Myanmar: un viaggio per gli occhi, la mente e il cuore
Mingalabar Myanmar!
Cioè “Ciao Birmania!”. Finalmente siamo arrivati e “Mingalabar” è la parola magica che ci accoglie appena l’aereo della Thai atterra sulla pista di Yangon. “Mingalabar” è un saluto che va bene per tutte le occasioni: ciao, buongiorno e buonasera, benvenuto. L’avevo appreso già prima di partire, leggendo qua e là qualche informazione di base sul Myanmar.
Indice dei contenuti
All’aeroporto di Yangon scopro che siamo in 12 nel gruppo di viaggio. Nel gruppo è rappresentata tutta l’Italia, da Torino a Palermo. Organizzazione Earth Viaggi di Lecco, ma stranamente l’unico lecchese sono io.
La guida Zaw Zaw Myo per prima cosa ci risparmia possibili errori di pronuncia del suo nome chiedendo di essere chiamato Lorenzo. Parla un buon italiano, imparato qui a Yangon senza mai essere stato in Italia, con qualche comprensibile approssimazione per articoli e accenti.
Il viaggio si rivelerà una sequenza di emozioni, incontri e scoperte avvincenti e affascinanti. Davvero valeva la pena di venire qui. Durante un viaggio in Myanmar gli occhi si riempiono dell’imponenza delle pagode e dello splendore delle statue di Buddha, dello scorrere lento dei fiumi solcati da sampan e battelli, dei pinnacoli dorati che spuntano dovunque tra capanne, foreste e risaie. La mente si ferma spesso a riflettere su quanto deve essere grande la devozione di questo popolo, che ogni giorno riserva una parte di quel poco che ha per donarlo a monaci e questuanti. Il cuore si apre davanti ai sorrisi delle donne e dei bambini, dei ragazzi che chiedono di fare una foto con te come se fossimo delle star, dei contadini che salutano al passaggio del treno.
Ma è tutt’oro quello che luccica? E’ impossibile non vedere le baracche di periferia immerse nel fango. Non si può non notare la totale assenza di modem e computer, anche se i cellulari e gli smartphone cominciano a vedersi (persino in mano ai monaci!). Colpisce la pervicace solerzia con cui gli impiegati riempiono registri e quaderni con ogni sorta di orario, conteggio e trascrizione. Mettono i brividi le matasse di filo spinato poste a protezione delle case di patrizi e notabili di partito. Si rimane colpiti dai visi pieni di gratitudine dei bimbi a cui dai una caramella o un biscotto, o la penna e il flaconcino di shampoo prelevati dalla camera dell’hotel.
Chiaramente, si spera che tutto questo migliori, perché il Myanmar possiede tutte le risorse necessarie per essere completamente autosufficiente. Comunque, con la gente è meglio evitare discorsi sulla libertà individuale nel paese. La dittatura paramilitare viene vissuta con indifferenza e mascherato servilismo. O forse con rassegnazione, chissà.
Torniamo al viaggio. Il percorso è stato Yangon – lago Inle – Mandalay – Bagan, con il gruppo. Poi, dopo il ritorno a Yangon, prosecuzione individuale verso Kyaikhtyo e la famosa roccia d’oro, con visita alla città sacra di Bago e rientro finale e Yangon. Il giro ha toccato le province di Yangon, Bago e Mandalay, lo stato Shan e lo stato Mon.
Yangon, l’ex-capitale
Pur non essendo più la capitale del paese, che dal 2007 è stata trasferita nell’anonima città di Naypyidaw al centro del paese, Yangon rimane il punto di partenza e di arrivo di ogni viaggio in Myanmar.
La città, vastissima, si estende su 350 kmq e conta 6 milioni di abitanti. E’ caratterizzata da lunghi viali alberati e edifici bassi, al massimo di 6-7 piani. Non ci sono grattacieli. Il traffico è caotico e disordinato, con ingorghi e rallentamenti frequenti, malgrado la totale assenza di moto e motorini. Con una trovata geniale, i militari al potere hanno proibito la circolazione dei motoveicoli a Yangon, di fatto limitando moltissimo gli spostamenti delle persone e di conseguenza le probabilità che si formino crocchi e assembramenti organizzati. Teoricamente, gli autobus dovrebbero raggiungere tutte le zone della città, ma in realtà le lunghe code alle fermate si vedono. A Yangon è anche proibito suonare il clacson, provvedimento questo dalle finalità alquanto misteriose.
La città è il centro culturale, artistico e religioso del paese, mentre per l’attività governativa tutto è stato trasferito a Naypyidaw.
Per girare Yangon in libertà la cosa migliore è accordarsi con un taxi. Fuori da ogni albergo ce n’è sempre qualcuno in attesa. Se l’autista non parla inglese, conviene farsi scrivere dalla reception su un biglietto i luoghi che si vogliono vedere. I taxi birmani non hanno tassametro: l’autista proporrà una cifra che dovreste riuscire ad abbassare del 20-30% senza problemi. La quantità di cose da vedere a Yangon è notevole. Alcune sono delle vere e proprie meraviglie.
Shwedagon Paya, il gioiello più grande del mondo
La pagoda (“paya”) Shwedagon è per quasi tutti i visitatori la prima meraviglia che gli occhi vedono all’arrivo a Yangon. Questo è il gioiello più grande del mondo. Su un’altezza di 99 metri è distribuita una copertura di foglie d’oro il cui peso è stimato in oltre 50 tonnellate. Gli altri elementi dello “zedi” (lo stupa al centro della pagoda che si innalza al cielo) sono letteralmente traboccanti di argento, diamanti e pietre preziose. Lo hti, la parte alta dello zedi che si erge per 10 metri, è un fulgore di rubini, zaffiri e topazi. Sul pennone terminale è issato un globo d’oro contenente 1800 carati di diamanti, sormontato da uno splendido solitario da 76 carati (15 grammi) fissato alla struttura. Nessuno si azzarda a rubare questi tesori, tranne lo spietato vento monsonico che ogni anno trascina via un po’ di foglie d’oro. Pertanto lo strato dorato deve essere manutenzionato con dedizione e continuità, cosa che viene fatta in maniera particolarmente accurata ogni 5 anni, quando la copertura d’oro viene rinnovata del tutto. Così era durante la nostra visita, ma questa ricorrenza ci ha consentito di osservare il meticoloso posizionamento dell’impalcatura di bambù aggraffata allo stupa, sulla quale gli operai salgono per la manutenzione della superficie esterna della pagoda e per il rifacimento della lamina d’oro.
Superfluo dire che questa opera meravigliosa non è soggetta a nessuna custodia. Non c’è l’ombra di un poliziotto a guardia dell’immenso tesoro, che tutti possono ammirare e toccare. L’unico controllo di sicurezza è costituito dal passaggio al metal detector all’ingresso e all’uscita dall’area sacra.
Arriviamo alla Shwedagon Paya nel giorno della “Festa della luce” (l’8 ottobre), che in Birmania è festa nazionale. Mano a mano che le ombre della sera avanzano arriva sempre più gente e dopo un po’ c’è talmente tanta ressa che bisogna farsi largo a spintoni. In molti punti vengono allestiti banchi per l’accensione di lumini e fiammelle votive. I vari padiglioni del recinto sacro attorno alla pagoda hanno nomi curiosi: l’oratorio del venerdì, il padiglione dei mercanti cinesi, il tempio dell’impronta del piede di Buddha, la sala di preghiera dell’Est.
Il punto più frequentato della Shwedagon paya è il “luogo dove sono esauditi i desideri”. Qui c’è una calca impressionante. Per arrivarci bisogna farsi largo a spintoni e pestate di piedi (nudi, come i tutti i luoghi sacri del buddhismo). Comprensibilmente, qui convergono quasi tutti i visitatori stranieri. Fermarsi un momento a riflettere in questo punto è d’obbligo: dei cinque desideri che ho espresso (troppi? forse ho esagerato…) spero che almeno un paio si avverino.
Accanto al luogo dei desideri c’è una sala, poco visitata, con una bellissima galleria fotografica che mostra i momenti della costruzione della pagoda. Presenta immagini dell’interno dello zedi, che essendo inaccessibile nasconde tesori che nessuno può vedere. Dalle foto si può vedere che dentro è completamente riempito di anelli, cerchi d’oro, campanelle e gioielli tra cui spicca un enorme smeraldo lungo 15 cm.
Tornerò alla Shwedagon Paya al rientro dal tour nella regione Mon. Con un po’ più di calma si riescono a cogliere meglio i particolari di questa opera eccezionale, e anche qualche fatto curioso. Verso sera si assiste al divertente spettacolo della squadra di pulizia che, radunata sotto la guida di una direttrice dei lavori, provvede alla scopatura del pavimento e alla rimozione delle cartacce. Mi dicono che alcune scopatrici fanno parte dello staff di gestione della pagoda, ma che ogni sera c’è spazio per volontarie e volontari che vogliono liberamente contribuire al decoro del luogo sacro.
Osservo anche molta gente che sta sui gradini dei padiglioni a chiacchierare e altri gruppi che mettono giù una tovaglia e fanno picnic. Infatti le pagode per i birmani non sono solo luogo di preghiera, ma anche di incontro, conversazione e ristoro.
Botataung Paya, in ricordo di mille ufficiali
La pagoda Botataung deve il suo nome ai 1000 ufficiali militari che oltre 2000 anni fa scortarono reliquie del Buddha dall’India al Myanmar (bo vuol dire capo, e tataung mille). E’ più piccola (40 metri di altezza) e meno spettacolare della maestosa Shwedagon Paya e anche dell’appariscente Sule Paya, ma il punto dove si trova, a un centinaio di metri dal fiume Yangon, le conferisce un aspetto più spirituale delle altre due. E’ anche l’unica pagoda birmana cava: l’interno, a cui si può accedere, è una specie di labirinto fatto a spicchi d’arancia, il cui angolo finale è sempre occupato da uno o più fedeli intenti a pregare. Ogni spicchio del labirinto è completamente tappezzato d’oro.
Un interessante pannello all’ingresso della Botataung Paya mostra la sequenza degli elementi che costituiscono gli “zedi” delle pagode birmane. Lungo il viale fuori dalla pagoda c’è una fila di bancarelle che vendono cesti di frutta e offerte votive. In fondo al viale c’è un monastero (facilmente riconoscibile dalle finestre con le persiane azzurre). Dalle finestre al pianterreno, sempre aperte, si aprono scorci sulla vita giornaliera dei monaci.
La zona coloniale
La zona coloniale si trova nel sud della città, appena dopo la Sule Paya tra il Maha Bandoola garden e lo Yangon River. La cosa migliore da fare è girarla a piedi. A proposito, Yangon è ritenuta una delle città più sicure al mondo per i visitatori. Nessun problema se decidete di fare percorsi a piedi.
Questa zona è ricca di edifici color pastello che testimoniano il passato coloniale della città: la City Hall, la grandiosa High Court Building color rosso mattone, il palazzo della Myanmar Port Authority che a prima vista sembra una chiesa per via della torre simile a un campanile, lo Strand Hotel in stile vittoriano color carta da zucchero, noto come “l’hotel più bello a est di Suez” (dove una suite può arrivare fino a 900 dollari a notte), l’imponente colonnato della Law Court che è uno dei pochi posti birmani dove si vedono dei poliziotti di guardia.
I templi indù
Poco frequentata dai turisti, la zona indù si estende dalla piazza Thienggyi lungo la Anawrahta road (altra interessante passeggiata), tagliando a metà la zona di Yangon racchiusa tra i due fiumi Yangon e Bago. Merita invece assolutamente una visita. Lungo la via, a circa 800 metri uno dall’altro si trovano Sri Kali e Sri Devi, due caratteristici templi indù in stile dravidico come quelli dell’India del Sud, con il gopuram a forma di tronco di piramide stracolmo di incisioni, pitture e statuine colorate delle varie divinità. Tra i due templi si aprono le vie del quartiere indù, su cui si apre una teoria infinita di mercatini e bancarelle che offrono specialità indiane, un tripudio di peperoncini, curry e pesce essiccato. In ottobre/novembre si svolge anche qui come in India e a Singapore il Diwali festival, con fedeli penitenti che si autoinfliggono ferite e mutilazioni conficcandosi aghi nella pelle, nelle labbra e nelle guance. Gli indù a Yangon sono circa il 4% degli abitanti.
Il mercato del pesce
Alla mia richiesta “voglio andare al mercato del pesce” il tassista rimane un po’ perplesso, poi dopo avere parlottato con l’intermediario che c’è davanti a tutti gli alberghi, dice che è ok. Decidiamo di andare ai docks dove arrivano i pescherecci provenienti dal delta dell’Ayeyarwaddy e dal golfo delle Andamane. Sulla banchina noto subito un gran numero di fusti di plastica blu coperti di ghiaccio che emanano fumi densi di vapore acqueo. I fusti sono disordinatamente ripartiti in diverse aree del dock secondo il tipo di pesce che contengono: pesci gatto, squaletti, sogliole e razze, anguille, pesce azzurro.
Mentre sono lì che non so cosa fare, noto un certo andirivieni di belle ragazze in longyi che si recano tutte misteriosamente in un edificio in fondo alla banchina. Che erano le operaie del fish market era intuitivo, ma l’ho capito solo dopo essere andato a curiosare nel locale dove si infilavano tutte, cioè lo spogliatoio. Gridolini di sorpresa di quelle che si stavano cambiando per mettersi tuta blu e stivali da lavoro, vergogna e guance paonazze da parte del sottoscritto che ha fatto la figura del guardone.
Alle 8 meno 10 arriva il capo (in tuta gialla, per distinguersi). Dopo avere fatto l’appello dei presenti (!!), come a scuola, consegna a qualche operaio/a un quadernetto che viene subito letto con attenzione. Presumo che siano le disposizioni per il lavoro.
Gli uomini iniziano a rovesciare i fusti scaricando il pesce per terra, in ammassi omogenei per tipologia. Un tanfo pestilenziale di pesce si diffonde nell’aria. Le operaie dividono il pesce in ceste secondo la pezzatura. Osservo con curiosità le enormi anguille con lunghi denti aguzzi: a occhio e croce saranno lunghe fino a 2 metri e pesanti almeno 5-6 kg.
Poi le ceste vengono passate al reparto pesatura. Verso le 9 cominciano a arrivare i primi camioncini che caricano il pesce e lo portano verso negozi e mercati. Non girano soldi, solo ricevute scritte a mano.
Nessuna guida cita questo spettacolo mattutino. Infatti ero l’unico straniero, o meglio intruso, presente. Invece vale la pena di metterlo tra le cose da vedere a Yangon. A patto che dopo corriate in albergo a fare una doccia igienizzante, altrimenti l’odore di pesce ve lo tirate dietro per tutta la giornata.
Casa di Aung San Suu Kyi
Chissà perché mettono la casa del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, ufficialmente “consigliere di stato” nei programmi di visita a Yangon. L’unica cosa che si vede è un cancello chiuso sormontato dal filo spinato. Persino le feritoie del cancello sono oscurate. Non è un bello spettacolo. Quello che si vede non fa altro che accrescere i dubbi sul concetto di democrazia applicato dal regime militare.
Oggi, come noto, Aung San Suu Kyi è fortemente in discussione per la sua posizione ambigua (o filogovernativa ?) riguardo alla persecuzione della popolazione Rohingya. E’ difficile stabilire quanto ci sia di vero e quanto di forzato dietro questo cambio di linea politica della leader, da cui comunque ci si poteva aspettare una presa di posizione più in linea con i diritti umani della gente, come si conviene a un premio Nobel per la pace.
Altri punti di interesse a Yangon
Sule Paya: una grande pagoda al centro di una rotonda, nel punto dove confluiscono Maha Bandoola road e Sule Pagoda road. Indubbiamente, una soluzione urbanistica unica al mondo.
Chauktatgyi Paya: nella zona nordest di Yangon, vicino alla Shwedagon Paya, si trova questo imponente Buddha sdraiato lungo più di 70 metri e alto 7-8 metri con gli enormi piedi riccamente istoriati. Chiromanti e indovini si affollano all’ingresso del capannone che contiene il Buddha, cercando clienti a cui predire il futuro.
Chinatown: vicino alla zona coloniale c’è il quartiere cinese con i tipici mercatini di strada. Qui tra banchetti che offrono cavallette e bachi fritti riusciamo a trovare gli ultimi eccellenti manghi ottobrini, gialli e lunghi come la varietà tipica del sudest asiatico. Da vedere il tempio Kheng Hock Keong in Strand Road, che contiene due altari, uno per i fedeli buddisti e uno per i taoisti.
Bogyoke market: un mercato coperto confuso e disordinato in cui si trova tutto quello che potete vedere nei mercati durante il tour del paese, con la differenza che qui costa il 20-30% in più, è di qualità inferiore e sono pure restii a contrattare. L’unica cosa di cui in questo mercato c’è maggiore assortimento sono le magliette ricordo. Il resto si può anche lasciar perdere. In tema di mercati molto meglio fare un giro al mercato del mattino in piazza Thyenggyi, molto frequentato dai locali, dove le stesse cose si pagano molto meno.
Lo stato Shan e le etnie che lo popolano
Arriviamo a Heho, l’aeroporto dello stato Shan, con volo della Yangon Airways. Negli ultimi tempi sono nate in Myanmar molte compagnie aeree più o meno private che collegano i vari aeroporti del paese. Tutte hanno degli ATR 42 di costruzione recente, e come è consuetudine in estremo oriente spaccano gli orari al minuto. La compagnia meno affidabile, paradossalmente, è proprio la compagnia statale Myanma Airways che opera con vecchi Fokker carenti di manutenzione.
L’etnia principale dello stato sono gli Shan, ma qui convivono molti altri gruppi etnici: i Pa’o, con i caratteristici vestiti neri o blu scuro e un colorato turbante in testa, i Wa coltivatori d’oppio, gli Intha del lago Inle, nei territori al confine con la Thailandia i Padaung con le famose donne giraffa.
Le attrattive di questa regione sono infinite: villaggi lacustri, grotte di montagna, centri archeologici, costumi tradizionali e feste popolari. Un viaggio nello stato Shan e attorno al lago Inle vale da solo un viaggio in Myanmar.
I laboratori per la fabbricazione degli ombrellini di carta
Sulla strada tra Heho e Kalaw ci fermiamo a visitare una bottega artigianale dove si fabbricano i caratteristici ombrellini di carta di gelso presenti in moltissime fotografie.
Gli “ombrellai” più bravi si trovano qui nello stato Shan e nel sud del paese, lungo il delta dell’Ayeyarwaddy.
Pindaya e la grotta dei 9.000 (circa) Buddha
Il percorso che conduce da Heho a Pindaya (NR 41) è un sottile nastro d’asfalto tutto slabbrato ai lati. Il viaggio è lentissimo, perché la carreggiata è così stretta da non consentire il passaggio di due veicoli contemporaneamente, così che quando c’è un incrocio qualcuno deve spostarsi di lato e cedere il passo. In compenso, anche su questa strada si paga il pedaggio, come su tutte le strade birmane.
Finalmente, dopo una cinquantina di kilometri percorsi in due ore, si arriva a Pindaya, un piccolo centro che si specchia nelle acque del laghetto Pone Ta Loke, contornato da giardini dove crescono ficus giganteschi. L’attrazione di Pindaya è la grotta carsica Shwe Oo Minn, all’interno della quale, tra stalattiti e stalagmiti, sono conservate circa 9000 statue di Buddha. Il “circa “ è d’obbligo, visto che ogni giorno se ne aggiungono di nuove.
Alla grotta si accede salendo una scalinata di 200 gradini o più comodamente, come abbiamo fatto noi, con un modernissimo ascensore panoramico che offre bellissime vedute sulla vallata sottostante. Qualche teleappassionato ricorderà questo luogo perché qui i concorrenti di Pechino Express furono costretti a fare di corsa la salita che porta all’ingresso della grotta e, una volta entrati, a cercare una statua donata da un fedele italiano (effettivamente ce ne sono alcune).
Appena varcata la soglia della grotta ci sono dei disegni che rappresentano i 31 stati dell’essere, cioè le varie tappe e le reincarnazioni che bisogna percorrere per raggiungere il nirvana. La guida Lorenzo si affanna a spiegarci almeno le fasi principali di questo arduo processo.
Obiettivamente, già dopo 3-400 Buddha è normale esternare qualche segno di insofferenza, ma è giocoforza seguire la guida e sorbirsi anche gli altri 8.000 e passa Buddha. Molti fedeli si radunano vicino a una grossa colonna (formata dall’unione di una stalattite con una stalagmite) dove trasuda acqua dalla volta. Questa colonna è detta “il Buddha perspirante”. I pellegrini appena cade una goccia dalla volta la prendono al volo e si bagnano la fronte, ritenendo che l’acqua sacra tolga gli acciacchi, conferisca fortuna e ridoni la bellezza.
Più appartata, indicata da cartelli, c’è la “Meditation cave”, un antro con altre statue di Buddha immerse nella semioscurità, a cui si accede attraverso uno strettissimo cunicolo a prezzo di contorsioni e strisciamenti. Dopo lo sforzo fatto per entrare, è normale fermarsi un momento nell’anfratto: se non altro, per meditare su come trovare la migliore soluzione per uscire dal cunicolo senza provocarsi altre escoriazioni contro le pareti di roccia.
Dopo la visita alla grotta piena di Buddha, trasferimento nella vicina cittadina di montagna Kalaw per il pernottamento.
Lago Inle
Il lago Inle è situato tra le montagne dello Stato Shan, a un’altezza di 920 metri s.l.m. È il secondo lago in Birmania, lungo circa 20 km e largo circa 11 nel punto di maggiore ampiezza. La superficie è difficile da calcolare, perché è difficile stabilire dove finisce il lago e dove iniziano le paludi.
L’incanto del lago colpisce immediatamente il visitatore. Si incontrano subito le lunghe e basse barche della gente Intha, dei gusci di tek che i pescatori manovrano remando con i piedi e con le gambe, poi gli orti e i giardini galleggianti, i villaggi su palafitta, i mercati sull’acqua. Come ciliegina sulla torta durante la nostra permanenza qui, in coincidenza del plenilunio di ottobre, abbiamo assistito al festival della pagoda Phaung Daw Oo, momento ricco di colori, suoni e suggestioni uniche.
Arriviamo al molo della cittadina di Nyaungshwe, dove convergono quasi tutti i visitatori, nel primo pomeriggio. Sono già lì ad attenderci le barche prenotate dall’agenzia, lunghe e strette, che possono contenere 4-5 persone ciascuna. Sono mosse dai caratteristici motori con l’elica fissata in fondo a un lungo albero, adatti ai bassi fondali. Inizia la traversata.
I pescatori Intha
L’etnia prevalente che vive sulle sponde del lago e “dentro” il lago sono gli Intha, il cui nome significa “gente che vive nell’acqua”. Il rapporto degli Intha con l’acqua è atavico e indissolubile. Per loro l’acqua è tutto: elemento di vita, fonte di sostentamento, territorio, campagna da coltivare, mercato galleggiante. Potrebbero costruire villaggi lungo le sponde del lago, e invece innalzano complessi edifici multipiano su palafitte in mezzo al lago, che richiedono conoscenze approfondite di ingegneria e di geologia del fondale. Qui studiano, pregano, giocano, imparano un mestiere, e ovviamente sin da piccoli si impratichiscono con la curiosa e caratteristica tecnica di remata con la gamba.
Il barcaiolo sta in piedi a un’estremità della barca, reggendosi in equilibrio su un piede solo, mentre con l’altra gamba e usando il piede a mo’ di gancio aziona un lungo remo che fa muovere la barca nella direzione voluta, con un movimento sinuoso a serpente. Intanto con le mani può aiutarsi a governare la barca, oppure manovrare nasse e reti da pesca. L’insieme, abbinato alla scenario delle acque calme del lago contornate da montagne, ha un effetto coreografico notevole.
Incontriamo le lunghe barche di tek dei pescatori già all’uscita del canale di collegamento con il molo di Nyaungshwe. Oggi però i pescatori sono pochi, perché molti si stanno preparando per la gara del giorno dopo o perché impegnati come rematori nel trasporto delle imbarcazioni con i sacri Buddha per la festa del giorno dopo. In compenso sono numerosissime le barche con i turisti: il rapporto sarà almeno di 20 imbarcazioni di turisti per ogni barca di pescatori. La sensazione è che le poche barche dei pescatori Intha, delle quali molte hanno il motore, siano lì apposta in attesa dell’arrivo dei turisti. Alcuni pescatori infatti al nostro passaggio si mettono a fare teatrali esibizioni di maneggio delle lunghe nasse da pesca e esercizi di remata nel loro stile “a gamba”, mostrando i pesci appena pescati. Salvo poi avvicinarsi alla nostra barca e chiedere “money” senza ritegno. Lo spettacolo dei pescatori che remano con gambe e piedi è comunque notevole.
La tecnica di pesca degli Intha è assolutamente unica. Il lago è poco profondo (circa 3 metri), e lungo rive, canali e paludi è color fango. Nei punti lontani dalla riva l’acqua è più chiara, ma non ha una trasparenza tale da consentire ai barcaioli di vedere il pesce che nuota sul fondo. Riescono a percepirne la presenza attraverso le bollicine smosse dai pesci che strisciano il muso nel fango. Quando li individuano, calano una lunga nassa nel punto da dove provengono le bolle e quindi con un bastone appuntito e con il tatto controllano se le maglie della nassa danno scuotimenti: se c’è movimento significa che il pesce è stato imbrigliato nella nassa. Con il bastone lo spingono verso le maglie esterne, dalla quali il pesce non potrà più tornare indietro, poi estraggono la nassa dall’acqua e smagliano il pesce imprigionato. La tecnica è simile a quella con le “cuette” che si pratica qui dalle mie parti sull’Adda e nel lago di Lecco.
E’ un modo di pescare che richiede grande perizia e pazienza, e anche qui è sempre meno usato. Oggi anche i pescatori Intha tendono a preferire l’uso delle reti. Peraltro, maneggiano anche queste con una mano sola stando sulla punta della barca, mentre con l’altra e con la gamba remano per disperdere la rete o ritirarla. La pesca con la rete richiede l’ausilio di alcune barche di battitori, che colpiscono violentemente col remo gli ammassi di alghe e giacinti d’acqua in modo da snidare i pesci che si acquattano tra le radici.
I pesci del lago Inle sono carpe, pesci gatto e anguille.
Al ritorno attraversiamo i villaggi su palafitte al centro del lago e osserviamo i filari di coltivazioni su isole galleggianti. Poco prima di arrivare all’Amata hotel, dove alloggeremo, incrociamo la squadra femminile del villaggio di Maing Thauk che si sta allenando per la gara di canottaggio del giorno dopo.
Villaggi su palafitte
Nelle acqua placide del lago Inle sorgono alcuni villaggi su palafitte, ovviamente tutti in legno, che sono un’opera di ingegneria sensazionale per la precisione e la solidità con cui sono costruiti. Attraversiamo i villaggi di Kya Sa Gone e Ka Lar. Tutto è su palafitta: case, garage coperti (per l’ormeggio delle piroghe), l’ospedale, l’ambulatorio del dentista, il parrucchiere, l’ufficio postale, monasteri, negozietti e shop vari, i laboratori di fabbri e falegnami, cantieri per le barche, le immancabili pagode, persino alberghi per turisti come l’hotel Shwe Inn Tha (carissimo). Solcando i canali con la barca si vedono bambini che si lavano sguazzando allegri, donne che fanno il bucato, stendendo la biancheria con i loro bei capelli lunghi sciolti e i modi pieni di contegno, dignità e elegante raffinatezza.
Colpisce l’eccezionale pulizia dei canali: non c’è in giro una cartaccia, non una buccia d’ananas, non una lattina vuota che galleggia. Ogni villaggio dispone di un efficiente sistema fognario: scaricano i rifiuti in contenitori che vengono svuotati dalla municipalità di Nyaungshwe. Acqua e luce provengono dalla rete idrica e elettrica dei villaggi sulle sponde.
Gli orti galleggianti
Nella zona centro-orientale del lago, vicino alla cittadina di Nam Pan, si trovano gli orti galleggianti, che sono una ingegnosa applicazione di “idroagricoltura”. Gli Intha creano un letto di alghe, terriccio e argilla, che svolge un ruolo impermeabilizzante nei confronti della penetrazione dell’acqua dal basso, e ci coltivano pomodori (soprattutto), zucchine e melanzane. Per evitare che gli orti vengano trascinati via dal moto ondoso, li fissano sul fondo con pertiche di bambù. Gli orti galleggianti durano 20-25 anni, dopo di che devono essere ricostituiti.
Verso sera gli orti si popolano delle barche dei contadini che pagaiano su e giù per i filari per fare manutenzione ai raccolti. E’ uno spettacolo suggestivo, reso anche molto fotogenico dalla presenza dell’acqua.
Festival della pagoda Phaung Daw Oo
11 ottobre, giorno di luna piena: è un giorno di grande festa sul lago. Le 4 statue d’oro di Buddha, dopo essere state portate in processione per tutti i paesi lacustri e rivieraschi, ritornano alla pagoda Phaung Daw Oo (“la pagoda della barca reale”) che normalmente le ospita.
Arrivano da tutte le parti le genti dei villaggi vicini. Elegantissime le donne Pa’O nei loro vestiti neri e blu scuro, ma con un orribile turbante rosso o azzurro in testa che sembra una salvietta arrotolata. Nel frattempo, lungo il canale arrivano barche di musicanti e danzatrici vestite con ricchi costumi rosa pieni di fregi e di lustrini.
Intanto il canale si riempie di barche fino all’inverosimile. Ci sono quelle dei pellegrini, quelle dei mercanti sull’acqua, quelle dei turisti, quelle degli spettatori, quelle di musici e danzatori. Verso le 10 cominciano a comparire le lunghissime piroghe del corteo sacro, con 30-40 rematori ciascuna e ombrellini colorati a protezione dal sole. Dietro di loro finalmente compare il vascello con le quattro sacre statue di Buddha. La grossa barca è preceduta dalla navicella delle elemosine. In punta ha un’enorme raffigurazione dorata dell’uccello sacro karaweik (in verità somiglia molto a un grosso gallinaccio tutto d’oro…). Nel canale non c’è più un centimetro quadrato d’acqua libero. E’ un miracolo come facciano piroghe, barche e barconi a non cozzare tra loro. Gli impiegati dell’albergo dove abbiamo preso posto ci dicono che ogni anno gli scontri e gli affondamenti sono all’ordine del giorno, e che è sorprendente che quest’anno nessuno abbia ancora fatto il bagno.
Il barcone con i Buddha d‘oro, spinto da rematori in completo giallo canarino che fanno leva sul fondo del canale con lunghe pertiche di bambù, faticosamente riesce ad accostare alla scalinata della pagoda. La gente sulle sponde si accalca e si spinge per vedere lo sbarco dei Buddha d’oro. Quelli più vicino al canale rischiano seriamente di finire in acqua.
Contemporaneamente, quando davvero sembra che nel canale non ci stia più niente, arrivano le lunghissime piroghe che parteciperanno alla regata. Ogni piroga è lunga 40 metri e porta 100 (!!!) rematori, in due file da 50, più quattro buttafuori d’acqua e un timoniere.
I vogatori alzano i remi al cielo applauditi dal pubblico presente. Si sono allenati duramente per questa occasione e ci tengono a fare bella figura. Le lunghissime piroghe salutano il pubblico e si dirigono in fondo al canale verso il punto di partenza della competizione. Al via si mettono a remare all’unisono con le gambe come dei forsennati: non si capisce come facciano i remi a non sbattere e intralciarsi tra loro. Sta di fatto che c’è un sincronismo eccezionale. Vincerà la gara l’equipaggio arancione, davanti a quello bianco.
Si respira un’aria da festa di paese, come quelle secolari tradizioni genuine che forse noi stiamo perdendo. Uno spettacolo eccezionale, unico e suggestivo.
Intanto le danzatrici, che durante la processione e la gara erano state a guardare riparandosi dal sole sotto gli ombrellini, vengono richiamate con tamburi e gong a riprendere l’esercizio. Continuano la danza anche quando la loro navetta si allontana verso il villaggio. Infatti stanno danzando anche quando passano a un metro dalla nostra barca che sta lasciando il canale, così ho l’occasione per fare un primo piano ravvicinato delle danzatrici, e accorgermi che sono davvero delle belle ragazze.
Il monastero dei gatti saltanti
Lasciamo il canale Phaung Daw Oo per dirigerci con le barche verso un altro punto del lago un po’ più a nord, dove c’è il monastero ligneo Nga Pa Kyaung, più noto come “il monastero dei gatti saltanti”.
In realtà oggi i gatti non saltano più, perché il priore del monastero ha proibito ai suoi monaci di praticare lo spettacolo circense, stufo di vedere arrivare turisti col pacchettino di pesciolini comprato al mercato di Iwama interessati solo all’esibizione dei gattini ammaestrati. Poco male: vale davvero la pena di concentrarsi sul meraviglioso insieme di padiglioni, colonne e angoli nascosti. Le colonne, in rosso e oro, sono ricoperte di fregi e arabeschi. Le icone di Buddha e gli altari in legno di tek scolpito si rivelano in tutto il loro splendore, colpiti dai raggi di luce che filtrano attraverso le finestre ovali del monastero. Le statue di diverse epoche e stili sono delle opere di intaglio mirabili. I gatti ci sono ancora, ma sonnecchiano tranquilli nella penombra.
Mi sono avvicinato al priore, seduto in un angolo nella classica posizione yoga a gambe incrociate, per scattargli una foto. Ha alzato una mano indicandomi che non gradiva: un gesto semplicissimo, ma espresso con un’autorità e un carisma che mi ha colpito. Non vuole fare il personaggio delle foto-ricordo. Ha ricondotto il monastero alla sua entità originale di luogo mistico, che merita di essere visto, visitato e apprezzato per i tesori che contiene, ma che richiede anche tutto il rispetto dovuto a un luogo sacro dedicato al culto e alla preghiera. Anch’io ho avvertito questo richiamo, e dimenticati i gatti ho pregato per un attimo, appartandomi in un angolo.
Al termine della giornata, rientro in hotel per il pernottamento.
Laboratori artigianali e negozi acchiappa-turisti
Nei villaggi al centro e sulle sponde del lago si svolge un’intensa attività di artigianato tradizionale che merita senz’altro di essere osservata.
Lavorazione dell’argento: ci sono varie botteghe per la realizzazione di collane, monili e oggettini vari d’argento, alcuni anche un po’ kitsch come i pesciolini d’argento con la coda mobile. Ci dicono che l’argento è 950/1000. I prezzi vanno da 20-25 dollari per un braccialetto a 100-150 per un collare.
Laboratori di tessitura: nel villaggio lacustre di In Paw Khone assistiamo alla lavorazione di drappi di seta e cotone fatti con antichi telai. Il piano del disegno da riprodurre è contenuto in una cassetta con naspi collegati a fili di vario colore. I longyi artigianali di misto seta-cotone fatti in questi laboratori costano dai 20 dollari in su. Il filato più pregiato è fatto con una seta proveniente dalle piante di loto, tessuta con un’abilità che si acquisisce solo con anni di esperienza. I manufatti prodotti con questa seta finissima e vellutata possono costare anche centinaia di dollari.
Sigarette fatte a mano: a Nam Pan assistiamo alla preparazione manuale delle sigarette. La miscela è costituita solo per il 25% di tabacco, il resto sono foglie di tamarindo sminuzzate. Il filtro è fatto con foglie di mais. La miscela viene compattata, profumata (con anice, banana o menta) e avvolta in una foglia di cheroot (tabacco dolce per sigari). Le sigarette vengono vendute anche singolarmente. Qui le fumano più le donne degli uomini. Le operaie lavorano a cottimo: una donna guadagna 1000 kyat (un dollaro) ogni 200 sigarette arrotolate. Le più brave sono talmente rapide che possono farne più di 1000 al giorno. Si fanno anche sigari al 100% di tabacco, ma sono considerati troppo forti per essere fumati, perciò li usano solo per le offerte votive.
Negozi acchiappa-turisti: durante il tour organizzato vi porteranno sicuramente a vedere dei negozi dove non si vende niente di diverso da quello che avete già visto nei laboratori artigianali. Qui lavorano le famose donne-giraffa, quelle con gli anelli e il collo allungato che si vedono nei documentari. La loro sofferenza è finalizzata: queste povere donne prendono uno stipendio solo per stare lì a farsi fotografare. Il loro lavoro consiste nell’attirare i turisti all’interno del negozio, in modo che comprino qualcosa.
Le donne-giraffa
Nella cittadina lacustre di Iwama (e anche in altre città del Myanmar come Mandalay e Bagan, per esempio) si possono vedere le famose donne giraffa, quelle col lungo collo circondato da anelli di metallo.
Sono di etnia Padaung (= collo di rame), non native di questi luoghi. Vivono nel territorio attorno alla città di Loikaw nella parte più orientale dello stato Shan, e ancora più in là in territorio thailandese. Quelle che si vedono in altre parti del Myanmar sono state costrette a emigrare in cerca di guadagno, grazie alla fama che il loro aspetto così singolare raccoglie tra i turisti che vengono in Myanmar. In sostanza, fungono da specchietto per allodole per attrarre turisti nei negozi di souvenir e artigianato locale. Per questo, che non saprei bene se definire un lavoro o una condanna a vita, prendono uno stipendio dai proprietari dei negozi.
Una volta gli anelli al collo erano il destino di tutte le donne Padaung. Oggi tocca solo ad alcune “prescelte”. Il primo anello viene posto all’età di 5-6 anni, poi ogni anno se ne aggiunge uno fino ad un massimo di 25-26 e un peso totale di 6 kg. L’apposizione degli anelli non provoca, come potrebbe sembrare a prima vista, un innalzamento del mento. In realtà sono la clavicola e la scapola ad abbassarsi. Comunque sia, l’effetto è quello allungare il collo a dismisura, conferendo loro quell’aspetto giraffesco con il quale sono conosciute.
Gli anelli che le donne Padaung indossano oggi sono fabbricati in Thailandia e si possono allargare e staccare. Così alla sera li possono togliere (cosa che anni fa non era possibile), ma per dormire hanno bisogno di avere un sostegno ai lati della testa, che altrimenti cadrebbe perché i muscoli e i tendini del collo eccessivamente allungati e indeboliti non sono più in grado di sostenerla. In altri termini, sono costrette a portare gli anelli al collo per tutta la vita.
Obiettivamente, fanno impressione. Oltre all’aspetto deforme, colpisce l’assoluta inespressività degli sguardi di queste donne. Dai loro volti traspare silenzio assoluto. Nessuna emozione, nessun movimento degli occhi o della bocca. Solo un senso evidente di rassegnazione e di impotenza per la tortura legalizzata a cui sono sottoposte, assurda e immotivata.
Uno spettacolo da zoo etnico, dove in mostra sono degli esseri umani.
Cosmesi birmana: make up vegetale e capelli splendenti in modo naturale
Vi capiterà senz’altro di notare nel bagno dell’albergo la presenza di uno strano tronchetto di legno di cui al momento non si capisce la funzione. Si tratta della thanaka, il cosmetico naturale più diffuso nel Myanmar. Dal punto di vista botanico, la pianta da cui si ottiene si chiama “limonia acidissima”, un alberello simile al sandalo che cresce solo nel sudest asiatico.
Le donne inumidiscono un lato del tronchetto e poi lo strofinano a lungo su un piatto di legno o su una pietra. Dopo alcune energiche strofinate la polpa del legno forma con l’acqua un fluido giallastro del tutto simile a un fondotinta, che si può applicare direttamente sulla pelle. Con l’aiuto di un pennello o di un pettine si fanno fregi o disegni per migliorare la decorazione. Parlando con le ragazze birmane, scopriamo che questo è il cosmetico principale, quello di tutti i giorni. Lo considerano anche una crema solare a buon mercato. In più dicono che la thanaka è miracolosa per rendere la pelle più radiosa e splendente, proteggerla dalle impurezze, eliminare macchie e brufoli. Mah, obiettivamente l’effetto estetico è discutibile. Per chi volesse provarlo, lo vendono anche qua da noi come “polvere di limonia”.
Le donne birmane sono famose anche per i capelli lisci e lucidi. Quale è il loro segreto? Si trova nei sacchettini di plastica bianchi e neri che si vedono qua e là appesi nelle bancarelle dei mercati. Contengono il tradizionale shampoo alle erbe birmano, che si ottiene facendo bollire la corteccia di un arbusto conosciuto come tayaw con i baccelli dell’acacia nera kin pun. La corteccia di tayaw è un balsamo che rende i capelli morbidi e lucenti, mentre i frutti del kin pun producono un schiuma detergente che agisce come uno shampoo.
Mandalay, la città quadrata
Trasferimento da Heho a Mandalay con un volo della sconosciuta compagna Yadanarpon Airlines, anche questo su un ATR 42 nuovo.
Mandalay, seconda città del Myanmar (quasi due milioni di abitanti nell’agglomerato urbano) è una città strana, senza piazze né curve. E’ come uno schema di cruciverba in bianco, con tante righe verticali e orizzontali che si intersecano tra loro a angolo retto. La città è davvero brutta, ma racchiude una quantità di meraviglie e di tesori stupefacenti.
Mahamuni paya, la statua miracolosa
Poco lontano dall’aeroporto c’è la struttura religiosa più frequentata di Mandalay, la Mahamuni paya, luogo sacro che contiene una sfolgorante statua di Buddha tutta d’oro. I devoti adoranti (solo uomini, le donne non hanno accesso alla cella statuaria perché considerate impure) la ricoprono in continuazione di foglie d’oro, al punto che ormai è diventata una specie di palla luccicante in cui si fa fatica a distinguere il volto dell’Illuminato.
Il momento migliore per venire qui è all’alba, quando un gruppo di fedeli prescelti si raduna per lucidare amorevolmente la statua e pulirle i denti con lo spazzolino. I birmani la considerano una specie di Lourdes d’Oriente, capace di compiere miracoli e guarire storpi e malati. Se la guarigione con la statua non riesce, non disperatevi: si può provare con alcune statue khmer in bronzo che sono conservate nell’angolo nordest del tempio. Secondo un’antica credenza, se si tocca una parte del bronzo si può guarire dal malanno che affligge la corrispondente parte del proprio corpo. Ovviamente, tutto il nostro gruppo si è strofinato sulle statue dalla testa ai piedi.
Mentre stiamo vistando il complesso, nel cortile del luogo sacro arriva un corteo di donne e uomini con tabernacoli e coppe in mano: è la celebrazione dello shinbyu, la cerimonia di iniziazione al noviziato di alcuni giovanissimi monaci e monache. I bambini sono truccati e vestiti come principi con tuniche dorate ricoperte di brillanti e lustrini, copricapi di broccato, drappi di seta. I vestiti delle bambine, della stessa foggia e ricchezza, sono rosa. Tutti portano sul capo un copricapo color rosso e oro con ricami dorati. Il corteo di suonatori e parenti accompagna i novizi lungo il cammino verso il tempio dove avviene la consacrazione. Dopo il pranzo, vengono rasati e indossano la tunica color zafferano tipica dei monaci. Dai volti dei bimbi futuri monaci, per la verità, non traspare una grande contentezza.
Kuthodaw paya, il libro più grande del mondo
Ai pedi della collina che domina Mandalay c’è un’altra meraviglia della tradizione buddhista: la Kuthodaw paya. Lo stupa centrale è circondato da ben 729 stupa più piccoli, ognuno dei quali custodisce una tavola di marmo scolpita. Il re Mindon fece trascrivere in lingua pali su 729 steli di alabastro tutti i 729 kyauksa gu, le regole del canone buddhista tripitaka. Un’opera gigantesca che richiese l’impegno di 200 monaci per mesi e mesi. Merita sicuramente l’appellativo di “libro più grande del mondo” con cui viene comunemente chiamato questo luogo sacro.
Tra le file di stupa crescono grandi alberi secolari di magnolia (starflower tree), alla cui ombra famiglie di birmani vengono spesso a fare picnic, mentre i bambini giocano a nascondino tra le file degli stupa. L’albero più vecchio dovrebbe avere 250 anni.
Il palazzo reale
Il palazzo reale occupa il centro della città, completamente circondato da un fossato largo 70 metri e da mura alte 8 metri scolpite in pietra rossa che si estendono lungo un quadrato di circa 3 km di lato. Curiosamente, lungo il fossato sono installati manubri e cerchi per permettere alla gente di fare ginnastica durante il jogging mattutino.
Della gigantesca città reale voluta dal re Mindon, che era racchiusa all’interno delle fortificazioni, oggi rimane poco. Una ventina di padiglioni sono stati ricostruiti alla fine degli anni ‘90, ma almeno altri 100 sono andati completamente persi a causa di terremoti e incendi, uno terribile nel 1945. Alcuni di essi danno l’idea dell’antico splendore: il re Mindon voleva che questo edificio rappresentasse il centro del mondo.
Monasteri a go-go
Mandalay è la città birmana dove ci sono più monasteri (circa 150) e più monaci (70-80.000).
Molti monasteri sono delle vere e proprie opere d’arte. Mirabile il Shwe Nandaw Kyaung (monastero del palazzo d’oro), proprio davanti all’entrata dell’università. E’ l’unico monastero in cui non c’è neanche una statua di Buddha. L’intero edificio è adornato con mosaici di vetro e strutture in legno finemente intagliato. Prima faceva parte degli appartamenti personali dei sovrani, fino a quando il re Thibaw decise di traslocarlo in un’altra zona. Questa fu la salvezza per il monastero: è l’unico edificio in legno che si è salvato dall’incendio di Mandalay alla fine della seconda guerra mondiale, e meno male perché è davvero una meraviglia.
Laboratori artigianali: foglie d’oro, arazzi e marionette
Come è detto spesso nel diario, in molti luoghi sacri del buddhismo theravada birmano è possibile vedere fedeli che attaccano foglie d’oro sulle pagode e sulle statue sacre. Mandalay è il centro di produzione principale di questo oggetto di culto fondamentale per i birmani. Una visita a un laboratorio di produzione delle foglie d’oro è un momento da non mancare. In città ce ne sono una settantina, tutti concentrati nel quartiere di Myetpayat lungo la 36th street. Visitiamo il King Galon leaf workshop, che è uno dei più famosi.
Al termine di lunghe operazioni di martellamento dei nastri d’oro grezzi con mazze pesanti le scaglie d’oro diventano foglie d’oro e tagliate nelle misure richieste (grande, media, piccola). Poi le operaie le mettono in bustine. Le donne che lavorano le foglie si cospargono le mani di marmo, onde evitare che dei frammenti d’oro si attacchino alle dita. Se non ho fatto male i conti, da un nastro d’oro di 50 grammi si ottengono 240.000 sottili lamine d’oro, ognuna delle quali pesa quindi circa 1/5 di milligrammo, considerando il taglio medio.
Per noi le foglie sono souvenir, per i birmani sono il fulcro delle offerte votive. In qualche famiglia sono usate anche in combinazione con farmaci della medicina tradizionale.
In un’altra bottega vediamo invece la lavorazione dei tipici arazzi birmani ricamati a filigrana. In realtà si tratta di altorilievi, perché su un fondo di stoffa pregiata vengono cucite a rilievo immagini di fiori, animali, uccelli, principesse. Sono molto barocchi, pieni di lustrini, brillantini e perline e ai nostri occhi appaiono un po’ kitsch. Il costo di un arazzo non è indifferente: quelli più grandi possono arrivare fino a 800-1000 dollari. In questo laboratorio si fanno anche le marionette, con stoffe e legni pregiati.
Amarapura, la città immortale
Amarapura, detta “la città immortale”, si trova ad 11 km a sud di Mandalay. Oggi è nota per la tessitura di seta e cotone, con cui si realizzano longyi cerimoniali.
Ad Amarapura c’è il monastero Mahagandayon Kyaung, dove vivono più di 700 monaci, quasi tutti giovani strappati alla strada. Arriviamo alle 10, appena in tempo per assistere alla sfilata dei monaci che vanno a consumare il secondo e ultimo pasto della giornata. L’accesso al refettorio però non è consentito.
La più grande attrattiva di Amarapura è il ponte pedonale U-bein, lungo 1,2 km e costruito interamente in legno di tek, su 1050 pali alti 4 metri. Collega il paese alla pagoda Kyauktawgyi paya sull’altra sponda del lago Taunghtaman. Il ponte è un luogo d’incontro per abitanti e visitatori: qui si passeggia, si incontrano gli amici, ci si ferma per uno spuntino a base di pesciolini e granchi fritti nel grasso di cocco (digeribili in 48-72 ore). Sotto il ponte donne immerse fino alle spalle nell’acqua pescano piccoli ghiozzi manovrando con abilità due corte canne di bambù. Ogni tanto si fermano per fumare una sigaretta o prepararsi una pasticca di noce di betel. Tutto l’occorrente lo tengono nello stesso cesto dove gettano i pesciolini pescati. Il ponte è particolarmente suggestivo all’alba, quando c’è un grande viavai di gente in bicicletta che attraversa il lago, e al tramonto quando con il fresco della sera il ponte si popola, mentre il sole si abbassa dietro la palizzata.
Mingun, le grandi costruzioni del re megalomane
Delle tante escursioni che si possono fare durante la permanenza a Mandalay, quella alla città reale di Mingun è assolutamente da non perdere.
Ci si può arrivare solo in barca, con un viaggio controcorrente sull’Ayeyarwaddy di circa un’ora. Appena scesi dalla barca bisogna sopportare l’assalto di bambini e venditrici, e le offerte dei caratteristici taxi locali…. che sono carretti trainati da zebù con tanto di scritta “taxi” sul carro. Non saranno veloci, ma efficaci sicuramente.
Dalla barca già si vede l’enorme mole della Mingun paya spuntare tra gli alberi. Nelle intenzioni del re Bhodawpaya questa doveva essere la pagoda più grande del mondo. Secondo il progetto finale, su una base rettangolare di 50 metri x 70 si doveva elevare al cielo uno stupa alto 150 metri. Ma fu costruita male, mettendo strati paralleli di mattoni uno sopra l’altro senza incastri né connessioni in grado di dare stabilità all’immane costruzione. Il disastroso terremoto del 1838 provocò crolli e crepe in diverse parti della struttura, rischiando di ridurla a una montagna di mattoni. Del mastodontico parallelepipedo che oggi rimane in piedi, colpisce la grandiosità degli ingressi in calce bianca. Si può salire sulla cima. Ci dicono che il paesaggio da lassù è stupendo, ma bisogna farlo a piedi nudi (è un luogo sacro) su un sentiero scosceso e coperto di detriti di mattoni, con il rischio di scivolare e farsi male.
Meglio dedicarsi a vedere le altre bellezze di Mingun. Quelle più vicine alla pagoda sono due enormi statue di leone, altro esempio della megalomania del re Bhodawpaya, che quando erano integre avevano la testa rivolta verso il fiume. Oggi di queste rimane in piedi solo il gigantesco fondoschiena, che tutti si affrettano a fotografare.
Più in là si arriva alla sala dove è conservata la Mingun bell, una gigantesca campana bronzea di 90 tonnellate e 4 metri d’altezza, tutt’ora in grado di suonare. Una foto ricordo col batacchio in mano davanti all’enorme campana è d’obbligo.
Continuando la visita si rimane quasi abbagliati dal riflesso bianco della grande Hsinbyume Paya, la pagoda bianca fatta costruire dal nipote del solito re di prima in onore dell’amata consorte Hsinbyume. Somiglia a una enorme torta di panna montata, ma ha un effetto fotogenico incredibile, soprattutto nel tardo pomeriggio quando i raggi del sole filtrano tra le statue ai lati della scalinata che porta alla sommità. Dall’alto si gode un bellissimo panorama della foresta, della Mingun Paya e del fiume.
Si torna a Mandalay con la barca, mentre le ombre della sera calano sull’Ayeyarwaddy. Sulle rive i ragazzi giocano a pallavolo con i piedi, che è uno sport molto praticato qui.
Sperimentazione della cucina birmana
Non ci sono aerei da prendere oggi, quindi c’è tempo per un pranzo in un ristorante tipico birmano. La scelta della nostra guida Lorenzo cade sul ristorante Tue Tue, nel centro di Mandalay.
Funziona così: c’è una specie di self service dove uno va e sceglie i cibi che vuole mangiare. Le cameriere prendono nota e mettono tutto in una serie di scodelline che poi ti portano al tavolo. La scelta include sempre delle verdure pasticciate, dei curry e altri piatti vari. I curry sono la base del pranzo birmano. Possono essere a base di pollo, di montone, di pesce. Secondo le guide (Lonely Planet in primis) i curry di qui sono meno piccanti di quelli indiani. Manderei qui quello che ha scritto l’articolo. Si rimane con la bocca bloccata già dopo il primo assaggio. Tentiamo deviazioni sulla carne secca di montone, che risulta difficilissima da masticare. Rimane una specie di polenta dolce, come la nostra se ci mettessimo lo zucchero invece del sale. Alla fine si dirotta sulle verdure: zucchine, broccoli, fagiolini, pomodori sono ottimi in qualunque salsa vengano serviti. Il riso c’è sempre, al vapore o con verdure o fritto.
Non saprei dire se erano presenti tra i piatti esposti dal nostro ristorante, comunque tra le specialità birmane figurano le rane al curry (e fin qui va ancora bene, anzi a qualche bergamasco verrebbe l’acquolina in bocca), i vermi del bambù fritti (tihin phong poe), le tartine di formiche rosse grigliate (tipiche di Pindaya), gli scarabei fritti e caramellati (yepo, specialità dello stato Rakhine). Meglio accertarsi su cosa si ordina…
In una delle foto si vede un tipico tavolo di ristorante birmano, con tante scodelline con le pietanze sul tavolo, e la nostra grande circospezione nell’affrontare i contenuti. E’ un’esperienza da provare, ma alla fine se non si vuole rischiare l’infiammazione del palato è meglio puntare sui ristoranti lungo le strade, dove servono cibi rivisitati in funzione delle aspettative dei turisti. Qui fanno ottimi piatti, come il pollo con gli anacardi o allo zenzero, gli eccellenti noodles (tipo spaghetti) con o senza carne, pesce di lago o di mare stufato, anguilla marinata o al sugo. In alcuni preparano persino la pizza e le lasagne.
Bagan, la pianura degli infiniti templi
Viaggio da Mandalay in pulmino, in parte sulla nuova autostrada che arriva fino a Yangon (deserta perché il pedaggio costa troppo) e in parte sulla NR 2 che è la solita strada birmana stretta e monocorsia, sempre però soggetta a pagamento del pedaggio per il transito.
Bagan è la risposta birmana a Angkor Vat, il famoso centro archeologico cambogiano. è una risposta altisonante: nella piana di Bagan, su una superficie di 42 kmq (tanto per avere un’idea: Angkor Vat è un rettangolo di 2 kmq) sono sparsi ben 2230 templi (numero censito recentemente dall’UNESCO). Erano molti di più secoli fa, probabilmente più di 10.000, ma il re Narathihapati, per fronteggiare l’invasione mongola del 1287, fece abbattere migliaia di templi e pagode per ricavarne mattoni con cui rafforzare le mura della città. La distruzione risultò inutile. Gli eserciti di Kublai Khan occuparono la città. Il re fuggì ma fece lo stesso una brutta fine, avvelenato dal figlio che regnava su un territorio a sud dell’Ayeyarwaddy. Per avere distrutto i templi e per essere scappato, questo re pusillanime è ricordato come “il re scappato dai cinesi”.
Visita di Bagan
Marco Polo descrisse Bagan come uno dei posti più belli al mondo. Malgrado secoli di incuria, razzie, erosioni e frequenti terremoti (l’ultimo, devastante, nel 1975), questa pianura costellata di templi rimane una visione emozionante e indimenticabile. E’ il risultato della frenesia edilizia dei sovrani di Bagan che commissionarono migliaia di templi buddhisti nell’arco di 230 anni, interrotta solo dall’invasione dei soldati di Gengis Khan nel 1287. Queste strutture religiose di mattoni e stucco sono quanto rimane di una grandiosa città i cui edifici in legno eretti tra il XI e Il XIII secolo sono andati completamente perduti.
Per visitare Bagan ci sono varie soluzioni.
In bicicletta: il noleggio costa 1500 kyat al giorno (poco meno di 1.50 €).
In motorino: il noleggio di un motorino elettrico di fabbricazione cinese, assolutamente silenzioso, costa 5000 kyat al giorno.
In calesse: la gita in calesse costa anch’essa 5000 kyat per un’ora e mezza circa. Chiaramente, il percorso che si può fare in calesse è limitato, ma permette di vedere molti templi da vicino e di incontrare i contadini che lavorano nei campi dispersi tra i templi.
In mongolfiera: è certamente l’opzione più fascinosa. Le mongolfiere solcano i cieli di Bagan da ottobre a fine marzo (quindi esclusa la stagione delle piogge). I tour partono alle 6 di mattina e terminano già verso le 8, per sfruttare le correnti ascensionali determinate dal cambio di temperatura tra la notte e l’inizio del giorno. Ciò consente di vedere delle stupende albe sorgere sulla piana disseminata di templi. Il volo dura 45-60 minuti. Potete prenotarvi fino alla sera precedente. Vengono a prendervi in albergo e vi riportano indietro. Se il tour viene cancellato per il meteo, avete l’opzione se rinunciare o riproporvi per il giorno successivo. Il “balloon ride” ha un solo difetto: costa 320 dollari a persona.
A piedi: le passeggiate fra i templi sono un’ottima opzione di visita. Meglio scegliere sulla cartina quali sono i punti che si vogliono visitare, spostandosi da uno all’altro con un taxi o un bici-risciò, o magari fermare un calesse vuoto. Scegliete bene anche l’orario: dopo le 10 di mattina e fino alle 4 del pomeriggio a Bagan fa un caldo tremendo: 34-35 °C reali e 42-43 °C percepiti sono la norma. Ho fatto un giro di mezz’ora fuori dall’hotel all’una del pomeriggio: ho incontrato solo due ragazzi svedesi e sono tornato madido di sudore.
La valle dei templi
I templi di Bagan sono stati costruiti tutti tra il IX e il XII secolo, ma si trovano in uno stato di conservazione stupefacente. Hanno resistito a terremoti, invasioni, tempeste monsoniche, anche grazie alla particolare tecnica costruttiva: qui gli strati di mattoni sono disposti in maniera perpendicolare una sull’altro (non paralleli come a Mingun), cosa che ha dato notevole solidità alle costruzioni. Le parti danneggiate dai terremoti sono state restaurate con precisione e nel rispetto dell’architettura originale.
Il giro nella piana di Bagan è suggestivo in qualunque punto dell’area archeologica lo si faccia. Raggiungibile a piedi dal Tharabar Gate dove siamo alloggiati c’è il maestoso Ananda Pahto (pahto = tempio). E’ quello più raffigurato e fotografato. Fa parte del gruppo di templi ricoperti di stucco bianco, mentre la maggioranza è in muratura di mattoni a vista. L’architetto Ananda, a cui si deve il nome del tempio, fece una brutta fine: fu giustiziato personalmente dal re Kyanzittha per impedirgli di costruirne un altro uguale altrove. All’interno del tempio, una per ogni punto cardinale, ci sono 4 statue di Buddha in tek dorato alte 10 metri (due sono copie, perché gli originali sono stati razziati). La sommità di questo tempio e di molti altri di Bagan tempio ha la forma di sikhara, la cuspide a forma di ananas che si trova in molti templi indù, a dimostrazione che i contatti artistici con la vicina India in passato sono stati frequenti. Di notte il sikhara viene illuminato, con un effetto scenografico notevole.
Poco distante dal tempio di Ananda c’è un altro gioiello bianco: Thatbyinnyu Pahto, cioè “il tempio dell’onniscienza”. Con i suoi 61 metri è il più alto di tutta l’area di Bagan. Per la sua altezza sarebbe uno dei luoghi migliori per ammirare dall’alto la piana con i templi, ma a causa dei danni provocati dal terremoto del 1975 le terrazze sono state chiuse al pubblico. Curiosa la presenza di una serie di stupa dorati agli angoli di ogni piano terrazzato: ognuno di essi veniva messo dagli ingeneri per indicare un consumo di 10.000 mattoni. Forse per conteggiare bene la parcella da inviare al re….
Dei templi di mattoni a vista quello più famoso è il Dhammayangyi Pahto, che si erge su un quadrato di 77 metri di lato. E’ il santuario più massiccio di Bagan, con sei monumentali terrazzamenti e un’imponente entrata sul lato est. All’interno del tempio ci sono due corridoi, uno pieno di detriti. I mattoni sono incastrati tra loro senza uso di malta, con una precisione tale che non ci passa neanche uno spillo. Questa perfezione architettonica fu voluta dal re Narathu, che sovrintendeva direttamente ai lavori e uccideva con le sue stesse mani i muratori che eseguivano male i suoi ordini. Pare che proprio per vendicarsi di questa crudeltà efferata, alla morte del sovrano gli schiavi riempirono l’ambulacro di detriti. Il Dhammayangyi rimane una delle costruzioni più singolari e intriganti costruite nella pianura di Bagan.
Molti altri sono i templi che abbiamo raggiunto a piedi o in calesse durante la visita della piana di Bagan: Htilominlo, Minochantar, Thambula (la pagoda della regina), i templi di Minnanthu decorati di affreschi. Tutti suscitano interesse e ammirazione.
Oltre ai templi, da vedere qui a Bagan ci sono anche due luoghi sacri: la Manuha Paya, con un Buddha sdraiato di dimensioni enormi ma racchiuso in uno spazio tanto angusto che si fa fatica a percepirne la massa, e la Shwezigon Paya (“la pagoda d’oro dell’isola”), pagoda a pianta quadrata rilucente d’oro che si trova nella parte nuova di Bagan verso la cittadina di Nyaung U. Qui abbiamo fatto le foto ricordo del gruppo.
Torniamo all’albergo, notando nugoli di ragazzi con il cellulare attaccati al muro dell’hotel. Stanno sfruttando la connessione gratuita dell’albergo a internet, a cui altrimenti non potrebbero accedere.
Festa di Taungbe e visita ai laboratori della lacca
Al rientro in albergo, nel bellissimo Tharabar hotel fatto di bungalow immersi nella foresta e con una piscina incastonata tra le palme, in camera c’è un foglio in cui ci dicono che, a richiesta, possono fornirci dei tappi antirumore per le orecchie, nel caso fossimo disturbati dalla festa del villaggio Taungbe che si celebra lì vicino. Disturbati? Al mattino dopo corriamo tutti a vedere la festa. Ci sono i monaci che predicano, megafoni sugli stupa che diffondono le orazioni, donne che portano offerte di cibo e denaro per i monaci stessi e per i loro discepoli, spintonandosi per arrivare prima a depositare la propria offerta. Gli altoparlanti diffondono musica di archi e percussioni.
Ma la guida ci chiama perché è prevista la visita a un villaggio di artigiani vicino a Nyaung U. Il villaggio appare subito un po’ artefatto, impostato apposta per la visita dei turisti, ma consente di vedere bene alcune attività interessanti:
– la battitura e setacciatura delle prugne secche. I semi vengono inviati in Corea e i Cina per farne dei farmaci cardiotonici.
– la lavorazione della lacca, che è una peculiarità delle botteghe artigiane di Bagan. Su un’intelaiatura di bambù si aggiungono diversi strati di resina che viene fatta solidificare in cantina (al sole si scioglierebbe). Le decorazioni vengono fatte con un punteruolo appuntito e richiedono abilità estrema perché gli errori non si possono correggere. I manufatti più belli (scatole, piatti, ciotole, portagioie) sono fatti con 24 strati di lacca sovrapposti. Costano molto, e sono conservati in un’area sorvegliata. I prezzi di questi non sono trattabili. Le lacche sono tra i souvenir più belli e unici da riportare a casa. Comprandole nei villaggi si riesce risparmiare un 20-30 % rispetto alle “lacquerwares” di Nyaung U.
– la tessitura dei longyi in seta e cotone
Nel villaggio ci mettono in guardia dall’acquisto di oggetti di lacca venduti per pochi dollari dalle bancarelle di strada: dicono che sono fatti con una base di cartone, e che sono più plastica che lacca.
Bagan all’alba e al tramonto
I momenti più suggestivi per ammirare la piana dei templi di Bagan sono l’alba e il tramonto.
Al tramonto saliamo sulla pagoda Shwesandaw (“la pagoda del tramonto”), che ha 5 piani di terrazzamenti da cui si ha un’ottima visuale sulla pianura punteggiata di templi. Centinaia di turisti prendono d’assalto le terrazze della pagoda, salendo le ripide scalinate per assicurarsi un posto in prima fila. Il tramonto purtroppo oggi non è dei migliori, perché nubi cumuliformi coprono il sole lasciando filtrare solo qualche bagliore, ma il momento è eccezionale lo stesso.
Le venditrici di souvenir sono lì in agguato, pronte ad aggredire i turisti con la loro mercanzia. Così alla discesa dalla scalinata la venditrice The The, prendendomi per sfinimento, è riuscita ad appiopparmi 4 camicie birmane con fregi e decorazioni elefantate, a 5 dollari l’una. Vabbè, almeno ho risolto il problema di qualche regalo natalizio.
Il giorno dopo cinque valorosi componenti del nostro gruppo si alzano alle 5 del mattino per vedere l’alba. La levataccia sarà ricompensata dalla vista della piana di Bagan con due mongolfiere in volo.
L’immagine della piana di Bagan costellata di questi mirabili edifici color bianco e ocra che si innalzano al cielo è un ricordo indimenticabile da portare con sé, negli occhi e possibilmente sulla X-card della macchina fotografica.
Ritorno a Yangon
Lasciamo Bagan con la certezza di avere visto uno dei luoghi più suggestivi del mondo.
Ritorno a Yangon con volo della sconosciuta KTZ Airways, il cui motto è “un volo al di là delle vostre emozioni”…. toccatina d‘obbligo, ma va tutto bene.
Da qui in poi il viaggio in Myanmar lo continuo da solo, andando verso est nello stato Mon.
In treno verso lo stato Mon
Lo stato Mon, abitato dall’omonima etnia, occupa la parte sudest del Myanmar, tra il golfo delle Andamane e il confine con la Thailandia.
Le città più importanti dello stato (Kyaykto e Mawlamyine) sono collegate a Yangon dalla ferrovia a scartamento ridotto, che prosegue fino a Myeyk nell’estremo sud del paese. Ho chiesto all’agenzia di fare il viaggio in treno. A me andava bene anche un biglietto per un treno locale normale, ma l’agenzia impietosita mi ha prenotato un posto sul treno speciale “Aircon Superfast”, che parte al mattino presto verso Kyaykto. Più difficile dire l’orario esatto di partenza, che è cambiato 4 volte in una settimana. Il biglietto per la tratta di 240 km in classe “superior” costa 3500 kyat (3 euro).
Comunque, treno “aircon superfast” vuol dire:
Aircon = treno con aria condizionata, temperatura interna di 8-10 °C. Finestrini perfidamente bloccati. Dopo pochi minuti i passeggeri birmani, vestiti con camicia e longyi e nient’altro, cominciano a battere i denti e stringersi tra loro per scaldarsi col calore umano. Io per fortuna ho una giacca di cotone che mi ripara un po’. Ho anche un maglioncino che mi sono portato nell’ipotesi che sulla cima della montagna facesse freddo (è pur sempre a 1300 metri). Impietosito, lo cedo volentieri a una giovanissima sposina birmana che trema di freddo. La nostra salvezza sono le stazioni dove il treno ferma durante il percorso: con una velocità impressionante scendiamo tutti dal treno a prendere un po’ di caldo e qualche raggio di sole. Poi però bisogna risalire: di nuovo tutti dentro a soffrire nel frigorifero.
Superfast = treno superveloce che per fare i 240 km da Yangon a Kyaykto ci mette 5 ore, alla strabiliante media di 48 km/ora, con punte anche di 60-65 in alcuni tratti in discesa. I treni normali ci mettono 8 ore.
Pur essendo un treno speciale, ero l’unico straniero nel vagone. Inutile dire che tutti i viaggiatori hanno voluto conoscermi, sapere da dove venivo e cosa ne pensavo del loro paese, grazie al giovane marito della sposina infreddolita che masticando un po’ di inglese faceva da interprete.
Kyaikhtyo, la montagna d’oro
Dalla stazione di Kyaykto bisogna raggiungere in taxi il terminal di Kinpun (12 km). Da qui partono i camion dei pellegrini che si inerpicano sulla ripida salita (a occhio e croce in alcuni punti la pendenza è del 20-25%) che porta all’altro terminal di Yatetaung. La conquista di un posto sul camion è una scena da far west. Teoricamente bisognerebbe fare la coda. In pratica, donne e ragazzi danno l’assalto al camion appena arriva nel punto di carico del terminal, scavalcando le sponde. Dopo aver perso il terzo camion mi sono rotto e ho deciso di buttarmi anch’io oltre la sponda senza fare la fila. Sul camion, che ha 7 file da 4 posti ciascuna, saremo almeno in 80. I motori hanno ridotte speciali che permettono di superare le forti pendenze del tratto di montagna. Gli autisti guidano come se stessero facendo un rally, prendendo i tornanti in accelerazione. Dietro siamo sballottati e sbattuti uno contro l’altro senza pietà. L’unica salvezza è la barra di separazione tra i seggiolini che abbiamo davanti, a cui bisogna stare avvinghiati durante la salita. Un consiglio: arrivate al terminal digiuni. Se no, il rischio di lasciare per strada il contenuto dello stomaco è alto. Lo stesso vale per il ritorno.
Sulla montagna il mio alloggio è al Mountain Top hotel, costruito attorno a un enorme masso di basalto che occupa i 2/3 della hall. L’hotel è un paradiso per gli entomologi: cavallette verdi e nere di tutte le dimensioni, insetti stecco, farfalle sgargianti, scarabei giganti, enormi falene con un’apertura alare di 15 cm popolano la hall, i corridoi e purtroppo anche la stanza se incautamente lasciate aperta la finestra di sera.
La roccia sospesa nel cielo
Dall’hotel un viale e alcune scalinate conducono a una spianata dove si vede subito il grande masso sacro venerato da tutti i birmani: la Kyaikhtyo paya (= la pagoda sulla testa di un eremita), più nota con l’appellativo turistico di “roccia d’oro”. Il masso appare come une grossa sfera dorata sospesa nel vuoto, sormontata da un piccolo stupa. Francamente non si capisce come possa stare in equilibrio in quel modo, per cui il sospetto che sia agganciata in qualche modo alla montagna rimane, ma è meglio non dirlo davanti a un birmano.
Nella parte superiore c’è una passerella che consente di avvicinarsi al masso fino a toccarlo (cosa permessa solo agli uomini). Naturalmente anche qui molti fedeli sono intenti a attaccare le foglie d’oro, a volte anche sporgendosi pericolosamente nel vuoto.
Salgo alla roccia d’oro due volte, alla sera e all’alba (ingresso 6 dollari valido 30 giorni, che ho chiesto io di pagare perché gli impiegati della piazzola di accesso fanno tutto tranne che guardare chi entra).
La luce rosa dell’alba e le fila silenziosa dei fedeli oranti creano una scenografia ovattata e impalpabile. E’ giocoforza lascarsi trasportare con la mente lontano dalla realtà e immergersi nella meditazione come un pellegrino qualunque.
Dopo però bisogna tornare giù: ciò significa una nuova lotta per accaparrarsi un posto sul camion e un’altra mezz’ora di sballottamento forzato.
Bago, la città sacra
L’autista che mi riporterà a Yangon è già lì pronto ad attendermi all’arrivo al terminal inferiore. Il percorso segue la NH 8 fino a Bago e da qui la N1. Le strade sono sorprendentemente buone, confrontandole con quelle sconnesse e strette che avevamo trovato nel centro-nord. Si può viaggiare spesso a 90-100 all’ora, cosa che qui in Birmania ritenevo impossibile al di fuori dell’autostrada Yangon-Mandalay. Il problema è che a quella velocità faccio fatica a vedere luoghi e paesaggi.
Il percorso tocca villaggi immersi nei palmeti, risaie infinite, canali con bufali al bagno e si attraversano molti fiumi, ogni tanto sui ponti promiscui strada-ferrovia che ci sono qui. Quando passa il treno chiaramente le auto vengono bloccate qualche decina di metri prima. Ci fermiamo nei villaggi di Taungthuzu e Waw, entrambi sul fiume Sittaung, dove ci sono dei caratteristici mercati di frutta e pesce essiccato sulla strada.
A Bago arriviamo appena in tempo per assistere al pasto dei monaci nel Kha Khat Wain Kyaung, uno dei più grandi centri religiosi del paese. Frotte di turisti sono già sul posto armati di macchine fotografiche e cineprese. I monaci, seduti su stuoie attorno a basse tavole rotonde in gruppi di 6, consumano il loro pasto in perfetto silenzio. Chissà cosa penseranno i monaci di noi turisti così interessati a un momento normalissimo della loro giornata. Un altro spettacolo da “zoo etnico”, di gusto discutibile.
Bago è detta la città sacra per via del gran numero di luoghi di culto che ospita. Qui c’è la più grande pagoda di tutto il Myanmanr, la Shwemawdaw paya alta 113 metri. Due grandi chinthe, o leogrifi, animali mitologici simili a leoni, stanno a guardia dell’entrata della pagoda, che essendo altissima si vede da qualunque punto della città. La pagoda è stata quasi distrutta da un terremoto di inizio secolo, e poi ricostruita. La base di mattoni della vecchia costruzione è conservata nel recinto della pagoda ed è oggetto di venerazione da parte dei fedeli.
Nella zona ovest della città, vicino alla stazione ferroviaria, ci sono due enormi Buddha sdraiati. Uno è coperto da una tettoia, lo Shwetalyaung Buddha, lungo 55 metri. E’ il Buddha sdraiato più venerato dai birmani. All’aperto, poco distante, c’è il Myathalyaung buddha, più meno delle stesse dimensioni.
Ma il luogo sacro più curioso di Bago è lo Snake Monastery, il monastero del serpente. Qui è custodito, accudito e venerato un enorme pitone che si dice abbia 120 anni. Il pitone è lungo 6 metri e il corpo ha un diametro di 40 centimetri. Di solito dorme, ma si risveglia all’incirca ogni due settimane, quando gli inservienti del monastero gli portano un paio di polli che costituiscono il suo pasto. Il serpentone ci mette l’intera giornata a inghiottirli, dopodiché riprende il suo stato di catalessi. I fedeli pregano e mettono i soldi delle loro offerte direttamente sul corpo del pitone.
All’entrata di Bago c’è la Kyaik Pun Paya, un complesso di quattro giganteschi Buddha alti 30 metri disposti l’uno contro l’altro ad angolo retto. E’ una figura spesso ricorrente nelle foto di Bago.
Rientro a Yangon
Ormai il bellissimo viaggio in Myanmar sta finendo. Lasciamo Bago percorrendo l’ampia e polverosa Main Road che attraversa la città e si imbocca la N1 verso la capitale. Due soste lungo il percorso. Una al Taukkyan War Cemetery, dove sono sepolti assieme civili birmani e soldati giapponesi morti durante la seconda guerra mondiale. L’altra alla periferia di Yangon, al parco Hsin Hpyu Daw, dove ci sono due elefanti bianchi (in realtà rosa-marroncino) che sono considerati sacri. Una leggenda dice che la madre di Buddha, poco prima di partorire, avesse sognato un elefante bianco che le donava un fiore di loto. Per questo vengono accuditi e venerati dalla popolazione. Il loro ritrovamento, avvenuto nel 2002 nel nord del paese, è stato considerato di buon auspicio dal regime. Gli elefanti, che trascorrono gran parte della giornata a catena , potrebbero pensarla diversamente.
Appena entrati in Yangon scoppia un violentissimo temporale, l’unico durante la mia visita, che in 10 minuti trasforma le strade in un torrente impetuoso e tutto il traffico si blocca. L’acquazzone dura mezz’ora, poi esce il sole e un arcobaleno illumina la città. E’ tempo di preparare la valigia per la partenza.
Pillole di Myanmar
Ð per quasi tutti gli acquisti dovrete pagare in kyat, la valuta locale, anche se le guide di viaggio e le agenzie asseriscono che il dollaro USA è accettato dovunque. Non è esattamente così, anzi a volte l’acquisto in dollari è complicato e comunque l’eventuale resto viene sempre dato in kyat. Il cambio standard in ottobre è stato 980 kyat per 1 dollaro, 1200 kyat per 1 euro. Meglio cambiare nelle banche che negli alberghi, che applicano forti commissioni. Ad esempio, in albergo il dollaro viene scambiato a 900 kyat invece che a 980.
Ð in Myanmar ci sono 135 etnie diverse. Quella prevalente sono i “bamar”, cioè i birmani veri e propri, che rappresentano circa il 65% della popolazione. Durante il viaggio si attraversano regioni diverse e si incontrano altre genti, alcune con abbigliamenti tradizionali assolutamente esclusivi, come i Pa’O. In tutti gli stati comunque uomini e donne vestono il longyi, un lungo tubo di seta-cotone annodato alla vita. Nelle città cominciano a vedersi ragazzi in jeans, mentre se vedete una ragazza con i pantaloni potete stare tranquilli che è straniera.
Ð i birmani, soprattutto i giovani, sono arcicontenti di scambiare quattro parole con gli stranieri, in uno stentatissimo inglese di cui si capisce non più del 30%. Se poi accettate di fare una foto con loro, è fatta: vi siete creati dei nuovi amici per l’eternità.
Ð la visita ai luoghi sacri deve essere fatta sempre in senso orario, da sinistra verso destra. Bisogna togliersi scarpe e calze e entrare a piedi nudi. Uomini e donne devono indossare un pantalone che copra le gambe almeno fino al ginocchio. Se arrivate in pantaloncini corti, gli inservienti addetti all’entrata vi fanno indossare un longyi che hanno lì in dotazione. Molti turisti trovano la vestizione simpatica, così c’è chi fa apposta a arrivare con i pantaloni corti…
Ð il piazzale antistante le pagode non è amplissimo e le pagode sono alte. Se avete una reflex con la focale che arriva fino a 18 mm, come negli obiettivi standard, siete costretti a cercare angoli remoti o fare esercizi di equilibrismo per trovare un punto in cui l’intera pagoda ci stia nell’inquadratura. I perfezionisti della fotografia dovrebbero usare un grandangolo con una focale almeno di 14 mm.
Ð la quantità di immagini e momenti che scorrono davanti agli occhi durante un viaggio in Myanmar è infinita. Portatevi una dotazione di X-cards adeguata: almeno 2 schede da 32 G se scattate in jpg, almeno 2-3 schede da 64 G se scattate in raw.
Ð tutte le strade sono percorribili solo dietro pagamento di un pedaggio, sia quelle più grandi che le strette strade di campagna.
Ð lungo le strade delle città più grandi stanno installando i maxi-pannelli pubblicitari multi-messaggio tipo rotor. Per adesso la maggioranza fanno pubblicità a cosmetici e medicinali.
Ð gli aeroporti hanno fregi e tettoie dorate spioventi come se fossero pagode
Ð formalmente, per visitare luoghi sacri e monumenti è richiesto il pagamento di un biglietto, più un supplemento per la macchina fotografica. In realtà, se uno non si accorge che c’è il botteghino, entra liberamente e nessuno lo ferma. Unica eccezione le due più grandi pagode del paese, la Shwedagon Paya di Yangon e la Shwemawdaw Paya di Bago, dove il biglietto è obbligatorio e l’accesso è controllato col metal detector. Ma anche quando non si paga il biglietto, viene spontaneo fare un’offerta per i monaci o mettere una banconota da 1000 kyat (meno di 1 euro) nelle teche per le donazioni.
Ð ogni birmano devolve mediamente 500-1000 kyat al giorno in offerte e elemosine. Tenuto conto che lo stipendio di un operaio si aggira sui 300.000 kyat al mese, significa che destinano alle offerte circa il 10% dello stipendio.
Cesubéh Myanmar!
Ci sono ancora paesi al mondo dove tradizione, cultura popolare, fede e costumi rappresentano una forza che dà impulso alla vita di tutti i giorni. Il Myanmar è uno di questi. Qui la globalizzazione stenta a farsi strada, internet è un concetto sconosciuto ai più e i cellulari sono un oggetto misterioso per molti. I treni “superfast” vanno a 60 all’ora, il mezzo più diffuso per il trasporto delle merci è il carretto trainato da zebù, la raccolta del riso viene fatta da contadine immerse nell’acqua come le nostre mondine negli anni ‘50. Il responsabile di questo stato di paralisi apparente è il governo militare che ancora preclude ai birmani la maggior parte dei contatti col mondo esterno. In questo modo viene impedito uno sviluppo commerciale ed economico che di per sé sarebbe possibile, viste le notevoli risorse di gas, petrolio e minerali che il paese possiede. Nel 2015 ci sono state le ultime elezioni, formalmente vinte dal partito NLD (National League for Democracy) del premio Nobel Aung San Suu Kyi, il cui ruolo nella governance nazionale però pare marginale.
Dopo una visita in Myanmar è lecito chiedersi se i concetti di globalizzazione e progresso sono davvero associabili tra loro. Se da un lato consideriamo con commiserazione lo stato di arretratezza tecnologica in cui vive la popolazione, dall’altro lato restiamo colti da stupore e ammirazione davanti all’abilità dei decoratori di lacche e tessuti, di fronte allo splendore delle pagode ricoperte di lamine d’oro, negli incontri con i monaci buddisti e con la loro forte spiritualità. Queste cose e mille altre offrono innumerevoli occasioni di interesse e curiosità che rendono il viaggio in questo paese un percorso pieno di fascino, sorprese e stupore.
Comunque sia, se si ha in mente di visitare il Myanmar, la sensazione netta è che sia meglio farlo in fretta prima che luoghi, gente e cultura vengano deformati o inquinati irrimediabilmente dall’avanzata della tecnologia e dell’occidentalismo. E prima che i prezzi salgano alle stelle: già adesso potete tranquillamente aumentare i prezzi riportati dalle guide turistiche di un buon 30-40%.
Cesubéh Myanmar! Cioè “grazie!”. Grazie a questa gente che ha il coraggio di anteporre la propria cultura e la propria tradizione alle spinte dell’integrazione e della globalizzazione. Grazie per tutti i tesori che hanno conservato per secoli e secoli e che valorizzano mostrandoci con giusto orgoglio, come dovremmo fare anche noi. Grazie a tutti i ragazzi e ragazze birmani che mi hanno chiesto di fare la foto con loro.
Grazie alla guida Lorenzo e ai compagni di viaggio Luca e Celestina, Laura, Pina, Maria, Salvatore 1 e 2, Elia e Cristina, Sara e Antonella.
E grazie a tutti quelli che hanno letto il racconto e sono riusciti a arrivare fino in fondo.
Luigi
luigi.balzarini@studio-ellebi.com