula per uno spuntino e gli chiese, siccome lui era più alto, di mangiare i frutti appesi sui rami più distanti da terra. Ma per fare questo, il povero struzzo dovette alzare le penne! La fiammella cadde così a terra e la mantide riuscì ad impadronirsene e a donarla all’umanità. Secondo i Boscimani, ancora oggi, vedendo l’uovo fuori dal nido, lo struzzo si ricorda che non deve alzare le penne, ma continuare a covare, se non vuole perdere qualcosa di molto prezioso.

Mentre la guida continua ad impugnare il suo ramo di acacia, lasciamo che il nostro maschio torni alle sue uova e ci dirigiamo verso un altro campo, dove alcuni suoi simili sono in attesa di qualche temerario disposto a cavalcarli. Già, tra gli sport diffusi in questa zona, c’è anche la corsa con gli struzzi! Nessuno di noi, però, dimostra di avere coraggio a sufficienza per affrontare questa prova e così ci ac-contentiamo di ve-dere all’opera alcuni dipendenti dell’allevamento che, aggrappati saldamente alle ali ed accompagnati da una nuvola di polvere sollevata da quelle zampe così robuste e veloci, impie-gano davvero pochi secondi per raggiungere l’albero di pepe colmo di gra-nelli rosa che segna il traguardo del piccolo circuito.

Prima di partire, c’è ancora il tempo per qualche curiosità raccontataci dalla guida. È così che scopriamo che l’uccello più grande del mondo, capace di raggiungere un’altezza pari a 2,5 metri ed un peso di 150 chili, è un animale onnivoro, in grado di trangugiare, oltre a erba e piccoli mammiferi, anche tacchi di scarpe, candele di automobili, monete e pietre. Il suo collo, dotato di ventinove vertebre cervi-cali, è infatti molto elastico e quindi non ci sono problemi a far arrivare queste prelibatezze, che non possono essere masticate perché lo struzzo non ha denti, nello stomaco… o meglio, negli stomaci! Questo strano animale ne possiede ben due: il primo, con all’interno due organi simili a pietre, macina qual-siasi cosa sia stata ingerita, mentre il se-condo si oc-cupa di completare la digestione. Ora che tutti i segreti degli struzzi ci sono stati svelati possiamo lasciare l’allevamento: le Cango Caves ci aspettano! Queste grotte furono scoperte nel 1780 da un colono inglese alla ricerca di una pecora desiderosa di un po’ di libertà, ma una piccola pittura rupestre che gli oc-chi faticano a scorgere su una parete poco dopo l’entrata dimostra che i Boscimani avevano già usufruito del riparo da loro offerto anni prima. Anche il nome, oggi inglesizzato, porta ancora le tracce dei primi abitanti. In lingua khoisan, infatti, Cango significa “luogo umido” e certo non bisogna essere dotati di una particolare originalità per battezzare in questo modo un ambiente in cui, a dare il benvenuto ai visitatori, ci pen-sano l’aria spudora-tamente appiccicaticcia e l’incessante danza messa in scena da mille goccioline che, dalle stalattiti appese al soffitto, si la-sciano cadere nel vuoto per essere poi accolte dal terreno e dalle stalagmiti che lo costellano oppure dalle spalle, dai capelli e dal viso dei turisti. Ma di fronte allo spettacolo che la natura è riuscita ad allestire nel corso dei secoli, di fronte a quelle stalattiti così simili ai fanoni di una balena o a quell’immensa sala prima avvolta nell’oscurità e poi a poco a poco illuminata per lasciar emergere strane formazioni calcaree, gli umidi ten-tacoli che as-sillano i nostri corpi non hanno di sicuro la meglio. E così, indifferenti alle suppliche della nostra pressione, che tende decisamente verso il basso, ri-ma-niamo circa un’ora nelle grotte a cercare di immaginare angeli, diavoli, organi e tutto quanto la fervida fantasia delle guide è riuscita a scor-gere tra le rocce. La giornata si conclude con l’arrivo a George, la città fondata nel 1811 dagli inglesi e dedicata al loro re, Giorgio III. Passiamo la notte qui, in un bell’hotel un po’ distante dal centro, ed è proprio camminando tra i suoi giardini assediati dalle tenebre che riusciamo a scorgere, per la prima volta dal nostro arrivo nell’emisfero australe, i luccichii lontani della Croce del Sud, impossibili da av-vistare in mezzo alle sfacciate luci che ogni sera sbocciano a Città del Capo per sgominare l’oscurità.

Li osserviamo accompagnati dal roco gracidio delle rane nascoste tra i fiori, di tanto in tanto interrotte nei loro assoli dal fischio acuto di un uc-cellino appollaiato su chissà quale ramo, e lasciamo che siano questi minuscoli puntini iridescenti, persi nella buia immensità che ci sovrasta, ad augurarci la buona notte. Il mattino seguente, ci saluta uno splendido sole, il tempo ideale per una bella gita sul trenino a vapore che collega George a Knysna, sul quale sa-liamo dopo aver girovagato per qualche minuto all’interno del Museo dei Trasporti di George, tra quelle vecchie auto decap-pottabili che hanno fatto passare di moda le piume di struzzo, le luccicanti locomotive ripulite dalla patina di carbone che le ricopriva oltre un secolo fa, quando di-stinti signori accompagnati da eleganti dame si accomodavano sulle sfarzose carrozze di prima classe ad esse collegate per compiere lunghi viaggi d’affari o di pia-cere, ed i pullman rigorosamente dotati di zona per i bian-chi e zona per i neri voluti dalle insane menti fautrici dell’apartheid. Ci aspettiamo grandi cose dall’Outeniqua Choo Tjoe, questo è il suo nome, che ogni giorno sferraglia tra foreste, laghi, coste e lagune seguito da una densa nuvola di fumo nero. E non potrebbe essere altrimenti visto il modo in cui viene pubblicizzato. La “Lonely Planet” lo definisce ad-dirittura “una delle ragioni principali per visitare George”, poiché dai suoi finestrini “si può ammirare un magnifico pae-saggio altrimenti non visi-bile dalla strada”. Ai nostri occhi, però, questo paesaggio appare tutt’altro che magnifico: decrepite bidonville e lugubri tratti di foresta ci tengono infatti compa-gnia per la prima parte del viaggio, fino a quando non entriamo nella zona che anni fa gli Inglesi battezzarono Wilderness, ossia “regione sel-vaggia”, ispirati dalla natura incontaminata che qui regnava sovrana. Ma oggi, purtroppo, di quei laghi, prati e boschi, po-polati di uccelli ed altri animali, che suggerirono que-sto nome non c’è quasi più traccia. Un qualcosa di ben più selvaggio ha preso il loro posto: la costruzione di grandi ville con piscina e lussuosi alberghi a cinque stelle… E così, dopo aver attraversato il lunghissimo ponte disteso sulla laguna di Knysna, arriviamo nella “città delle ostriche” un po’ delusi e quasi to-talmente ricoperti da quella patina nerastra che un secolo fa ricopriva le locomotive e che oggi, invece, si deposita su quelle persone che, con-vinte che prima o poi davanti ai loro occhi apparirà il tanto agognato “magnifico paesaggio”, passano più di due ore affacciati al finestrino, a pochi metri da un camino pronto a sputare fuliggine per tutta la durata del viaggio! Appena scesi dal treno, ci rechiamo nella frazione di Belvedere, dove ci accolgono una bella chiesa in stile normanno e numerose villette im-merse nel verde. Ma la più grande attrattiva di Knysna è senza dubbio la sua immensa laguna: 13 km2 di acqua protetti dalle onde furenti dell’Oceano Indiano da due fiere scogliere di arenaria rossa soprannominate “The Heads”.

Sono numerose le compagnie di navigazione che propongono gite in barca alla sera per godere dei magici colori del tramonto africano e natu-ralmente noi, rinfrancati da un divertentissimo bagno in piscina, non ci lasciamo sfuggire questa opportunità. Questo è infatti il quinto giorno che passiamo in Africa e ancora non abbiamo avuto modo di valutare le capacità artistiche del sole. Certo, ci fidiamo delle descrizioni estatiche di Wilbur Smith, ma, se riuscissimo a vedere con i nostri occhi uno di quei suoi meravigliosi tramonti infuocati, la giornata si concluderebbe in modo davvero spettacolare… pec-cato che oggi la nostra buona stella abbia deciso di mostrarci il suo lato più perfido!!! La crociera si rivela infatti di una durata quasi eterna (più di due ore!) e, nel momento in cui il sole dovrebbe deliziarci con una splen-dida uscita di scena, il cielo si ricopre di poco promettenti nuvole grigie! Scendiamo dalla barca con un’espressione alquanto desolata e decidiamo di affogare i nostri dispiaceri in un buon bicchierino di ama-rula, un liquore dolce, tipico del Sud Africa, ricavato dai frutti dell’albero di marula, che, seguito da quattro risate attorno al tavolo di un locale del porto, ci tira pronta-mente su il morale. E così il giorno dopo siamo di nuovo in perfetta forma.

In poco tempo, ci lasciamo alle spalle Knysna e raggiungiamo Monkeyland, un centro nei pressi di Plettenberg Bay in cui vengono cu-rate e reintrodotte nel loro ambiente naturale quelle scimmie che vi sono state impietosamente sottratte dai padroni di circhi e zoo o da coloro che, stufi di cani e gatti, volevano che qualcosa di più “esotico” girovagasse per il giardino di casa. Mentre un appassionato ranger ci guida attraverso il tratto di foresta su cui questo progetto ha potuto svilupparsi, agili lemuri dalla morbida pelliccia bianca e nera, totalmente indifferenti alla nostra presenza, saltellano tra gli intricati rami che ci fanno da tetto ed al-cune golden monkeys, simpatiche scimmiette gialle provenienti dal Brasile, ci osservano curiose da dietro un tronco, con la lunga coda che penzola nel vuoto. La visita si dimostra alquanto interessante, anche se fa una certa rabbia vedere quei babbuini ormai irrecuperabili che saltano sui tavo-lini del bar per rubare bustine di zucchero o lattine di aranciata… questi animali non verranno mai reintrodotti nelle foreste in cui vive-vano anni fa in-sieme ai loro simili: non riuscirebbero a soprav-vivere se dovessero procurarsi il cibo da soli… La tappa successiva è all’interno del Parco Nazionale Tsitsikamma, istituito per proteggere i circa 100 km di costa che uniscono Pletten-berg Bay a Humansdorp. Anche in questo caso, come alle Cango Caves, è stato mantenuto il nome scelto dai primi abitanti della zona, i San, forse perché trovarne un altro più emblematico non era facile: qui, infatti, sullo sfondo di una rigogliosa foresta, è proprio la “tsitsikamma”, ossia “l’acqua frizzante”, la prota-gonista indiscussa. Imponenti onde si accaniscono senza pietà sugli scogli poco distanti da noi, in una continua esplosione di schiuma e vapore. Animate da chissà quale rancore, sembrano volerli flagellare, il loro esercito di infinite goccioline pronto a lanciarsi all’attacco. Tuttavia, le scure rocce riescono a neutraliz-zare senza problemi queste cariche umidicce ed i soldati agli ordini del Generale Oceano Indiano vengono an-nientati in pochi attimi. Ma, mentre un’inconsistente schiuma lattiginosa, tutto ciò che rimane del loro assalto, scivola sconfitta lungo dure pareti di arenaria, un’altra onda, dalle in-tenzioni ancora più bellicose, si sta già armando nel quartier generale situato a poche decine di metri dal luogo della battaglia, laddove leggere incre-spature si sollevano incitate dal loro comandante ed in pochi attimi acquistano il coraggio ed il vi-gore necessari per lan-ciarsi in un attacco dall’esito tri-stemente scontato. Forse saranno necessari secoli, ma queste onde così audaci riusciranno nella loro difficile impresa ed allora, alle rocce che oggi le fron-teggiano quasi sfrontate, non rimarrà altra scelta che arrendersi, chinando il capo striato dalle cicatrici di tante battaglie. Per nostra fortuna, oggi, l’acqua del mare non ha dovuto richiedere l’appoggio della sua alleata e le inquietanti nuvole sopra di noi si sono po-tute tenere ben stretto il carico di pioggia che le rendeva così grigie. Senza la sgradita compagnia di odiosi goccioloni, ci siamo quindi avventu-rati nella foresta che lambisce la costa, vero trionfo di felci ed alberi sempreverdi dai nomi decisamente illuminanti. Qui, infatti, accanto agli yellowwood, dal tenero legno giallastro, crescono i puzzolenti stinkwood, che fortunatamente sprigionano il loro parti-colare aroma solo quando vengono bruciati, ed i resistenti ironwood e leadwood, la cui anima, dura come il ferro ed il piombo, venne sfruttata soprattutto dai Voortrekkers. Con essa, infatti, si potevano costruire dei carri indistruttibili ed era proprio di carri che questi pionieri, ferventi calvinisti, avevano bisogno per portare a ter-mine la loro missione: ricercare quella lontana terra promessa di cui erano intrise le pagine della Bibbia, loro unica fonte di conoscenza.

Il loro esodo, oggi conosciuto come Great Trek, iniziò nel 1836: fu allora che il “popolo prescelto da Dio” ab-bandonò la Colonia del Capo e quella inso-stenibile giurisdizione inglese che aveva avuto il coraggio di eliminare la schiavitù e quindi di mettere sullo stesso piano l’integerrima razza bianca e gli infedeli neri, capaci di credere a spiriti e stregoni, per spingersi oltre il fiume Orange ed imboccare così strade mai battute da uomini bianchi. Strade che li portarono incontro alla terribile ma-laria e a desolate regioni abitate da spietati animali feroci, ma anche all’oro e all’avorio, inesti-mabili ric-chezze che questa terra sembrava partorire senza un attimo di tre-gua.

E gli ironwood ed i leadwood rimasero fedeli a questi pionieri: durante il Great Trek, infatti, quando sui campi calava la notte ed i leoni ed i leo-pardi fa-cevano sentire il loro inconfondibile ruggito, venivano accesi scoppiettanti falò con questo legno che bruciava molto len-tamente e quindi riusciva a sco-raggiare la grande pazienza dei felini, e poi, quando i Voortrekkers giunsero alla fine del loro pellegrinag-gio ed abbandonarono i carri per delle più con-fortevoli case, porte e finestre costruite con questo materiale si rivelarono davvero dura-ture. I maestosi esemplari che incontriamo lungo il nostro cammino forse sono sfuggiti al folle disboscamento scatenatosi in quel tempo e possono così al-lungare i loro rami sopra le nostre teste e dare ospitalità a quegli uccelli e a quelle scimmie che hanno trovato nel parco un luogo sicuro in cui vivere, ma che noi, purtroppo, non abbiamo la fortuna di avvistare. Dopo aver percorso il ponte sospeso sulla foce del fiume Storm, oggi decisamente fedele al suo nome viste le onde sollevate al suo in-contro con l’Oceano Indiano, ritorniamo verso il nostro pullman e, lungo la strada che ci conduce a Port Elizabeth, decidiamo di fermarci al cospetto del Big Tree, un enorme albero di yellowwood le cui misure si dimostrano assolutamente impressionanti.

Sono infatti più di 800 anni che ha messo radici in questa foresta ed ormai ha raggiunto un’altezza di oltre 36 metri; per circondare il suo tronco, la cui circonferenza misura quasi 9 metri, sono necessari ben nove adulti! Ma se qualcuno dovesse decidere di accerchiare la sua chioma, avrebbe bisogno di qualche amico in più, visto che si allarga per 32,9 metri!!! Da quando, il 31 dicembre del 1994, un fulmine ha abbattuto quello che oggi viene chiamato Fallen Tree, un altro yellowwood molto vicino alla soglia degli otto secoli, nessuno qui è più in grado di fare concorrenza a questo gigante. Gli alberi che crescono accanto a lui, infatti, appaiono come dei bam-bini intimoriti che guardano con rispetto al vecchio saggio intento a distendere i suoi folti rami, sinonimo di esperienza, sulle loro giovani fronde quasi im-berbi e dovranno passare molti anni prima che qualcuno trovi il coraggio di sfidarlo.

Raggiungiamo Port Elizabeth quando è ormai scesa la sera e l’impressione che ne ricaviamo, mentre davanti ai nostri occhi sfilano, offu-scati dalla piog-gia, moderni palazzi dal design av-veniristico ed un porto invece decisamente ligio alla tradizione, ossia caotico e trasan-dato, non è delle migliori. Ce la immaginavamo legger-mente di-versa questa città dell’amore, fondata nel 1820 dal governatore britan-nico Sir Rufane Donkin a perenne ricordo della sua mogliettina morta a soli ven-totto anni, ma poco importa: per noi questa non è altro che una tappa obbligata per raggiungere l’Africa degli animali feroci, degli spazi sconfi-nati e delle prodighe miniere d’oro, infatti sarà proprio da qui che domani decolleremo alla volta di Johannesburg, il nostro crocevia per lo Mpumalanga.

Mentre l’aereo della South African Airways, con la sua allegra coda colorata, rolla sulla piccola pista dell’aeroporto, i nostri pensieri sono tutti rivolti a ciò che ci attende nei prossimi giorni: le zone visitate fino ad ora, infatti, si sono rivelate molto “europee” e noi siamo an-siosi di vedere, sentire e toc-care la più intima essenza dell’Africa. Vogliamo capire quale strano sortilegio è riuscito ad incantare così tanti esploratori, scrittori, poeti… Saranno forse quelle enormi praterie che non sembrano avere né un principio né una fine, o quelle notti in cui il cielo appare come tempe-stato di diecimila dia-manti o ancora la brulla atmosfera in cui si muo-vono implacabili felini, timide antilopi e vecchi elefanti orgogliosi di mostrare il loro carico di avorio? Oppure sarà quel sole lontano, che nell’arco di un giorno acceca, brucia, si fa quasi odiare per la sua forza e la sua invincibilità, ma poi chiede perdono con un tramonto di fronte al quale non ci si può sentire altro che un piccolo puntino insignificante? Forse alla fine di questa settimana riusciremo a trovare una risposta, ed io mi auguro che sia la più semplice di tutte: “È l’Africa!”



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