Polinesia francese, seconda luna di miele

· Inizio progettazione: circa 1 anno prima · Durata: 23 gg (inclusi i viaggi A/R) · Periodo: 29 giugno – 21 luglio 2009 · Isole visitate: Nuku Hiva e Ua Huka (Marchesi); Mo’orea, Tahiti e Taha’a (Società); Rangiroa (Tuamotu). · Agenzia di viaggio: Manureva (Roma). · Tipologia alloggio: pensioni di famiglia, hotel di 1° cat....
Scritto da: Lori & Fede
polinesia francese, seconda luna di miele
Partenza il: 29/06/2009
Ritorno il: 21/07/2009
Viaggiatori: in coppia
· Inizio progettazione: circa 1 anno prima · Durata: 23 gg (inclusi i viaggi A/R) · Periodo: 29 giugno – 21 luglio 2009 · Isole visitate: Nuku Hiva e Ua Huka (Marchesi); Mo’orea, Tahiti e Taha’a (Società); Rangiroa (Tuamotu).

· Agenzia di viaggio: Manureva (Roma).

· Tipologia alloggio: pensioni di famiglia, hotel di 1° cat. (solo a Mo’orea).

· Costo complessivo: € xxx. Di cui: € xxx all’agenzia per viaggi, tasse, assicurazione, vitto, alloggio e matrimonio polinesiano al Tiki Village di Moorea; più € 2.300 di pasti non inclusi, extra, vino e bevande, telefonate, artigianato locale (inclusa l’immancabile perla nera), attività, escursioni e regali di Natale prossimi venturi per tutta la famiglia.

Avremmo dovuto fare questo viaggio dieci anni fa, in occasione del nostro matrimonio; ma siccome il viaggio di nozze ci era stato regalato (grazie, zia!), non ci era parso il caso, all’epoca, di puntare ad un costo simile: due settimane alle Seychelles sono state più che memorabili; dopo dieci anni di sudati risparmi, tuttavia, ci è parso il caso di festeggiare il nostro 10° anniversario colla meta dei nostri (e naturalmente, dei vostri) sogni.

Siccome per il nostro viaggio ci siamo basati sui racconti di altri viaggiatori che tanto gentilmente hanno voluto prendersi la briga di condividere i loro diari su internet, ci è parso opportuno ringraziare e sostenere questa comunità offrendo un nostro, analogo contributo; nella speranza che sia di vera utilità a tutti voi, come lo è stato per noi.

Lunedì 29 giugno Ore 04:10, sveglia e partenza per Malpensa in auto. Decisamente, viaggia troppa gente: ovunque, code infinite ai tornelli (e siamo solo a giugno): ma non c’era la crisi? Federico è nervoso, io stranamente sono tranquilla. 07:15, finalmente si parte! Air France in 1 ora ci porta a Parigi, e per fortuna qui ci guidano alla navetta per il nostro terminal: l’aeroporto è enorme, e ci si può perdere.

Shopping fino all’imbarco. 11:30: un grande aereo (8 posti per 48 file) della Air Tahiti Nui si leva in volo e… l’incubo inizia! Sì, perché due file davanti a noi siede una famiglia con due mostri urlanti (la terza, per fortuna, è innocua) che si alterneranno per le successive 11 ore di volo (per poi riprendere un’altra volta dopo lo scalo a Los Angeles per altre 9 ore) a fare capricci isterici, urla e strepiti interminabili. E ti assicuro che, se ami i bambini, cambi idea: impossibile dormire (persino coi tappi); la madre, polinesiana, ha il viso sconvolto e le occhiaie di chi non dorme da settimane: impossibile prendersela con lei; il padre, francese, appare indifferente al problema; le hostess non sanno che fare… del resto, i finestrini sono chiusi ermeticamente. Vabbé, armiamoci di pazienza.

Ci servono un pasto caldo: pesce e patate, camembert e dolce con marmellata, e dell’ottimo chardonnay: ne approfittiamo abbondantemente pensando che sarà l’ultimo per un bel po’: il vino lì sarà difficile da trovare, costoso e generalmente mediocre.

Leggendo, sonnecchiando, passeggiando e maledicendo i mostri urlanti, arriviamo a Los Angeles. Dopo un’ottima colazione con una strana insalata di pastina fredda (sorprendentemente buona), salmone affumicato, macedonia di frutta e chardonnay, arrivano le 14:30 ora locale. Incontriamo 4 coppie di Italiani (abbiamo riscontrato che il 100% delle coppie italiane in Polinesia è in viaggio di nozze o di anniversario) e due ore dopo ripartiamo per Papeete collo stesso aereo dopo aver sbrigato le formalità doganali. Arriviamo a destinazione dopo altre 9 ore di strilli e strepiti.

L’accoglienza all’aeroporto è festosa: canti musica e collane di tiarè (la gardenia locale) profumatissime. Sono le 21:30 locali, è buio, fa caldo… e finalmente ci liberiamo dei mostriciattoli! L’Airport Motel è la scelta giusta per chi si ferma poco a Tahiti: dista pochi minuti dalle piste, è semplice ma bello e molto pulito, e ci offre finalmente una doccia ed un letto: ci siamo alzati 31 ore fa! La stanchezza è grande, ma il profumo del tiarè è inebriante; e capiamo perché si dice che Tahiti sia l’isola dell’amore.

Martedì 30 giugno Sveglia ore 07:00, chiusura bagagli e prime foto al mare dal balcone della nostra stanza; quindi, trasferimento all’aeroporto. Ore 09:00, partenza per Nuku Hiva su un aereo gelido da 60 posti che farà scalo a Ua Pou per tirar su passeggeri e rifornirsi di carburante. Ci servono un pasto orrendo, con prosciutto grasso e un dolce al cocco che si attacca al palato come il Kinder Pinguì, e alle 13:40 atterriamo a Nuku Hiva: qui l’ora è 30 minuti avanti, il che rende le cose complicatissime quando chiedi gli orari per voli, coincidenze, etc. Roba da pazzi! Jean Claude, il padrone della Pension Mave Mai, ci attende colla sua jeep che in 1:30h circa ci conduce alla pension. Il paesaggio è inizialmente simile alla Sardegna, arido e assolato; ma quando la strada inizia a salire tortuosa, la foresta lussureggiante domina sovrana: cocchi, manghi, papaye, banani, alberi del pane, hibiscus e un sacco di altri fiori colorati si snodano lungo la strada; e fra quelli, capre mucche galline e maiali selvatici scorrazzano liberamente: è un vero paradiso.

A un certo punto termina l’asfalto e i 28 km che seguono paiono 50 – e allora capisci che senza 4×4 qui non ci vivi! Si sale fino a 1140 m, e da lassù i panorami sono mozzafiato (e pure il vento, che soffia gelido). Ore 16:00, collane di bouganville e basilico ci danno il benvenuto alla Mave Mai, insieme a una citronnade (limonata) fresca. La stanza è squalliduccia, benché piena di fiori (con relative formiche): il bagno è minuscolo e piuttosto sporco, le zanzare sono ovunque: insomma, per le pension un po’ di spirito di avventura ci vuole! D’improvviso si mette a piovere, e Jean Claude ci accompagna in auto a fare un giro per il villaggio di Taiohae (un villaggio che è poi la capitale dell’intero arcipelago delle Marchesi, nonché sede dell’unico ospedale); ci lascia alla boutique-musée, un buco di tre stanzette ricolmo di oggetti di artigianato in legno scolpito, quadretti di tapa e antichità (alcuni molto carini), e innumerevoli tiki. Non appena spiove, proseguiamo la visita del villaggio a piedi: la gente saluta, sorride, guardiamo il mare e un po’ di alberi strani, tra cui uno che sembra carico di grosse patate oblunghe (non commestibili). Ore 18:00, è completamente buio e scappiamo a casa: qui presso l’equatore il tramonto dura pochi minuti (come l’alba, del resto).

18:30, cena: frittelle di pesce con verdure crude, chévre à la Marquisienne (c’est a dire: au lait de coco), banane fritte. Dopo cena progettiamo le gite per i giorni successivi e chiacchieriamo un po’ cogli altri ospiti: però! Il nostro Francese funziona, e ci permette di conversare cogli altri! Ore 21:00, nanna.

Mercoledì 1° luglio Sveglia ore 06:30 (non costa fatica, ci si abitua subito ai ritmi della luce locali); colazione con frutta varia, marmellate (rigorosamente d’importazione francese), frittelle (la nostra cuoca Taka è una taglia forte, e frigge tutto), pane succhi e caffè (cioè acqua leggermente aromatizzata, alla quale aggiungo bustine di caffè solubile portato dall’Italia); alle 08:00, partenza in 4×4 coi due cugini Ernest (si chiamano così entrambi!) per la visita dell’isola. Il clima è fresco, nebbioso, ed è già piovuto abbondantemente; ma poco dopo arriva il sole. La strada alterna sterrati ripidi e scivolosi a brevi tratti lisci e asfaltati. Ovunque fiori, manghi, cocchi, banani, alberi del pane; cavalli, maiali, polli e mucche pascolano nella foresta e sulla strada: incredibile! Facciamo numerose soste per fotografare splendidi panorami di baie e villaggi immersi nel verde; visitiamo il suggestivo villaggio di Taipivai, colla sua bella chiesa lignea di ben 15 anni, e un deludente sito archeologico (4 sassi in croce ricoperti d’erba – scopriremo poi che quasi tutti i siti archeologici locali sono di questo genere e non meritano una visita). Infine raggiungiamo Hatiheu e pranziamo chéz Ivonne con aragosta alla griglia (che a loro non costa niente perché è sovrabbondante, scopriremo poi, ma che a noi turisti viene fatta strapagare), manioca saltata al burro (meravigliosa), e uno squisito succo di corrasol; onnipresente è il tradizionale uru (il frutto amidaceo dell’albero del pane), e io mi chiedo: ma con tutta la frutta meravigliosa che c’è, perché si ostinano a mangiare questa schifezza? Alle 12:45 partiamo per la scalata che ci porterà al villaggio di Anaho, nella valle parallela, al di là di un colle. Fa caldo e il sentiero stretto e tortuoso è ricoperto di manghi: impossibile non pestarli, ce ne sono a milioni: che spreco! Ne raccogliamo uno e lo mangiamo, sporcandoci in modo inverosimile: è dolcissimo! La salita è dura e i due vanno come matti: noi con scarpe da trekking (pesantissime in valigia e calde sui piedi), loro in infradito e a volte a piedi nudi… siamo sconvolti: sono peggio delle capre! Dopo un’ora di marcia raggiungiamo grondanti la spiaggia; ci spogliamo e ci tuffiamo nelle tiepide acque della baia: fantastico. I due ci lasciano e vanno a far visita ad amici.

Il sole però sparisce ben presto, restano un venticello tiepido e qualche moscerino. A proposito: nono e zanzare alle Marchesi abbondano, ma la loro ferocia è un po’ sopravvalutata dai locali: forse perché l’olio di monoi è meno efficace dell’Autan Extreme, o forse perché siamo stati fortunati? Alle 14:45, rinfrescati e asciutti, riprendiamo la via del ritorno e a noi si unisce una donna locale con una grande gerla e le immancabili infradito. Le guide se ne vanno di corsa (e io che credevo mi seguissero come cani da caccia) mentre noi osserviamo con calma frutti strani (uno puzza più del gorgonzola) e fiori (tra i quali la “sensitive” che ritrae le sue foglioline al contatto) e intanto tiriamo il fiato. Dopo una decina di minuti inizia a gocciolare: ma sì, è normale, tanto fa caldo! Ma ben presto la cosa degenera e si scatena il diluvio: tutto si fa terribilmente scivoloso e Federico inizia ad avere male al tendine della coscia sinistra: che meraviglia! I tre che ci accompagnano tolgono tranquillamente le infradito, le prendono in mano, ci guardano e proseguono; in breve, siamo fradici e temiamo di farci male a ogni passo e di scivolare a valle nel dirupo per il fango; ma bisogna proseguire. Alle 16:00 raggiungiamo finalmente il 4×4 e ci spogliamo, per quanto possibile, per indossare il golf rimasto miracolosamente semi-asciutto nello zaino. Le scarpe sono coperte di fango, e le mie erano nuove (e azzurre)! Pulirle sarà dura; ma devono rientrare in quella valigia… Ernest decide di fare un po’ di rally sulla strada del ritorno, forse ha fretta; ma la nostra paura di ribaltarci è concreta. Per fortuna è un 4×4 serio, e tutto finisce bene.

A casa, alle 17:30 bucato, doccia e stesura diario; fuori diluvia. A cena zuppa di pollo (uno di quelli che strillano tutta notte, dice Taka), tonno grigliato con cipolle e soia, riso e frittelle unte. Federico ha male alla gamba, e le cascate previste per domani si allontanano: speriamo in un buon sonno ristoratore. Inoltre, veniamo a sapere che Jean Claude si era scordato di prenotarci la gita alle cascate e la barca (pare, l’unica dell’isola che faccia questo servizio) è già occupata: se vogliamo fare la gita, domattina dovremo arrangiarci da soli: però, che servizio! Stravolti, alle 21:00 andiamo a nanna. A nanna si va colle galline; la sveglia, pure: i galli, onnipresenti, cantano già alle tre del mattino! Io, stranamente, dormo; Federico invece, si sveglia (e rompe).

Giovedì 2 luglio Sveglia ore 06:30. La gamba di Federico protesta e così, come deciso durante la notte, rinunciamo alle fatidiche cascate (che decisamente portano sfiga: anche l’anno passato ci era saltata una gita alle cascate Havasupai negli USA, causa alluvione) e dopo colazione ci lanciamo nella visita del villaggio di Taiohae: l’ufficio turistico (che ne sa meno di noi), il faré artisanal (dove annusiamo il famoso monoi locale, veramente disgustoso senza appello), il mercato della frutta e la boulangèrie: un grazioso negozietto pieno di prodotti importati, compresi pasta e sughi italiani e… latte di cocco thailandese. Come se qui mancasse! Ma scopriremo poi che è meno caro e meno faticoso per i locali comprarlo in scatola fatto dagli schiavi thailandesi, piuttosto che farselo da sé: globalizzazione… È carino chiacchierare colla gente e farsi capire in una lingua che non è la tua; a me, che ho studiato Francese a scuola, non era mai successo: all’estero parla sempre Federico in Inglese… Siamo qui da un po’ e Federico mi chiede: “Ma scusa, dove sono le gnocche da copertina?”. Finora le donne viste sono tutte o comuni, o brutte e grassottelle: saranno tutte a Moorea a fare il concorso di miss Heiva? Il sole splende ed è umidissimo. Compriamo per 1900 franchi pacifici del pathé francese in scatola e succo misto di papaya e frutto della passione, poi rientriamo alla pension per un picnic vista mare, coi manghi raccolti ieri e del pane fornitoci da Taka. 5 minuti dopo diluvia. Ecco spiegata la differenza tre le due stagioni in Polinesia: in quella umida piove tutto il giorno, in quella secca (cioè questa) piove tutti i giorni. Chiaro, no? Il pathé è ottimo e si sposa benissimo coi manghi. Mentre attendiamo il ritorno del sole scrivo il mio diario davanti alla tivù, che dà una telenovela melensa interpretata da attori davvero squalliducci: da ridere. I galli, ovviamente, cantano anche di giorno. Verso le 14:00, mezzi asfissiati dagli zampironi decidiamo di uscire: il sole splende e il villaggio, animato, ci aspetta. Visitiamo un altro supermarket (sono due in tutto), polverosissimo. Ah, dimenticavo: ci hanno rifatto la stanza! Non ci speravo più, ormai; ma qui usa così, nelle pension: ogni due/tre giorni, a seconda.

Nota di colore locale: il naso si pulisce colla mano, che poi si scuote e si asciuga sui pantaloni, con nonchalance davanti a tutti: così ha fatto la cassiera del supermercato, e allora abbiamo capito il senso dell’invito a usare i fazzoletti di carta visto stamane su numerosi cartelli pubblicitari: paese che vai… Il pomeriggio prosegue colla visita alla cattedrale: una bella costruzione in pietra e legno, ornata da grandi statue. In esse si fondono cristianesimo ed elementi precristiani, come gli onnipresenti tiki che fanno capolino da sotto i piedi dei santi, o la svastika beneaugurale della quale i missionari si sono appropriati ribattezzandola “croce marchesiana”. Le sculture sono blocchi unici, ricavati da grossi alberi o radici, particolarmente belle e originali. Anche qui, profusione di polvere e ragnatele; niente vetri alle finestre, e galli ovunque. All’uscita, facciamo visita al vescovo! È un uomo anziano e gentile: un po’ sordo, ma molto sveglio e assai disponibile. Indossa camicia hawaiana e calzoni chiari; sta nel suo studio, con la porta aperta: noi lo salutiamo e lui ci invita ad entrare, e ci racconta del suo arrivo qui dalla Francia, 32 anni fa. Un ambiente molto diverso dal nostro… Verso le 16:00 rientriamo. Io scrivo, Federico tenta di pulire le scarpe di ieri (impresa disperata). Alle 19:00, cena: poisson cru (slurp!), chévre Colombe (al latte di cocco) e popoi di banana (squisito, e per niente stucchevole come avrei creduto). Chiacchieriamo coi commensali mentre assistiamo a un documentario in diretta: geki a caccia di falene e moscerini sopra le nostre teste. Affascinante, meglio di Superquark! Alle 21:00 sistemiamo le valigie e andiamo a nanna.

Venerdì 3 luglio Sveglia ore 6:00 (quella dei galli era alle 4:00), completamento bagagli, colazione e partenza in 4×4 per l’aeroporto. Taka ci congeda con collane di semi colorati. Il cielo è grigio e minaccia pioggia. Si uniscono a noi due tecnici di materiale medicale in missione presso l’ospedale di Taiohae che tornano a Papeete; e così chiacchierando scopriamo che il monoi di Tahiti è profumato al tiarè e alla vaniglia per i gusti dei turisti: ecco perché era disgustoso quello assaggiato qui… purtroppo era quello autentico! Intanto si è messo a piovere e la strada si fa scivolosa: Matè è in gamba, ma qui tutti guidiamo con lui… ABS ed ESP sarebbero molto utili, ma qui non ci sono: è come viaggiare sulla neve, uguale. Ma a destra c’è un burrone, senza guard-rail, e siamo in discesa! Il silenzio sottolinea la strizza. Arriveremo in tempo? Dopo un’ora e mezza di sofferenza, eccoci alla meta: siamo appena in tempo, ma scopriamo che il nostro aereo è in ritardo di circa un’ora. Aspettiamo nel capannone che funge da aeroporto, annusando la greve puzza di fritto del bar. Splende il sole e alle 11:30 ci imbarchiamo finalmente su un trabiccolo a 18 posti (siamo in 9), senza hostess e con la cabina di pilotaggio aperta. I motori si accendono, ci sparano aria gelida sul collo e in 5 secondi decolliamo. La vista sull’isola è stupenda, ma poco dopo i nuvoloni neri ci avvolgono. C’è un rumore infernale e si balla che è un piacere: sconsigliato ai cardiopatici. Per fortuna, 30 minuti passano in fretta e alle 12 atterriamo a Ua Huka, l’isola dei cavalli! L’aeroporto è una casetta tipo garage, i cavalli brucano a bordo pista. Ci accoglie il padrone della Reve Marquisien con collane di benvenuto: attraversiamo la pista coi bagagli in mano (impensabile, da noi) e partiamo per la pension. Fa caldo, c’è il sole e l’aria profuma di erbe aromatiche. Anzi, dirò subito che è l’unica isola che mi abbia colpita per il suo profumo: la famosa Taha’a, ad esempio, non sa per niente di vaniglia come ho sentito dire. Ua Huka è molto diversa da Nuku Hiva: più aperta, solare, mediterranea. Inizialmente la via è asfaltata e liscia, poi diventa un pantano scosceso e tortuoso, impraticabile a piedi. Alle 12:45 arriviamo: Marie France ci accoglie e ci invita per un café con gateau au chocolat e frutta squisita, che ci fa da pranzo. Questa sì è accoglienza polinesiana! Siamo i soli avventori della pension, e lei e il figlio mangiano con noi: sono deliziosi e chiacchieroni! Ci sono anche quattro cani, Drupi Pilou Blanco e Noiro. Drupi ci ha scelti subito e ci segue al farè di legno che sarà la nostra stanza: è tutto lindo e ben tenuto (altro che la pension Mave Mai…), ma in compenso ci sono milioni insetti e zanzare: queste sì che sono feroci, altro che i nono! Notare che i bungalow non hanno chiave, e sull’isola non c’è la polizia. Sistemiamo rapidamente i bagagli e scendiamo a visitare il villaggio di Vaipaee in 4×4. Coti, il figlio di Marie France ci accompagna al museo artigianale, pieno di bellissimi oggetti in legno intagliato (non ne troveremo di qualità simile in tutto il nostro soggiorno – mi sa che gli artisti locali farebbero bene a studiare più accuratamente il loro passato); poi ci lascia passeggiare: tornerà a prenderci alle 16:00.

Scendiamo al mare costeggiando un ruscello in cui sguazzano anguille a caccia di gamberetti: roba d’altri tempi! La vaniglia selvatica cresce ovunque, ma non essendo impollinata artificialmente non dà praticamente mai frutti.

Ci fermiamo a guardare un gruppo di persone che provano le danze per la festa di domani sera; la gente sorride e saluta. Drupi ci segue per un po’, poi sparisce. Che bella giornata! Tornati a casa ci sistemiamo e alle 18:30 scendiamo per la cena: tonno freddo alle erbe di Provenza, tonno grigliato con patate e marmellata di cipolle, mousse au chocolat con qumquat (sorta di mandarini cinesi caramellati, con la pelle): è tutto squisito ma le porzioni sono enormi e ne lascio più di metà! Marie France è una radio e ci intendiamo a meraviglia: parliamo di cibo e ci scambiamo ricette. È affascinata dalla cucina italiana e ci mostra il suo ricettario regionale ricco di rarità del nostro paese. Intanto in cucina scorrazzano due topini sotto al frigo e decine di falene sulle nostre teste: siamo in mezzo alla foresta, che ci vuoi fare? Federico si lancia in Francese, è divertentissimo. Alle 22:00, ci diamo la bonne nuit.

Sabato 4 luglio Ore 6:00, ci svegliamo sotto la zanzariera (che non ci evita qualche morso). È umidissimo, piove e fa freddino. Niente galli nella foresta, però: che pace! Colazione con carambole (dolcissimo: finalmente ne abbiamo assaggiato uno davvero maturo), banane, pompelmi, pane e marmellate di banana e di guava casalinghe: il tutto delizioso (perfino il caffè, cosa rara, è bevibile).

Partenza in 4×4 per visita dell’isola alle 8:00. Per primo visitiamo l’arboreto, un giardino con una grandissima varietà di agrumi a disposizione della popolazione. Coti ne raccoglie un po’, noi assaggiamo di tutto. Proseguiamo poi per Hane, dove visitiamo il farè artisanal con belle sculture e il museo del mare, pieno di vecchie piroghe e attrezzi da pesca: spettacolare l’aggeggio per la pesca al polpo: è indescrivibile, bisogna vederlo. Proseguiamo quindi per il terzo villaggio, Hokatu: anche qui, sculture e panorami mozzafiato. Conosciamo Delphine, un’altra locandiera simpatica e chiacchierona. Numerosissime sono le tappe per foto lungo la strada. Il sole splende tra cocchi, capre, galline e cavalli selvaggi: un vero paradiso, peccato solo per le zanzare.

12:30, tornati alla pension beviamo un caffè con frutta e gateau e torniamo al nostro farè. Dimenticavo: l’intera pension è alimentata da pannelli solari, qui sono più avanti di noi! L’acqua dei rubinetti però non è potabile (è quella piovana), ma al centro dei villaggi sboccano delle tubature provenienti da fonti potabili: si beve acqua in bottiglia prelevata dalla fontanella pubblica, proprio come avveniva da noi fino a cinquant’anni fa! Faccio il bucato e stendo sul patio, facendo attenzione ai cani. Stasera torneremo ad Hane per la festa, con cena canti e danze. Federico fa progetti per stabilirsi qui, io non sono ancora del tutto convinta ma quasi quasi… Ci viene in mente una considerazione: abituati all’umana curiosità di stampo asiatico, ci sorprende la discrezione che regna qui: nessuno ci ha ancora chiesto nulla di PRIVATO (età, mestiere, motivi del viaggio, figli, famiglia…): per ora siamo decisamente più curiosi noi di loro! Sono gentili, ospitali e… basta.

Ore 17:30, ripartiamo per Hane vestiti a festa e con le scarpe belle di ricambio in auto: qui alla pension è impossibile muoversi senza infangarsi se piove, e visto che ciò succede più volte al giorno… Poco dopo siamo sul luogo della festa. I porticati lignei circostanti la piazza del villaggio sono addobbati di fiori e foglie intrecciate da cui pendono cocchi e frutta di ogni genere; la gente, tutta agghindata, si saluta e si bacia mentre prende posto sulle panche per la cena. Io vengo incoronata di bouganville e Federico riceve una collana di tiarè e basilico: siamo gli unici turisti del villaggio e veniamo trattati come ospiti di riguardo! Per cena: capra (dura) e maiale (grasso) al latte di cocco, chow mein à la chinoise (buono), uru e riso (in quantità smodate); birra locale (rigorosamente a canna) e spiedini di cuore di bue (migliori di tutto il resto); gelato di vaniglia e cioccolato (passabile). Marie-France ci presenta orgogliosa a tutti e alle 19:00 inizia lo spettacolo: i tre villaggi dell’isola (totale 600 abitanti) presentano gruppi di ragazzi (11-25 anni, eccetto i percussionisti tra i quali si contano anche alcuni adulti) che competono fra loro per un premio in denaro nelle categorie: canto, danza e orchestra. Assolutamente nulla di “turistico” (siamo gli unici turisti presenti): sono tutti dilettanti, ma assai dotati e ben coreografati, e si danno un gran da fare. Il loro livello artistico è di gran lunga superiore sotto ogni aspetto a quello medio dei nostri dilettanti (e su questo aspetto il nostro giudizio è qualificato, essendo entrambi musicisti di professione).

Favolosi i costumi: coloratissimi, molto ben curati e “autentici”: quelli della compagine vincente erano interamente realizzati in fibre e materiali naturali (piume, fiori, fibre, etc.), naturalmente da loro stessi e a mano. Gli uomini sono tutti carini, le ragazze sono sia belle sia brutte – ma tutte bravissime! Le melodie dei canti (composte anch’esse dalle maestre di scuola locali!) sono semplici, omoritmiche, ma sempre polifoniche (a 2, 3 e 4 voci, con una sensibilità armonica non interamente appiattita sulle regole occidentali). Il tutto è bellissimo e crea un’atmosfera magica… a proposito: niente zanzare qui – ci aspettano sicuramente alla pension, nella foresta! Alle 22:00, felici, rientriamo a casa. Ah, dimenticavo: mega sguazzo a metà della cena (ma per fortuna c’era il portico).

Domenica 5 luglio Colazione 6:45. Stanotte è piovuto parecchio e il fango è ovunque! Raggiungiamo la chiesa di Vaipaee per la messa delle 8:00 con Marie-France. La celebrazione, molto lunga, è in Marchesiano con numerosi canti e preghiere. Ma il diacono (qui non c’è un prete stabile) legge in Francese il Vangelo per noi (che carino!). Marie-France ce lo presenta alla fine e ci facciamo quattro chiacchiere. Ci siamo rimessi le corone di fiori della festa di ieri sera (ancora bellissime) e il profumo si parge nel caldo sole che nel frattempo è ritornato. Decidiamo così di cambiarci d’abito e di raggiungere Hokatu (il paese vincitore della gara di ieri) per un bagno in riva all’oceano. Ma a metà strada puzza di bruciato e rumori sospetti avvisano Cotì che una ruota dell’auto ha dei problemi: bisogna rientrare e prenderne un’altra, la Mitsubishi di papà… che però, sebbene nuovissima e pulitissima, non è altrettanto comoda del Defender quanto a sospensioni… Alle 11:45 finalmente raggiungiamo l’oceano o meglio, le “piscine” di Hokatu: qui infatti prospiciente la spiaggia c’è un grande plateau roccioso semisommerso, che alterna crateri e pareti verticali, in cui le onde si infrangono e si insinuano, formando lagune, cascatelle, spruzzi di schiuma e mulinelli di corrente. È bellissimo, affascinante, ma piuttosto pericoloso per via della litta che rende scivoloso il pavimento di roccia, costringendoci a passeggiare con estrema cautela: impensabile, senza le scarpette di gomma. L’acqua delle “vasche” è però un vero brodo azzurro, abitato da migliaia di pesciolini e conchiglie. E anche da minuscoli paguri, particolarmente mordaci nonostante l’apparenza innocua! Appena più al largo, al di là del plateau, l’oceano spumeggia minaccioso e la corrente si schianta contro le roccie: assolutamente vietato bagnarsi là dentro! Dopo aver esplorato le piscine di Hokatu, mangiamo frutta e gateau fornitici da Marie-France; tentiamo invano di avvicinare alcuni cavalli selvatici; e alle 15:00 rientriamo col fedele Cotì, che nel frattempo è tornato a prenderci.

Prima di cena, Federico è intento a bonificare il farè dalle falene Sphynx; c’è pure un geko grassissimo e strafottente, di una spanna di lunghezza, sulla trave del patio, che ne punta una: ci armiamo di macchina fotografica per immortalare l’agguato, ma invano: dopo un lungo appostamento il geko rinuncia alla predazione, la Sphynx è troppo grossa per lui! Federico rientra in camera (io stavo al sicuro, dietro al vetro) e in quel mentre un’enorme vespa tutta gialla gli piomba sul collo senza preavviso e lo punge: panico! Il dolore è forte e il veleno gli intorpidisce il collo e gli dà un senso di confusione: inoltre, non conoscendo la fauna locale, non avevamo capito subito che si trattasse di una vespa, e ci siamo spaventati temendo chissà cosa (Marie-France ci rassicurerà poi sull’identità dello strano animale giallo, più grossa e diversa per colore dalle nostre vespe); per fortuna Federico aveva predisposto una farmacia adeguata, e si è subito spalmato del cortisone. Intanto, durante il trambusto, tre Sphynx entrano dal patio: sono innocue, sia chiaro; però fanno davvero spavento, perché sono enormi e ti volano addosso, anche in faccia, con totale noncuranza: e questo no, non è bello! E più tardi si aggiungono pure due grossi scarafaggi rossicci in bagno e coleotteri vari… insomma, sembra un film dell’orrore. Ve l’avevo detto o no, che eravamo nella foresta? Sì, giusto? Beh, questo è il prezzo da pagare per avere le Marchesi invece di Bora-Bora… Un po’ agitati e nervosi, scendiamo per la cena. Ci attendono: terrina di tonno con carote e mayonnaise, pollo al curry con riso e pomodori, torta al limone; tutto ovviamente ottimo e abbondante, come sempre da Marie-France. Parliamo ancora un po’ di cucina, parenti (finalmente si attenuano le distanze) e cose varie; poi salutiamo e continuiamo la bonifica del bungalow. Federico sta un pochino meglio, ma preferisce andare a letto subito: rimbocco ben bene la zanzariera e, fiduciosi, ci infiliamo sotto.

Lunedì 6 luglio Dopo una notte agitata di (poco) sonno, ci prepariamo ad un lungo viaggio: colazione, chiusura valigie, saluti abbracci e partenza per Nuku Hiva; altro scalo e ripartenza per Papeete, stavolta con un aereo vero: il viaggio con il trabiccolo a 18 posti offre vedute spettacolari per foto aeree. Ovviamente, la hostess ci saluta e scende. Dopo 30 minuti di volo atterriamo, rapidissimi: ormai, è come prendere il tram. A Nuku Hiva, sull’aereo “vero” sale anche un vecchietto malconcio, in carrozzina, probabilmente diretto all’ospedale della capitale: ce n’è uno anche a Nuku Hiva, ma non tratta i casi difficili. Ci danno un pranzo orribile (come quello dell’andata) ma stavolta non ci surgelano. Il volo dura tre ore e un quarto: io scrivo il mio diario e facciamo progetti per Moorea, oltre a considerazioni sulla vita alle Marchesi: qui basta raccogliere, cacciare o pescare: nessuno si ammazza di fatica per vivere. Quello che davvero manca alla gente sono i soldi, il denaro liquido, perché l’economia è fondamentalmente di sussistenza (il turismo occupa un’esigua minoranza della popolazione). E nonostante questo, c’è un mirabile equilibrio fra tradizione e progresso: si intaglia il legno a mano e si usano i cellulari e internet; si viaggia in Europa e si acchiappano falene mostruose a mani nude, continuando a chiacchierare sorridenti; senza il 4×4 qui non si vive, ma le macchine le fanno andare a puro olio di cocco al posto del gasolio: altro che la colza! Abbiamo visitato anche la torre di controllo dell’aeroporto di Ua Huka: una microscopica casetta di due piani (ciascuno, una sola stanza di circa 4×5 metri): al pianterreno biglietteria con check-in e bilancie per bagagli; al 1° piano balconcino e stanzetta con un tipo in maglietta, una scrivania vuota, una sedia e una radio. Atterraggio e decollo sono, ovviamente, a vista. Rassicurante.

14:30, arrivo a Tahiti. Visita dei negozietti aeroportuali, inclusa una vetrina di perle (belle ma carissime); formalità doganali e alle 16:00 partenza per Mo’orea con un altro mini-aereo.

Speravo di riuscire a raggiungere il mercato di Papeete, ma non c’è abbastanza tempo: peccato.

A Moorea ci attende il bus giallo della Moorea Transport e dopo aver prenotato l’escursione per visitare l’isola (che faremo giovedì 9) ci dirigiamo sognanti al Sofitel, il nostro unico resort di lusso! Accoglienza con cocktail e collane di fiori. L’hotel è stupendo, perfettamente integrato nella natura; c’è di tutto: due ristoranti, un bar spiaggia, piscina, tennis, noleggio barche, immersioni, spa, il tutto in farè all’aperto circondati da palme e giardini fioriti (mi sa che qui lavorano più giardinieri che cameriere). E poi ci sono i farè abitativi, ovviamente in legno e paglia, sparsi nel giardino, lungo la spiaggia e, naturalmente sulla laguna (il nostro!). È enorme, rispetto alle stanzette delle Marchesi, con un grande patio parzialmente coperto; e il bagno sembra un’altra stanza! E poi, tv al plasma (che non accenderemo neanche), frigobar, macchina per caffè espresso (buono!)… insomma di tutto, di più: ci voleva, dopo una settimana spartana nella natura! Disfiamo in fretta le valigie e usciamo per foto alla laguna, al tramonto. Il sole tramonta presto da questo lato dell’isola, ma c’è ancora luce: in compenso, la mattina il primo sole è nostro. L’acqua è turchese come nelle cartoline, limpida e trasparente, abitata da un sacco di pesci colorati che guizzano e saltano. Una scaletta (senza sponde) dal patio conduce direttamente in acqua – che tuttavia appare piuttosto profonda. Dopo una bella doccia ceniamo al ristorante “K” (il più “in” dell’hotel), direttamente sulla spiaggia, coi piedi nella sabbia: l’ambiente è raffinato, buona la cucina (internazionale, nonostante le apparenze etniche) ma con micro-porzioni (e per dirlo io che mangio come un uccellino…); decisamente non all’altezza la cantina, e il conto è piuttosto caro. Prendiamo tonno thai e carrè di agnello tandoori (ma vi possiamo assicurare che quei due poveri animali la Thailandia e l’India l’hanno vista col binocolo); in compenso, si fanno perdonare offrendoci UN gambero fritto come antipasto e UN cucchiaio di crème-brulée (ottima) come dessert. Il Maitre è una checca favolosa (in gergo locale, un fa’afafine): bello grassottello, in pareo e incoronato di fiori: pare un misto tra il compagno di Tognazzi nel “Vizietto” e la sciura Maria dei Legnanesi. Simpaticissimo. Inoltre, la musica e le danze dal vivo di due accattivanti fanciulle tra i tavoli accompagnano la cena. Comincia a fare freschino e decidiamo di rientrare, non prima però di aver fatto un salto in piscina. Intendo, letteralmente: ossia, la luce dei faretti notturni sommersi a bordo piscina ci inganna, e credendo di esserci appena avvicinati, ci troviamo invece con i piedi a mollo per la gioia dei presenti e delle nostre scarpe: che scena! E che risate! Martedì 7 luglio Sveglia all’alba (5:30) e tuffo in laguna per snorkeling: l’impatto è scioccante, perché l’acqua è fresca (e, come dicevo ieri, piuttosto alta). Nonostante la protezione 45 mi sono già scottata la schiena, e tengo la maglietta in acqua. Con numerose soste presso le scalette dei bungalow vicini, rassicurata e spronata a più riprese da Federico, raggiungiamo infine la spiaggia a nuoto. Tremo come una foglia per il freddo, la fatica e la paura: ma è un’esperienza indimenticabile. Prendiamo fiato e, già che siamo lì, decidiamo di fare un tuffo nella piscina di ieri sera. Però anche stavolta qualcosa va storto: pretendiamo di entrare dal lato spiaggia (cosa non prevista) e scavalcando il bordo scivoliamo entrambi, picchiando le ginocchia. Pazienza, poteva andarci peggio: l’acqua almeno è bella tiepida! Torniamo in camera per via di terra e ci accorgiamo di aver lasciato la chiave nella stanza, convinti di tornare a nuoto risalendo dal patio: ma io non me la sento. Federico, dopo aver valutato che il pontile è alto, l’acqua non tantissimo, e sul fondo è pieno di coralli decide di soprassedere all’idea del tuffo e si rifà a piedi il tragitto fino alla spiaggia via pontile; poi rientra a nuoto fino alla scaletta del patio mentre io attendo fiduciosa che mi apra la porta dall’interno… A qualcosa servono gli uomini.

Dopo una rigenerante doccia calda alle 9:30 ci fiondiamo a fare colazione: c’è veramente di tutto, e tutto è buonissimo; sembra un banchetto nuziale. Facciamo il pieno, e un’ora dopo usciamo per raggiungere a piedi (secondo i nostri ingenui piani) il Tiki Village, che scopriremo essere a 35 Km da qui. La boutique delle perle nere del Sofitel, però, merita una visita – non foss’altro che per giudicarne la qualità. E una bella perla dai riflessi verdi ci colpisce: è amore a prima vista, ma decidiamo di aspettare e di vederne altre.

Inizia il nostro viaggio in autostop (non ci sono mezzi pubblici a Moorea, e i taxi sono carissimi): non l’ho mai fatto prima, è imbarazzante: mi sembra di accattonare l’elemosina… La maggior parte di quelli che si fermano a dare passaggi ha delle auto vecchie e scassate: quelli con le auto belle sorridono e tirano dritto (quasi tutti). Ci raccolgono prima una donna, poi un uomo gentile, che ci accompagna da un suo conoscente venditore di perle: ne vediamo di carine, ma la “nostra” è più bella. Dopo aver bevuto l’acqua di un delizioso cocco fresco, decidiamo di proseguire a piedi via spiaggia: ci dicono che ci saranno solo un paio di Km per il Tiki Village. Il sole picchia e l’acqua della laguna è un vero brodo: impossibile resistere, ci fermiamo a fare il bagno e visitiamo un motu (isolotto) poco distante. Poi proseguiamo: ci avevano detto due Km, ma a me paiono molti, ma molti di più. Chiediamo ulteriori indicazioni, e scopriamo che il senso delle distanze, qui, è piuttosto aleatorio. Rientriamo sulla strada costiera e con un ultimo passaggio in auto, raggiungiamo finalmente il Tiki Village alle 14:30, poco prima di vederlo chiudere e scoprire con disappunto che avrebbe riaperto solo alle 18:00: siamo stanchi e assetati, e ci facciamo derubare di 1000 franchi (ben 8 euro) per due bicchieri di succo di ananas (il cocco di prima ce n’era costati 200).

Prima della chiusura del villaggio, alle 15:00, riusciamo tuttavia in mezz’ora a scegliere i gioielli che indosserò alla cerimonia di venerdì (Federico addocchia a colpo sicuro i più belli e i più cari della boutique), a farci un giretto in piroga, a dare un’occhiata al negozietto dei souvenir e a prenotare la cena e lo spettacolo per stasera. Poi, dato che al Tiki ci sbattono fuori, che lì intorno c’è il nulla più assoluto e non sappiamo proprio come passare quelle tre ore, e dato che siamo anche piuttosto stanchi, ci mettiamo alla ricerca di un nuovo passaggio per ritornare in hotel. In realtà ci mettiamo molto più del previsto: ci carica prima un cameriere francese, poi una giovane donna locale con bambino su una Peugeot 206 blu (stranamente nuova e pulita) che allunga il proprio itinerario per accompagnarci fino al Sofitel: che gentile! Alle 16:30 siamo in hotel: doccia, shampoo, cambio d’abito e alle 17:30 ci passano a prendere col pullmino del Tiki Village. Siamo stravolti: ma chi ce l’ha fatto fare? Alle 18:30 arriviamo: aperitivo, visita del villaggio con i vari farè e artigiani al lavoro. Compro una fibbia di madreperla, due braccialetti di conchiglie (e me ne regalano altri due) e un titi-coco (reggiseno in noce di cocco, spettacolare). Alle 19:30 apertura scenografica del forno interrato a’hima, che contiene la nostra cena. Alle 20:00, grande cena a buffet con vino (buono) a volontà e pareo show (cinquanta e più modi diversi per indossarlo, per lui e per lei: davvero intrigante). Poi inizia lo spettacolo: per più di un’ora decine di artisti si alternano nell’esecuzione di musiche canti danze e prove di abilità con armi e fuoco, sfoggiando costumi e coreografie mirabolanti e rappresentando pantomime tradizionali. Sono veramente splendidi e coinvolgenti: il pubblico è talora invitato a partecipare (i risultati sono ilari); il livello artistico della compagnia è altissimo: da non perdere.

Stanchi morti per l’ora (sono le 22:00, a quell’ora le galline sono a letto da un pezzo) riprendiamo il bus-navetta per l’hotel e ci addormentiamo (come tutti gli altri passeggeri). Per fortuna ci svegliano alla fermata giusta, così raggiungiamo il nostro bellissimo lettone.

Mercoledì 8 luglio Sveglia all’alba e gita in piroga, presa a nolo all’hotel: che fatica! Sembra facile remare, ma non lo è: son più le piroette su se stessi che i metri percorsi… è deprimente. Dopo un paio d’ore ci riteniamo soddisfatti di non esserci ribaltati e rientriamo alla base.

Dopo una colazione che fa da pranzo raggiungiamo a fatica una cabina telefonica (che in teoria dovrebbe stare appena fuori dall’hotel ma che è introvabile), visitiamo la spiaggietta accanto e rientriamo in camera per goderci un po’ il nostro patio lussuoso, scrivere il diario e dare la pappa ai pesci. Che pace! Nel primo pomeriggio indossiamo muta e maschera e ci tuffiamo dalla scaletta per raggiungere nuovamente la spiaggia. Rischio seriamente di annegare, per dell’acqua entrata nel boccaglio non si sa come; ma fortunatamente qualche santo mi protegge e raggiungo la riva. Intanto però lo splendido sole di prima è sparito e si barbella per il vento: accidenti, non doveva andare così! Federico sognava la sua “Piña Colada perfetta” da giorni: disteso su un lettino, sotto una palma protesa sull’acqua e con i piedi a mollo nella risacca tiepida; ingredienti freschissimi, una bella isolana sorridente che te la porge, decorata dall’immancabile ombrellino di carta colorato… aveva già scelto anche la palma, ma… ci deve essere il sole! Va beh, sarà per l’indomani. Infreddoliti, decidiamo di rientrare; ma rifarsela a nuoto è troppo, così optiamo per una passeggiata via terra e pontile – tanto, oggi ci siamo portati dietro la chiave della stanza nel costume, memori dell’esperienza di ieri. Già: peccato che qualcuno, prima di lasciare la stanza dalla scaletta del patio sul retro, abbia chiuso dall’interno colla maniglia lo scrocco della porta principale… e così siamo da capo: la chiave c’è, ma non apre! Che fare? Fa troppo freddo e stavolta Federico opta per il tuffo dal pontile. Io però sono terrorizzata dall’idea che si faccia male: Federico conviene con me che resta sempre un po’ alto, con quei coralli sul fondale; e così lo convinco a bussare al bungalow accanto per chiedere il permesso di scendere dalla loro scaletta e farsi solo pochi metri a nuoto. Divertita e un po’ allibita, la ragazza in accappatoio che ci apre, acconsente. Che scena… Dopo una doccia calda, le cose vanno un po’ meglio. Usciamo sul patio a scrivere e a ridere dell’accaduto. Intanto piove – ma la laguna conserva il suo fascino.

Si affaccia una signora genovese alla finestra di un altro bungalow vicino, e iniziamo a chiacchierare: è molto simpatica e ci racconta di essere anche lei in Polinesia per il suo 25° di nozze; è feeling a prima vista. Poco dopo arriva il marito e visto che nessuno è interessato al buffet francese che stasera propone l’hotel (a carissimo prezzo), decidiamo di recarci in taxi al Te Honu Iti (“La piccola tartaruga”): un ristorantino sul mare che – sulla carta – promette bene. Scopriamo con piacere che il trasporto è gratuito, e il posto è bellissimo. Ordiniamo mahi-mahi alla vaniglia (specialità della casa) e quenelles di mahi-mahi e gamberi, con un Gewurztraminer eccellente. Riusciamo anche ad accarezzare le mante che nuotano ai piedi della scaletta e che bazzicano il ristorante dove vengono viziate con gli avanzi e le coccole, proprio come da noi i gatti. Tra chiacchiere e amenità la serata trascorre serena. Paghiamo € 90 a coppia (incluso un dessert alla banana), ma sono proprio ben spesi. Alle 22:00 rientriamo; c’è molto vento e fa freschino, la marea sale rumorosa: speriamo in bene per domani.

Giovedì 9 luglio Giornata di escursione in 4×4 con partenza alle 8:00 e giro di raccolta turisti per i vari hotel. Nonostante l’avessimo prenotata lunedì al nostro arrivo a Moorea, i nostri nomi non risultano sulla lista; ma la cosa viene sistemata rapidamente. Ci portano prima alle “montagne russe” (un belvedere da cui si dominano le baie di Cook e di Oponohu), poi alla fabbrica delle marmellate (dove assaggiamo delizie di ananas, corrasol, guava e fiori di tiarè), quindi alla distilleria (da cui usciamo allegri, dopo qualche cicchetto degustativo). Andiamo anche a vedere una piantagione di ananas. Visitiamo inoltre un marae restaurato dove, oltre a bei pannelli esplicativi, incontriamo un suonatore di vivo (flauto suonato col naso) e milioni di zanzare. Il tutto sarebbe molto interessante, se le spiegazioni non fossero decisamente frettolose: si vede poco o nulla, e in pratica si paga per entrare in bar, negozi e per stare seduti su una jeep. E io che mi aspettavo lunghe passeggiate in mezzo alla natura… un po’ deludente. Alle 12:00 ci portano da Arianne, per il picnic (sorprendentemente, l’unica cosa veramente bella dell’escursione): lei è simpatica e cordiale e ci riceve nel giardino di casa, adibito a mensa coperta. Ci mostra come si prepara il poisson cru e ci serve pollo e pescespada alla griglia con salsa barbecue casalinga, fei uru e kumara lessati e diverse qualità di frutta: tutto squisito.

Dopo pranzo rientrimo al Sofitel e ci fiondiamo in spiaggia per bagno e… Piña Colada. Ma il sole splendente della mattina fa i capricci e mi limito a una passeggiata coi piedi a mollo, mentre Federico dopo una lunga attesa cerca di coronare il suo sogno: ma la Piña Colada non è perfetta! La sdraio è scomoda, il sole non si vede, la barista si dimentica di servirlo e deve essere sollecitata, il bicchiere è di plastica (al Sofitel? Orrore) e per giunta non c’è nemmeno l’ombrellino. Insomma, è una deludente Piña Colada qualunque! Alle 17:00 assistiamo all’apertura del forno interrato (lo fanno anche in hotel); ma dopo aver saputo il costo della cena (€ 60 a persona escluse le bevande – una follia) decidiamo di tornare al Te Honu Iti per un altro mahi-mahi. Salutiamo gli amici genovesi e conosciamo alre coppie di giovani italiani (ovviamente, in viaggio di nozze); poi partecipiamo a una interessantissima conferenza sulla coltivazione delle perle tenuta da Caroline, la padrona della boutique del Sofitel (finalmente una spiegazione esaustiva e dettagliata), paghiamo la NOSTRA perla e ci prepariamo per la cena.

Il taxista che ci accompagna è un loquace signore di origine sarda, sposato con una ballerina locale e trasferitosi qui: però! Le mante ci aspettano, più numerose di ieri e mangiano voracemente il pane e il pesce che viene loro gettato. Ingranano pure la “retro” quando si accorgono di aver sorpassato il cibo: roba mai vista! Tra loro ci sono anche decine di altri pesciolini colorati e voracissimi.

Alle 22:00 rientriamo: gocciola.

Venerdì 10 luglio (10° anniversario di nozze) Ecco il gran giorno! Dieci anni di matrimonio sono già un bel traguardo e il miglior modo di festeggiarli è sicuramente quello di risposarsi al Tiki Village con una cerimonia reale polinesiana.

Chiudiamo rapidamente le valigie, salutiamo i pesci del nostro bungalow-palafitta e alle 10 in punto partiamo col nostro bus per il Tiki. Il cielo è grigio e poco dopo inizia a piovere: il proverbio dice “Sposa bagnata…”. Chissà… del resto il matrimonio è alle 16:00, c’è tempo.

Alle 11:00 siamo al Tiki e per passare il tempo decido di farmi tatuare. Sì, TATUARE: una manta (bellissima) su una coscia. Chi voleva farsi tatuare in realtà era Federico, ne parlava da mesi. Io ero decisamente contraria; ma oggi mi ispira così, e lui è molto felice della mia scelta. Ho una fifa boia, ma rassicurata da nanou (il mio aguzzino) e dalle coccole di mio marito, mi sdraio fiduciosa sul lettino e attendo. I primi 5 minuti sono duri (sudi, hai i brividi), poi pian piano ti abitui e tutto sommato, beh, credevo peggio. Nanou è rapido e preciso, usa guanti sterili e aghetti monouso, disinfettante e vaselina per ammorbidire la pelle. 48 minuti, 50 euro e il capolavoro è fatto. Fuori è bigio. Verso le 14:00, dopo aver indossato le magnifiche perle prestatemi dalla boutique per la cerimonia già scelte giorni addietro (collier più orecchini, valore € 9.000) ci accompagnano in piroga con le valigie al nostro farè galleggiante, ancorato in laguna. Mio marito decide quindi di fare un giro in piroga sulla laguna da soli: ce ne danno una piccola e partiamo sorridenti. Tutto fila liscio finché non decidiamo di rientrare, attraccando al nostro farè; ma la cosa non è così facile… guidando contro corrente la barca va un po’ dove vuole, e senza capire bene come e perché mi ritrovo a mollo, vestita di tutto punto, con perle scarpe e tatuaggio (che Nanou mi aveva raccomandato di NON bagnare per 48 ore!). L’acqua per fortuna mi arriva al collo e non affogo, ma perdo una scarpa (poi ripescata dal mio fallace nocchiero), batto violentemente un gomito e riemergo con i capelli grondanti. Rientro precipitosamente nel farè e scopro che la doccia non solo non ha l’acqua calda, ma… non ha l’acqua (si sono dimenticati di aprire il rubinetto centrale). E al villaggio non esistono phon. Tremo per il freddo e per la rabbia e mi viene da piangere: tra meno di due ore MI SPOSO, sono orrenda e fuori piove: aiuto! Nanou mi aveva raccomandato: niente acqua salata per due giorni. Cosa succederà alla mia manta? Federico recupera la scarpa e cerca (invano) di traquillizzarmi. Ci asciughiamo alla meglio e attendiamo il sole (che non ne vuol sapere): decisamente, pensavo che la Polinesia fosse più calda! Alle 15:00 c’è un altro matrimonio (comune, non Reale…); sbirciamo dalle finestre i poveri sposi: diluvia. Alle 16:00 arriva la piroga reale a prenderci: è addobbata di fiori e di foglie, e ha due grandi sedili intrecciati su cui prendiamo posto. Saliamo e raggiungiamo la spiaggia, mentre gli abitanti del villaggio, vestiti a festa, cantano e danzano per noi. Altre piroghe ci circondano, con guerrieri a bordo che lanciano grida beneauguranti: è fantastico, e l’eccitazione quasi non ci fa sentire il freddo! È un po’ umido, ma ha persino smesso di piovere… Giunti a riva, veniamo divisi: Federico è preso in consegna dagli uomini, io dalle donne. Mi portano al farè Bambou per essere massaggiata con profumatissimo monoi alla vaniglia e poi vestita da sposa. Dopo il massaggio su tutto il corpo, mentre resto distesa e coperta su un grande letto la maman più vecchia del villaggiointona una preghiera in Tahitiano e numerosi canti tradizionali di buon augurio, ai quali rispondono le altre fanciulle. È tutto molto “vero” e sentito, fatto col cuore: non sembra proprio una farsa per turisti, questa gente ci crede davvero e ciò mi commuove profondamente. Vengo poi fatta alzare e avvolta in due parei bianchi: uno legato sui fianchi, l’altro artisticamente intrecciato sul seno; e poi agghindata con un ampio pettorale e un alto copricapo di piume colorate miste a perle e conchiglie: una vera regina! Le mie ancelle mi riconducono quindi festanti alla spiaggia per attendere l’arrivo dello sposo, che nel frattempo è stato tatuato (per finta) e abbigliato da capo-villaggio. Tutto intorno, danze fiori canti e musica.

Ci conducono quindi al marae presso la spiaggia, dove ha luogo la cerimonia in lingua locale officiata da un prete pagano e tradotta per noi dalla vecchia maman in Francese. Fra le nostre mani sinistre unite vengono messe due foglie della sacra pianta di Ti, sulle quali viene versata dell’acqua da un cocco appena aperto. Ci vengono assegnati i nostri nuovi nomi sacri in Tahitiano (per noi e per i nostri futuri figli) che vengono scritti sul nostro certificato di matrimonio (su vera tapa). Il tutto ha valore legale per lo stato polinesiano (e di conseguenza per la Francia e il resto del mondo) se si risiede qui per almeno un mese.

Ci avvolgono quindi insieme in un grande mantello colorato e ci conducono alla portantina reale. Qui ci incoronano di fiori e mentre brindiamo (con vero champagne) quattro portatori ci sollevano per condurci alla piazza del villaggio, tra canti e auguri. Assistiamo quindi a un breve spettacolo privato di danze in nostro onore, al termine del quale veniamo invitati a partecipare dai ballerini: a nostro perenne disdoro, il tutto viene ripreso in un filmino che una cerchia selezionata di parenti avrà il dubbio piacere di poter vedere a casa. Poi scendiamo alla spiaggia per foto e altre felicitazioni e infine veniamo caricati a braccia sulla piroga reale che parte per una mini-crociera sulla laguna, allietata dalla serenata di un suonatore di ukulele che canta per noi insieme ai barcaioli. Quando rientriamo al farè ricomincia a piovere: ho i brividi e temo che mi verrà un accidenti, ma il tutto è semplicemente spettacolare. Alle 17:30 siamo finalmente soli al farè… Alle 19:00 ci viene servita la cena (via piroga): aragosta con patatine di uru, frittelle di cocco e salsine, insalata con granchio e gamberetti, ananas con gelato e un’altra bottiglia di champagne; il tutto, meravigliosamente disposto con arte su un grande vassoio di legno, tra fiori colorati e ghirlande di foglie: roba da re.

I tre barcaioli, da noi invitati dopo il dessert, restano a chiacchierare volentieri con noi e mentre bevono le birre che offriamo loro (oltre allo champagne c’erano anche birre, acqua, cocacola, sprite, etc.) ci insegnano vari modi (virili e muliebri) per indossare il pareo, come se fossimo amici da sempre. Dopo cena torniamo nuovamente al villaggio in piroga, per assistere allo spettacolo serale (simile a quello già visto poche sere fa) del quale siamo gli ospiti d’onore. Infreddoliti, alle 22:00 torniamo al farè – stavolta, davvero finalmente soli – e ci infiliamo sotto le coperte del nostro umido lettone.

Sabato 11 luglio Ci svegliamo come sempre all’alba: il sole splende caldissimo (accidenti, oggi…) e dopo aver chiuso le valigie Federico esce per una lezione di guida in piroga mentre io scrivo. Stavolta fila tutto liscio e lui dice di avere imparato: sarà, ma io non ci salgo… il ribaltamento di ieri è dipeso da una piroga sbilanciata e da un cattivo remo, dice lui. Ma io non ci credo un gran che, preferisco restare a terra. Alle 9:00 arriva la colazione: uova al tegamino, pane al cocco, poe di banana (sensazionale), succo di mango fresco e un sacco di frutta squisita; tutto cosparso di fiori: una meraviglia.

Il barcaiolo (nonché maestro di piroga di stamattina) è l’altro prete del villaggio, e suona pure il vivo nell’orchestra: Federico è raggiante e prende lezioni di flauto. Dopo un sacco di chiacchiere, di discussioni teologiche sul locale sincretismo religioso e di sentite benedizioni, ci riporta a terra. Salutiamo tutti, io rendo a malincuore le perle e la più gnocca del villaggio ci accompagna all’aeroporto. Siccome siamo in deciso anticipo, prendiamo l’aereo prima: arriviamo a Papeete alle 11:30 e così riusciamo a farci portare al famoso mercato in taxi per 1500 franchi.

Ne valeva la pena, perché troviamo un sacco di belle cose e spendiamo un po’ di soldi in futuri regali di natale per tutta la famiglia. Finalmente trovo anche dei parei bellissimi in cotone, dipinti in loco con colori fissati dalla luce solare, anziché cinesi… avevo perso la speranza.

Alle 14:00 siamo di ritorno e prendiamo il volo che in un’ora circa ci conduce a Raiatea, altro aeroporto stile garage colla pista a due passi dal porto. Ancora 30 minuti di battello e finalmente alle 16:30 tocchiamo il suolo di Taha’a, l’isola della vaniglia. René, il nuovo proprietario di “Le Phil du temps”, ci aspetta per condurci alla pension. Il primo impatto è poco gradevole: piove; Florence, la moglie, ha grossi difetti di udito (ai quali attribuisce, falsamente, tutti i suoi problemi) ma la verità è che è un tipo ansioso, tendenzialmente dispotico e casinista; nel bungalow non c’è il bagno, che è situato fuori in giardino, a pochi passi; e per di più il soffitto di pandano intrecciato lascia cadere all’interno la cacca delle lucertole che girano sul tetto, la quale naturalmente cade sul mio letto: LORO lo sanno, che io le odio! Voglio andarmene. Federico cerca di calmarmi, ma sono stanca e nervosa e gli imprevisti mi infastidiscono: sono venuta fin qui per divertirmi, accidenti, non per farmi cagare in testa da una schifosa lucertola e obbedire ai comandi di una megera! Alle 19:00, cena: insalata con uvetta, spiedini di tonno e riso al cocco, torta al cioccolato. Tutto ottimo: almeno in cucina Florence se la cava bene. Ma… porzioni da nouvelle cuisine, a detta di Federico (che non è certo un crapulone): Florence sembra avere il braccino corto, come si suol dire; contrariamente al marito, che è invece generoso affabile e disponibile.

Domenica 12 luglio Sveglia alle 03:00 – anche qui i galli si svegliano presto; e ci sono pure un sacco di cani (che fanno una cagnara infernale): impossibile riprendere sonno, ci vorrebbero tappi a tenuta stagna. Dopo colazione (alle 07:00 con pane, marmellata, yoghurt fatto in casa e pompelmo) partiamo in 4×4 per visitare una piantagione di vaniglia. A sprazzi piove; con noi ci sono anche i figli di Florence.

Alla piantagione ci spiegano per filo e per segno come si coltiva, raccoglie e usa questa meravigliosa orchidea e ci dobbiamo ricredere sul mito della sua spontanea diffusione: produrla è un vero casino, va impollinata a mano e ci vogliono anni per avere i primi frutti. E poi i baccelli vanno massaggiati, frizionati, seccati per settimane… il prezzo elevato parrebbe giustificato. Ovviamente, ne faccio scorta. E riesco ad avere la ricetta della mitica salsa che accompagnava il nostro mahi-mahi (in sostanza, è molto semplice: panna e/o burro, sale e pepe, poco vermouth secco o whisky, un cucchiaino di vaniglia in polvere e a piacere soffritto di cipolle).

Visitiamo anche una bella casa (con boutique annessa) che due Francesi si sono costruiti da sé 30 anni fa approdando qui con un battello dopo aver fatto il giro del mondo: coraggiosi. E il risultato è eccellente.

Il sole va e viene (peggio che alle Marchesi) e le doccie sono innumerevoli e improvvise; ma il paesaggio è splendido. Rientriamo alla pension verso mezzogiorno. Mangiamo i croissant avanzati della colazione reale di ieri e alle 14:00 partiamo in battello per il motu Tau Tau, che sta proprio qui di fronte: accidenti, ho preso il raffreddore. In Polinesia! Un’oretta dopo Federico prova a visitare il Giardino di Coralli con René per giudicarne la difficoltà, mentre io resto a pucciarmi in laguna. Torna letteralmente euforico per le foto prese e i pesci visti: non è impossibile, domani lo rifaremo insieme. Dal motu Tau Tau è possibile raggiungere tre altri piccoli motu camminando nell’acqua fino al petto. Ovviamente, ci andiamo. È bellissimo, ci sono un sacco di pesci, coralli, ricci e l’acqua è caldissima e trasparente (anche se ogni tanto piove, così l’immersione è completa). Quando torniamo alla pension verso le 17:00 fa decisamente fresco perché si è alzato il vento, e una doccia bollente è proprio quel che ci vuole.

Per cena: insalata di mele e carote, mahi-mahi alla vaniglia (con MOLTO taro bollito e POCO pesce) e budino di vaniglia e cioccolato. Siccome siamo gli unici avventori della pension, Florence si trattiene e ci racconta di sé, dei suoi guai e dei suoi pregi (ma chi glie l’ha chiesto?). Non è cattiva, ma si incensa un po’ troppo: ha un carattere così… Lunedì 13 luglio Colazione standard (qui è sempre uguale: yoghurt, pane marmellata e pompelmo) e altra gita al motu. Raggiungiamo a piedi il classico atollo del naufrago delle barzellette: 150 passi di circonferenza, popolato da sei palme quattro “cuccioli” di palma e tre piante d’appartamento.

Visitiamo anche l’hotel di lusso “Le Taha’a”, l’unico sul motu, dove è possibile rilassarsi per la miseria di millequattrocento Euro a notte (o fare una pipì gratis, se urge, come nel nostro caso).

Verso le 12:00 René porta al motu una famiglia di Papeete appena giunta alla pension: lui è un militare francese di quelli tutti d’un pezzo. Poco dopo, ci sediamo tutti a tavola per il picnic allestito sulla spiaggia. C’è un barbecue acceso, dagli aromi appetitosi, ma… non è per noi: Florence, come detto, ha il braccino corto e ha preparato invece insalata di pasta, poisson cru e l’immancabile pompelmo. Alle 13:30 partiamo per la visita al Giardino di Corallo; sono preoccupatissima ma mi lancio: speriamo di sopravvivere.

Dopo una breve passeggiata lungo costa per raggiungere la zona più prossima alla barriera ci caliamo in acqua da una roccia con muta boccaglio e maschera e l’avventura inizia. L’acqua è fresca e c’è un po’ di corrente, quindi basta sdraiarsi a pancia in giù e lasciarsi trasportare: sembra proprio di volare. Sotto di noi scorrono creature di tutti i tipi: pesci, coralli, ricci, anemoni, conchiglie, tutti coloratissimi. In alcuni punti l’acqua è piuttosto bassa e i passaggi tra i coralli sono molto stretti; è quindi molto facile ferirsi. Ma è comunque un’emozione irripetibile.

In certi punti il fondale è sabbioso e ci si può fermare in piedi (si tocca); ed ecco allora che decine di pesciolini vengono a mangiare voracemente le banane che teniamo in mano. Uno mi assaggia anche un dito, ma per fortuna non è di suo gusto. Poco dopo accarezzo la rosea tunica di un anemone: sembra seta. Ma mentre mi godo la sua morbidezza, un tentacolo assassino mi tocca: effetto ortica. René è molto bravo nel guidarci: contro i coralli mi faccio solo un graffietto, mentre Federico se ne procura diversi, guadagnandosi anche una scarificazione rituale permanente sulla gamba: però il mio tatuaggio è decisamente più bello. Tutto sommato, poteva andare peggio… Ogni tanto piove, allora ci immergiamo per stare più al calduccio. Dopo circa un’ora René esce a prendere gli altri ospiti per rifare con loro il giro, mentre noi restiamo a mollo presso la riva. Poi andiamo a fare foto a cavalcioni di un pittoresco palmizio proteso sul mare; torniamo al motu del naufrago; quindi, rientriamo in battello cogli altri alla pension.

Per cena: insalata di barbabietole, pesce (bonito) grigliato con patate e salsa al curry, e una curiosa variante della pastafrolla detta crambole (si scriverà così?) alla papaya. Florence ci invita alle prove di danza per uno spettacolo cui prenderà parte, ma decliniamo l’invito (per restare soli con René). Più tardi torniamo al bungalow e troviamo nuove cacche di quelle schifose lucertole sui nostri letti; non solo: c’è anche un’enorme, strafottente granchio di terra ai piedi della scaletta di accesso, che invece di fuggire spaventato come i suoi simili, divarica le chele e ci fissa minaccioso: l’ambiente della pension stasera appare un po’ ostile… ma quello lì non sa che voglia avrei di farmelo al forno! Martedì 14 luglio Dopo colazione rimuoviamo cacche di lucertola e partiamo per il Belvedere con l’altra famiglia ospite. A Patio noi due scendiamo e proseguiamo a piedi lungo la pista sterrata che si snoda per sei Km nella foresta, mentre gli altri proseguono in auto (mollaccioni). Intorno a noi, decine di banani papaye cocchi ibiscus coleus e altre piante di cui non conosco i nomi, cariche di frutti e fiori splendidi e coloratissimi: è proprio una bella passeggiata, anche se nella seconda parte è un po’ dura e si suda parecchio. Ci sono diversi caschi di banane verdi a portata di mano: ne assaggio una. Morale: non fatelo, ho sputato per un quarto d’ora una bava amara e densa che mi legava le labbra.

Due ore dopo arriviamo al Belvedere, sfiniti; facciamo qualche foto e ritorniamo cogli altri a Patio in jeep. In occasione della festa nazionale francese la cittadina è in gran fermento: ci sono sfilate, gare di canoa, giostre, bancarelle di cibi e manufatti vari (scadenti, e con prezzi molto alti). Rientrati alla pension mangiamo un panino sul nostro patio e finalmente riesco a lavarmi i capelli e asciugarli al sole. Nel pomeriggio torniamo al motu per bagni e passeggiate; stavolta entriamo al Taha’a Hotel e chiediamo un dépliant: una camera standard + colazione a soli € 1.700 per notte, un’inezia… e chissà cosa costa il ristorante! Facciamo un’altra pipì di frodo, ringraziamo salutiamo e usciamo… Ore 17:00, rientriamo in barca felici. Ma improvvisamente la piroga a traino che porta Kevin (il figlio maggiore di René e Florence) si capovolge e la corda spezza tre dita e sloga un polso allo sfortunato ragazzo: poverino, era arrivato da Parigi da soli tre giorni, per un mese di vacanza colla famiglia! Federico e il militare francese si occupano del poveretto fino all’arrivo del dottore. Il medico lo farà ricoverare a Raiatea, ne avrà per un bel po’. Al nostro arrivo alla pension, la reazione di Florence (che nel frattempo, ignara di tutto, era andata a prelevare all’aeroporto nuovi clienti) è sconvolgente: alla vista delle dita spezzate e del figlio tremante per lo shock, esclama: “Porca putt…, ma ti pare questo il momento per farti male? Ho qui i nuovi clienti e devo preparare la cena!”. Non ho parole… A cena conosciamo i nuovi clienti: una coppia di Francesi, molto riservata, e due Italiani (mamma single e figlio di 8 anni – l’eccezione alle coppie in viaggio di nozze). Sono simpatici e chiacchieriamo con loro a lungo. Per cena: insalata di ceci, pollo fafa (con foglie di taro e latte di cocco e riso), flan al cocco.

Mercoledì 15 luglio Sveglia ore 7:00. Colazione: sono comparse le banane! Il pompelmo era l’unica frutta disponibile alla pension (la più a buon mercato), finché ieri non hanno REGALATO a René un casco di banane. Un grazie di cuore agli amici di René.

Chiusura bagagli, saluti (niente collane di fiori, le strette di mano costano meno) e alle 8:30 partenza in battello per Raiatea. All’aeroporto troviamo un bellissimo negozio dove facciamo incetta di parei. Mi vengono anche regalati un braccialetto di vaniglia, una collana di conchiglie e un ciondolo protettivo a forma di tartaruga in cocco. Alle 10:00, partenza per Papeete (45 minuti di volo). Nell’ora successiva telefoniamo a casa, cerchiamo invano di prelevare da un bancomat rotto, mangiamo un toast e rispediamo a Marie-France dall’ufficio postale un ombrellino che ci eravamo tenuti per sbaglio. Alle 12:00 partenza per Rangiroa. Un’ora dopo la nuora di Glorine ci accoglie all’aeroporto e ci conduce alla pension omonima, che dista pochi Km. La strada è asfaltata in coralli frantumati e corre lungo l’oceano; passa vicino al Kia Ora (hotel di lusso) e alla passe Tiputa e giunge infine alla pension: posizione comodissima, soprattutto per gli amanti delle immersioni e dei delfini, che dovrebbero esibirsi qui tutti i giorni. Il bungalow che ci viene assegnato è ampio e pulito, e quando mi accorgo che non è dotato di acqua calda ce lo sostituiscono con uno ancora più grande e più bello – praticamente, un mini-appartamento con cucina e veranda coperta. Lasciamo i bagagli e usciamo per una prima visita dell’isola. Fa caldo e c’è un sole splendido; tutto mi pare stupendo. Ci fermiamo dai Six Passengers per accordarci con Ugo (il boss è Italiano) sull’immersione di venerdì. Prendiamo un passaggio in auto per Avatoru a caccia di un bancomat e al ritorno ci fermiamo al Kia Ora per una Piña Colada (buonissima) al bar spiaggia: 1.400 franchi, decisamente pochi rispetto ai € 700 che vogliono qui per una stanza. Per di più, sotto al bar sguazzano centinaia di pesci: roba da pesca biblica! Al tramonto rientriamo: la spiaggia è sassosa e solo in alcuni punti ha sabbia fine, ma il mare è splendido, placido e trasparente. Incontriamo diversi cani innocui e coccoloni, probabilmente appartenenti alle casette locali.

18:30, cena: insalata mista, bec-canne (forse la ricciola?) in umido con fagiolini, anguria. Tutto discreto: scopriamo però con disappunto che la mitica Glorine, favoleggiata come la miglior cuoca della Polinesia dalle nostre guide e principale motivo della nostra scelta, si è ora ritirata in pensione a Rurutu (nelle Australi) e la pension è passata al figlio e alla nuora… beh, non è esattamente la stessa cosa. Anche qui siamo gli unici avventori a tavola, e ceniamo all’aperto sulla laguna coi cani sdraiati fra i piedi. A fine cena, un acquazzone improvviso ci rammenta che siamo in Polinesia.

I nostri ospiti sono parecchio riservati, secondo Federico anche troppo. Però sono attivi e disponibili, ma nonostante il loro intervento non riusciamo a contattare la vigna di Rangiroa, della quale tenevamo molto ad assaggiare il vino.

Scopriamo inoltre che lo zio del mio tatuatore di Mo’orea, colui che dovrebbe tatuare Federico, lavora come nocchiero al locale traghetto.

Dopo cena rientriamo al nostro bel bungalow, che però ci odia: Federico ha già picchiato per la seconda volta la testa sulla trave d’ingresso, troppo bassa. Io, invece, sono piccola e ci passo. Entrambi, comunque, ci siamo rifatti gli stinchi contro i bordi del letto, abilmente nascosti dai volant del lenzuolo ma dotati di spigoli micidiali. E vai con l’avventura! Andiamo a dormire… Giovedì 16 luglio Notte di placido sonno: niente galli, cani, né cacche di lucertola. Che pace! Ore 7:00, colazione: pane tostato, marmellata, gelatina di frutta, caffè, the e succo di frutta. Tutto buono, ma confezionato gentilmente per noi da Carrefour… dove sono la frutta fresca e le marmellate casalinghe di Glorine? Fissiamo l’escursione alla famosa vigna per sabato; poi parliamo con Huri al molo (lo zio del tatuatore di Mo’orea): ma lui, pur essendo tatuato su tutto il corpo, non pratica tatuaggi e ci consiglia invece di rivolgerci a un certo James… vedremo.

Alle 9:00 partiamo colla barca di Léon e altri otto turisti alla volta dell’Île aux Récifes. La laguna è piuttosto agitata (essendo enorme) e pare di essere sulle montagne russe. Il mio stomaco però non protesta più di tanto e gli impermeabili che ci vengono forniti ci proteggono abbastanza dalle numerose doccie salate e dal vento. La laguna interna di Rangiroa è così vasta che non si vede l’altra sponda! Un’oretta dopo, in vista del motu che sarà la nostra meta, ci fermiamo in laguna per pescare il nostro pranzo: un dipendente di Léon indossa pinne maschera e boccaglio, afferra una fiocina e si butta in acqua, per riemergere poco dopo con una grossa cernia in mano che getta nella barca. Federico tenta di acchiapparla per la coda per sistemarla in un secchio, ma lei si rivolta e lo morde su un dito: decisamente, la fauna locale è ostile a mio marito. Poco dopo arriva una seconda cernia (che nessuno tocca). La pesca finisce e scendiamo a terra. L’acqua è calda e arriva alla vita.

In pochi minuti Léon costruisce un vassoio di foglie di palma e si avvia raccogliendo cocchi; noi, dietro: pare il pifferaio di Hamelin… Su un tronco appuntito apre i cocchi e ci fa assaggiare il latte, la polpa ciò che diventa il latte quando la noce germoglia: una specie di gomma succulenta e dolciastra. Assaggiamo anche i germogli (la base della foglia) che spuntano dalle noci cadute a terra: ottimi.

Sulla spiaggia incontriamo un grosso paguro rosso con centinaia di piccoli: abita in un cocco svuotato, e ha certe chele… Finalmente arriviamo alle “piscine” attraversando il motu Ai-Ai, probabilmente chiamato così dai turisti: è infatti interamente costituito da frammenti di corallo, e camminarci sopra è un’esperienza mistica – anche colle scarpette! Le “piscine” sono un vero spettacolo della natura: sono circondate da feo, formazioni di coralli morti alte fino a tre metri, frastagliate (e taglienti), che si ergono dalle acque e sono attraversate da correnti multidirezionali, a volte improvvise e molto forti, tra l’oceano e la laguna interna. Farsi male è questione di un attimo e può non bastare la semplice cautela: ma lo spettacolo vale il rischio. È un luogo unico, e Léon ci guida con passo sicuro e vigile. Tiene un bambino in braccio e un coltello snudato da 40 cm in una mano, dà a me l’altra e sorveglia tutto il gruppo collo sguardo. Come cavolo faccia colle infradito ai piedi, proprio non lo so. Federico osserva il coltello, nella stessa mano del bambino, e sembra perplesso: si offre di tenerglielo, ma lui rifiuta – sembra tranquillo: sarà… Ci fermiamo presso un grosso corallo abitato da numerose Tridacne (bivalvi dai colori sgargianti) e mentre mi inerpico sul masso lui stacca alcune conchiglie, le apre col suo coltello e ce le fa assaggiare così, al naturale, condite solo dalla limpida acqua di mare. Superata l’iniziale diffidenza, devo dire che sono squisite – altro che le ostriche! Lo scarto va ai pesci, che vengono a prenderselo dalle nostre mani. Un’oretta dopo lasciamo le piscine guadando alcuni banchi di sabbia e corallo e torniamo al motu principale dove ci attende un sontuoso picnic allestito dai dipendenti di Léon durante le tre ore di escursione: riso saltato, poisson cru di mahi-mahi, pane al cocco cotto alla griglia, pollo, cernia e pesce-chirurgo anch’essi alla griglia, torta al cioccolato e frutta fresca. Tutto squisito, abbondante e servito su palme intrecciate (altro che il picnic di Florence…). Gli avanzi vengono gettati in mare e a riva, in 30 cm d’acqua, si presentano poco dopo un centinaio di squaletti pinna nera che li divorano senza tanti complimenti, a pochi cm dalle nostre caviglie. Niente male… L’acqua bassa è un vero brodo e immergersi dopo mangiato non è certo problematico: è decisamente più calda di qualsiasi nostra piscina.

Prima di risalire in barca Léon mostra a Federico la tecnica dettagliata per l’apertura dei cocchi. Risultato: un cocco pulito (da spaccare poi a casa) e un po’ di tagli sparsi sulle dita. Ma Federico è soddisfatto perché ha capito il trucco e dice che, se finiamo su un’isola deserta, non moriremo più di fame. Sarà… ma io me la rido. Ora sa guidare una piroga, spaccare cocchi, catturare tridacne – manca solo di pescare colla lancia. Ma visto che qui basta una banana per fare abboccare i pesci… Alle 15:00 risaliamo in barca e prima di rientrare facciamo tappa al Lagoonarium: un tratto di laguna in cui i pesci, abituati dall’uomo, si affollano quotidianamente per ricevere la pappa. Oggi, avanzi di torta al cioccolato! Ci tuffiamo in acqua e lo scenario è incredibile: sono così tanti e accalcati che è impossibile non riuscire a toccarli. Qui una testa, là una coda… e vi sfido a toccare un pesce vivo in acqua! Durante il bagno nel Lagoonarium Léon e il suo secondo ci fanno serenate d’addio accompagnandosi con ukulele e chitarra: davvero una gita meravigliosa, imperdibile.

Sulla Tiputa passe, prima dell’attracco, riusciamo anche a vedere un paio di delfini da vicino, appena dietro la nostra barca, che fanno surf sulle onde. È una giornata decisamente incantevole, e non è ancora finita! A cena ci attendono aragoste grigliate a sorpresa, bec-de-canne (ricciola) cru e macedonia di frutta: Federico è costretto a ricredersi sull’insalatina di ieri… qui chéz Glorine sono decisamente riservati, ma tuttavia generosi e disponibili.

Ah, James (il famigerato tatuatore che Federico stava cercando) è stato visto oggi ubriaco, con una bottiglia di birra in mano – come al solito, pare. Avremmo dovuto incontrarlo dopo cena, ma era troppo ubriaco e non ci hanno potuto fissare l’appuntamento; magari sarà per sabato? Mio marito inizia a domandarsi se sia il caso di affidare a James il proprio corpo. Io sono ben felice della mia manta, ma forse date le circostanze… Sono le 20:40 e crolliamo dal sonno: buonanotte! Venerdì 17 luglio Colazione ore 7:00 e alle 8:00 partenza per la Lagon Bleu. Ci aspettano prima un breve tragitto in auto fino ad Avatoru e da qui un’oretta circa di barca. Il mare è molto mosso e quell’oretta pare un’eternità. Sulla barca siamo in sei, più due accompagnatori. Con noi, due simpatici signori di origine mista sardo-francese che girano il mondo, cambiando spesso residenza.

Alle 10:00 il blu zaffiro della laguna si vede già dalla barca: praticamente, una laguna dentro un’altra laguna, circondata da motu e coralli affioranti. Approdiamo: qui l’acqua è tranquilla ma c’è molto vento e il sole gioca a nascondino (speriamo in bene). Ci avviamo coll’acqua alle caviglie verso il motu di fronte, chiamato “l’isola degli uccelli”; incontriamo una suggestiva lingua di sabbia rosa, dove ci fermiamo per foto, e due mante dispettose che fuggono senza lasciarsi toccare.

Ci accorgiamo che la custodia subacquea della nostra macchina fa condensa davanti all’obiettivo; inutili i tentativi di pulirla: speriamo non sia una cosa grave ma per intanto, niente foto.

Nubi nere si ammassano e, in breve, piove. L’acquazzone dura poco e verso le 12:00 torniamo alla base coi piedi doloranti per i sassi appuntiti e troviamo un magnifico picnic: insalata di riso, mahi-mahi cru, pane al cocco (diverso da quello di ieri ma altrettanto buono), spiedini di mahi-mahi, pollo e carangia grigliati, torta al limone e… vino (una novità)! Si tratta di un rosè americano (naturalmente con zucchero aggiunto), ma è più che passabile. È tutto squisito, speriamo che la linea non ne risenta troppo! Ci fanno anche la serenata; poi ci danno lezioni di intreccio per fare borse e vassoi colle foglie, che infine regalano a noi donne (che carini!): come li porterò a casa? Non mi scoraggio, e sistematili per bene in valigia tra i vestiti, arriveranno a casa sani e salvi.

Gli avanzi del pasto vanno ovviamente agli squaletti che puntuali si presentano a riva. Come facciano sempre a sapere quando è l’ora, non saprei… Il vento sale e bisogna ripartire in fretta. Al confine tra le due lagune, dove l’acqua si fa più profonda, decine di squaletti più grandicelli (1m/1,5m) ci circondano giulivi. Il capo-spedizione dà loro altro pesce e ci invita a tuffarci. Federico si butta – io vorrei seguirlo ma ho troppo freddo (e fifa) e rinuncio. Pochi minuti dopo mio marito risale e il capo AFFERRA CON LE MANI una bestia di un paio di metri per le pinne E LA TIRA IN BARCA: roba da pazzi! Lo squalo si dibatte come un forsennato e mena tremende frustate colla coda, ma lui lo lascia stancare tenendogli un piede sulla testa (pazzo furioso: in qualsiasi film horror che si rispetti ci avrebbe rimesso minimo una caviglia) e poi lo trattiene a mezz’aria per le pinne invitandoci ad accarezzarlo sul dorso. La scena ci lascia allibiti, ma poi lo tocco anch’io: è ruvido come una carta vetrata e si sentono guizzare i muscoli sotto la pelle – non avrei mai immaginato di toccare uno squalo vivo in una barca! Dopo qualche minuto lo restituiamo al mare, ma per qualche giorno ci terremo il ricordo della sua coda, Federico su un braccio ed io su una natica (forse cercava di acchiappare la mia manta).

Il ritorno è lungo e faticoso per il nostro stomaco; nonostante gli impermeabili ci bagnamo come pulcini per le onde spumeggianti ed il vento (che ci fa battere i denti). Ripassiamo dal lagoonarium, ma oggi siamo infreddoliti e nessuno si tuffa: diamo solo la pappa alle migliaia di pesci ivi presenti e verso le 15:45 siamo alla pension, giusto in tempo per la nostra prima immersione. Ugo (l’istruttore capo dei Six Passengers) ci richiede il brevetto e a quel punto capiamo che c’è stato un equivoco: noi avremmo dovuto fare il “battesimo del mare”, altro che brevetto! Dopo mille scuse, l’immersione viene perciò rimandata all’indomani mattina alle 07:30 nel più tranquillo Lagoonarium, anziché nella passe come previsto. Peccato solo che nel Lagoonarium non incontreremo i delfini. Pazienza! Forse è meglio così, di emozioni ne abbiamo avute abbastanza, per oggi.

Dopo una passeggiata lungo la passe in cerca di delfini (che però non vediamo), rientriamo per doccia calda e cena: uova strapazzate con olive, ricciola impanata, purè e gelato. C’è di che far pancia, qui… per fortuna domani niente picnic. La serata è fresca e c’è ancora molto vento.

Tornati al bungalow, Federico si guarda mani e gambe: tra morsi di cernia, codate di squalo, fibre di cocco, punture di vespa e zanzara, tagli di coralli e botte di stipiti, spigoli e rami vari il suo corpo pare una carta geografica. Perplesso, si chiede: ma dove lo metto, il tatuaggio? A proposito: da un lato il capitano della barca di oggi dubita delle qualità di James come tatuatore, dall’altro il padrone della pension non riesce a rintracciarlo (oggi è qui, domani è là…). Forse a questo punto, invece di rischiare di ritrovarsi con un Picasso sul petto, è meglio tatuarsi a Milano: non sarà esotico, ma… Sabato 18 Luglio Sveglia alle 6:00 e colazione leggera. È grigio e c’è ancora vento, ma alle 7:40 ci vengono a chiamare: l’immersione si fa. Pierre, il nostro istruttore, ci veste di tutto punto muta, cintura coi piombi (2kg per me, 4kg per Federico), pinne maschera e boccaglio, giubbotto e bombola. Ci fornisce molte spiegazioni su come respirare, stappare le orecchie, mantenere l’equilibrio e ci rammenta i vari segnali convenzionali per intendersi a gesti. Poi partiamo in gommone per il Lagoonarium, dove avrà luogo il nostro “battesimo”. Ho freddo e mi viene male solo all’idea di bagnarmi; ma ormai è tardi, mi tocca… Ci sediamo sul bordo del gommone e il peso della bombola fa il resto: pluff! L’acqua è fresca, ma l’adrenalina riscalda in breve tempo. Pochi istanti dopo aver sgonfiato il mio giubbotto mi trovo inginocchiata sulla sabbia, 5m sotto: è una sensazione fantastica, ti senti leggera come una piuma e basta respirare per salire o scendere di qualche metro. Se poi dai una pinnata, voli letteralmente. Pierre ci sta a fianco e ci fa toccare di tutto: vari tipi di coralli, tra cui si annidano conchiglie e spugne. Ogni tanto ci fermiamo per nutrire pesci, anche di 40cm, che riesco ad sfiorare sul dorso e sulla coda. Poi nuotiamo a lungo come pesci, senza la minima fatica: è proprio facile, se respiri (o hai le branchie). Un’ora passa in un attimo, ma il freddo si fa sentire e dobbiamo risalire: peccato! Ci offrono caffè bollente e dolci. Paghiamo (6.800 franchi per persona) e torniamo alla pension, dove poco dopo un taxi ci attende per visitare la cantina e degustare il famoso vino di Rangiroa.

La fermentazione avviene in fusti d’acciaio di produzione italiana, e alcuni vini vengono invecchiati in barrique – il tutto, in atmosfera climatizzata. Assaggiamo un rosé, due bianchi, un rosso e un moscato: sono bevibili, ma… non c’è paragone coi nostri o con quelli francesi, e in confronto costano uno sproposito (circa 3.000 franchi a bottiglia!). Ad ogni modo, è sicuramente apprezzabile l’impresa di coltivazione e produzione in un luogo così poco vocato. Sono molto gentili e non ci fanno nemmeno pagare la degustazione, ma solo il taxi per Avatoru che decidiamo di visitare (e che aspettiamo per 40 minuti).

Alle 13:00 arriviamo allo snack bar Marina, dove mangiamo un enorme mahi-mahi cru + insalata + spiedino di mahi-mahi, per 2.250 franchi (incluse acqua e birra): niente male, meno di una bottiglia del loro famigerato vino! Ed è tutto ottimo: è proprio vero, la cucina migliore spesso la trovi nei posticini meno turistici.

Facciamo quindi una passeggiata per Avatoru per foto a fiori e frutti, e molte chiacchiere con i locali. Scopriamo così numerose informazioni: il latte di cocco si ottiene dalla polpa grattuggiata e spremuta; il cocco rosso non si mangia (è solo decorativo); taro, kumara e manioca si pelano, si fanno bollire a tocchetti in acqua salata e/o zuccherata; l’uru matura solo a Dicembre (qui, perché altrove era maturo e l’abbiamo mangiato): perciò non possiamo portarcelo a casa, con grande sollievo di mio marito che oltre a detestarlo, non sapeva dove cacciarlo in valigie già pesantissime.

Visitiamo anche un minimarket dove acquistiamo Pringles, biscotti e succo di frutta per domani a mezzodì. Vediamo tra l’altro pasta italiana, l’immancabile Nutella, un sacco di cibi cinesi pronti, insomma: di tutto un po’, coperto da un dito di polvere – ma niente frutta o verdura fresche. Ora capisco il perché della frutta in scatola per colazione: qui non cresce quasi nulla, è un’atollo corallino sabbioso; tutto quello che c’è di fresco arriva settimanalmente per nave da fuori.

Intanto, piove; ma per fortuna al minimarket incontriamo dei parenti del nostro albergatore, che ci riaccompagnano in auto. Sosta di rito alla Tiputa passe, e stavolta i delfini ci sono! Sono in tre e fanno salti spettacolari sulle onde.

A casa Federico apre il “nostro” cocco della Lagon Bleu, che offre orgoglioso ai presenti bagnato di acqua di mare, sul mio cestino di foglie. Poi ci prepariamo per cena: carpaccio di mahi-mahi immerso nell’olio (ovvero: come rovinare un ottimo pesce), mahi-mahi grigliato alla vaniglia + riso (questo sì, buono) e ananas fresco (venuto da chissà dove!).

Ci chiariscono anche l’annosa questione dell’orecchio su cui si porta il tiarè: a sinistra (la parte del cuore) per chi è impegnato, a destra per chi è ancora libero.

Ci accorgiamo alle 20:00 di Sabato di non aver confermato il volo internazionale di domani: speriamo che non ci lascino a Papeete. Domenica 19 Luglio Ultima sveglia alle 6:30 e colazione: oggi croissant bisunti fatti dalla cognata del padrone; se Glorine fosse ancora qui… Alle 7:40 prendiamo il taxi-boat per raggiungere il villaggio di Tiputa, al di là della passe: sole, vento e spruzzi a volontà! Ci indicano gentilmente la chiesa cattolica (ce ne sono di diverse confessioni) e alle 8 in punto siamo pronti per la Messa. È affascinante la mescolanza di stili e tradizioni: la chiesa è in legno, di stile finto gotico (ma ovviamente con porte e finestre spalancate). I testi dei numerosissimi canti polifonici (parte in Tahitiano, parte in Francese) vengono proiettati sulla parete di fondo del presbiterio da un computer; esso mostra anche immagini sacre inerenti ai testi e riproduce le basi musicali su cui canta il coro (a tre voci, senza il basso). Ci sono anche chitarra e tastiera, degnamente suonate da due giovani. Si respira un’aria di vera festa.

Il prete anziano è oggi coadiuvato da un simpaticissimo sacerdote francese in visita: la Messa è pertanto più ricca e animata del solito. Entrambi portano grandi collane di tiarè al collo sopra i paramenti sacri e incedono con le immancabili infradito, cantillando anche parti della messa (officiata in entrambe le lingue). Durante la celebrazione la gente chiacchiera, ride, canta… Un cane entra in chiesa con una grossa coda di pesce in bocca… insomma: non è facile concentrarsi, ma l’atmosfera è favolosa. Lo scambio della pace, poi, è uno spettacolo: tutti si baciano e si abbracciano; persino i preti scendono dall’altare e percorrono tutta la navata, venendo anche da noi ad abbracciarci, chiedendoci da dove veniamo. Il tutto dura parecchi minuti.

Dopo la Messa facciamo un giro per la cittadina: ha l’aria di un posto povero ma dignitoso, anche se totalmente privo di gusto estetico: le case sono scrostate, con serramenti nuovi su un piano e porte di compensato sull’altro; le strade sono asfaltate a tratti; ma tutti sono sorridenti e salutano, nessuno si sognerebbe mai di chiedere la carità: probabilmente ciò è dovuto anche a una rete sociale efficace. Alle 11:00 riprendiamo il traghetto e torniamo alla pension. Ci cambiamo d’abito e usciamo per un ultimo saluto al mare. Incontriamo gli amici sardo-francesi, salutiamo Ugo e il suo staff dei Six Passengers, spediamo cartoline al Kia Ora e ordiniamo la nostra ultima Piña Colada a bordo piscina, spacciandoci per ospiti dell’Hotel (che soddisfazione). Diamo anche un’occhiata al menu del ristorante (roba da svenarsi) e verso le 12:30 rientriamo via spiaggia alla pension.

Consumiamo sul nostro patio asparagi (in scatola), Pringles e succo di frutta acquistati il giorno prima; poi rifacciamo le valigie e ci prepariamo a partire. Alle 15:30 paghiamo, salutiamo, facciamo l’ultima passeggiata e un’ora dopo partiamo per l’aeroporto. Alle 17:45 diamo l’addio a Rangiroa: è proprio finita la vacanza-sogno! Un’ora dopo siamo a Papeete. L’idea era di andare in città in taxi e cenare alle roulottes, ma la burocrazia ci inchioda in aeroporto: impossibile fare il check-in in anticipo, deposito bagagli chiuso (quindi valigie al seguito) e quando finalmente si apre il check-in, arrivano frotte di autobus che scaricano un serpentone lunghissimo di turisti con obbligo del solito futile controllo sicurezza. Visitiamo perciò i negozi dell’aeroporto (carissimi), facciamo telefonate, cambiamo i nostri ultimi franchi e finalmente alle 23:30 dopo cinque ore di tedio infinito ci imbarchiamo per Los Angeles. Sul volo ci danno cena e colazione (piuttosto orrende), e otto ore dopo scendiamo per sgranchirci le gambe. A Los Angeles sono le 10 del mattino.

Tra formalità e shopping obbligato arrivano le 13:00 e ripartiamo per Parigi. In volo, altri pasti mediocri. Leggiamo, scriviamo, dormiamo… siamo circondati da bambini, questa volta quieti e beneducati. 11 ore dopo, colazione a base di frittelle e croissant fatti di plastica, yoghurt marmellata e frutta (con quel che abbiamo messo da parte, poi a Parigi abbiamo pranzato). Alle 9:00, atterriamo a Parigi e abbiamo 4 ore per svaligiare la zona duty-free: carissima, ma piena di cose buone che non si trovano facilmente in Italia. Alle 13:40 partenza per Milano, dove arriviamo alle 15:00… stavolta è proprio finita! Auguri a tutti coloro che ci hanno seguiti fin qui: in premio della loro perseveranza, speriamo che possano godere di emozioni pari alle nostre e di una unione lunga e felice.

Loredana e Federico.



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