The road to Myanmar
2 gennaio 2012: YANGON
All’arrivo a Yangon dopo 23 ore di viaggio con la compagnia Emirates, percepisco nell’aria afosa le esalazioni del traffico cittadino e un odore dolciastro simile al gelsomino: proviene dai fiori che dondolano sospesi allo specchietto retrovisore della macchina. Siamo in Asia! E nella scura notte di Yangon ecco comparire, incorniciata dal finestrino unto, la lucente Shwedagon Paya.
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L’indomani ci svegliamo nel magnifico Kandawgyi Palace Hotel e scostando le tende osserviamo la bruma che avvolge il Royal Lake. Riposati e rinvigoriti dall’esuberante colazione, prendiamo le misure del paese che ci ospita e visitiamo immediatamente uno dei suoi simboli, la Shwedagon Paya, appunto. Abbiamo a nostra disposizione una macchina di un’agenzia locale. È la prima volta che adottiamo questa soluzione e a fine racconto ne descriverò le implicazioni. A piedi nudi saliamo dall’ingresso meridionale. Nel corso del viaggio le scarpe saranno un accessorio inutile poiché spesso si cammina scalzi: in Myanmar c’è il trionfo delle flip flop! Mi viene fornito un bel longyi vermiglio per coprire le gambe durante la visita. Il longyi è simile al sarong e la maggior parte degli uomini indossa questo semplice e pratico indumento in cotone quadrettato, spesso cucito in modo da ottenere una forma cilindrica. Raggiungiamo il basamento: l’oro accecante dello zedi è assolutamente ipnotico. Lo sguardo è combattuto tra il richiamo della massiccia forma a campana e la gente sorridente, che ci saluta con squillanti “mingalaba!”. Le donne timidamente ci avvicinano per chiedere una foto ricordo con tutta la famiglia: i bimbi in braccio, le nonne si lisciano la gonna, gli uomini s’impettiscono, le ragazze si tolgono la giacca e rimangono in graziose camiciole. Che onore! Nei mesi precedenti qualsiasi viaggio, mi chiedo quanto l’immagine mentale che ho costruito, aderisca poi alla realtà di un paese. A poche ore dall’arrivo in Myanmar, al cospetto di questo simbolo buddista, sono quasi sicura che le mie attese non verranno ridimensionate. Proseguiamo, su suggerimento dell’autista, alla Nga htat gyi Paya con il Buddha placidamente seduto all’interno di un’imponente struttura in legno. All’ingresso ci regalano due bottiglie d’acqua. Ci pervade una sensazione di “gentilezza diffusa”. A poca distanza si trova la Chaukhtatgyi Paya, caratterizzata da un lucido Buddha disteso di 65 m. Vedo monaci che si muovono silenziosamente e si recano ai loro monasteri, disseminati in questo quartiere.
La prossima destinazione è la Botataung Paya, situata lungo il fiume. Esamino la ressa di gente davanti l’ingresso: i suonatori vibrano dei piatti in metallo scandendo le movenze delle danzatrici e un uomo guida alcuni presenti verso un momento di trance. Le macchine non transitano in questa confusione: non riesco a chiedere spiegazioni, poiché gli astanti hanno occhi solo per i protagonisti di questa “esibizione”. Camminiamo poi verso il fiume dove si vedono molte chiatte e un deposito di container. Mi ero fatta l’idea di un paese chiuso anche ai commerci, ma i fatti smentiscono le mie ipotesi, soprattutto quando arriveremo nella frenetica Mandalay. Infine, la Sule Paya, circondata dal traffico del centro. Salendo non ci si rende conto della posizione anomala. È sufficiente osservare una foto dall’alto per capire la sua peculiarità. Ci sediamo sui gradini all’ombra poiché l’afa è insostenibile. Un anziano chiacchiera con noi spiegandoci che ha trovato delle similitudini tra i precetti buddisti e quelli cristiani e ci invita a dirgli il nostro giorno di nascita. Serio, verifica la rispondenza su un libretto ed è soddisfatto di vedere che realmente siamo nati di venerdì e lunedì. Nel primo pomeriggio rientriamo in hotel per una pausa. Il nostro autista ritorna e ci conduce al Bogyoke Aung San Market che sta chiudendo ma noi non siamo incuriositi dall’intrico di bancarelle ed egli, capendo al volo i nostri interessi, ci porta a Chinatown, dove per strada fotografiamo frutta, cibo in preparazione e tanta gente indaffarata. Due monache bambine ci seguono in silenzio. Mi fermo e condivido con loro della frutta fresca: nei loro occhi, scuri come pozzi, vedo baluginare un guizzo di simpatia. Per cena scegliamo il noto ristorante Monsoon. Il nostro autista ci saluta e va casa; non abbiamo difficoltà a trovare un passaggio per l’albergo.
BAGO: ROCCIA D’ORO
La mattina del 4 gennaio (festa nazionale) si parte alle 8.30 per Bago. Lasciamo al deposito dell’albergo gli zaini grandi e partiamo con uno zainetto per il cambio. A sud del paese immortaliamo le quattro statue di Buddha della Kyik Pun Paya, senza entrare nel suo perimetro (non abbiamo pagato i 10 dollari per la visita dei siti della cittadina). Proseguiamo per vedere l’enorme Shwethalyaung Buddha. Conversiamo con una guida turistica e, tranne qualche locale in preghiera, il luogo è immerso in una dolce quiete. Già avvicinandoci alla slanciata Shwemawdaw Paya, si avverte il fremito delle attività della città di Bago. E ancor più fermento troviamo allo Snake Monastery dove frotte di persone si accalcano di fronte la teca contenente uno dei pitoni più grandi al mondo. Alla vista della circonferenza del bestione strisciante, premuta dalla folla nella stanzetta senza aria, mi sono sentita mancare le gambe. Sono uscita di corsa e con malcelato orrore ho raggiunto l’autista gridando “bello bello bello!” per non deludere le sue aspettative. I primi giorni non pranziamo per via del caldo ma assaggiamo vari frutti e tuberi dal nome ignoto, acquistati presso le bancarelle lungo la strada. Per arrivare al Monte Kyaiktiyo inizialmente si attraversano paesaggi agricoli e verdi risaie. In seguito si sale su un basso altipiano: entriamo ufficialmente nello stato Mon. Giunti a destinazione, troviamo posto sui famigerati camion attrezzati con panche: io penso che, visti i nostri culoni, ci consentano di stare in quattro persone per panca. Valutazione errata! Il conducente ci pigia e si sta in sei. L’attesa per la partenza è sfiancante poiché bisogna rimanere al proprio posto, premuti uno con l’altro e la temperatura non da tregua. Neppure le ascelle degli astanti. Il divertente tragitto in camion (3000 ks in due) si svolge tra tornanti e accelerate repentine. È la salita a piedi che ci fa temere di crepare lì, tra i ragazzi con le portantine che aspettano di vederci stramazzare. Si respira solo quando il sole si nasconde dietro le nuvole. La testa pulsa, il mio volto assume un imbarazzante color scarlatto, le gambe si rifiutano di salire: è la mancanza di allenamento o è così per tutti? La durata del percorso è di 45 minuti. Arriviamo al Mountain Top Hotel dove ci precipitiamo sotto la doccia e ci cambiamo. I vestiti rimarranno pregni di sudore fino al giorno successivo. L’albergo è abbarbicato sul costone della montagna e i camerieri, sparpagliati lungo il dislivello, comunicano con i walkie-talkie. La nostra camera presenta un arredamento semplice ma una splendida vista sulla vallata verso oriente. Rigenerati, con al collo il biglietto d’ingresso (si fa nell’edificio di fianco l’albergo – valido 2 giorni), corriamo a vedere il tramonto presso la Roccia. L’atmosfera è mistica con centinaia di pellegrini in contemplazione, una quieta massa di persone che si preparano a trascorrere la notte sul freddo pavimento. Rimaniamo lì a fotografare il macigno sospeso nella luce soffusa del crepuscolo e i bivacchi per un tempo indefinito. Ceniamo presso l’hotel ma si può scegliere anche il locale di fronte che propone un sottofondo musicale alquanto profano: Michael Jackson. Segue una passeggiata nell’oscurità della via principale e, dopo aver convinto Alberto della mancanza di una qualsiasi attività “mondana”, andiamo a nanna.
La sveglia suona impietosa alle 05.30 e con il buio ci avviamo verso la Roccia d’Oro. Sento il suolo gelido sotto i piedi nudi. La mente straordinariamente lucida. I pellegrini che hanno dormito lì intorno si stanno disperdendo verso valle mentre ne arrivano decine di nuovi. Sembra che sia il periodo dell’anno più frequentato. Mentre camminiamo sotto la Roccia che incombe nel vuoto, sublimata dai colori dell’alba, si avvicina a noi un simpatico gruppo di ragazze e ragazzi. Dopo colazione ci avviamo e il sentiero in discesa è uno spasso in confronto al giorno precedente. Arrivati in mezz’ora allo spiazzo dei camion ci mettiamo in coda ma realizziamo che, con la quantità di pellegrini presenti e la veemenza che ci mettono per occupare le panche libere, non riusciremo mai a salire. Osservo che c’è un’altra coppia all’ombra, un po’ distanziati. Confabuliamo con loro: in quattro e quattr’otto il “manager” ci trova un posto in cabina con il conducente sul prossimo camion in partenza. In paese ci incamminiamo verso l’albergo del nostro autista ma lo troviamo in una frasca e ci sediamo con lui a bere qualcosa. Gli argomenti di conversazione vertono sul costo esagerato del gasolio e la guida con il volante a destra, che rende pericoloso ogni sorpasso: assurdità di questo Myanmar. Durante il viaggio parliamo con tante persone ma è difficile trovare qualcuno che si lamenti apertamente. Aung San Suu Kyi è chiamata “the Lady”. A nostro parere, questo regime militare perdura da decenni grazie al fatto che la maggior parte della popolazione vive in condizioni arcaiche in campagna. Possiedono una capanna, un paio di buoi se va bene e poche aspirazioni. A Mandalay si palesa l’influenza cinese con centri commerciali, tecnologia, macchine grosse, vestiti sintetici. Gli scenari a venire sono un grande punto interrogativo: il modello di sviluppo futuro prevederà la svendita dell’anima del popolo birmano?
Sulla via del lungo ritorno, ci tratteniamo a scattare qualche foto in un mercato cittadino. Il dondolio della macchina mi provoca un intorpidimento dei sensi … dormo, dormo e dormo. Il resto del pomeriggio è dedicato alla lettura a bordo piscina, da cui si vede anche la peculiare passerella in legno che gira intorno al lago Kandawgy. La temperatura oggi è fantastica. Pigri, ceniamo al ristorante dell’albergo. Alla mia destra ammiro la perfetta famiglia di viaggiatori: mamma papà e tre bambini piccoli, inspiegabilmente disciplinati.
HEHO – LAGO INLE
Partiamo alle 6 del mattino per l’aeroporto, dopo una fugace colazione. Baci e abbracci con l’autista: chiede di ricordarsi di lui. E di tornare! Magari! Tra ritardi e scalo a Mandalay atterriamo nella regione boschiva di Heho alle 10. Raggiungiamo in macchina il lago Inle dove ci attende una barca. Siamo proprio curiosi di vedere l’Inle Resort… L’ingresso è certamente scenografico e la camera è semplice, con arredamento rustico e una terrazza in legno, ideale per sedersi lì e perdersi in una buona lettura. Il nostro cottage è chiamato “duplex”. Più lussuose ci sono le “villa”, fronte lago. Ne approfittiamo per una lunga pausa per disfare gli zaini, preparare la laundry bag e pranzare nella terrazza assolata del ristorante… E chi si muove da qui? Nel primo pomeriggio iniziamo il giro del lago. È difficile intendersi con il barcaiolo che non parla inglese. Inizialmente ci rechiamo un bel villaggio galleggiante a sud del lago, poi in una tessitura e infine in una bottega di un fabbro poi chiedo di non visitare negozi. Approdiamo allora all’Alodaw Pauk Pagoda per poi concludere la giornata visitando gli orti galleggianti… Osserviamo in religioso silenzio il tramonto, seduti sul molo in teak del resort. Ho un brivido. Sicuramente è dovuto alla brezza serale: mettiamo una felpa e ceniamo nell’immenso ristorante. Tutto è talmente quieto, che si passa dalla veglia al sonno senza neppure rendersi conto che un altro bel giorno è passato.
Partenza con la barca alle 09.30. I colori dominanti sono i grigi. Dall’acqua all’aria tutto assume una sfumatura lattiginosa. Sembra che il cielo si sciolga nel lago. Le peculiari figure dei pescatori risaltano su questo sfondo come se fossero nei personaggi di un’incisione. L’aria è ancora fresca. Destinazione mattutina concordata con il mite barcaiolo: mercato! L’acqua marrone, le espressioni dei venditori, la disposizione del cibo: è tutto molto semplice ma, a mio parere, proprio per questo suggestivo. La tappa successiva è Inthein e le rovine. Acquisto qui i ricordini per la famiglia e, sul retro di una baracca, la moglie del venditore mi conduce a fare pipì a casa loro. La povertà degli arredi esalta l’ordine con cui sono tenuti i pochi utensili che servono per la cucina. Conversiamo volentieri di loro, della scuola dei ragazzi e ci chiedono della nostra vita. Prima di ripartire mi incanto ad osservare le mamme che lavano i bambini su precarie assi di legno e le donne che meticolosamente fanno il bucato della famiglia. Infine, sosta al Monastero del gatto che salta. Chiediamo al barcaiolo di andare a Nyaungshwe (40 minuti) e lì raggiungiamo a piedi il Golden Kyte Restaurant per uno spuntino sfizioso. Ci sono tre anziane donne spagnole che ritroveremo nei giorni successivi. Deliziosa la loro voglia di scoprire, domandare, curiosare! Nyaungshwe è un paese attivo, animato. I mezzi prediletti dalla popolazione sono i motorini o i motocoltivatori utilizzati per il trasporto di persone e cose. Lungo la strada principale, sciamano contemporaneamente tanti piccoli monaci. Quasi mi pento di non aver prenotato un albergo qui, piuttosto delle “palafitte” sul lago.
PINDAYA – MANDALAY
Tre ore sono il tempo necessario per raggiungere Pindaya la mattina successiva, con immancabile sosta per fotografare un mercato settimanale. A Pindaya in un’ora visitiamo le grotte con migliaia di statue di Buddha. Sulla via del ritorno ci fermiamo presso un’interessante attività a conduzione familiare: realizzano ombrelli, ventagli e lampade con una carta da loro ottenuta bollendo, macerando, lavorando e seccando la corteccia di una pianta. Gli ombrelli parasole sono meravigliosi. Beviamo con calma un the con la proprietaria e una coppia di svizzeri. L’autista ci spiega che sua sorella abita lì vicino. Ci chiede se possiamo darle un passaggio con il suo bagaglio. Certo! In poco tempo siamo in aperta campagna e tramite una stradina sterrata raggiungiamo un villaggio: la sorella e la sua famiglia ci vedono, parlottano tra loro, ci fanno scendere e visitare la propria abitazione: ci accomodiamo al piano superiore. Mentre beviamo un the, ci preparano tofu fritto, arachidi e qualcos’altro di ignoto ma “very good!”. Ci guardano con i loro occhi curiosi, sorridenti. All’inizio siamo intimiditi ma poi, notando una macchina da cucire come quella centenaria di mia nonna, inizia un scambio di informazioni senza dover parlare, ci intendiamo a gesti. Di quest’esperienza registro mentalmente che il ferro da stiro va con le braci. E non vedo vetri alle finestre ma una pezza di cotone a quadretti, mossa dal vento. Non c’è elettricità, né acqua corrente (rimediano riempiendo giornalmente una botte posta in un carretto giù nell’aia). Osservo l’angolo della toeletta che c’è in ogni casa e la signora con entusiasmo prepara la crema e me la spalma in viso. Tutte le donne e i bambini ce l’hanno. Poi mi porta in cucina al pianterreno, dove un semplice focolare ha ormai annerito tre lati della stanza. Ritrovo Alberto in cortile, vicino alla greppia del fieno per i buoi, e sbracciandoci in saluti con chi rimane, ripartiamo verso l’aeroporto: la strada è sconnessa ma si attraversano ameni paesaggi, contornati da incredibili alberi secolari e bambù alti almeno 10 metri. Dalle dolci colline alberate alla città: arrivo nella caotica Mandalay. Al tramonto si vede una fiumana di gente in bicicletta, con la gavetta per il cibo, che torna verso il circondario al termine della giornata di lavoro. Alloggiamo al Mandalay Hill Resort, lussuosissimo certo ma scomodo per le uscite serali “fai da te”.
SAGAING – INWA – AMARAPURA
Alla mattina ci rechiamo subito alla Mahamuni Paya con il famoso Buddha circondato da fedeli in preghiera, che mi pare quasi tozzo a causa dello strato di foglie d’oro apposte. King Galon è un laboratorio di Mandalay che produce queste lamine d’oro attraverso una lavorazione particolarissima: visita consigliata! Attraversando il quartiere degli scalpellini, ci dirigiamo verso il Maha Ganayon Kyaung per assistere al pranzo di centinaia di giovani monaci. Troviamo turisti che sembrano api impazzite alla ricerca della fotografia perfetta. Noto un gruppo di russi che sgomita tra la folla pilotati dall’audioguida! Sono sconcertata. E insofferente, quando vedo i monaci che si dirigono verso la zona pranzo seguiti dai turisti che puntano l’obiettivo a pochi centimetri dal piatto dove mangiano. Ma non possono semplicemente osservare i monaci dalla strada, senza importunarli? Andando verso la collina di Sagaing visitiamo un monastero di giovani suore e due santuari. Dalle suorine, ci siamo solo Alberto e io seduti sugli scalini ad ascoltare il canto all’unisono che intonano prima di consumare il pranzo. Una suora non più bambina mi accompagna in bagno, che è il classico edificio costruito a lato del cortile, con la padellina d’acqua per sciacquare. Attraversiamo il ponte verso Inwa. Prendiamo prima un battello e in seguito un carretto con il cavallo condotto da un giovanissimo papà. Eccezionale il monastero Bagaya Kyaung, completamente in teak. Ci sono parecchi bimbi che disegnano sotto la supervisione di un giovane monaco. Vedo un bambino stringere tra le mani un ritaglio “prezioso”: l’immagine di personaggi disneyani. Proseguiamo la scampagnata fermandoci, tra l’altro, alla torre di guardia diroccata, dove Alberto decide di inerpicarsi, e al Maha Aungmye Bonzan, sontuoso, solitario e abbandonato monastero in mattoni. L’ultimo appuntamento della giornata è ad Amarapura per vedere l’U Bein’s Bridge. Percorriamo a piedi questo lungo ponte sentendoci anche noi una giovane coppia in passeggiata romantica prima del tramonto. Le ragazze che stanno lavorando nelle risaie mi vedono e cominciano a chiamarmi e salutarmi! Respiro profondamente, l’aria è carica di empatia! Giunti nell’altra sponda, cerchiamo un barcaiolo per il ritorno: la scenografia del ponte che si staglia scuro contro il cielo arancio, i pescatori immersi in acqua fino al collo con in testa baschetti rigidi, i bambini che sguazzano nudi, le loro manine gocciolanti che ci salutano … che dire, il sole se ne va lasciandoci la nitida sensazione di essere privilegiati a vedere tutto questo.
MINGUN – MANDALAY
Il giorno successivo partiamo direttamente per il molo sul fiume Ayeyarwady: infatti, c’è un battello che aspetta solo noi e ci scarica dopo un’ora di navigazione all’attracco di Mingun. Ci dirigiamo verso la Mingun Paya dove con entusiasmo scaliamo la risalita fino alla cima. Giunti sopra ci rendiamo conto che tutto è improvvisato, pericolante. Bisogna superare un dislivello attaccandosi ad un palo posto in verticale. Inizialmente desisto; poi seguo Alberto, ma la verità è che soffro di vertigini e impreco tra me e me perché temo di cadere in una insidia nascosta o di sbilanciarmi dal bordo e sfracellarmi al suolo. Per fortuna la discesa non da problemi e ci dirigiamo alla Mingun Bell e alla Hisinbyume Paya, di un bianco accecante. Mi piace l’atmosfera bucolica di questo luogo, dove le donne ci salutano tra i risolini e un uomo ha scritto “taxi”sul proprio carretto con i buoi. Alle 12.00 riprendiamo il battello e ci rechiamo in centro per cambiare i soldi (euro in kyats). Visitiamo il vuoto e anonimo palazzo reale. Vogliamo vedere le foto conservate nell’ultimo padiglione ma è giorno di chiusura. Facciamo una sosta in hotel, gustandoci una birra ghiacciata e poi andiamo in un tranquillo monastero in teak non distante dal nostro albergo, chiamato Shwe In Bin Kyaung. Gli obliqui raggi del sole, color ocra, illuminano le lastre in marmo della silenziosa Kuthodaw Paya. Saliamo quindi alla Mandalay Hill, lasciando le scarpe in auto e affrontando il ghiaino: la veduta non è fantastica ma ci sono molti monaci che parlano inglese e si confrontano amabilmente con i numerosi visitatori.
BAGAN
Segue una giornata di trasferimento. Il nostro mezzo tenta di lasciarci a piedi varie volte. L’autista dice che manca il tappo del radiatore. Siamo perplessi e allo stesso tempo divertiti perché lui è tranquillo e beato. Ecco, bisognerebbe avere sempre questa filosofia del “no problem, my friend!” Ad una sosta presso una frasca creo un momento di ilarità tra i presenti facendo “esplodere” un sacchetto di arachidi. Quando tutti finiscono di scompisciarsi dalle risate vengono ad aiutarmi a raccogliere le noccioline sparse in giro, elargendomi caldi sorrisi. In una pausa forzata, per vedere se la macchina si riprende, circondati dal nulla della campagna birmana, veniamo avvicinati da una incuriosita famiglia di donne e bambini (nonna, mamma, figlie e figli delle figlie). La matriarca mi prende in simpatia e mi porta a bere il the all’ombra della loro casupola. Nel frattempo, disegno e coloro con i bimbi. Quando mi avvertono che la macchina è pronta, lascio le matite e i quaderni ai bambini che mi guardano con due occhi così. La nonna vorrebbe tenermi lì: mi fa intendere che ho un futuro come maestra d’asilo! (ovviamente non capivo nulla di quello che mi raccontavano ma sorridevo io e sorridevano pure loro). Giunti al delizioso Tharabar Gate Hotel, posizionato a Old Bagan, passiamo il pomeriggio in piscina a leggere. Alla sera, attirati dalla musica, andiamo a piedi all’Ananda Patho dove c’è un festival in cortile.
La mattina sono pimpante: sono a Bagan! L’autista è estroverso e ci intendiamo al volo. Quanta gioia quando ci porta in una paya sconosciuta ad osservare la prima “veduta” della piana dalla terrazza illuminata dai tenui raggi del sole. Eh, che dire! A me manca il fiato alla vista del panorama. Terzani descrive bene questa sensazione. Ci rechiamo al brulicante mercato di Nyaung U, prima di raggiungere la luccicante Shwezigon Paya. E in successione Kyanzittha Umin, Mahabodhi Paya, Gawdawpalin Patho, Thatbyinnyu Patho… È difficile cercare di stilare un percorso delle pagode visitate a Bagan, un po’ perché i nomi spesso non sono segnalati, un po’ perché la guida cartacea non può riportare le migliaia di pagode che spuntano dalla pianura. Ho cercato di prendere qualche appunto con l’aiuto dell’autista… frequentemente mi lasciavo condurre dai suoi consigli o dalla curiosità. Tra le pagode migliori: Sulamani Patho suggestiva all’ora del tramonto, Gubyaukgyi presenta gli affreschi interni che più ci sono piaciuti, Dhammayazika circondata da un peculiare giardino e belle vedute. I bambini e i ragazzi corrono spesso incontro ai visitatori e avendo un contatto costante con il flusso turistico, seppur non paragonabile con gli sciami di persone viste ad Angkor, hanno imparato meglio di me l’inglese e affrontiamo sempre questa conversazione where are you from? Italy ah Italia! Ciao, buongiorno! Poco poco! Non ho trovato nessuno di assillante. Il primo tramonto è accompagnato da una soffice trama di nubi. Andiamo a cena a piedi al vicino Be kind to animals… da consigliare! Prezzi onestissimi, personale cortese e cibo vegetariano da leccarsi i baffi!
Il secondo giorno facciamo colazione a bordo piscina, con l’aria fresca che stimola il risveglio dei sensi. Partiamo per una nuova giornata di scoperta della piana di Bagan. Suggerisco una torcia da tenere sempre a portata per affrontare agevolmente le salite dei cunicoli che portano alle terrazze delle pagode e vedere i dipinti nascosti. Nel pomeriggio visitiamo una fabbrichetta di lacche. L’autista propone poi di recarci in un agglomerato di case di campagna dove possiamo trovare una donna che parla inglese. Accettiamo! Ci vengono illustrate le loro attività quotidiane, l’utilizzo di alcuni strumenti, vediamo cesti enormi di arachidi appena raccolte, covoni di fieno e la disposizione della casa di famiglia. Troviamo infine un piccolo banchetto con tessuti che esamino mentre bevo il the caldo che mi offre la nonna. Compro una sciarpa e regalo le matite colorate ai figli della signora. Per il tramonto stasera siamo ben lontani da Old Bagan. La veduta è emozionante. Ad un certo punto, smetto di far foto e mi siedo con le gambe a penzoloni a godermi il sole che se se va, rosso fuoco ovunque. C’è un vento stregato che proviene probabilmente da un mondo che è altrove.
L’ultima mattina sto poco bene perché il giorno precedente ho mangiato come un drago dagli amici del “Be kind”. Anche questi son problemi! Alberto però mi dileggia. Visitiamo il mistico Ananda Patho in mezzo alla folla del sabato mattina e poi andiamo in bici al molo e alla Bu Paya. Un ragazzino, oggi a casa da scuola, mi segue in bici, mi supera, torna indietro e mi si accoda per un lungo tratto ma io gli spiego che sono lenta e fuori forma. Ma temo che il concetto di “fuori forma” non gli sia ben chiaro. Torno mestamente in piscina fino a sera, senza forze a causa della notte insonne.
NGAPALI
Volo per il mare. All’aeroporto le operazioni sono ridotte. Si esibiscono i biglietti (il passaporto non occorre), il bagaglio viene ritirato e reso riconoscibile da un cartellino colorato. Si aspetta la chiamata “a voce” del proprio volo e ci si imbarca. Yeahhh! Di solito il mare non mi entusiasma ma dopo due settimane a zonzo tra la polvere non vedo l’ora di tuffarmi. L’acqua è tiepida, chiara e calma. Di pomeriggio il mare è appena mosso ma si fa volentieri il bagno. Ngapali ci piace perché è una località tranquilla (veramente pochi turisti), non c’è nulla tranne mare, sole, due donne che ci portano la frutta fresca e una comunità di pescatori. Alloggiamo al meraviglioso Amata Resort e la nostra stanza è praticamente frontemare. Davanti l’entrata dell’albergo scopro il “Two brother”, un ristorantino dove facciamo delle sublimi scorpacciate di granchi e calamari, a prezzi concorrenziali. Una sera andiamo anche al Pleasant View, attirati dalla suggestiva la posizione sull’isola rocciosa protesa nel mare. Ma il nostro cuore batte per i Two brother.
L’immagine incredibile che ci appare a chiusura di questo viaggio è la seguente: stiamo passeggiando verso sud per raggiungere le frasche in fondo per un cocktail, una birra e osservare i granchietti che escono dalla sabbia. Il tramonto stasera è limpido, infuocato. Dalle palme spunta una coppia di buoi con un carico di legna. Lentamente ci superano procedendo dentro l’acqua bassa della marea in ritirata. È un’esplosione sensoriale. Il sole contorna e sfoca questo profilo di agricoltura antica che da noi rivive, forse, solo nei racconti dei nonni. E procedono a testa bassa, tra i flutti, questi animali possenti. I ragazzetti in cima non guardano verso l’orizzonte, impegnati nel loro compito e noi rimaniamo lì impalati a vedere il sole più struggente che un tramonto possa offrire. Poco dopo accoccolati nelle seggiole in vimini, passa un altro carro di buoi con un carico di fieno. L’ultima fulgida immagine che la nostra mente fotografa prima di essere risucchiata nel vortice di eventi che ci preparano alla partenza e al lunghissimo viaggio di ritorno.
Non si può fare a meno di pensare costantemente che abbiamo attraversato un Paese non democratico, governato da una giunta militare sanguinaria, feroce con le minoranze etniche. Le mosse di “apertura” degli ultimi mesi hanno palesemente dei secondi fini. Il Myanmar è una terra fertile, bella e ricca di umanità. Fantastico Bagan, Il lago Inle, la Swedagon Paya, ma le persone sono la vera cifra di questo paese. E questo ricorderò: i sorrisi, i saluti, le parole e i gesti scambiati con la gente.
Come accennavo, per la prima volta abbiamo modificato le nostre consuetudini di viaggiatori autonomi, scegliendo un’agenzia locale per la prenotazione degli hotel, dei quattro voli interni e per l’organizzazione degli spostamenti. A nostro personalissimo parere, ecco gli aspetti positivi e negativi correlati a questo tipo di scelta.
Pro: avendo ogni giorno un’auto pronta ad aspettarci, abbiamo completamente saltato la fase di ricerca giornaliera di mezzi per spostarci. In Myanmar mancano i tuk-tuk, nostri mezzi di elezione, quindi, non ci è dispiaciuto ricorrere a questo sistema. Purtroppo non siamo riusciti a farci un’idea dei mezzi di trasporto pubblici. Abbiamo dormito in alberghi eccellenti, dove, ovviamente, non mancava l’acqua calda e le lenzuola erano immacolate.
Contro: i grandi alberghi, pur nella loro perfezione estetica, mancano di una componente essenziale nei nostri spostamenti: l’incontro – confronto con altri viaggiatori. Insomma, ci sono mancati il chiacchiericcio degli ostelli, la curiosità, la nascita di “amicizie” oltre confine. Avvezzi ai “ristorantini” economici, le sere che, per pigrizia, abbiamo cenato in albergo abbiamo sforato il budget (dai 25 ai 30 dollari a testa contro i 5 dollari a testa). Senza parlare dell’incubo “laundry bag”. Come il solito siamo partiti con pochi indumenti da lavare in corso del viaggio. Il lavaggio negli alberghi costa dai 30 ai 50 dollari!
“Ci sono viste al mondo dinanzi alle quali uno si sente fiero di appartenere alla razza umana. Pagan all’alba è una di queste. Nell’immensa pianura, segnata soltanto dal baluginare argenteo del grande fiume Irrawadi, le sagome chiare di centinaia di pagode affiorano lentamente dal buio e dalla nebbia: eleganti, leggere; ognuna come un delicato inno a Buddha. Dall’alto del tempio di Ananda si sentono i galli cantare, i cavalli scalpicciare sulle strade ancora sterrate. È come se una qualche magia avesse fermato questa valle nell’attimo passato della sua grandezza”.