INDIA del NORD. Quello che le guide non dicono
L’organizzazione del viaggio è faticosa e millimetrica, quando decidi di viaggiare sui treni dell’India, quelli vanno prenotati con settimane di anticipo, devi viaggiare in prima classe se vuoi evitare sorprese, e le sorprese, lì, sui treni, sono sempre dietro l’angolo. Eravamo 2 donne ed eravamo spaventate da morire; arrivate a Delhi, di notte, ci siamo chieste prima di tutto, per quale motivo non avessimo deciso di andare a Formentera.
Il taxi inviato dall’hotel era stipato di zanzare, l’autista non parlava alcuna lingua se non la propria, peraltro totalmente sprovvista di vocali, la gimcana tra tangenziali piene di buchi, mucchi di patume e un caldo di quelli vorresti strapparti i capelli dalla testa, sembrava non poterti portare da nessuna parte. La guest house si trovava in una zona spaventosa, in una strada praticamente in costruzione, buia, tutta voragini pozzanghere e cani; ci siamo dette, aspettiamo domani, se Dio non arriva, un last minute per l’Italia non costerà poi così tanto, no???
Con la luce, tutto ha cominciato ad apparire meno difficile; le persone, anche quelle della gestione della Guest House, avevano qualcosa di strano: erano gentili, disponibili, amichevoli, preoccupati che avessi tutto ciò che ti serve per essere felice, che le uova fossero cotte a puntino, che il getto dell’acqua della doccia fosse abbastanza potente, che sapessi come muoverti in quell’assurda città; ci sono voluti 2 minuti per decidere che ce la potevamo fare.
Ed è importante trovare un albergo con gente simpatica a Delhi, perché Delhi è l’inferno.
Ammassi di persone che tentano di venderti qualunque cosa, strade intasate da mezzi di locomozione di ogni tipo, mucche, cani, pecore, risciò, tuc tuc, pullman e tutti, dico tutti, compresi gli animali, non fanno altro che suonare ininterrottamente il clacson o qualunque cosa sia in grado di emettere un rumore fastidioso.
Delhi è questa, è proprio quella che ti immagini, la parte vecchia un intrico di stradine strette piene degli odori di chi ci vive, piene dei colori di qualche aquilone incastrato tra le migliaia di fili elettrici che avvolgono ogni casa alla rinfusa, piene di uomini che sembrano avere 200 anni, di donne avvolte in sari multicolori; se entri in un cortile puoi trovare una giovane donna che stira mucchi di camicie con un vecchio ferro a brace; la parte nuova, invece è un cantiere continuo e inesauribile, non c’è strada, non c’è angolo che non abbia voragini, che non abbia operai che trasportano mucchi di cianfrusaglie grandi quanto il pianeta. E cliniche, ospedali, strutture modernissime con le attrezzature più all’avanguardia; e ti chiedi come sia possibile che questo, possa convivere con quello.
Le strade, le autostrade, spesso a molte corsie, troppe corsie, sono costantemente intasate e stipate di essere umani e animali, non esiste destra o sinistra, non esiste precedenza, non ci sono regole, i semafori stanno lì a puro scopo decorativo, semplicemente ci si butta in strada, alla velocità massima possibile, ci si attacca al clacson e si prega: di arrivare in tempo, di arrivare a destinazione, di arrivare tutti interi, ma anche solo di arrivare.
Rientrare in hotel, la sera, diventa come tornare a casa, quegli sconosciuti dei quali la mattina hai diffidato, che ti hanno offerto un passaggio che hai rifiutato perché fiutavi la fregatura dietro il sorriso, improvvisamente diventano i tuoi fratelli e non vorresti lasciarli mai.
L’India, nei primi giorni, è tutto ciò che non riesci a prevedere, è aerei costantemente quasi persi, non si sa perché, è treni presi sempre letteralmente al volo, perché non è vero che i treni in India sono sempre in ritardo, loro sono puntuali, sei tu che non riesci mai ad arrivare, che ti trovi su un taxi che non riesce a sbrogliarsi dall’intrico di mucche, ed è iniziato a piovere e le pozzanghere sono dei torrenti, sei tu che non hai capito che a Delhi ci sono 2 stazioni che hanno lo stesso nome e tu sei in quella sbagliata, sei tu che non lo sai che i treni hanno 1000 vagoni e sono lunghi chilometri e non arriverai mai al tuo posto prenotato.
A volte nelle stazioni trovi un angelo custode. Un vecchietto che pesa meno di te, ma che ha 1000 anni in più, che vedendoti bagnata di sudore e con i lacrimoni che ti scendono per non riuscire a capire quale dei 600 binari che ti stanno intorno sia quello giusto, e già stai pensando di sceglierlo tirando la monetina, dà un’occhiata fugace alla tua prenotazione, si carica la tua valigia di 30 chili sulla testa e si mette a correre alla velocità del fulmine, su e giù per scale interminabili, tra bivacchi di bambini e carrelli di bagagli, tra vagoni bestiame che contengono esseri umani e donne tintinnanti di bracciali che sistemano il Sari sulla spalla, e in un attimo sei sul treno, solo grazie a quell’angelo custode, che grazie a quella corsa forsennata, anche stasera riuscirà a nutrire i suoi figli.
E poi sui treni la tua valigia diventa più grande e più pesante, e ti ritrovi la cuccetta sopra quella di un Ministro che viaggia con sua moglie, che saranno salutati dal capotreno con il saluto militare, che ti offriranno i loro snack, che scenderanno dal treno all’alba, e per non svegliarti si vestiranno piano, senza accendere la luce. Ed è lì che capisci la vera ricchezza del potere, quella del silenzio, dell’educazione e del rispetto per il prossimo, chiunque esso sia, anche una ragazza italiana, rumorosa, sudata e stanca.
Improvvisamente un giorno arrivi sul Gange, a Varanasi, e lì ti rendi conto che la tua scala di priorità inizia a scricchiolare. Capisci che con quello che hai speso per l’ultima pizza, a casa, lì una madre ci potrebbe mandare i figli a scuola per mesi. Soltanto a Varanasi puoi capire cosa sono veramente i colori, che cosa sono gli odori, cosa può dire realmente uno sguardo.
Un attimo prima sei in un ingorgo e non riesci, a piedi, a levarti da un incrocio in cui sembrano essere confluiti tutti gli esseri viventi e tutti i mezzi del mondo, non riesci a parlare con chi ti sta a un centimetro perché la tua voce è soffocata da rumori che non hai mai sentito. E un attimo dopo sei sulla riva limacciosa, e vedi passare sulla superficie del fiume il cadavere di una pecora.
E non capisci dove sia la sacralità di questo fiume finchè non ti accorgi, all’alba, delle migliaia di pellegrini che sono arrivati qui, dopo giorni di cammino per bagnarsi in quelle acque puzzolenti.
E allora ti rendi conto che credere è qualcosa di diverso da quello che ti hanno sempre insegnato; credere è credere e basta, è non vedere e non sapere, è un’esplosione di colore, è un canto infinito che non sai da dove arriva, è una colonna di bufali che fanno il bagno, è l’immensa scalinata del ghat ricoperta di abiti stesi lì ad asciugare, è i sari arancioni che ti stanno tutti intorno, è il negozio del barbiere fatto solo di uno specchio, di un pennello e di sapone lì all’aperto, in mezzo al nulla.
A Varanasi ci sono gli dei, ce ne sono migliaia e ti sembra di sentirli, sbucano sorridenti da minuscoli tempietti in ogni pertuglio e ti accompagnano lungo il tuo cammino nelle strade strettissime, che se incontri una mucca devi per forza tornare indietro.
A Varanasi ci sono le donne colorate, sedute sulla soglia delle loro case fatte di nulla, che intrecciano fiori o puliscono verdure.
A Varanasi ci sono i bambini belli, con gli occhi neri giganteschi e i denti bianchissimi, scalzi, vestiti di stracci, nudi di stracci, che giocano con l’aria.
A Varanasi, al crepuscolo, ci sono le cremazioni all’aperto sul fiume, le pire incendiate che ti rapiscono e non riesci a non guardare i cadaveri che bruciano lentamente tra le fiamme alte e che quando la pelle e la carne ormai non ci sono quasi più, vengono ripiegati su se stessi, come maglioni, e i resti, anche quei resti, vengono gettati nel Gange, così pieno di morte, così pieno di vita.
A Varanasi, la sera, ci sono le cerimonie di investitura dei nuovi bramini, con le preghiere, l’incenso, i fuochi e le luci di mille candele appoggiate sul fiume.
A Varanasi non c’è la speranza, c’è lo svegliarsi alla mattina per arrivare a sera, senza nulla nel mezzo.
Te ne devi andare da lì se non vuoi essere rapito, se non vuoi cominciare a desiderare di passarvi il resto della vita, dimenticando per sempre il tubo che gocciola, la bolletta da pagare, l’agenda degli appuntamenti, i compleanni delle amiche, l’autunno, l’inverno, il Natale.
Ma quando te ne vai senti una stretta al cuore, arrivi a provare invidia per le “vedove di Varanasi” donne che non hanno di che vivere dopo la morte dei loro mariti, e che vengono portate lì nella città santa, in attesa che la morte le prenda e le liberi per sempre dalla sofferenza di vivere.
E allora raccatti i tuoi quattro stracci, il tuo trolley pieno di abiti che sono diventati inutili dopo che ti hanno insegnato come avvolgerti in un sari ed evitare il bucato per il resto dei tuoi giorni, e sali su un treno lentissimo che ti porterà via da tutto quanto aveva acquisito un senso, l’unico senso possibile.
Quando arrivi nel Rajasthan, ti sembra di averla capita l’India, la fronte corrugata ha lasciato spazio a una grande pace, forse uno piccolo, di quegli dei, magici e multiforme, è venuto con te, si è infilato di soppiatto nella tua borsetta e ha deciso di farti compagnia.
Perché ora è tutto più facile.
Smetti improvvisamente di vestirti di nero e ti ricopri dei colori della città azzurra, Jodhpur, della città bianca, Udaipur e della città rosa, Jaipur, hai imparato a parlare con le persone, hai imparato a capirle e a farti capire anche se le vostre lingue sono lontane.
Passi le ore a parlare con loro, i tuoi pomeriggi con i bambini, cercando di convincerli ad andare a scuola, perché la scuola è più importante delle 4 cartoline vendute ai turisti durante il giorno; ma i loro argomenti saranno sempre più forti dei tuoi, i loro argomenti sono la fame, sono i loro cinque, dieci, cento fratelli, sono la loro mamma di 18 anni ed il loro papà che ha trovato lavoro in una città lontana per un mese, e dorme tutte le notti sull’asfalto sul davanti del cantiere, per non perderlo.
E la loro fame ha un sorriso più aperto della tua disillusione.
E i loro occhi hanno una luce più viva di quella dei nostri bambini, seduti sul divano a sgranocchiare pane e Nutella davanti ai videogiochi.
Tutto questo, le guide non lo dicono.
Centinaia di pagine, etti di carta, che non riescono a raccontare come ti si scioglierà il cuore, nell’India dei bambini e dei sorrisi, e dei colori e delle mucche e del cielo, che non ti danno le istruzioni per ricostruirlo, quel cuore a pezzi, ridotto a un moncherino ma pieno di una bellezza e di una pace che non riesci più a ricordare in che cosa l’hai vista, ma l’hai vista, era ovunque, e ti resta dentro e non ti lascia più.