Un lambratese in Birmania
Yangon
L’aereo della AirAsia (Bangkok – Yangon a/r per 150 €) mi scarica in perfetto orario nel piccolo aeroporto di Yangon, l’ex capitale e città più grande della Birmania. Ora il centro burocratico del Paese è Naypyitaw, un’asettica, moderna e impronunciabile città semivuota d’ispirazione cinese, più a nord. Assieme a me recuperano i bagagli degli sparuti e spaesati gruppetti di turisti. Il visto birmano sul mio passaporto, con foto e ologrammi vari (25 € all’ambasciata del Myanmar a Roma, attesa una quindicina di gg) mi permette di passare senza problemi. Cambio un centinaio di dollari in aeroporto. Quest’anno il governo locale ha agganciato il tasso di scambio del Kyat al mondo reale e non a quello dei Teletubbies, per cui si può ottenere valuta senza dover ricorrere necessariamente al mercato nero. Fuori dal terminal imbarco una ragazza giapponese dall’area particolarmente disorientata (you are doing it wrong), Nao, per dividere la spesa del taxi fino in città (che è parecchio distante), 5 dollari a testa. Nao sta in un ostello poco distante dall’albergo in cui vado io, ma non parla neanche inglese, per cui chiedo al tassinaro come è il posto scelto da lei. Lui assicura che fa schifo, ma non tenta di rivendermi quello di “suo zio”, per cui ci credo. Riferisco alla giapponese aggiungendo particolari raccapriccianti, tipo scarrafoni di dimensioni kafkiane, e lei emette urletti da manga, una scena molto colorita. Dice che comunque deve incontrarsi con “a friend”, per cui la lascio al suo destino nel Mahabandoola guesthouse, che non tradisce le nostre aspettative: sembra il posto in cui ti addormenti la sera e il giorno dopo sul letto c’è la sagoma disegnata dalla polizia. Il mio albergo è poco distante dalla Sule Paya, si chiama Beautyland 2 ed è in fondo ad una vietta angusta e “sgarrupata”, percorsa da grossi cavi e centraline elettriche a vista. Vogliono 20 dollari la doppia, accettano anche i kyat ma con un po’ di ribrezzo. La stanza è al primo piano, tv, aircon, frigoriferino; piccoli lussi a cui non sono abituato, il mio standard indocinese è 10 mq con letto, ventilatore e forse comodino. Il personale, apparentemente quasi tutti ragazzi, è gentile e parlicchia inglese con qualche virtuosismo di italiano; uno mi dice “signore le auguro buona sera” con evidente orgoglio. Alle otto sono pronto per uscire a cercare la cena, ma giunto sulla strada principale capisco presto che non è Bangkok. Qua e là delle “trattorie” e qualche chiosco con mercanzie che solo per guardarle conviene prendere un Imodium. Faccio qualche foto allo stupa dorata del (della? boh) Sule Paya che scintilla nella notte, finchè vengo avvicinato da un ragazzo dai tratti indiani, con cui inizio a discorrere del più e del meno in un cauto inglese. Dopo un po’ mi chiede se ho cenato, penso che magari conosce qualche posto in cui si mangia bene e decido di invitarlo a cena; anche perchè si sta rivelando una fonte interessante di informazioni. La fame aumenta, e Shiva si dirige verso un “ristorante” indopachistano (ahime), lo seguo perchè attorno sta sbaraccando tutto e ho paura di dormire a pancia vuota. Mi portano riso con pollo, una coscietta cotta almeno due anni fa, e l’inevitabile curry. Sbocconcello metà piatto con la scusa che ho mangiato in aereo. Shiva fa l’idraulico per 5 dollari al giorno, ogni tanto ne spende 10 per una ragazza che conosce, non vede grandi prospettive per sè anche se ha solo 24 anni. Pago e usciamo, fuori la città è nella preagonia della notte. Solo qualche persona cammina qua e là, fra cui un esile ubriaco con la camicia a fiori ed i denti arrossati dal betel. Qui il betel lo mastica una grossa fetta della popolazione, sia uomini che donne, e le strade delle città sono macchiate da distese di sputi rossi, come fossero perennemente il risultato di una gigantesca ed eterna rissa. In realtà Yangon è una pigra metropoli indocinese, blandamente attiva di giorno, ed ha il vantaggio di non puzzare come Bangkok.
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Yangon
Mi sveglio alle 5, sbarellato dal jet-lag, ne approfitto per fare due passi nelle strade che ancora sonnecchiano. Le macchine in circolazione sono poche, berline giapponesi o coreane di terza mano, e vagano per grosse strade vuote. Hanno la bizzarra particolarità di avere il volante a destra e dover tenere la destra (per via di rigurgiti antimperialisti del governo), per cui ogni sorpasso avviene praticamente alla cieca. C’è da dire che i birmani alla guida sembrano quasi tutti molto prudenti, anzi devo dire ammirevoli. A Yangon, sempre per le curiose intemperanze dei governatori locali (la macchina di uno di essi, anni addietro, è stata tamponata da un motorino), è vietata la circolazione di moto e motorini, ed è quasi impossibile da credere ad una città così senza gente che si sposta in scooter o moto. Mi dirigo verso il porto fluviale, ad osservare la gente che si avvia alle proprie occupazioni. Molti hanno i volti assenti di automi mattutini come in tutte le città del mondo. Le donne, di statura minuta, si tingono le gote e il volto con la tannaka, una tintura bianca con scopi sia protettivi che ornamentali. Ma anche molti uomini e ragazzi ne fanno uso. Due anziane monache, rasate ed avvolte in accecanti tonache rosa, passeggiano sorridenti chiedendo l’elemosina e mormorando qualche litania d’incoraggiamento. Nei marciapiedi, qua e là un tombino lasciato scoperchiato apre voragini improvvise; due uomini si lavano con una canna sotto ad un portico. Al porto confluisce molta gente che si va al lavoro o che viene a comprare il pesce e la frutta scaricata. I venditori, spesso donne, espongono su teli e cassette la mercanzia, agitando ventagli contro le instancabili mosche. Proseguo per vie parallele al fiume, strade decadenti con le case segnate dagli anni che sembrano sporgersi, creando una vaga sensazione claustrofobica. Girando in semicerchio arrivo fino alla stazione ferroviaria, dove decido di intraprendere l’impresa di acquistare un biglietto in cuccetta verso Mandalay. Prima provo in un oscuro scalo secondario, con tabelloni crivellati esclusivamente da caratteri birmani, e con impiegati che seppur di fronte a una richiesta semplice, mi guardano allibiti per poi rimbalzarmi ad un altro sportello. Vengo sflipperato fino alla stazione centrale, dove sembro trovare uno sportello con una equipe di funzionari in grado di farmi il biglietto. Costa 33 dollari, gliene dò 40 perchè dietro non ho tagli minori , e la cosa li getta nel panico. Non hanno il resto da darmi, non posso pagare in kyat, e regalargli 7 dollari mi sta sulle palle. Dopo un lungo conciliabolo dietro la grata, mi dice di tornare alle due che avranno il resto, intanto mi prenota il posto. Fuori dalla stazione cambio un po’ di dollari da un negoziante ad un tasso non male. Verso sera mi presento zaino in spalla e prendo possesso della mia cabina sleeper, il treno inizia a sferragliare verso nord. Le ferrovie birmane, residui di quelle coloniali inglesi del secolo scorso, hanno lo scartamento ridotto, il che vuole dire che le cabine ballano come ubriachi su una nave in tempesta. Negli snodi fra i vagoni il fracasso è tale che sembra debba smantellarsi il giunto, e in bagno se ne fai almeno metà nel buco il capotreno quando arrivi ti dà un premio. C’è di buono che ho lo scompartimento tutto per me, per cui posso chiudere la porta e non essere costretto a dormire come un’orsa attorno ai cuccioli per proteggere lo zaino con i miei pochi averi. Il negoziante mi ha inondato di banconote di piccolo taglio, ho una mazzetta alta una ventina di cm. Fuori dal finestrino, le verdi campagne ed il cielo cinereo lasciano presto il posto all’oscurità. La cuccetta è più grande del mio letto al Beautyland, e nonostante i sobbalzi riesco a consumare diverse ore di buon sonno.
Mandalay
Arriviamo che albeggia. La città è meno trafficata ed affollata di quanto mi aspettassi, forse è ancora presto. Il mix etnico è particolarmente variegato qui, essendo un crocevia secolare di numerose popolazioni. Fuori dalla stazione pochi tassinari, dignitosi nei loro longyi, privi dell’insistenza di altri asiatici dell’area. Decido di fare una camminata fino all’albergo, che dovrebbe distare solo un km, ma sulla strada vengo avvicinato da un motorino (qui possono circolare), il cui guidatore ha un sorriso più buchi che denti che mi convince. Vuoi anche per il sole già caldo e lo zaino pesante, mi faccio dare un passaggio per mille kyat fino al Nylon hotel. La stanza, 12 dollari, non è ancora pronta, per cui appoggio lo zaino e ciondolo un po’ nei dintorni. Ampli viali, alcuni alberati, presenza di occidentali pressochè nulla. Mentre leggo qualcosa su dei gradini all’ombra, vengo avvicinato da un uomo vecchissimo che mi sa abbia visto di persona la dominazione inglese, infatti lo parla abbastanza bene. Costui congedandosi benedice me, mia moglie ed i miei figli; lo ricambio senza sottolineare che non ho nè l’una nè gli altri. La camera che mi danno più tardi è la solita roba anonima. Noleggio una bici davanti all’hotel, per potermi muovere liberamente. Il sole cuoce, ma devo fermarmi a mangiare perchè neanche mi ricordo l’ultimo pasto decente. Mi fermo in una trattoria sulla strada, che vanta degli sgabelli progettati da Torquemada e il riso con verdure più immangiabile del circondario, accompagnato dall’usuale mohinga (una tazza di brodo speziato coi vermicelli). Il mio stomaco giustamente protesta. Dopo il fugace pasto, mi dirigo verso la Mahamuni Paya, un tempio che trovo non facilmente perchè i caratteri latini sembrano banditi dalle indicazioni. Il complesso è esteso, attorno al Buddha principale si estendono diversi rami, in cui i mercanti vendono e spesso producono la solita paccottiglia e foglie d’oro da applicare alle statue. Ora sono seduto a scrivere sotto i portici di un tempio secondario, circondato da donne birmane che mi guardano meravigliate dalla magia del corsivo. Mostro loro il foglio, ma un monaco che è con loro mi spiega in inglese che a loro piace guardare mentre scrivo, e per un attimo anche io sono stregato dal prodigio della scrittura a mano. Dopo un po’ vado a mettere qualche foglia d’oro sulla possente statua del Buddha, rituale vietato alle donne. L’Illuminato, lucidato a specchio, è trapunto di bernoccoli d’oro che generazioni di birmani gli hanno pazientemente spiattellato sopra, rituale a cui anche io dò il mio contributo. Un paio di guardie tengono d’occhio che nessuno dia qualche grattatina alla statua. L’odore dell’incenso, ma soprattutto quello dei fiori, è così forte che stordisce. Mentre gli uomini attaccano le foglie d’oro sottili e friabili, le donne accucciate davanti recitano mantra e altre storie. Sulla strada del ritorno passo in mezzo ad un mercato, guizzando con la bici fra i pedoni che si scansano, fra montagne di cipolle, pomodori e ananas. In serata, il ragazzo dell’hotel mi accompagna in scooter al Lake View, che si presenta come un ristorante vuoto e dall’aria pretenziosa. Però vedendo abbiamo incrociato un locale abbastanza affollato, non senza difficoltà gli spiego di portarmi lì. Il posto si chiama Shwe Myanmar. Qui l’aggettivo shwe (dorato) è abusato, sia nel commercio che nella toponomastica. Ordino un pollo con i funghi, ed è la prima cosa buona che mangio da giorni a questa parte. Me lo servono con le bacchette, ma anni di Indocina mi permettono di superare senza problemi gli sguardi scettici degli astanti. Sul palco intanto procede lo show. Delle ragazze si esibiscono in una sfilata quantomeno naif, guardano in terra per seguire il percorso, camminano storte, si urtano fra loro. La loro espressione vacua dà l’ultima pennellata di grottesco all’insieme. Il cameriere mi ripete almeno cinque volte che per 5000 k posso avere una ragazza al tavolo per un’ora, e a sentir lui non si tratta di prostitute. Gli chiedo se le ragazze parlino inglese, e lui mi risponde “yes, yes”, ma temo che potrei chiedergli qualsiasi cosa e direbbe comunque yes. Decido di chiamarne una, quantomeno per scambiare due chiacchiere. Per scegliere una ragazza bisogna avvolgerle il collo con dei festoni natalizi prontamente messi a disposizione dal locale; impresa che delego, non senza fatica, al cameriere. Arriva la ragazza, ed è chiaro fin dal primo istante che non spiccica una parola di inglese. Provo a farle domande semplici, ma lei si guarda attorno atterrita come se le avessi chiesto di spiegarmi il principio di Heisenberg. Le chiedo, o meglio le mimo, se vuole bere qualcosa; lei ordina un’aranciata che sorseggia appena, e dopo qualche minuto se ne va, levando entrambi dall’imbarazzo. Sul palco le ragazze, una alla volta, cantano qualche hit locale, con velleità da “Amici” ma il più delle volte con risultati da “La Corrida”. L’approssimazione tecnica dello spettacolo mi fa pensare per qualche istante di propormi al gestore del posto per dargli una lucidata. Si vede che il nuovo Myanmar ha voglia di libertà anche attraverso i locali notturni, che nel Paese (salvo qualche eccezione) praticamente non esistono. Immerso in questi ragionamenti e privo di qualsiasi interlucutore anglofono, mi accorgo che mi sono già scolato un litro e mezzo di birra. A mezzanotte e mezza le luci si accendono annunciando che la sparkling nightlife di Mandalay sta abbassando la saracinesca. Nel conto ovviamente non c’è la compagnia della ragazza, in quanto un monologo da 3 minuti posso farlo gratis. C’è da dire che il birmano medio dopo un paio di birre è sdraiato, mentre io mi avvio verso l’uscita senza incedere e con passo sicuro, grazie al genoma temprato da generazioni di ubriaconi lombardi. Per tornare in hotel prendo un trishaw, cioè una bici sidecar, che si avvia nei viali bui di Mandalay. Momento di pietà etilica per il poveraccio che pedala (e sbaglia pure strada), per cui gli lascio pure una mancia, e vado a letto con la coscienza a posto.
Sagaing, Inwa, Amarapura
Mi sveglio all’alba, un po’ rintronato per via della noche loca. In strada già si vedono le processioni di monachelle con le abbaglianti tonache rosa e le ciotole argentate per l’elemosina. Oggi è giornata di escursioni, ed alle 8 sono già pronto a saltare sul pulmino scassato della mia guida, Nyein, un ragazzo paffutello sulla ventina che non fa altro che masticare betel. Nel pavimento del furgoncino ci sono dei buchi attraverso cui si vede l’asfalto che scorre. Parlando lui un po’ di inglese, facciamo due chiacchiere sulla Birmania. Mi chiede “democracy is good?”.. Io penso a certe facce che abbiamo da decenni in Parlamento e vengo preso dallo sconforto, ma non lo do a vedere per non scoraggiarlo, gli dico “certamente”. Per lui, quest’anno, la vera rivoluzione è stata poter comprare il cellulare, visto che il governo ne ha sbloccato la vendita; mi mostra orgoglioso il suo come se fosse la chiave di volta. Concordiamo che solo l’anno scorso, ad esporre un poster di Aung San Suu Kyi (se ne vedono molti in giro), si rischiava la galera. Ma probabilmente il birmano, come l’italiano, è politicamente disilluso. Facciamo la prima tappa a Sagaing, una spianata trapunta di stupa dorati, attraversata da un imponente ponte sull’Irrawaddy e dominata da una collina con i templi principali. Salire la scalinata è arduo, visto che il sole sta già rosolando il suolo, ma la vista dalla sommità è appagante: un mare verde punteggato di templi e di alberi dai grossi fiori arancioni, e all’orizzonte il bizzarro e mutevole incontrarsi della terra e dell’acqua dei fiumi. Gli scoiattoli guizzano argentei lungo i corrimano di pietra e saltano fra i rami dei carrubi. Seduto sulle piastrelle del cortile esterno, guardando ora il panorama ora i radi visitatori, passo piacevolmente un po’ di tempo. Qualche gruppetto di monaci è intento qui a lucidare una statua, là a rattoppare un mosaico. All’interno dei templi, un clichè ormai comune: Buddha kitsch che irradia aureole di led, sfondo di specchietti con fuga verde, parete dedicata alle foto con i membri del governo circondati da funzionari servili. Nei cortili attorno le bancarelle hanno la solita fuffa (l’artigianato locale, almeno a livello di bancarella, offre poco di interessante). Nonostante sia l’unico falang, nessuno mi vuol vendere qualcosa, rendendo anche in questo i birmani dissimili dai vicini orientali, spesso insistenti fino alla noia. Ripercorro la scalinata in discesa, non dopo una sosta liberatoria contro un carrubo secolare, e trovo la guida che se la dorme della grossa su una panca, perlato di sudore. Che poi guida è una parola grossa, visto che per non farsi la scalinata mi ha aspettato all’ingresso. Mi siedo sulla panca davanti e inizio a fargli “psst.. psssst” e lui sbiascica felice nel sonno, finchè socchiude gli occhi e mi vede davanti che rido. Tenta di rassettarsi e di ostentare una lucidità che non ha, gli dico take it easy che tanto abbiamo tempo. La gita prosegue verso Inwa, l’ennesima ex-capitale della Birmania. Si trova dove le acque del fiume si allargano e creano delle isole, su una delle quali vi sono proprio i resti di questa città. Vi si accede traghettando con lunghe e sottili piroghe a motore, all’imbarco un nugolo di ragazzine esige che io compri un braccialetto, o almeno cinque. Declino l’offerta con dei “maybe, later” ripetuti come un mantra magico. Sull’isoletta ci si sposta a bordo di piccoli calesse tirati da cavallini stenti. La strada è uno sterrato che si inoltra fra i campi di sterpaglie e i laghetti fluviali, nei quali sguazzano dei contadini che recuperano certi fasci d’erbe. Dei ragazzini sorridenti ci seguono in bicicletta, con le loro collanine da rifilarmi, ma parlano qualcosa di inglese e non li scoraggio. Il vecchio che guida il mezzo emette ogni tanto un nome di fronte a qualche stupa o pianta che ritiene interessante, ma nulla più. Il cielo azzurro a pecorelle bianche si apre un varco nel monotono grigiastro della stagione; anzi, il sole inizia presto a picchiare duro, per fortuna il calesse ha la capote fatta con i teloni giallo-verdi dell’onnipresente marca di whisky locale. Gli stupa bianchi e dorati scintillano sull’orizzonte piatto, in contrasto con i verdi della vegetazione ed il rosso cupo o aranciato dei templi di mattoni. Molte costruzioni sono invase dalle erbacce, pigramente brucate da delle vacche magre che vagano liberamente nel sito archeologico. Per entrare nel monastero Me Nu Ok Kyaung, un casellante mi chiede la tessera archeologica, quella pagabile solo in dollari. Non ne ho dietro, gli chiedo stizzito se per caso ci troviamo a Manhattan e non me ne sia accorto; la sua risposta è un impassibile sguardo birmano. Proseguo con calesse e nugolo di piccoli venditori di tempio in tempio, con pacatezza, sostando fra rovine e buddha stritolati dalle radici di banyan secolari. Dopo aver salutato anche l’ultima pietra sgretolata, riattraverso lo specchio d’acqua, e decido che è ora di mangiare qualcosa. Nyein è già spaparanzato alla sua panca in una trattoria lì vicino, con dei suoi amici, e mi unisco all’allegra combriccola di masticatori di betel. La mia richiesta di avere riso in bianco e pollo arrosto cade nel vuoto, here only traditional food, per cui giù di brodaglie speziate con l’insopportabile coriandolo e pollo al curry da strizzare. Il mio stomaco geme, lo tengo buono promettendogli una margherita appena atterro a Bangkok. Fatto il ruttino e pagato il conto, dopo l’immancabile giro multiplo di “medicina” locale (un liquore di riso o palma), possiamo ripartire verso Amarapura. Ripassiamo i ponti sull’Irrawaddy e giungiamo all’ U Bein’s Bridge, sulla carta il ponte di teak più lungo del mondo. Si tratta di un pontile su cui sciamano venditori, studenti, monaci. Mentre mi avvio per attraversarlo a piedi,dopo aver spulciato qualche bancarella, mi avvicina una ragazzina per farmi da guida, felpina azzurra e borsa viola di taglio tradizionale a tracolla. Si chiama May Zin Nyein, ha quindici anni e devo ammettere che mi stupisce parlando un italiano rudimentale ma efficace, oltre ad altre quattro lingue. Voglio incoraggiare la sua intraprendenza e non la dissuado. Mentre attraversiamo il pontile gli altri birmani la guardano fra l’ammirato e il perplesso, ma si vede che lei è sveglia e vuole imparare. Mi dice che quando l’acqua è bassa, nella stagione secca, nel bacino ci sono gli orti; mi indica due tamarindi morti, che protendono i nudi rami secchi da tronchi per mezzo sommersi. Dall’altra parte c’è Tento, il villaggio in cui vive lei, e mi mostra il monastero con il solito dispiego di led. Le pago una aranciata e lei ricambia offrendomi una specie di ghiacciolo dall’aspetto (confermato dal sapore) strachimico. May è prodiga di informazioni, questo si chiama così, abbiamo questa usanza qua, e così via; tanto che, tornati di là dal ponte, le lascio una mancia. Sugli alberi camminano delle grosse iguane dal dorso turchese. Nyein, al posto di guida del furgoncino, sta ovviamente approfittando della sosta per russare come un orso. Gli chiedo se vuole la colazione; ma il betel non dovrebbe essere uno stimolante? Ora sono sulla terrazza dell’ultimo piano del mio hotel, dove c’è la mia camera, e ho scoperto che di fianco alloggia una belga notevole; ero qui a scrivere e a guardare Mandalay dall’alto, e lei è uscita in vestaglietta per fumare. L’ho trattenuta per due chiacchiere, il fidanzato è in Belgio, lei è qui con “a friend”. L’amico si rivela essere un manzo, per cui ho un immediato crollo di interesse e sono tornato alle mie occupazioni. In serata ceno da Mann, un cinese che serve solo roba fritta, dove vengo importunato da un simpatico ubriacone locale. Seppure non sia troppo molesto viene prontamente rimosso di peso da due tranquilli camerieri.
Mandalay
All’alba, il canto del muezzin mi ricorda con piacere la presenza di una vivace comunità musulmana nella città. Stamattina ho noleggiato uno scooter. Prima tappa, Mandalay Hill, una collina su cui torreggia il solito complesso di templi, da cui si gode una vista panoramica sull’intera città. Due enormi chinthe (belve simili a leoni) bianchi e dorati indicano la base della scalinata. Io scelgo invece l’opzione tamarra italiana, su per i tornanti con lo scooterino, senza piegare in curva per rispetto alla sacralità del luogo. La vista onnicomprensiva dalla cima è notevole. Si vede benissimo il Forte di Mandalay, un piazzale quadrato cinto da un fossato e da una fortificazione muraria alta quasi una decina di metri. Fa pensare al turbolento passato coloniale di Mandalay, ieri ho provato a camminarci intorno ma ogni lato è lunghissimo. Dopo aver gironzolato un po’, sono tornato ad Amarapura, ma non sono stato capace di ritrovare il ponte. Ne ho approfittato per vagare senza meta nelle strade dei paesini attorno, fermandomi a curiosare nelle botteghe dei tintori o dei falegnami. Tornato a Mandalay, ho gironzolato nel mercato della giada, dove decine di artigiani e piccoli apprendisti lavorano, lisciano, tagliano le pietre, in un reticolo di viuzze polverose presso un’ansa del fiume. Più che giada, sembra che stiano lavorando marmo di differenti tonalità, squadrato in cubetti o dadini o listarelle. Intorno e nelle botteghe, donne e parenti vendono il frutto di tale operosità, pietre verdi grosse come lenticchie delle varietà di giada più pregiate, e un’infinità di altri tagli e tipologie. Sul fiume, dei bambini seminudi si tuffano utilizzando una corda legata ad un ramo; prendono lo slancio e si lasciano andare a diversi metri dalla riva. Mi avvicino per guardarli e scattare qualche foto, la riva è ricoperta interamente da uno strato di immondizia in decomposizione, una specie di oasi protetta per le pantegane, pregna di miasmi ammorbanti e percolati mefitici. Loro vi corrono a piedi nudi, e sguazzano nell’acqua che di certo non sarà pulita, viste le premesse sulle sponde. Rimonto in sella allo scooter, lasciando i bambini nel loro kindergarten batteriologico, e vago un po’ sotto il sole cocente, prima di tornare in hotel per una doccia rigenerante. In terrazza trovo la belga che mi informa che l’amico è partito (picco di interesse); le chiedo, scusa non è per farmi gli affari tuoi, ma il tuo ragazzo in Belgio non è geloso che in Birmania dormi con un amico? Lei replica che si fidano talmente l’uno dell’altra che non hanno di questi problemi (crollo di interesse). Le domando come intende proseguire la sua vacanza (o meglio viaggio, visto che Kathryn fa parte di quella razza di gente che sta in giro parecchi mesi). Quando mi dice che ha prenotato una settimana di meditazione a Yangoon, praticamente le scoppio a ridere in faccia. Non penso che la spiritualità sia come come una Spa dove farsi fare un massaggio col cioccolato, e l’idea di prenotare e maneggiare denaro per incrociare le gambe in qualche “monastero” mi deprime. Le chiedo se vuole unirsi a me e a Nyein per andare al karaoke in serata, ma sembra perplessa, forse non le sembra abbastanza meditativa come esperienza. Quando si rimette a pigiare tasti sullo schermo del cellulare la lascio alla sua ipnosi digitale. Dopo cena, trovo Nyein e un amico che mi aspettano puntuali davanti al negozio Mr Jerry, con i sorrisi rossi di betel, pronti a una scarica di Myanmar ghiacciate. Nel locale che conosce lui, il teatrino è lo stesso, ci sediamo ad un tavolino centrale dove fra noccioline e luppoli birmani fermentati godiamo della rivista pingitoresca sul palco. Visto in compagnia, lo show assume toni da sgomitate cameratesche, il tutto sempre nei limiti del rigido contegno birmana: il massimo della provocazione è far cantare ragazze che non ne sono in grado. Nyein insiste che io mastichi un po’ del suo betel, che si presenta come una foglia arrotolata e farcita di un liquido lattiginoso e da frammenti della noce stessa. La ricetta è differenta da quella indonesiana, provo per puro dovere di testimonianza, ne ingoio un po’ rischiando di sboccare. Al ritorno, vagamente alticci, saluto i compari e mi fermo a chiacchierare con due ragazze danesi sui divani nella hall. Sono impegnate a digitare e tracciare linee sugli schermi dei loro cosipad, succubi ormai di una tecnologia che illumina loro il volto e l’anima di una fredda luce azzurrognola.
Verso nord
Per 6000 kyat ho preso un biglietto d’autobus per Hsipaw. Dopo qualche ora incastonato sul sedile, ammaliato dal paesaggio bucolico, e con qualche sosta per rifocillarci e lavare i cerchioni del pulman (usanza tipica dei birmani, insieme al raffreddamento del motore con il cannello dell’acqua), arriviamo a Hsipaw. E’ già buio, faccio giusto in tempo a prendere una camera alla Mr Charles Guesthouse e a mangiare qualcosa in qualche bettola nei dintorni certo non vivaci.
Hsipaw
Vengo svegliato alle 6:00 dai bambini della vicina scuola che recitano ad alta voce la lezione. Dopo colazione, concordo con una guida locale (Giorgio, come l’ho ribattezzato) un trekking nelle valle circostanti. Il tempo di preparare lo zainetto per passare fuori la notte e siamo pronti ad avventurarci oltre i limiti dell’abitato. Si è unita una coppia di hawaiani, lui porta una pesante borsa con l’attrezzatura fotografica. Il dislivello coperto dalla lunga camminata ci porta dai 400 ai 1200 metri, su strade sterrate che si inerpicano fra valli coltivate a tè, soia, granturco. Ogni tanto veniamo sorpassati da qualche motoretta (che i birmani chiamano “cavalli cinesi”), spesso guidata da qualche monaco sceso in città a fare provviste. La salita impervia, sotto il sole implacabile, è massacrante, e dopo un momento di iniziale baldanza siamo costretti a rallentare l’andatura e a fare più soste. La guida, nonostante abbia passato i 60 anni, sale apparentemente senza problemi, ma si vede che anche lui sta faticando come un mulo. Inizialmente costeggiavamo il fiume, osservando i germogli del cotone o i bozzoli dorati di qualche farfalla, o i bambini cercare refrigerio nel corso d’acqua. I piccoli villaggi attorno sono prettamente dedicati alla coltivazione del riso, vista l’abbondanza d’acqua, e di quelli che sono probabilmente i migliori ananas del mondo: dolci, succosi e teneri al palato; gli stessi hawaiani hanno dovuto ammettere che sono meglio anche dei loro. Una famiglia ci accoglie nell’aia della sua abitazione e ci offre del tè caldo. Gli uomini, soprattutto gli anziani, sono spesso tatuati con simboli apotropaici; il tatuaggio viene eseguito con lunghe penne di bronzo tradizionali. Due bambini, rasati per i pidocchi, si dondolano pigramente su una rozza altalena, mentre un bufalo rumina pigramente del fieno poco distante. Il bufalo è la ricchezza di ogni famiglia, insostituibile per lavorare i campi in queste regioni dove ancora non scoppiettano i cilindri dei trattori cinesi. Poi la strada abbandona le campagne ed i piccoli monasteri sul tragitti, dove giovani monaci sorridono dalle finestre, e ci inoltriamo per valli dall’aspetto pià spoglio, la strada sassosa sale dirigendosi verso occidente, fra campi di arachidi e soia. La notte sosteremo in questo piccolo villaggio shan, all’ingresso del quale vi è un portale di legno sormontato da due pugnali incrociati, che le superstizioni locali ritengono capaci di allontanare i nat (spiriti) maligni. Poco oltre vi sono degli alberi-madre di dimensioni colossali, appoggiati ai quali vi sono dei bambù utilizzati per altri rituali locali. Donne e bambini fanno rifornimento d’acqua da uno squadrato pozzo di cemento, che leggiamo essere stato costruito nel 2009 da un programma di sviluppo dell’ONU (UNDP); è l’unica sorgente d’acqua potabile, che viene prelevata a monte ed evita le epidemie di tifo e compagnia bella. Per la malaria, Giorgio dice che non ci sono molti casi, ma vengono curati in una clinica a Hsipaw, dove un medico italiano cura e prescrive medicine gratuitamente. Le case del villaggio punteggiano la valle ricoperta di foresta, una verde mare di foglie e di cespugli di belledinotte e bouganville. Rudimentali abitazioni di assi di teak e talvolta tetti di lamiera, unico “lusso” moderno. Per costruirne una ci vogliono una cinquantina di euro, ci si basa essenzialmente su una rete di solidarietà locale: quando una giovane coppia o qualcuno necessita di una nuova casa l’intero villaggio collabora per edificarla. Veniamo accolti a soggiornare nella casa dell’Omen, ossia il capovillaggio, un ragazzo che ha da poco passato la trentina e che ha avuto il privilegio di studiare. Vive con la moglie e le sue due figlie piccole in una graziosa casa a due piani vicino all’ingresso del villaggio. Noi sistemiamo la nostra roba al piano superiore e ci laviamo utilizzando un secchio d’acqua messo a disposizione dalla donna. Pranziamo con del riso e della “mustard” bollita. Dopo un pisolino rigenerante, ci avventuriamo alla scoperta del villaggio e delle alture circostanti. Giorgio si prodiga in spiegazioni su tutto, sulle proprietà delle piante, sul mais malese che non è buono come quello birmano, su come si fabbrica il liquore di riso. Entriamo in qualche casa, accolti benevolmente dagli abitanti, i quali ci mostrano le loro cose e parlottano con Giorgio, che in pratica è il loro tramite con la civiltà. Al centro di tutte le abitazioni vi è il focolare, sopra il quale è appesa una struttura di bronzo in cui, ci spiegano, viene messa la roba per essere affumicata, soprattutto fagioli perchè la fumigazione “fa bene allo stomaco” (così dicono loro). Non utilizzano nessuna canna fumaria, per cui i muri intorno sono anneriti e tutto è pervaso da un lieve ma acre odore di fumo, che dicono tenga lontane le zanzare. I giardini delle case sono impreziositi da piante lussureggianti, alberi da frutto, rampicanti grondanti fiori e roseti, gelsomini, oleandri, girasoli, pomodori e piselli. Un bambino passa cavalcando un bufalo come se fosse un pony. Questa gente in particolare appartiene all’etnia Ngwe Palaung, cioè i Palaung d’argento, figli del sole e del dragone, e fa parte della moltitudine di sottofazioni shan che rivendica l’indipendenza amministrativa. Torniamo alla casa del capovillaggio per una siesta, e quando il sole inizia a calare ci inerpichiamo su un sentiero che gira intorno alla valle. Il tramonto ci coglie mentre, dall’altura più alta, osserviamo Hsipaw in lontananza e l’enorme quantità di strada che abbiamo percorso a piedi fra le colline. Per cena, pollo alla madrededios, insalata di tè e cetriolo al curry, e altri piatti strani che condividiamo assieme alla medicina (il solito liquore “dello zio”). Dopo un po’ Giorgio, come ho ribattezzato la guida birmana, tira fuori una foto di lui da giovane, negli anni 70, ed è sorprendente perchè potrebbe essere benissimo un londinese: pantaloni a zampa, camicia leopardata col colletto lungo, capelli fino alle spalle e basettoni che solo chi ha vissuto quegli anni può perdonare a sè stesso. Ci stupiamo di come la Birmania, prima di piombare nel buio della dittatura militare, fosse un Paese moderno al passo coi tempi. Finiamo a cantare “Love me do”, Giorgio dice che è la sua canzone preferita dei Beatles. Spesso indugia nel criticare i confinanti cinesi, colpevoli a suo dire di comprare tutte le risorse del Paese a prezzi stracciati, gas, legname, approfittando della corruzione generalizzata. Parlando delle specie quasi estinte per vie delle brame alimentari o pseudofarmacologiche dei cinesi, ci racconta un aneddoto, o meglio un’usanza diffusa tempo addietro, e a cui non stento a credere. Correva voce che i cinesi comprassero testicoli umani, solo i sinistri, per loro oscure preparazioni medicinali. Lui stesso non ci credeva, finchè non ha incontrato un monopalla superstite a cui il gioiello era stato pagato l’equivalente di mille dollari. Mi chiedo come fosse possibile distinguerlo da quello di un montone o di un maiale giovane, ma dice che si può. Su mia richiesta, Giorgio ci rassicura ridendo sulla sua integrità.
Villaggio Shan
Veniamo svegliati che ancora non è l’alba dalle decine di galli che popolano i dintorni. Per via del fumo, io e la mia roba abbiamo un vago profumo di spek. Il grosso ragno peloso che ieri sera mi osservava con i suoi otto occhi da una trave del soffitto sembra essersene andat, perlomeno non dentro la mia zanzariera. Mangiucchiamo le cose avanzate a cena, ci laviamo nel secchio e ci mettiamo in marcia. La moglie dell’Omen ci spalma il viso con la tannaka, sciogliendone da un cilindretto sopra una lastra di pietra lucida, inumidendolo e girandolo in cerchio fino ad ottenere una cremina bianca. Ricambio con un po’ di solare protezione 30 (western tannaka), che viene apprezzato. Prima di partire ci salutiamo calorosamente con il capovillaggio e la famiglia, ringraziamo per l’accoglienza e salamelecchi vari. Nella foresta, seminascoste dalla vegetazione, casupole disseminate di nastri rossi e bianchi, che servono per l’occhio malocchio prezzemolo e finocchio contro i nat malvagi. La camminata, seppur meno impegnativa dell’andata, ci sfianca, e arriviamo a Hsipaw mentre il sole ci fa arrivederci dall’orizzonte. L’hawaiano ha un piede scassato, la ragazza invece nonostante la corporatura esile ha retto bene il trekking. Io, beh diciamo che dopo una doccia son pronto a uscire per cenare, ma Mr Food ha già chiuso i battenti anche se sono solo le nove. Ripiego, per fortuna, su un negozietto di fruitshake e carne arrosto e pollo fritto davanti, una sorta di oasi bio-bisunta nella strada già buia.
Il viaggio della speranza
Erano 10 giorni che non pioveva a Hsipaw, ma il giorno in cui parto io viene giù acqua a secchiate. Il pullman parte alla 1:30, faccio in tempo a mangiare l’ennesima variante di riso e pollo in un chiosco indiano di fronte alla stazione. L’autobus fa pietà, sarebbe scomodo per un viaggio di due ore e io ne devo fare 15, ottimisticamente parlando. Per fortuna, o meglio con un po’ di italica prepotenza, mi accaparro il retro, dove con il mio zaino e altro ciarpame produco una posizione orizzontale discreta, e riesco anche a dormire qualche ora. L’unica cosa che va sempre a palla, e a sproposito, è l’aria condizionata, che tappiamo avvolgendogli le tendine intorno e bloccandole con le borse, oltre ai soliti sacchettini di plastica nei bocchettoni. La felpa col cappuccio si rivela fondamentale. La strada, inizialmente in buone condizioni, inizia a salire di altitudine e a peggiorare drammaticamente, ma dopo un po’ che prende buche e scossoni quasi non ci faccio più caso. Ogni tanto scendo per mangiare qualcosa o pisciare, o per riportare la circolazione in qualche arto. Qua e là, gli scavi per gli immensi gasdotti che portano a nord, attorno a cui formicolano decine di piccoli operai che spalano, aggiustano, saldano. Questo Paese vanta foreste di teak uniche al mondo, chissà quanto dureranno.
Nyaungshwe
Arriviamo che è quasi l’alba. Nyaungshwe si trova all’estremità settentrionale del lago Inle (correttamente sarebbe Innlay). La stazione a cui si ferma l’autobus è un incrocio sulla statale con un chiosco, immerso nell’oscurità. E’ lo snodo attraverso le varie destinazioni. Un tassinaro ci porta fino alla città vera e propria, io, un giapponese e due cinesi che sembrano più spaesati di me. Il tragitto dallo svincolo al lago è parecchio lungo, la striscia grigia della strada si perde davanti e dietro nella più totale oscurità. All’ingresso di Nyaungshwe c’è un casello per turisti, 5$ (alla salute del governo, sempre sia lodato). Dopo un paio di posti no room, io trovo una camera al Gipsy Inn, un modesto ma accogliente alberghetto di fronte al molo. Gli altri proseguono nella ricerca perchè una delle due cinesi ritiene il wi-fi essenziale, mentre a me una doccia calda per adesso può bastare, dopo il viaggio sul carro bestiame. La camera è pulita, anche se si affaccia sul nulla del retro; un grosso ventaglio appeso al muro, con la sagoma del tipico pescatore locale che rema col piede, rende un po’ meno misero l’ambiente. Dopo un paio d’ore di sonno, esco per mangiare qualcosa. Entro in una oscura trattoria cinese, dove due bambini vengono a prendere l’ordinazione, cioè il solito rice and chiken. No chiken, ok allora pork. Mi arriva una specie di insalata di riso bisunta e scotta, con uno spezzatino di maiale ricoperto di una patina gialla, non si capisce se di spezie o di frollatura. Dopo un paio di cucchiaiate sono sazio. Magari leggendo si può pensare che io sia schizzinoso, ma assicuro che prima di mangiare certe cose son appetito bisogna avere veramente fame. Pago e me ne esco, a noleggiare una bici per cercare un altro posto. Trovo Wee Wee, una palafitta su un canale che cucina “pasta italiana e european food”, secondo quanto dice un cartello scrostato appeso davanti. A Wee Wee manca un incisivo, ma non esita a sorridere invitandomi a sedere. Per non sbagliare ordino patate fritte, ho solo bisogno di una botta di grassi e carboidrati per rimanere in piedi, non serve che mi dia prova di haute cuisine. Sono l’unica persona ai due tavolini. Dopo 25 minuti mi affaccio verso la cucina, inizio ad essere un po’ impaziente, sta ancora tagliando le patate. Sorride, e lo fa con tale impegno che placa la mia impazienza. Dopo tre quarti d’ora ce l’ha fatta, mi porta orgoglioso la sua opera: un piatto di patate fritte e unte. Fatto il carico di energia, salto in sella e prendo la strada che corre lungo la riva orientale del lago, che si perde fra piccoli villaggi, canali, piantagioni, fino a diventare uno sterrato impraticabile in cui resto intrappolato nei rami sporgenti. Torno indietro per un pezzo ma da questo lato del lago la discesa sembra impossibile. Sosto nel piccolo paesino di Nanthe, dove c’è una pagoda bianca con un buddha seduto alto 8 metri circondato da stupa, anch’essi bianchi e dorati. Fissa placidamente la campagna davanti a sè, alle sue spalle vi è una vasca colma di piante di loto in fiore, e le abitazioni dei monaci. Lungo il canale principale, su villaggi di palafitte, i soliti bambini che sciamano, contadini piegati negli orti, donne che lavano i panni. Le piroghe, poche delle quali a motore, fanno la spola in una direzione o nell’altra. Questa beatitudine agreste mi conforta, credo che mi fermerò qualche giorno più del necessario. In paese, oltre a girare senza meta con la bici, sembra esserci poco da fare; pedalo fischiettando, osservando le gente che pigramente svolge le proprie attività quotidiane. Dei ragazzini giocano a calcio in un largo spiazzo sotto al monumento dell’ Indipendenza; altri ai bordi palleggiano con una palla di rattan intrecciato, usata nel Chinlone che è lo sport nazionale. Sulla strada principale compro qualche cartolina, le scrivo sorseggiando una Myanmar ghiacciata in un bar affacciato sullo stradone, uno di quei bar di campagna con l’atmosfera da bianchino col nonno. Si vede che, a parte un modesto turismo che consiste in gruppetti spaesati di occidentali, l’ossatura delle attività cittadine è prevalentemente legata all’agricoltura, e ruota attorno al grosso mercato settimanale che vi si tiene. Le montagne che cingono la valle anticipano il tramonto, e l’oscurità scende velocemente. Non resta che cercare ricovero in un ristorante che promette pizza cotta nel forno a legna, attirato come una falena che sbatte sulla lampadina dal cartello che indica una strada buia. Davanti vi è una collinetta rossastra con un tempio in disfacimento. Il vecchio cameriere si premura di staccare e portarmi un rametto di basilico dalle piante nei vasi all’ingresso, lo annuso e mi sento un po’ a casa. Attraverso una finestra, posso vedere almeno sei persone impegnate nella titanica impresa di prepararmi una prosciutto e funghi, che si rivela non male, nonostante il retrogusto e la consistenza biscottata.
Lago Inle
Stamattina, dopo colazione, ho concordato con l’albergatore l’affitto di una barca, per vagabondare tutto il giorno in giro per il lago Inle. La barca imbocca il lungo canale che scende a sud, ai lati le campagne che ieri ho percorso in bicicletta. Un numero spropositato di anatre e altri uccelli particolari svolazzano e nidificano fra i canneti. Sulle rive, persone che si fanno il bagno, pescano o rinforzano gli argini vangando terra. Il canale poi si apre sul lago vero e proprio, una distesa beige punteggiata di isolette vegetali, canneti o piante galleggianti. Il cielo nuvoloso rende sopportabile la calura. Da alcune piroghe dei giovani pescatori gettano le reti, spostandosi poi nel modo caratteristico di qua, cioè usando il remo con movimenti semicircolari del piede. Ci guardano del tutto indifferenti, e noi proseguiamo verso Ywama, dove sostiamo per girare un po’ fra le bancarelle di artigianato locale. Proseguiamo visitando alcune manifatture su palafitte nei dintorni, piccole aziende famigliari che producono sigarette, tessuti, oggetti di metallo. Tutto con tecniche ed attrezzature parecchio antiquate, seppur ingegnose. In particolare la produzione dei filati e la tessitura (fra cui il raro e costoso filo di loto) che utilizzano strumenti unici, come complessi telai fatti di canne di bambu e corde, con personale competente (solo donne) in grado di utilizzarli. Tutte cose che, se non vengono poste sotto attenta tutela, rischiano di scomparire in pochi anni, sopraffatte dai telai elettrici. Il filo di loto si ottiene ad esempio con un lavoro lungo e meticoloso, che consiste nel battere decine e decine di gambi ed estrarne la preziosa e robusta fibra. I tessuti che se ne ottengono sono consistenti e un po’ spugnosi, e spesso il filo di loto è unito alla seta per aumentarne la lisciezza al tatto e la resistenza. Un’altra piccola azienda produce carta, includendovi anche petali di bouganville e foglie, dando forma a particolari ombrellini ed oggetti di cancelleria. Decidiamo di fermarci a pranzare nei pressi della Phaung Daw Oo Paya, all’interno della quale sono custodite 5 statue di buddha talmente ricoperte di lamine da essere diventate dei bozzoli d’oro irriconoscibili. In una rimessa coperta accanto alla pagoda, vi è la barca cerimoniale con cui le statue vengono portate in processione una volta all’anno nei paesi del lago, un rito che dura quasi tre settimane. Ci dirigiamo verso Inthein, essendo un po’ fuori percorso devo allungare al barcaiolo una banconota per la benzina. Seguiamo uno stretto canale che compie diverse anse in un canneto, sulle cui sponde ogni tanto scorgiamo un pescatore solitario immobile come una pianta, o qualche monaco che lava i panni davanti a un tempio apparentemente inabitato. Talvolta il barcaiolo deve sollevare il motore per l’acqua bassa o per qualche canna di bambu usata come segnalazione o altro. Il villaggio appare all’improvviso da dietro una curva, attracchiamo alla bell’e meglio e saltiamo sulle barche già ormeggiate per arrivare a riva. Il molo consiste in dei pali per attaccare le cime e dei gradini scavati nel fango. Qualche negozietto vende chincaglierie, mi dirigo in una zona meno trafficata incamminandomi per una strada dietro al paese. Delle donne in un cortile stanno facendo essiccare degli alimenti su dei graticci di legno, ma non sono in grado di capire cosa siano. Mi avvicino per vedere meglio, sembrano foglie gelatinose di qualcosa, o seppie; la donna ride e me ne offre una fresca, sembra un involtino crudo di… pollo vegetale! Preferisco assaggiarne un foglio già secco, croccante e dolce, chissà cos’è, ringrazio e saluto. Quando le abitazioni si fanno più rade ai lati dello sterrato, cerco il modo di salire su una collina, di cui vedo la cima su cui troneggia un tempietto con degli stupa dorati e delle casupole. I membri di una famiglia mi invitano a bere il tè nella loro povera abitazione; il mobilio è costituito da una tanica ed una stuoia in terra, e da poco altro ciarpame sparso contro le pareti. Mentre sorseggiamo l’insipida bevanda, il capofamiglia ridendo si mette a battere un tamburo con le mani, ed alle sue spalle salta fuori un ratto che scappa via; l’apparizione viene accolta nell’allegria generale. Quando saluto, mi indicano il sentiero per arrivare al tempio, che non è per niente facile da trovare. Cammino nella campagna, su una prima altura vi sono delle rovine e delle nicchie, coperte qua e là da alti cespugli ed erbacce. Mentre cammino, da un muretto ad un metro da me salta via un serpente grosso e con scaglie verdi e nere, e non è un bello spettacolo. Mi riporta a tutta una serie di terrori atavici. Mi procuro un bel bastone ed assumo la modalità ninja, battendo il terreno davanti a me e scrutando ogni movimento sospetto nel fogliame. Lo sterrato lascia il posto a gradoni che salgono lungo la parete di quello che sembra un morbido faraglione verde che spunta nella foresta. In cima alla salita, dietro al quale scorgo le costruzioni ed il tempio, vi è un cancello di legno socchiuso. Titubante, provo a spingerlo; da dietro del fogliame sento “Minglabah”, è il saluto di un monaco anziano e secco che sta rannicchiato su una lastra di pietra all’ombra. Mi invita a sedere con lui, mi offre due piccole banane, e da un thermos mi versa il solito te. Due gatti dall’aspetto pigro mi guardano con blanda curiosità, i monaci amano la loro compagnia. Mentre mangio le banane, il solitario religioso mi osserva fumando un toscanello birmano, e ogni tanto borbotta qualcosa tra sè e sè. Il bello è che non sentiamo l’esigenza di comunicare qualcosa, come due estranei su un ascennsore, ma sediamo pacificamente a guardare la valle ed ascoltare il suo sommesso brusio. Gli accenno a gesti l’episodio del serpente, e lui annuisce silenziosamente tirando una boccata di sigaro, come se fosse una normale osservazione sul tempo. Mi indica un sentierino che sale fino agli ultimi stupa, salgo e rimango impressionato dalla visuale. E’ bellissimo, la vallata verde si estende da tutti i lati per chilometri, circondata da alture lussureggianti di vegetazione e tagliata dai corsi d’acqua, tra cui quello che abbiamo percorso venendo dal lago. I templi bianchi e dorati sono disseminati da tutti i lati, alcuni solitari e maestosi, altri radunati come in capannelli di persone. Un panorama così verrebbe voglia di abbracciarlo e portarselo via. Sopra di me tintinnano le campanelle in cima alle guglie degli stupa, come sonore ragnatele metalliche. Rimango per qualche minuto assorto nella contemplazione, in un silenzio in cui fa capolino solo il debole sibilo del vento. Dopo un po’ ridiscendo, saluto il monaco e torno al villaggio, sempre con le dovute precauzioni anti-serpe. Attraverso Nyaung Ohak e mi incammino sotto ad un corridoio coperto, un portico ai cui lati vi sono parecchie bancarelle. Vendono collane, statuette, lacche, oggetti di madreperla, pettini d’osso, intarsi, rotoli di preghiere, calendarietti intagliati su lastrine di legno di palma e rilegati, penne tradizionali per fare i tatuaggi, maschere, strumenti musicali, dipinti, insomma una selezione di tutto l’artigianato locale. E’ tardi, e i venditori stanno cominciando a sbaraccare, alcuni coprono sempolicemente le mercanzie con un telo che legano con tiranti elastici. Tentano blandamente di vendermi qualcosa, passo fra di loro lentamente ma senza fermarmi. In cima alla scalinata c’è la Shwe Inn Thein Paya, un agglomerato di un migliaio di stupa le cui guglie trafiggono il cielo. Ci sono solo io a passeggiare fra gli zedi luminosi, a parte un paio di cani spelacchiati che mi osservano sperando che dia loro qualcosa da mangiare. Uno dei due è talmente magro che sembra avere la pelle stesa direttamente sulle ossa; lascio loro qualche rimasuglio che ho nello zaino. Il sole sta calando, torno al piccolo molo fluviale per cercare il barcaiolo, che non c’è. Mi siedo in modo da poter vedere la nostra barca, e dopo qualche minuto appare il tizio da un bar. Non ha potuto ubriacarsi come voleva perchè il trasporto sul fiume delle merci è costoso e qui le birre (e il resto) costano il doppio, anche per i birmani. Ultima tappa è il monastero del gatto che salta (Nga Hpe Kyaung), famoso perchè i monaci che ci vivono hanno addestrato dei gatti a saltare nei cerchi e fare acrobazie simili. All’interno del salone non sembra esserci nessuna attività, e i gatti sono disseminati ovunque a dormire o spulciarsi. Non deve essere il momento circense, qualche monaco nella penombra pulisce per terra o mormora i suoi mantra. Lungo il perimetro del salone sono poste numerose statue del Buddha, di fattura ed epoca diverse, illuminate fiocamente dalle candele. E’ una collezione interessante, perdo piacevolmente del tempo osservando le diverse manifatture. Fuori inizia a piovere, dalle grondaie di bambu inizia a fiottare acqua, gatti e monaci che si stavano attardando all’esterno rientrano. Io e il barcaiolo saliamo invece a bordo, sprezzanti degli elementi avversi. Io indosso il mio impermeabile fino al ginocchio, comprato in uno spaccio dell’esercito cinese e modificato con cerniere e tasche; inoltre il barcaiolo mi offre uno degli ombrelli, per cui mentre schizziamo nelle acque grigie del lago io sono protetto da un ovulo di polimeri che mi tiene all’asciutto. Sbircio la distesa d’acqua sferzata dalla pioggia, anche altre barca tagliano la superficie del lago cariche di materiali, donne avvolte nelle cerate, su una piroga ci sono persino due grossi maiali che si guardano attorno attoniti. Raggiungo l’hotel, faccio in tempo a prendere qualche birra per la serata, e faccio bene perchè scopro che al Gipsy è arrivato un gruppetto di canadesi, un ragazzo e tre ragazze, sui vent’anni. Condivido le mie birre con loro, sono piacevoli compagni di bevuta e di chiacchiere. Passiamo il dopocena nel tavolino all’esterno davanti all’ingresso. Loro sono vestiti come i tipici occidentali che vengono a fare gli zingari (e il nome dell’hotel in questo caso è azzeccato): pantaloni di lino svolazzanti, scialli di cotone a fantasie policrome, sciarpine di seta, dreads, assenza di calzature ma caviglie dotate di campanelline indiane, piante dei piedi da pastore etiope. Tutti biondi. Sono in giro da sei mesi, questa è la loro ultima settimana poi tornano in Canada. Questi anni sabbatici sono molto diffusi specie in America. Una delle tre ragazze ha praticamente finito i soldi, gli altri non sembrano avere problemi. Abbiamo visitato diversi Paesi in comune, per cui ci raccontiamo qualche divertente aneddoto di viaggio, discutiamo su quali siano le isole più belle della Thailandia o ci stupiamo di aver pisciato nello stesso cesso pubblico a Phnom Penh.
Lago Inle
Visto che i canadesi hanno preso (e pagato) la barca per il giro del lago, decido di unirmi a loro. Lo propongo a due delle ragazze con cui sto facendo colazione, sembrano entusiaste. Non ho grosse alternative per la giornata, voglio mostrare loro i templi dietro Inthein e poi diciamocelo, una delle tre ragazze è notevole, dietro l’abbigliamento sciatto e i piedi con 6 mesi d’Asia sotto. Non mi pento per aver rifatto il giro, perchè hanno un barcaiolo diverso che ci porta in tutt’altri posti. Inoltre oggi alla Phaung Daw Oo Paya era giorno di mercato, e diverse popolazioni della zona vi convergono per commerciare in un grande spiazzo adiacente ai templi. Pesce, tessuti, ferramenta, verdura. Perdo e ritrovo i canadesi varie volte, fra le basse tende delle bancarelle, le donne Pa’o con i loro voluminosi copricapi rossi che ci osservano scettiche. Do’ qualche dritta alle ragazze per non prendere la prima fuffa luccicante che vedono, poi anche io mi lascio trascinare altrove dal flusso di gente, ceste, sorrisi, teste di pollo al curry infilzate su bastoncini.
Kaung Daing
La giornata piovosa non mi impedisce di noleggiare una bici e dirigermi risoluto verso le sorgenti termali di Kaung Daing. Vorrei prendere un motorino, ma naturalmente agli stranieri non è permesso. Attraverso il ponte sul canale, poco lontano dal Gipsy, e inizio a scendere lungo la sponda occidentale del lago. Inizialmente è uno sterrato largo un paio di metri, reso difficile dal fango e dalle frequenti salite, dove le ruote lisce della mia bici ridicola slittano e mi costringono a scendere. Un contadino passa tenendo un maiale al guinzaglio, il muso della bestia è esageratamente rincagnato. Chiedo a una vecchia “Kaung Daing?”, indicando la strada che sto percorrendo; lei mi guarda perplessa. Provo con “hot water” e mimo io che mi immergo in una tiepida pozza rigenerante, e lei annuisce e indica che è la strada giusta. D’altronde prima avevo studiato il percorsosulla mappa e sono abbastanza sicuro, ma quando si pedala nel fango in salita il timore di aggiungere strada rende cauti e bisognosi di conferme. Lo sterrato lascia finalmente posto a una strada asfaltata, che scende a sud parallela al lago attraversando villaggi e boscaglie varie. Pedalando ormai per inerzia, dopo un po’ scorgo alla mia sinistra una specie di Spa, un cartello mi dà conferma che sono le sorgenti. Davanti dei monaci ed altri tizi armeggiano intorno a piccole pozze fumanti che si aprono nel terreno. Nel complesso si paga l’equivalente di 7 dollari, le vasche più belle si trovano a destra dall’ingresso. Tre ragazze mi accolgono e mi danno l’asciugamano. Nel corridoio che conduce alle sorgenti c’è un vespaio delle dimensioni di un melone, mi chiedo come sia possibile che nessuno lo abbia tolto, anche perchè il passaggio è stretto e si deve passarci accanto. Nella veranda con le polle ci siamo solo io e un australiano coi suoi due figli. Mentre mi sto preparando per entrare in acqua, mi dicono la temperatura delle tre vasche; fresca (in cui sono loro), calda e molto calda. Decido di iniziare da quella media, e già mi sembra che ci si possa buttare il sale e la pasta. Intervallo refrigerio in quella fresca, e il bollore massimo della terza. In entrambe quelle calde non riesco a stare più di pochi minuti, dopodichè la pressione mi diventa 20-30, come quella di una seppia, e devo uscire. Dopo un po’ la famigliola se ne va e posso godermi tutte le vasche da solo, ogni tanto un fiore carnoso cade dai frangipani attorno. La vista, mentre sono immerso nel tepore dell’acqua vulcanica, si spande sulle campagne circostanti, ma il lago non è visibile. Sulla strada del ritorno, che per fortuna è maggiormente in discesa, decido di andare a prelevare qualche fiore di loto secco da un tempio che ho visto nei giorni scorsi. Hanno capsule piene di semi, mi piacerebbe vedere se germogliano. In serata conosco un pittore di Bagan che è qui con un’amica coreana, che gli sta pagando la gita come guida; assieme a loro un’altra coppia di coreani sui 30 e passa, lei molto carina e timorosa, lui una specie di bohemienne che sembra reggere male l’alcol, seppur con molta allegria. L’amica cicciottella del pittore ha sulle gambe bozzi di zanzara. Le chiedo se prende qualcosa contro la malaria, lei mi domanda esterrefatta: “Is there malaria here?”. A me una zona lacustre di canneti nel nord della Birmania mi dà l’idea che qualche precauzione dovrei prenderla, infatti il mio repellente militare mi ha preservato intatto fino a qui. Lei mi racconta che un suo amico è morto di malaria in Africa, ma si limita a mettere del balsamo di tigre sui bozzi. I coreani sono strani, per certi versi caricaturali. L’artistoide (gli chiedo che lavoro fa, mi guarda stupito, come se non avesse ancora preso in considerazione l’ipotesi di lavorare) ordina altra birra per sè e la sua donna, anche se non sembra reggere una sola goccia di più. Dopo un po’ infatti se ne vanno, lasciando le birre fresche intatte. Il cameriere viene per portarle via, gli dico lascia pure che ci pensiamo noi a smaltirle. La coreana cicciottella non beve, ha bevuto una birra a inizio serata e dice che se beve ancora qualcosa finisce sdraiata a pelle d’orso. Invece fra me e il pittore birmano nasce una sfida a colpi di medie, che ci permette anche di parlare un bel po’, mentre la ragazza interviene ogni tanto; parla con affettazione, come se cercasse con estrema cura le parole, si capisce che l’inglese lo mastica appena. Noialtri invece si parla di tutto, Let Let (così si chiama il pittore) quando sa che passerò da Bagan non gli pare vero di potermi invitare alla sua bottega, ed io accetto volentieri. Lo saluto a vado a letto, voglio dormire almeno un po’ prima di partire per Bagan, il pulman parte praticamente fra qualche ora, in piena notte.
Verso Nyaung U
Mi sveglio alle tre e mezza di notte, quando l’albergatore mi avvisa che è arrivata la macchina sono già pronto; sua moglie mi ha preparato un cartone con dentro una colazione da viaggio, li ringrazio e mi carico lo zaino in spalla. Fuori ovviamente è buio pesto, l’autista dopo due convenevoli lascia perdere la conversazione, ci limitiamo a fissare la striscia di strada circondata dalle tenebre. Arriviamo allo svincolo degli autobus, mi fermo a prendere un tè al bar davanti. Quando arriva il mio pulman, verso le 5, capisco che sarà un lungo viaggio. Si presenta male, sporco e scassato; io mi sistemo in fondo, fra sacchi di aglio e mercanzie varie. All’inizio non è neanche così male (a patto di amare l’aglio), l’autobus è semivuoto e posso distendermi su tutta la fila di sedili posteriori. Ma quando il paesaggio si fa montagnoso, inizia il calvario. La strada è piena di buche, e mi fa sobbalzare continuamente, ogni salto è un’imprecazione. I sedili sono praticamente delle molle su cui è tirata una plastica lurida, ci stendo sopra il mio provvidenziale tappeto turco. A completare il quadro, vengono messi in rotazione dura i video dei cantanti locali, seguiti da un duo comico accompagnato da una cantante bambina stonata come una forchetta su un piatto. Mi viene da piangere, ma penso che tutto sommato è il prezzo da pagare per spostarsi in economia di mezzi e condividendo tutti questi pittoreschi aspetti locali. Nelle soste mangio fumanti involtini col pollo venduti dagli ambulanti, osservo gli autisti che metodicamente lavano i cerchioni dei loro mezzi, piscio in bagni in cui rimanere in apnea è un’esigenza per sopravvivere. In viaggio guardo la Birmania che scorre dietro ai finestrini, sgusciando e mangiucchiando semi di girasole che pesco da un sacchetto in grembo. Attraversiamo la Dry Zone, una distesa arida dove la rada vegetazione ha un aspetto polveroso, e i motorini si muovono in nuvole di sabbia. Nel primo pomeriggio finalmente arriviamo a Bagan, o meglio Nyaung U che è la vivace cittadina accanto. Ricordando il consiglio del pittore prendo una camera al Golden Myanmar, una sordida guesthouse da 10 dollari a notte. Nonostante il viaggio scassaossa mi sento pieno di energie, e dopo aver bighellonato in un vicino mercato coperto, noleggio una bici e inizio a vagare per il paese. Nella strada che conduce alla zona dei templi, scopro che sulla sinistra c’è un riuscito tentativo di “corso” all’occidentale. Ci sono ristoranti molto curati che si alternano ad eleganti negozi che vendono le preziosissime lacche dorate, finissimi vasellami tenuti in negozi gelidi. Mi piacerebbe comprarne qualcuno, ma con il budget dedicato posso comprare solo carabattole; inoltre inizio ad interrogarmi sull’utilità di un set di tazze placcate d’oro. Mi consolo con una capricciosa non male da “A little bit of Myanmar”, dopo il calvario del pulman mi merito di cibarmi come un cristiano.
Bagan
In sella alla mia bici scassata, mi inoltro nella piana di Bagan. In pratica la strada asfaltata fino a New Bagan attraversa la distesa dove, disseminati senza un particolare criterio, vi sono i templi; alcuni di essi hanno un aspetto antico ed imponente, altri sono in mattoni e di fattura più recente. Davanti ai templi principali c’è sempre qualche bancarella di lacche e ciondoli, qualche pittore che espone a terra le sue opere, qualche intrallazzone che propone delle gemme. Per raggiungere ognuno dei templi bisogna seguire sterrati sabbiosi in cui spesso sono costretto a scendere per spingere la bici. Mi arrampico sulla scalinata angusta e buia che conduce alla sommità di uno stupa fra i più alti. La scarsa luce filtra attraverso minuscole feritoie nella pietra secolare. In cima si può girare attorno alla grossa guglia terminale, a cui sono appese le consuete campanelle che tintinnano nella poca aria che muove l’afa. Attorno, l’aria limpida consente allo sguardo di spaziare fino all’Irrawaddy, che cinge la valle a nordovest, e oltre. Contare i templi che punteggiano la vista in ogni direzione è impossibile: sono migliaia, si perdono all’orizzonte. I miei piedi nudi calcano la roccia calda; mi sdraio a terra contro una pietra angolare, rimango a guardare lo scenario per parecchio, senza alcun movimento se non quello pigro delle nuvole nel cielo. Scattare foto non rende giustizia all’immensità del luogo, se ne riesce a catturare solo una porzione per volta. Chiudo gli occhi e mi godo l’ombra, mentre su un albero sotto al tempio infuriano le cicale. Dopo un po’ mi scuoto dalla contemplazione soporosa e rimonto in sella. Alcuni turisti optano per il giro a bordo dei calessini tirati da cavalli asciutti, io preferisco le due ruote anche per avere la scusa di fare un po’ di movimento. Nei tratti di campagna fra una pagoda e l’altra, qualcuno tenta di coltivare la terra arida; una ragazza paffuta fa pascolare il suo gregge di capre. Improvvisamente il cielo si oscura ed iniziano a scendere grosse gocce di pioggia, che atterrano nella terra arida con grossi plof polverosi. Trovo rifugio in una costruzione che contiene a stento un buddha sdraiato di una decina di metri, illuminato a malapena da una finestrella. Insieme a me si riparano anche due ragazzine che tentano inesorabilmente di vendermi qualche cianfrusaglia. Quando la pioggia sembra cessare, esco e mi dirigo verso la bici. Vengo avvicinato da una specie di guardia vestita di azzurro che mi chiede il ticket. Si tratta della tessera governativa da 10 dollari per accedere alle zone archeologiche. Fingo di rovistare un po’ nello zaino, e poi con aria contrita gli dico che l’ho dimenticata in albergo. Mi chiede l’hotel e la camera, e glieli dico, ovviamente falsi. Se li segna su un taccuino. La cosa sembra finire lì, mi rimetto in bicicletta e mi allontano con discrezione prima che ci ripensi. Se mai ci fosse bisogno di una scusa per non pagare, l’intero importo del biglietto va al regime dispotico e corrotto. A prova di questo il fatto che deve essere pagato in dollari, visto che di valuta locale il governo ne stampa a piacimento. Infatti l’inflazione è alle stelle e nei mercati internazionali il kyat ha la credibilità dei soldi del monopoli. Tutti vogliono dollari o euro. Questo posto sembra fatto apposta per perdere tempo, spostarsi da una pagoda all’altra senza un percorso preciso, seguendo il volo di un rapace o un corteo funebre. Riesco ad incontrare la sorella di Let Let, il pittore che ho conosciuto al lago Inle. Le lascio indicazioni perchè il fratello mi passi a trovare. Si fa ora di cena, riesco anche a trovare una connessione internet decente e a spedire qualche mail.
Monte Popa
Concordo per 8000 k (un’enormità) un passaggio al Monte Popa, sede di una moltitudine di Nat (spiriti locali). L’autista parla solo birmano, noi no, ci limitiamo a fissare la campagna brulla che scorre oltre il finestrino. Vediamo diverse fattorie sul percorso, è incredibile vedere come lavorino la terra usando ancora rudimentali aratri di bambù, tirati da coppie di buoi chiari e gobbuti. Chiedo di accostare in una di esse, per andare a curiosare. Vi producono del prezioso olio di sesamo, pigiandolo in rozzi frantoi fatti girare anch’essi dai buoi, nutriti con le lunghe spighe avanzate prive dei semi. In un altro campo crescono delle angurie, amanti della terra arida, dalla polpa gialla. Ma la produzione principale è il liquore, ottenuto dalla fermentazione e lavorazione dei frutti di una palma locale. Il contadino non si fa pregare, nonostante sia in là con gli anni si arrampica su una palma e stacca un grappolo di frutti. Poi ci mostra sua moglie, una vecchia seduta a terra che rimesta in dei calderoni come una strega buona, fino a distillare la pozione etilica. Prepara anche dei deliziosi biscottini di cocco, che ci offre. Ci propone di comprare una bottiglietta di liquore in un portabottiglia di fibra di palma, ma senza insistere, benevolmente. Rimontiamo sul pulmino e ci dirigiamo verso il santuario. Fra le cime degli alberi scorgiamo una catena montuosa coperta di nuvole, l’autista mugugna qualcosa, intuisco che sia il Monte Popa. Vi è una vivace strada ai piedi della scalinata che porta al tempio, dove i locali trafficano e si ristorano, nugoli amaranto di monaci, muratori e venditori di cianfrusaglie. Due grossi elefanti bianchi di pietra sorvegliano l’accesso alla scalinata, ai suoi piedi branchi di piccoli macachi che si barcamenano per sopravvivere. I 780 scalini che portano in cima al picco sono ricoperti dalle loro deiezioni, e vanno percorsi a piedi nudi. Salgo per principio ma sono disgustato, e i mendicanti che puliscono a terra chiedendo una mancia, non fanno che irritarmi ancora di più, poveracci. Infatti dopo un po’ non sosto neanche più alle statue e agli anfratti dedicati ai Nat, ma procedo con ostinazione verso la cima. La vista è consolatoria, il complesso svetta in una valle verde dove quà e là sono visibili atri piccoli agglomerati di edifici; grosse guglie si innalzano nel cielo. Alcuni turisti che ciondolano lungo i muretti e fanno foto, una specie di custode conta e rilega una grossa mazzetta di banconote; il business della spiritualità rende benissimo. Quando ridiscendo ai piedi della scalinata, prima di rimettermi le ciabatte mi faccio un pediluvio di amuchina, levando la poltiglia marrone e sciacquandomi poi con mezza bottiglia di acqua ormai calda. Non voglio immaginare se avessi dei tagli sui piedi, quante malattie si possono collezionare in questo bel percorso vita. Come se non bastasse, mentre compio il rituale dell’abluzione, vengo avvicinato da una scimmia; la scosto con un gesto brusco e il maschio che è con lei, nonostante le sue dimensioni ridicole, tenta di afferrarmi la maglietta sulla schiena. Ci manca solo che mi attacchi la rabbia, e poi sono a posto. Per rimettermi in sesto, pranzo in una mensa in paese, un posto sbrigativo pieno di gatti e monaci, non necessariamente fra gli ingredienti. Nel pomeriggio torno in hotel, faccio appena in tempo a farmi una doccia che un ragazzino viene a chiamarmi. E’ passato Let Let, il pittore, lo saluto calorosamente. Sono contento di incontrare una faccia nota, oltrettutto del posto. Lui in verità è di Myinkaba, una cittadina vicino famosa per le lacche dorate. Decidiamo di andarci a berre una birra, o una dozzina, ma lui è in scooter e per via delle bizzarri leggi locali non mi può portare. Allora prendo la bici, mi attacco con una mano alla sua spalla e gli dico: “This we can!”. Arriviamo nella via dei locali, la birra si triplica, intanto parliamo di tutto: della politica, delle donne, della Thailandia, della pittura. Gli suggerisco di fotografare i suoi dipinti (tele a soggetto religioso e simbolico, alcune di buon livello) e di venderle online. Mi guarda come se gli avessi suggerito qualcosa di eccezionale, ma le sue competenze si fermano all’avere creato con difficoltà una email. Gli lascio il mio biglietto da visita e gli dico che lo aiuterò una volta tornato in Italia, anche se probabilmente me ne dimenticherò passato l’effetto dell’alcol. Comunque gli dò le istruzioni di massima per farcela da solo. Quando torniamo in hotel gli regalo una bottiglia di whisky, che ho comprato per un paio di dollari solo perchè assieme davano una canottiera che mi piaceva. In serata incontro nuovamente la coppia di hawaiani, a cui rivendo 100 dollari di kyats perchè il viaggio sta volgendo al termine e me ne stanno avanzando troppi.
Verso Yangon
Alle 9:00 prendo il mio pulman, fortunatamente più comodo del precedente. Sono nei sedili di fondo, e accanto al finestrino siede una ragazza, forse francese; sfoglia “Burmese days” di Orwell, la lettura dei turisti impegnati che non stanno consultando la Lonely. Non sembra avere capito molto degli usi locali, visto che ha degli shorts cortissimi, considerato sconveniente. Infatti se ci penso non credo di avere visto nessuna birmana con la gonna sopra al ginocchio. Il risultato è che l’uomo brizzolato che ci divide mi sta addosso come se dall’altro lato avesse il demonio. Tra l’altro, è la stessa che camminava allegramente con le scarpe sopra un tempio a Bagan. La strada è dritta e vuota, il panorama è piatto, la velocità sui 60 all’ora. Le pietre miliari ai lati della strada diventano uno stillicidio, mi chiedo perchè non accelera un minimo, visto che il limite è 100. Tra l’altro le soste sono così organizzate: partenza alle 9, pranzo alle 11, alle 14 sosta per pisciatina in un prato (solo gli uomini, che indossando il longyi devono farla accovacciati), e tirata fino a Yangon con arrivo verso le 19:30. Le donne quindi hanno dovuto tenerla per più di 8 ore; in effetti la strada attraversa il nulla, non c’è nessun tipo di area attrezzata nonostante i panorami interessanti. La stazione dei pulman di Yangon è un girone dantesco, prima di arrivare al nostro hangar ne passiamo altre decine, sembriamo non arrivare mai. I mezzi fanno manovra in una calca sgangherata, fra taxi e risciò colmi di pacchi. Si fa buio, ne approfitto per cenare in una bettola all’aperto, dove con 3 dollari mi becco l’inesorabile riso con pollo verdure e uovo, più birretta gelata. Il taxi fino in città, che non è vicina, costa 5000 kyats, il tassinaro non contratta neanche vedendo che sono inamovibile. Ha un aspetto molto distinto sulla quarantina, la cravatta e la scriminatura dei capelli da persona seria. Parla molto bene inglese, gli chiedo se l’abbia imparato con i turisti. In realtà, mi dice, era un manager della Hitachi, poi con le sanzioni internazionali la sede locale ha chiuso e lui si è trovato a guidare il taxi per campare. Si chiama Thant Zin Aung, è una persona squisita e un conversatore brillante. Parliamo di economia e di politica, fa un’analisi molto lucida, mi dice che ci vorranno almeno 20 anni perchè la Birmania riassuma una parvenza di normalità; è spiaciuto perchè pensa di non arrivarci. Gli dico che l’Europa incoraggia le pulsioni democratiche del Myanmar, di non sentirsi abbandonati, insomma tento di incoraggiarlo. Per inerzia mentale prendo ancora una camera al Beautyland 2, che ritrovo più brutto e costoso di quanto ricordassi. Sono al quinto piano senza ascensore, nel sottotetto; lo zaino, ormai pieno di buddhanate, me lo faccio portare su da un ragazzo-sherpa.
Yangon
Mi sveglio come sempre di buon’ora e, dopo una sostanziosa colazione, mi incammino verso il national Museum. Qui, dopo una bella camminata, l’amara sorpresa: il guardiano fa cenno di no, e indica un cartello che mi informa che il lunedì e martedì è chiuso. Proseguo quindi verso la Shwedagon Paya, ma nel percorso vivo attimi di terrore. Sollevando la maglietta, noto una macchia rossa sull’addome, che è uno dei sintomi della febbre dengue. Una zanzara sul Monte Popa era riuscita a pungermi nel mio tallone d’Achille, cioè proprio i piedi senza repellente che mi ero dovuto lavare dalla merda di macaco. Collego la macchia all’episodio e, sarà per il caldo o per l’autosuggestione, inizio a sudare freddo e mi convinco di averla presa. Dopo un po’ mi rassereno, anche perchè comunque in pratica non c’è nessuna terapia e in ogni caso domani sarò a Bangkok dove c’è qualche ospedale serio. Dopo un po’ che sto all’ombra, sorseggiando una bibita fresca, mi riprendo e la stessa macchia dopo un po’ scompare, forse era dovuta alla calura. Entro quindi dall’ingresso meridionale della Shwedagon Paya, risalendo una larga scalinata affiancata da negozietti che vendono souvenir e libri (tutti di religione, e quasi tutti in birmano). E’ interessante vedere come gli stessi libri vengano tagliati e ricuciti nella vietta parallela, dove i rilegatori tengono le grosse forbici coi piedi e spennellano colla di riso suoi grossi volumi. Visto che il museo chiuso ha anticipato i tempi, mi rimane qualche ora per bighellonare nei giardini attorno alla pagoda, dove i monaci coltivano fiori ed ortaggi. Pagati i 5 dollari e varcato l’ingresso, si accede al cortile dove la vista è abbagliante: lo zedi principale è alto un centinaio di metri ed è ricoperto da quintali d’oro, attorniato da decine di stupa e altari minori anch’essi dorati. Passo la giornata curiosando in giro, fra i fedeli che pregano, lavano statue e snocciolano rosari, o semplici visitatori che scattano foto. Nei pressi del buddha di giada mi stendo sui tappeti e con nonchalance, indossati gli occhiali da texas hold’em, mi faccio una dormita, con le mani giunte in atto di rispettosa preghiera. Quando mi ricompongo, una guardiana mi sorride sorniona, come a dire “te sei fatto una pennica, eh?”. Ce ne sono diversi di guardiani in giro, e si capisce, con tutto il luccicare d’oro qui intorno. Infatti all’ingresso c’è un cartello con le foto dei ladri beccati a rubare per scoraggiare eventuali imitatori. Al crepuscolo, dei monaci si mettono ad arrampicarsi sugli anelli circolari dello zedi, per girarvi attorno, ovviamente immortalati da decine di scatti. Non esiste l’angolo perfetto da cui abbracciare l’intero panorama. Quando il cielo è buio, la gigantesca guglia dorata risplende, e l’insieme diventa quasi surreale. Ma è tempo di incamminarsi verso l’hotel, percorso di qualche chilometro che faccio praticamente nell’oscurità più totale, incontrando talvolta qualche bancarella o passante. Fortuna che con me ho una piletta. Mi oriento cercando all’orizzonte l’insegna rossa della Hitachi Tower, dietro alla quale c’è quella fetecchia del Beautyland. Incrocio finalmente il passante ferroviario e torna ad esserci una qualche illuminazione. Mi fermo a mangiare in Sule Paya Rd, al Suzuki, un posto piccolo ma che serve cibo dignitoso e birra gelida. Fanno sushi, roba thailandese, ma volendo anche hamburger e cibo occidentale. Sono tutti ragazzini, presto ogni tavolo si riempie, anche solo di gente che beve e chiacchiera; peccato non esserci venuto prima. Sono a corto di kyats, ma ormai mi manca solo un pasto. Domani infatti prenderò il volo per Bangkok nel primo pomeriggio, salutando Yangon e questo eccezionale Paese che è il Myanmar.
Considerazioni sul Myanmar
Molta gente è contraria o sconsiglia di viaggiare in Myanmar, per via della giunta oppressiva eccetera. Io invece credo che il turismo sia salubre per questo Paese, sempre che beninteso venga regolato e non diventi un’invasione di massa come in Thailandia. Tra l’altro nel sud vi sono degli arcipelaghi che non esito ad immaginare meravigliosi, ma che ora sono preclusi al turismo per motivi credo militari. Le sanzioni internazionali, anche avendo sentito un po’ di pareri in loco, sembrano aver fatto più danno alle persone normali che al gotha che detiene il potere. Infatti questi personaggi, nell’isolamento internazionale, ci hanno sguazzato benissimo per decenni. I numeri del turismo ora qua sono irrisori (questo d’altro canto è un bene se si pensa di potervi scorrazzare per settimane senza incontrare occidentali). Le infrastrutture, se paragonate ad esempio alla vicina Thailandia, sono molto carenti, l’inglese è ancora poco diffuso, raramente vi sono indicazioni con caratteri occidentali, soprattutto nelle zone più remote. I supermarket non esistono, o meglio sono in versione embrionale; i Bancomat, o ATM, non sono ancora arrivati. Basti pensare ai contadini che, attorno a Bagan, arano il campo con l’aratro di bambù ed i buoi per capire quanto l’economia e lo sviluppo siano per molti versi ancora arretrati. Da un lato però, non si può negare che il Paese appaia più genuino, meno contaminato dalle grottesche storture del turismo di massa. Il Myanmar a me è sembrato un posto tranquillo, dove la gente si prende il suo tempo, molto ospitale e con un atteggiamento allegro nei confronti della vita. Sono molto legati alle loro tradizioni, ad esempio un uomo non si sente elegante senza il suo longyi, che in pratica è una gonna. La spiritualità ha una parte fondamentale nella vita birmana, non vi è posto a cui non associ un tempio, un monastero o una processione di monaci; molte eminenze del buddhismo locale hanno una popolarità immensa nella società.