Nagaland e Tirap
Un viaggio davvero speciale in occasione di due importanti festivals. Nel remoto distretto del Tirap; zona sud-orientale nell’Arunachal Pradesh per assistere al Chalo Loko Festival, della minoranza etnica Nocte ed in Nagaland per Hornbill Festival che coinvolge tutte le tribù Naga. Questo viaggio va prenotato per tempo per ottenere i permessi per il Tirap considerato “Restricted Area”. Il Nagaland è uno stato localizzato nella zona Nord Orientale dell’India, detto anche la “Svizzera dell’est”, deve il suo nome all’unione del termine Naga, indicante collettivamente le tribù di lingua Tibeto-Birmana che abitano la regione e parti degli stati confinanti con il termine inglese land ‘terra’ (quindi terra dei Naga).
I Naga: eredi degli ultimi tagliatori di teste di salgariana memoria, la loro forza vitale sta nella testa sede dell’anima e simbolo di fertilità. Da qui l’ossessione tipica di questi popoli di accumulare piramidi di teschi per allontanare gli spiriti maligni per il benessere della comunità. Popolo semplice, cortese, onesto e molto ospitale, ma non perdona una persona che li inganna. È uno degli stati più piccoli dell’Unione Indiana, una delle ultime terre ignote dell’Asia, è una terra di folklore tramandatosi oralmente di generazione in generazione attraverso il passaparola. Costruiscono le loro case su alture; i villaggi sono governati da un capo villaggio, divisi in clan detti khel. Qui la musica è parte integrante della vita di tutti i giorni; canti popolari a lode dei progenitori-avi, delle coraggiose gesta dei guerrieri e poetiche canzoni d’amore. Le città principale sono: Kohima capitale amministrativa, Dimapur capitale economica nonché centro urbano più popoloso. Dal 1° dicembre 1963 il Nagaland è stato costituito come 16° stato dell’Unione Indiana. Si compone di sette distretti amministrativi, ci sono 16 tribù e diverse sotto tribù, ognuna ha un proprio linguaggio e si distinguono le une dalle altre per i costumi elaborati, i monili e le perle che le adornano. I Naga parlano 60 dialetti, nel 1967, l’Assemblea del Nagaland ha proclamato l’inglese lingua ufficiale. Oggi, oltre il 95% delle persone Naga si identificano come cristiani, per lo più battisti, una volta erano animisti. Grazie ai missionari protestanti cristiani provenienti dalla Gran Bretagna nel XIX secolo sono riusciti a convertire molte tra le tribù dei Naga, essi riuscirono a far cessare molte usanze e tradizioni tribali. In ogni villaggio Naga c’è una chiesa. Perché l’India non concede l’indipendenza ai Naga? Essenzialmente per due motivi. Il primo, perché il Nagaland è ricchissimo di petrolio, minerali, tè e legname, il secondo perché se da l’indipendenza ai Naga significherebbe doverla dare anche ai Sikh, ai Kashmiri, agli Assamesi ed a tutti gli altri popoli che si battono per uscire dall’Unione Indiana. Vanta un proprio sistema di autogoverno fino sin dai tempi antichi. Questo piccolo stato è per la maggior parte montagnoso, è attraversato dalle colline Naga, il Saramati, 3000m è la cima più alta. E’ ricoperto da foreste tropicali e sub-tropicali abitate da molte specie di animali. Ha un clima salubre e lo si può visitare tutto l’anno. Partiti dall’Italia domenica 17 novembre 2013 via Francoforte per giungere a Delhi e poi con altre 2 ore di volo per arrivare a Guwahati, la capitale dell’Assam. All’aeroporto veniamo accolti dalla nostra guida; è metà pomeriggio ed andiamo verso il nostro hotel che dista 4 km dalla città (www.gingerhotels.com) dove consumiamo anche la cena a buffet. Questa zona dell’India, il sole sorge verso le 5.30 e tramonta verso le 16.30 e questo bisogna tenerlo bene a mente per programmare le varie escursioni. Partiamo non prestissimo, ma abbiamo alle spalle il lungo viaggio, lunghe ore di soste in tutti gli aeroporti ed il fuso orario. Dopo 18 km arriviamo al tempio della dea Kali: Kamakhya Mandir, tempio indù dedicato alla dea madre Kamakhya. Importante centro tantrico, è uno dei più antichi di 51 Shakti Pitha, i luoghi sacri della Divina Madre. Si trova sopra 1 collina, lungo la piccola salita diversi negozietti vendono ricordi e tutto quello che utilizzano per fare le offerte: soprattutto ghirlande di fiori con predominanza del giallo e arancio. Si entra ovviamente scalzi e per accedere al sancta sanctorum vi sono 3 code: la veloce a 500 Rp, la lenta a 100 Rp, la lunga è gratis, ovviamente. Molti fedeli arrivano portando caprette e piccioni per il sacrificio: qui vengono sgozzati come prevede il rituale in un padiglione dipinto di rosso. C’è più di qualche piccione tutto spennellato di rosso che è riuscito a scappare al sacrificio. Abbiamo il primo impatto con i devoti. Lungo la strada per raggiungere la nostra prossima meta: il Kaziranga N.P., patrimonio dell’Umanità, dal 2006 dichiarato Tiger Reserve, ci fermiamo ad un mercato. In India come in Africa i mercati, soprattutto della frutta, tutto è ben allineato. Mi verrebbe la voglia di togliere la prima arancia in basso della piramide per farle tutte a moh di domino… E’ già ora di pranzo, quello che non manca mai in questo viaggio è il cibo, pranziamo e ripartiamo per il nostro Resort il Bon Habi dove ci rimaniamo per 2 notti. Che bello domattina non rifare lo zaino. Lungo la strada, ormai c’è poca luce, ma ci fermiamo per vedere i primi rinoceronti di questo viaggio. Sveglia all’alba per andare a fare il safari a dorso di elefante, sono un po’ emozionata, per me è la prima volta in groppa a questi mammiferi proboscidati. Partiamo con un leggera foschia, c’è fango, questi bestioni sprofondano fino alla loro metà gamba, lungo il percorso mangiano camminando, con la lunga proboscide prendono fasci d’erba, in pellegrinaggio con noi ci sono anche dei piccoli elefantini. Animali ne vediamo ben pochi: qualche rinoceronte e pensare che in questo parco oggi vivono oltre i due terzi del totale mondiale della specie a un solo corno; solo qualche anno fa era una specie a rischio, bufali, un grosso elefante con una catena alla zampa… non si sa il perché, diversi deer (cervi) ed uccelli vari. Per fare le foto si paga la bellezza di 500 Rp ed è valido per tutto il giorno, ho trovato strano dover pagare per fare le foto a degli animali in un parco. … paese che vai, usanze che trovi. Dopo una abbondante colazione visita al Missing village. Per arrivarci percorriamo una strada per la maggior parte in terra battuta, ai lati risaie ed acquitrini dove qualche pescatore getta le proprie reti. Vivono in abitazioni di bambù erette su alte palafitte. Gli uomini pescano e o lavorano nei campi, le donne principalmente tessono nei lunghi telai all’aperto, sotto le loro case lavorano con telai più piccoli, così sono riparati dal sole, altre sulla soglia di casa setacciano il riso con delle enormi ceste rotonde di bambù intrecciato. In questo villaggio ci sono molti bambini, timidi, ma curiosi che si nascondono, c’è anche la scuola. Tantissimi polli e maialini neri, girano liberi per il villaggio. Il pranzo non è ancora pronto e così visitiamo un altro villaggio, qui la gente vive in case di muratura, incontriamo signori con le bici a mano: le usano come mezzi di trasporto per carichi pesanti e voluminosi, trasportano di tutto. Dopo l’immancabile pranzo partiamo per il jeep safari su auto scoperte. Ai lati della strada per giungere l’ingresso del parco è tutta una piantagione di tè. Donne con grossi carichi in testa, sembrano modelle, sfilano ai bordi della strada nei loro sari colorati, fiere e sempre son il sorriso rosso (il betel) in bocca, peccato per i denti sempre rovinati. Giriamo per quasi tre ore tra ampie praterie, terreni paludosi, ogni tanto qualche albero, alla ricerca di una tigre, ma il risultato e nullo, e pensare che qui c’è la più alta densità al mondo di tigri del Bengala. Vediamo solo rinoceronti, bufali e deer. Fuori dal nostro resort, in questo villaggio, in un negozietto con la scritta Isd e Std, siamo riusciti a telefonare in Italia per 30 Rp al minuto, uno dei pochi posti in tutto il viaggio da dove siamo riusciti a chiamare. I nostri cellulari in questo angolo di terra indiano non hanno mai funzionato. Che meraviglia!
Evviva, è arrivato la conferma definitiva, abbiamo il permesso per entrare nel Tirap, che sollievo… tutti più felici! Partenza con destinazione Majuli Island, la seconda isola fluviale più grande al mondo in mezzo al Brahamaputra. E’ soprattutto il centro mistico della religione hindù. Lungo la strada curatissime piantagioni di tè e molte canne di bambù. Arriviamo al punto d’imbarco, ci mettiamo in coda. Ogni “traghetto-chiatta” può portare solo 3 auto, diverse moto e queste vengono caricate sopra la zona dove sotto ci sono i passeggieri. L’attraversata dura circa 1 ora. Qui alloggiamo al Prashanti Eco-Tourism Resort, l’unico albergo dell’isola, è statale, inaugurato tre anni fa, ma la mancanza di manutenzione lo fa sembrare più datato. Visitiamo il villaggio di popolazione “Missing”, sempre su palafitte. Le donne qui non indossano il sari, ma bensì gonna lunga arrotolata in vita e un corpetto con le maniche corte sopra l’ombelico ed una stola sopra le spalle. Le persone non hanno proprio i lineamenti indiani, ma bensì birmani. Bimbi che tornano da scuola, sono in divisa: camicia azzurra con manica lunga, pantaloncini corti blu, infradito ed hanno un fiore giallo in mano. Panni stesi dappertutto, forse oggi è giorno di bucato?!!! Dopo il pranzo visitiamo il Auniati Satra (monasteri per le pratiche religiose e centri d’arte hindu vaishnavita, praticato in Assan), fondato nel 1653 dC dal re Ahom Sultanla, ovviamente si entra scalzi. Il nucleo di ogni satra è il Namghar, una larga e semplice sala di preghiera aperta ai lati, alla cui estremità orientale si trova un sacello interno che ospita la fiamma eterna: la Gita e una serie di immagini istruttive ma non divine. Ci sono statue di: Basudev, Krishna e Vishnu. Il sole sta tramontando ed andiamo a visitare un altro satra: il Shamaguri. C’è poca luce e vedere nella penombra alcune donne in cerchio vestite di bianco che stanno pregando e cantando intorno a delle candele, lo “spettacolo”, la scena è molto suggestiva. Questo monastero è famoso per la scuola dove si impara a costruire le maschere e ci spiegano il processo per realizzarle. Fanno un’ intelaiatura in bambù, la ricoprono con della tela in cotone, poi fango, la mettono a seccare, aggiungono un strato di sterco per indurirla, un altro strato di fango che, una volta secco, viene dipinto. Particolarità di queste maschere è che occhi e mento si muovono. Foto di rito con le maschere. Di buon mattino partiamo per ritornare in terraferma, attraversiamo risaie e pascoli acquitrinosi disseminati di fiori e prima di imbarcarci ci facciamo una bella passeggiata in riva vicino all’imbarco. Mi piace assistere a tutto questo via vai di gente che arriva o parte, tutta con dei grandi carichi. Diversi maiali neri stanno “facendo festa” nel retro di alcuni bar-ristorantini di solo lamiere e teloni. Ci imbarchiamo anche noi, al ritorno ci impieghiamo un po’ di più perché dobbiamo risalire la corrente. L’attraversata è stata rilassante, cullati dalla corrente e baciati dal sole. Arriviamo in terra ferma e percorriamo circa 50km per arrivare a Sivasagar antica capitale della dinastia Ahom. Visitiamo dei siti vicini. Il Rang Ghar (casa di intrattenimento), è un edificio di forma ovale a 2 piani, uno dei più grandi anfiteatri di tutta l’Asia. Realizzato con mattoni rossi, ha splendidi motivi geometrici e floreali, all’ingresso ci sono 2 coccodrilli in pietra, il tetto a la forma di barca rovesciata. Fu costruito dal re Pramatia Singha tra il 1744-1751 per guardare combattimenti di animali e programmi culturali. Prima di arrivare alla nostra prossima meta ci fermiamo lungo la strada per andare a vedere una fabbrica di tè. Donne, solo donne per la raccolta di queste preziose foglioline. Sono in silenzio, si sente solo il rumore del loro lavoro: le foglie che vengono staccate dalla piante. Dietro la schiena grandi ceste di bambù intrecciate, “legate” sulla nuca per avere mani libere per la raccolta. Indossano grembiuli in semi pelle come protezione per i rami delle piante. Il tè è il prodotto più esportato dell’Assam. Ci spiegano che è una pianta molto antica ed esistono 2 tipi di piante da tè. La prima inizia a dare i primi “frutti “ dopo 3 anni e produce per circa 18 anni, l’altra inizia a produrre dopo 7 anni e da i suoi “frutti” per oltre 70 anni. Ripartiamo, lungo la strada ci sono diversi negozi che vendono ceste intrecciate, lungo il ciglio donne che tornano a casa dopo un giorno di duro lavoro, per arrivare che è già buio a Dibrugarh, la città del tè. Una città polverosa, affollata e calda. Oggi abbiamo una nuova compagna di viaggio: è la nostra guida per il Tirap. Chanyam, ragazza dolcissima che ci accompagnerà per qualche giorno. Arriviamo nel pomeriggio a Khonsa, qui pranziamo e ci facciamo un giretto per la cittadina ed andiamo a vedere dove domani ci sarà il festival. Fa freschetto, ti credo siamo ad 800 mt ed il sole sta tramontando. Risaliamo nelle nostre jeep per andare al villaggio (che è quello della nostra guida), dove passeremmo due notti. Invece di piantare le tende di comune accordo decidiamo di dormire nella longhause del capo villaggio. In attesa che ci preparano la cena, siamo attorno al fuoco, noi curiosi, facciamo un sacco di domande alle nostre guide sulla popolazione del Tirap. Scopriamo che ha circa 100.000 abitanti, ora questa regione è divisa in due distretti: Khonsa e Longding (le cartine non sono ancora aggiornate), ci sono 5 dialetti ma non si comprendono l’un l’altro. A scuola insegnano il nocte, e dopo alle “scuole più alte” insegnano l’hindi. Ogni villaggio ha un capo villaggio che viene considerato il re del villaggio stesso, il re si può sposare solo con la figlia di un altro re, anche se non è vietato che possa scegliere una o più concubine fra le ragazze non nobili, solo i figli della moglie gli succederanno nel rango di capo villaggio. I matrimoni fra i ragazzi di solito sono combinati, si sposano a 25-30 anni ed hanno tra i 4-5 figli, esiste la poligamia, però l’uomo deve pagare la vecchia famiglia della 1° moglie e poi viene declassato. In questo villaggio ci sono dalle 45 alle 47 famiglie, non supereranno mai le 47 perché superare questo numero porta male… sono molto superstiziosi. Quando si entra nelle loro abitazioni, si incontra il focolare e questa è la parte dell’uomo, 1 tela divide 1 stanza da un’altra stanza, quella delle donne è dove c’è la cucina, il “bagno” è sempre all’esterno. In tutti i villaggi ci sono delle strutture chiamate “morung”, dormitori rilegati al passato dove una volta venivano istruiti i giovani, avevano la funzione di tramandare la conoscenza degli usi e costumi dai più grandi ai più piccoli. In ogni morung un enorme sham, tamburo ricavato dal tronco di un albero, serviva per avvertire l’avvicinarsi del nemico o chiamare al raduno per un consiglio del villaggio. Le tradizioni delle tribù e dei clan giocano un ruolo molto importante. Ottima la cena preparata dai nostri autisti, tre uomini deliziosi, gentili e sempre disponibili. Prima di entrare nel sacco a pelo, uno sguardo verso il cielo. Magnifico anche questa notte, pieno di stelle e molto vicine. Mi alzo presto e spinta dalla curiosità esco e vado a bighellonare per il villaggio. Tutto il villaggio è collegato da gradini in cemento. Incontro un ragazzo che mi invita a casa sua, è a 100mt da dove ci siamo incontrati. Io lo seguo, è tutto orgoglioso. Mi presenta la sua famiglia. Questa famiglia è più facoltosa rispetto ad altre del villaggio, la riconosco dalla grandezza e lunghezza della longhause, è piena di mobili, tantissime stoviglie di metallo e plastica. I maschi più anziani sono davanti alla TV (il progresso è arrivato anche qui), con orgoglio mi mostra tutta la “casa”, le varie stanze. Appesi al soffitto mazzi di cereali, mi vuole offrire lo zutho, la potente birra di riso. No grazie!!! Fuori dall’abitazione due ragazze con bimbi in groppa stanno pestando del miglio. Li saluto perché devo rientrare. È ora di partire.
Lungo la strada per andare al Lapnan Village, case in muratura e bambù con tetti di paglia. Quando si va a visitare un villaggio, la prima cosa da fare è presentarsi al capo villaggio e chiedere il permesso di visitare il villaggio stesso. Anche questo villaggio è di popolazione Nocte, le loro abitazioni sono su palafitte, la struttura è formata da pali di legno, pareti e pavimenti intrecciati di bambù, il tetto spiovente fatto con le foglie a ventaglio delle palme. L‘ingresso è basso, io in questo caso non ho problemi, chiediamo di poter entrare nelle loro abitazioni, acconsentono. Appesi, fuori dell’entrata, crani di bufali e di altri animali, gusci d’uovo infilati come fossero perle di una collana. Una scala esterna in tronco di legno intarsiato è appoggiata per salire, saliamo ed andiamo a curiosare… Solito focolare all’ingresso, ai pali che reggono il tetto sono appesi mazzi di miglio ed altri cereali, qualche altarino, su botti di legno sta fermentando la birra di riso. Quanti maialini neri sotto le longhause, scavano, mangiano. Qui energia elettrica, ma è discontinua. All’interno di un morung crani umani e un sham lungo circa quattro mt tutto intarsiato che viene tutt’ora usato per cerimonie importanti. Prossima meta il Lazu Village 1550mt, si trova sul pendio di una montagna. E’ limpido, c’è un sole bellissimo, fa anche caldo. Qui incontriamo le prime donne con il viso tatuato. Scorgo in lontananza, una per me bellissima, con una conchiglia molto grossa infilata al braccio come bracciale, la seguo per un po’ fino a casa sua: ai lobi fiori freschi da un lato e dall’altro pesanti orecchini in metallo. Le donne qui sono vestite con degli “stracci”, ma impreziosite da grandi collane con monete o perle-baguette pesanti soprattutto di colore arancione. Il tatuaggio tipico delle donne di questo villaggio è una freccia nera ad ogni guancia in direzione della bocca e dall’attaccatura dei capelli fino alla punta del naso una linea diritta di circa 3 cm, lascia libera la bocca e prosegue sul mento. Le donne hanno il mio stesso taglio di capelli. All’inizio tutti gli abitanti del villaggio cercano di nascondersi, poi pian piano timidi ci vengono vicini e ci osservano molto curiosi. Dobbiamo rientrare per essere alla nostra longhause prima che sia buio, la strada sterrata non è il massimo ed è meglio farla quando c’è ancora un po’ di luce. Anche questa sera prima di cena la nostra guida ci racconta una leggenda e ci dà delle info su come si svolge il festival. Il Chalo Loku festival si svolge a Khonsa tutti gli anni il 25 di novembre, quest’anno è il 44°. E’ una festa: colorata, popolare, per il raccolto. Questa notte alle 3 ammazzeranno il bufalo che verrà poi cucinato e servito durante la festa.
La mattinata di oggi è dedicata al festival e poi trasferimento destinazione Londgding. Lasciamo la nostra capanna e scendiamo al villaggio, lungo la strada incontriamo camion carichi di persone in costume e già molto allegre, la festa inizia vicino ad una chiesa. Arrivano diversi uomini vestiti più o meno con i loro costumi tradizionali, fanno qualche passo di danza, lanciano urla ed iniziano a bere zutho su foglie arrotolate di germogli di bambù. C’è qualche sparo, suonano lo sham e poi tutti di corsa cantando-urlando scendono in un capannone in costruzione ed iniziano a ballare all’interno, sollevando nuvole di polvere. Tutto molto suggestivo: balli canti urla e spari. Ritornano nel sagrato della chiesa e poi scendono nello stadio percorrendo la via centrale dei negozi (tutti chiusi). Noi li seguiamo. Tutti quelli vestiti in costume vengono raggruppati nel centro dello stadio, e staranno per tutto il tempo sotto il sole… poveri! Alla gente comune non è concesso entrare nello stadio e loro si dovranno accontentare di assistere dall’alto. Noi turisti (29), ci hanno fatto accomodare all’ombra nella tribuna accanto alle scolaresche in divisa. Il centro della tribuna è riservato alle autorità, un po’ lunghi con i vari discorsi e dopo iniziano le sfilate e le danze. Le danze vengono interpretate con canti e grida di guerra a ritmo vigoroso e sostenuto. La festa termina verso le 13, veniamo chiamati per il pranzo allestito in una capanna con ogni ben di dio a buffet. Partiamo per Longding ed arriviamo dopo circa 3 ore. Il paesaggio è incredibile, la strada meno: in costruzione, molto dissestata e la polvere, quella non manca. Qui abbiamo qualche problema con l’alloggio ed alla fine ci portano a Chanu, villaggio a 12 km da Longding a 1120mt. Arriviamo che è buio pesto. Le nostre jeep non ci possono portare fino all’ingresso della nostra capanna, peccato, così dobbiamo caricare i nostri borsoni in spalla, pila in testa per vedere almeno dove mettiamo i piedi, qualche maledizione ed al buio saliamo questo villaggio. Passiamo in mezzo alle loro case, loro stanno già mangiando e con il letto fatto e noi non sappiamo ancora dove ci stanno portando a piedi, al buio e con i bagagli in spalla, per arrivare al nostro pernottamento. Vuoi l’avventura, eccola! La capanna è ancora più spartana della precedente, corna e teste di animali decorano l’ingresso, non c’è acqua ed il bagno ovviamente esterno; oltre all’attraversamento di tutta la capanna (20mt), si deve fare altri 40 mt, e se ti scappa, non arrivi in tempo. Questa capanna è abitata da un capo clan. Qui il tempo sembra che si sia fermato. Entriamo, ci sono delle persone all’ingresso vicino al fuoco, stanno bevendo e chiacchierando, c’è un gran odore di fumo, queste “case” non hanno un camino per il focolare. Noi ci sistemiamo a casa loro. Apriamo i nostri borsoni, gonfiamo i materassini ed apriamo i sacco a pelo. Pian piano arrivano altri uomini e si mettono attorno al fuoco ed iniziamo a cantare per noi in segno di benvenuto. I loro canti mi incantano, a cappella, solo voci senza strumenti, poi arrivano anche delle donne e si alternano ai maschi con canti e balli. Che regalo questi cori di benvenuto, entro nel mio sacco a pelo e mi addormento mentre loro continuavano a cantare ed a bere il loro zhuto… che cosa sta succedendo oggi fuori dalla nostra capanna?! Sono le 7 e fuori c’è già un gran vociare. Esco e sono circondata da donne con i loro abiti tradizionali, con bellissime pesanti e colorate collane, fasce per capelli, grandi orecchini tutto di perline colorate, colore predominante sempre l’arancione. Bracciali rotondi spessi in metallo fatti passare sopra il gomito, cinture e cavigliere sempre di perline colorate. Iniziano ad esibirsi: balli, danze e canti. Gli uomini invece hanno copricapi realizzati in bambù, adornati con denti di cinghiale, piume di bucero e peli d’orso, poakraak (bracciali di zanne di elefante), borse di bambù a tracolla con teschi, hanno fucili ed imitano scene di guerra e poi tutti a danzare sui bambù. Ne piantano anche uno, qualche locale e qualcuno dei nostri provano a “scalarlo”. Usciamo dall’area della nostra capanna per vedere il villaggio e veniamo seguiti da persone in costume che ci fermano semplicemente per salutarci e farsi fotografare, le donne sono piccole di statura, gli uomini in proporzione sono più alti. Tutto il villaggio ci sta festeggiando, qui non c’è mai stato un europeo e molti di loro non ne hanno mai visto uno. Passeggiando in questo villaggio oltre ad incontrare il calore delle persone ed il loro stupore, mi trasmettono molta serenità. Tutto il villaggio sta partecipando alla costruzione di una nuova longhause ed hanno ammazzato davanti ai nostri occhi un mithun (bovino tipico di questa zona) per sfamare gli operai. Girano litri e litri di zhuto. Poco distante dal centro del villaggio si trova il cimitero circondato da canne di bambù. Con la persona defunta al cimitero, portano anche tutto quello che essa aveva in vita: bottiglie, pentole, radio, valigie, gliele depositano vicino, perché anche gli oggetti che possedeva l’accompagnino nell’aldilà, una sfumatura di animismo integrata nel cristianesimo locale. Stiamo per andare ed incrociamo 3 bellissime ragazze con ceste sulle spalle, sollevate dalla nuca, dentro canne lunghe più di 1 mt riempite d’acqua, chissà quanta strada hanno fatto con questo peso. Passano cantando davanti a uomini anziani che stanno intrecciando foglie di palma, serviranno a coprire e fare da tetto alla nuova longhause. Pranziamo a Longding e poi andiamo a visitare il villaggio di Niaunu. Tutti questi villaggi continuano a vivere di caccia e raccolti. La strada è tutta una buca e con le nostre auto non riusciamo ad arrivare, così scendiamo e proseguiamo a piedi per circa 20’. Qui nel 2007 il National Geographic ha girato un documentario: “I cacciatori tatuati”. Troviamo la mamma del re, lui non c’è e lei con molto orgoglio ci fa vedere i suoi tatuaggi. Non c’è molta gente, ma veniamo come sempre circondati da molti bimbi. Torniamo alle nostre jeep e sulla via del ritorno incrociamo diverse donne che rientrano dopo una giornata di lungo lavoro con dei carichi pesantissimi soprattutto di legna e scortate da ragazzi ed uomini con fucili e dao: temibile machete usato dai cacciatori di teste fino alla metà del xx secolo, con la lama larga e manico lungo inseparabile da ogni uomo. Madre mia che giornata indimenticabile.
Partiamo molto presto perché dovremmo passare molte ore in jeep, invece strada facendo decidono di percorrere un’altra pista per scendere a valle e così arriviamo a Dibrugart per pranzo. Lungo la strada foreste di bambù, folta vegetazione, banani, palme, ci fermiamo a fotografare le piantagioni di tè sulle colline. Ora è un dolce panorama quello che si incontra per qualche chilometro. In mezzo a questi cespugli di tè c’è qualche albero, i raggi del sole filtrano creando un incredibile gioco di chiaroscuri, in lontananza vedo una bici nascosta in mezzo a queste piante… arrivo fino a lì e speriamo che venga una bella foto. Dopo il pranzo ci dividiamo a gruppetti: io vado al mercato, altri a vedere il tramonto sul Brahmaputra. Cena in un ristorante li vicino e poi a nanna. Stiamo aspettiamo di partire per Mon, giro fuori dell’albergo. Seduti sul loro risciò due signori maturi ci stanno osservando, aspettano clienti… chissà che cosa pensano! Io in loro vedo solo molta serenità. Poco più in la, un uomo dorme (il sole è già alto) sul marciapiede, con sottofondo di clacson. Partiamo e dopo qualche km facciamo fermare i nostri deliziosi autisti per vedere donne cariche con sacchi di foglie di tè che le stanno portando alla pesa. Quello che pesa ha l’ago della bilancia dalla sua parte e legge quello che vuole e l’altro che scrive arrotonda per difetto… povere donne forse non sanno ne leggere ne scrivere. Torno alla jeep e prima di salire, mi cade lo sguardo sul ciglio della strada, dove quattro uomini stanno cucinando su dei bidoni di latta, sopra a delle pietre, girano con dei mestoli dai lunghi manici… Chissà che cosa daranno da mangiare, forse solo un po’ di tè caldo a quelle povere sfruttate raccoglitrici di tè…
Ripartiamo mentre si susseguono bellissime colline dalle pendici ammantate di boschi. Ancora una volta mi ripeto, sono fortunata! Stop, fermiamoci! Sto sognando o è vero?!….che incontro. Che uomo: fiero, volto tatuato, baffetti grigi e pizzetto, ai lobi due lunghi corni, ha intrecciato della raffia gialla e rossa, forse tifa Roma o preferisce la Spagna, forse non conosce l’esistenza di nessuna delle due. Ciuffo biondo brizzolato con lunghi capelli raccolti con un nastro e fermati da uno spillone in legno, varie collane: quella arancione fa più di un giro, più a girocollo un’altra con quattro teste con artigli, perle più grosse e monete, in mano un bastone con il manico rosso decorato con pelo di capra tinto, ha due giri di perle azzurre sotto le ginocchia, è un re allora! Che meraviglia! Ripartiamo. Lungo la strada ne incrociamo degli altri che stanno tornando dal lavoro. Scendono da un camion e scappano verso il loro villaggio, in mano hanno un fucile ed in testa capelli crespi neri… sono imprendibili, non si fanno fotografare.
Il sole sta tramontando, andiamo al villaggio di Hong Phoi dove vivono il gruppo tribale dei Konyak , i più ricchi culturalmente, appartenenti anche loro al popolo Naga, la più grande delle 16 tribù del Nagaland, sono noti per essere i più feroci tra i cacciatori di teste. La caccia all’uomo è stata vietata alla fine del 1960, essi sono governati dai capi ereditari anghs. Scendo dalla jeep e cerco di seguire il gruppo, mi giro all’indietro ed il mio sguardo si ferma su un uomo che ci segue: ha due grossi bracciali di elefante sopra i gomiti, codino arrotolato con grosso spillone, è tipico dei konyak, lobi forati ma vuoti ed un bel sorriso sdentato nero. E’ bellissimo! E’ quasi buio, peccato. Entriamo in una casa con la nostra guida ed attorno al fuoco c’è una coppia di persone anziane. L’uomo ha il volto tatuato. La nostra guida ci racconta che solo a un cacciatore di teste era permesso di tatuarsi il viso ed il corpo; al primo nemico ucciso gli uomini si tatuano il lato inferiore destro del viso (vicino alla bocca), al secondo uomo il lato inferiore sinistro, al terzo il lato superiore destro (attorno all’occhio), al quarto il lato superiore sinistro. Si possono tatuare anche coloro che partecipano alla caccia del nemico o toccano la testa del morto. La V tatuata sul petto evocano probabilmente corna bovine e come segno distintivo poteva indossare un fregio in ottone su una collana, per ogni testa che aveva tagliato. All’orecchio a moh di piercing ha inserito una zanna di cinghiale. La collana che porta al collo con piccoli teschi di bronzo rappresenta il numero di teste che ha tagliato. Questo nonno ne ha ben 5 teste sulla sua collana. Chissà se vanno a letto con i lunghi piercing e collane-testate?! Ritorniamo a Mon e ceniamo nel ristorantino vicino ai nostri bungalow. Di buon mattino dopo colazione carichiamo i nostri bagagli, qui non c’è la possibilità di rimanerci un’ altra notte, peccato, si stava bene e la vista era ottima, ma dobbiamo scendere al villaggio e prendere un altro alloggio. Depositiamo i bagagli ed andiamo al villaggio di Longwa, siamo ai confini con il Myanmar a 1435mt, fa fresco e tira vento. Il villaggio sorge sulla cima di una collina, ha una posizione spettacolare dicono che la casa del capo villaggio (Angh, sono una dinastia ereditaria attiva solo tra i konyaks nella regione di Mon), sorga metà in territorio indiano e metà in territorio myanmarese. Per arrivarci la strada ci regala dei paesaggi mozzafiato in mezzo a montagne e valli che cambia ad ogni tornante. Scendiamo a 1130mt per andare a visitare il villaggio di Tangnyu, qui case in muratura oltre che capanne; un abitante del posto, fiero ci indica dove possiamo vedere dei crani umani un po’ nascosti. Noi ci mettiamo in fila per curiosare gli stessi tra erba e sassi. C’è un cielo bellissimo con nuvoloni bianchi. Sto aspettando gli altri e passano altri due “bellissimi” ex cacciatori di teste. Aghi di sicurezza appesi in alto alle orecchie, ai lobi due grossi tappi di metallo, codino, camicia cresciuta con lui, … mai lavata. Ritorna pure il nonno secco secco già visto di sfuggita al nostro arrivo al villaggio: baschetto azzurro a quadretti neri, giacca leopardata, il volto tatuato, la freccia gli parte dall’orecchio e la punta della stessa gli arriva al naso, 4 peli in faccia, borsetta a tracolla, ….ma da dove sei uscito, sei unico! Tanti bimbi incuriositi ci circondano. Torniamo… io ancora in silenzio per rivivere la giornata appena trascorsa. Rientriamo a Mon e dopo la cena nel nostro alberghetto, pensavamo di fare 2 passi nella cittadina ed invece scopriamo che ci hanno incatenato dentro. Buona notte. I giorni stanno passando velocemente. Fuori dal nostro hotel dove siamo stati chiusi dentro, passano bimbi, vanno a scuola. Quattro ragazze in divisa: camicetta bianca, golfino rosso e gonna grigia appena sopra al ginocchio a pieghe, calzettoni bianchi, capelli lunghi, lisci e neri legati da un nastrino rosso, altre un po’ più piccole hanno camicetta manica corta con cravatta a righe bianche e blu come la gonna, calzettoni bianchi, borsina rossa con la tracolla nera, cintura rossa. Stamattina dopo solo giornate di sole o sole splendido, piove. Che sfiga!!! Io del bel tempo non mi stanco mai. … vabbè. Dopo colazione carichiamo i bagagli nelle nostre jeep e partiamo per Mokokchung. Oggi giornata di trasferimento. Questo trasferimento sotto la pioggia si rivela propizio, così su questa strada disagiata, non asfaltata e piena di buche “mangiamo” meno polvere.
Scendiamo a valle e non piove più. Lungo la strada troviamo un gruppo di donne vestite di bianco che sono in riva al fiume. Ci fermiamo e scopriamo che è una cerimonia per festeggiare il passaggio di una bambina dalla pubertà all’età fertile. Veniamo invitate dalla famiglia della bambina ad assistere alla cerimonia, dove partecipano solo donne. La bimba viene accarezzata, bagnata prima il viso e poi i capelli, la portano in spalla, la ragazza che la solleva gira attorno ad una piramide di pali in bambù e con lei sempre in groppa alza una tavoletta di legno che è posta sotto la piramide. Sul prato di casa hanno steso dei sari colorati e tutte le donne della famiglia si sono sedute attorno per fare altri riti. Noi veniamo invitati ad entrare in casa dove ci offrono dolci e tè, ad Ines viene offerto una ciotola con riso e noci, una banconota da 20 Rp ed una sciarpina come buon auspicio. In motorino arriva anche un giornalista della TV locale a riprenderci. Percorriamo ancora circa 90 km ed entriamo in Nagaland. Arriviamo a Mokokchung 1350mt, fa freddo, sono solo le 6 di sera ed è notte fonda. Solo al mattino vediamo questa cittadina disposta anch’essa in una collinetta con posizione molto suggestiva, zona dove risiedono gli Ao, una delle tante tribù Naga.
Oggi partiamo con destinazione Kohima dove si tiene il 14° Hornbill Festival, quest’anno coincide con il 50° anno di proclamazione dello Stato del Nagaland. Kohima è la capitale del Nagaland. La città ha 100.000 abitanti, si estende lungo una serie di crinali e colline boscose. Qui siamo alloggiati in 1 casa privata, ci troviamo molto bene, la padrona di casa è anche un’ottima cuoca. Mattinata dedicata alla visita di Khonoma Village, 1500mt a circa 20km da Kohima, per arrivare l’intera strada è sconnessa, non propriamente asfaltata, polverosa. E’ un villaggio angani-naga, arroccato su una collina che domina la vallata, stupenda posizione, risaie e terrazze che si estendono all’infinito, pieno di fiori gialli ed enormi stelle di Natale rosse. Ha un bellissimo portone d’ingresso, decorato in stile tradizionale, gli abitanti del villaggio li realizzano come simbolo di benvenuto nel loro territorio; circondato da mura, tre forti per la difesa, molto carino e soprattutto tranquillo. Ha diverse piazzette circolari con una pietra in centro e diverse altre pietre attorno a semicerchio. Ci spiegano che nella pietra centrale veniva posto, nudo ed incatenato, colei o colui che aveva compiuto un peccato contro altre persone o contro la comunità, tutt’attorno le persone del clan lo giudicavano. Ora in queste piccole piazze ci sono donne che stanno “girando” il riso (alimento base del popolo) per asciugarlo steso su stuoie, altre lavorano a maglia. Particolarità di questo villaggio: le tombe si trovano vicino all’ingresso delle abitazioni, le case sono in bambù e muratura con tetti in lamiera, dove sopra hanno messo ad essiccare albicocche e mele tagliate a fettine. Torniamo in città ed andiamo a visitare il museo; l’ho trovato molto interessante, contiene arnesi e costumi delle varie popolazioni. Prima di fare le solite vasche al “carneval” , saliamo la torre panoramica nel centro della città, se è bello da qui sopra si vede la catena dell’Himalayana, …. ma non lo è. Oggi giornata dedicata all’Hornbill Festival. Il festival si svolge a circa 10km dalla capitale al Kisama Heritage Village. E’ un museo all’aria aperta, si trova nella falda di una collina, aperto tutto l’anno, creato appositamente per ospitare ogni anno l’Hornbill festival, presenta una scelta rappresentativa di case tradizionali Naga e di morung.
L’Hornbill è il padre di tutti i festival Naga, celebrato per la prima volta nel 2000 è interamente sponsorizzato dallo stato del Nagaland che lo include nel suo calendario di eventi annuali nella 1° settimana di dicembre e raduna tutte le etnie dello stato in un unico festival. C’è un detto in Nagaland: la vita è come un lungo festival. Come ci sono 16 tribù nel paese, c’è un festival tribale almeno una volta al mese, questi festival ruotano attorno all’agricoltura, collegati alla primavera, la semina, il primo raccolto, la fine dell’anno e sono celebrati sempre con grande gioia e partecipazione. Prende il nome dell’uccello “hornbill”, il grande calao indiano (bucero bicorno), universalmente rispettato nel folclore di tutte le etnie dello stato per le sue qualità di grandezza e prontezza di riflessi, questo uccello maestoso è strettamente collegato con la vita sociale e culturale della gente, come risulta dalle tradizioni; le donne e i canti tribali e dall’uso delle sue piume e del becco (giallo-rosso), come ornamenti. Gli ospiti stranieri sono ricevuti cordialmente al festival e non c’è nessun problema a fotografare. Il programma viene svolto con puntualità e l’organizzazione è meticolosa. La cerimonia inizia intorno alle 11 del mattino con interventi delle autorità. Le varie etnie prima di esibirsi vengono introdotte da una voce, alle volte femminile altre volte maschile: descrivono il gruppo, il simbolismo della danza, lotta o gioco che si prestano ad esibire. E’ uno spettacolo di colori: urla, canti, danze e suoni con tutte le tribù rappresentate da piccoli gruppi, nei loro coloratissimi abiti tradizionali. Ogni etnia ha un suo spazio, con una tipica casa della tribù, un ristorante con piatti tipici.
Alle 15.30 partiamo per Dimapur, il fondo stradale non è dei migliori e per fare poco più di 80km c’impieghiamo 3 ore e mezza. Dormiamo al Tragopan Hotel, questo albergo ha una posizione poco felice, si trova ad un incrocio di strade trafficate e polverose, io faccio la notte in bianco. Dopo colazione partiamo verso l’aeroporto. Lungo la strada ci fermiamo a vedere il Kachari Ancient Rajbari, monoliti in arenaria ed un mercato con un’ampia zona dedicata a pesce esiccato, rane, larve vive e cani. Andiamo all’aeroporto volo per Kolkata, arriviamo prendiamo un taxi per hotel Heera, fuori dal nostro albergo è tutto un negozio o banchetto sul marciapiede. Oggi di buon mattino iniziamo a girare la città con i mezzi locali. Partiamo con il bus dal nostro hotel e per 7 rp ci porta al mercato dei fiori di Mullik Ghat: tanti colori , belle scene, un gran via vai, da li a piedi attraversiamo il ponte Howrah Bridge, non si può fotografare e scendiamo nei ghat dove ci sono dei fedeli. Stanno facendo le abluzioni e lavano i loro vestiti. Risaliamo, attraversiamo la strada ed andiamo a vedere la stazione ferroviaria di Howrah. Con un altro biglietto da 5 rp traghettiamo sull’altra sponda del fiume per poi andare all’Indian Museum. Vogliamo prendere un tuc tuc (questo oggi ci manca), ma in questa zona non ce ne sono ed allora ci incamminiamo a piedi fino al museo che è chiuso per restauro fino a febbraio. Decidiamo di prendere la metropolitana dalla fermata di Park Street dove ci troviamo e con 5 rp arriviamo a Kalighat, perché vogliamo vedere il tempio dedicato alla dea Kali. Entriamo, solo fedeli. Lì vicino sorge il Nirmal Hriday, il piccolo rifugio fondato da Madre Teresa per dare ospitalità ai morenti. Poi risciò trainato da “uomini cavallo”, ci facciamo portare alla 1° fermata della metropolitana e da li prendiamo e scendiamo a Park Street. Pranziamo in zona, giriamo il new market prima di rientrare in albergo. Doccia veloce, recuperato il bagaglio e con dei taxi diritti all’aeroporto.
Il Nagaland ha lasciato il segno!