Tibet: in barca sul tetto del mondo
Un nodo in gola alla vista meravigliosa del picco più famoso al mondo: è il nostro saluto al Tibet, l’ ultima emozione che il viaggio di nozze ci regala.
Tutto inizia a bordo di un fuoristrada 4×4 che da Zhangmu, al confine nepalese, ci condurrà fino a Lhasa, il cuore del Tibet.
La sveglia è alle due del mattino: con l’ aiuto dei simpatici autisti tibetani, carichiamo gli zaini, ancora un po’ frastornati ed inconsapevoli di ciò che ci attende. La strada è lunga, l’ auto non certo confortevole, ma lo spettacolo ripaga di ogni scomodità: siamo in mezzo all’ Himalaya, la stiamo letteralmente attraversando! Alla nostra destra la montagna, così imponente, così vicina che quasi la sfioriamo; a sinistra lo spazio infinito, il vuoto che incute timore perché a malapena è illuminato dai fari del fuoristrada, ma che, alle prime luci, si apre su scenari grandiosi: cominciamo a capire chi in Italia ci parlava di commozione a tale vista.
L’ alba ci sorprende a cinquemila e duecento metri e quella luce non la scorderemo mai: tra rosa, arancione, rosso, e il bianco abbagliante della neve ancor più in alto. E poi lo spazio ed il silenzio: ti colpiscono, sono loro i protagonisti, i padroni, tu sei solo un essere minuscolo cui la natura sta facendo un regalo meraviglioso.
Superato il passo, incontriamo i primi veri villaggi tibetani: nessuna carta ne indica il nome, sono piccoli agglomerati di case di fango e mattoni, dove si conduce una dura vita di montagna e ci si scalda con la legna, dove non c’è luce e chissà se c’è l’ acqua, ma ugualmente ti viene offerta una tazza di tè al burro di yak (è un tè salato, difficilissimo berlo, ma non puoi rifiutare!), e dove i bambini, numerosissimi, hanno un sorriso disarmante. La testa comincia a farsi pesante, un improvviso senso di nausea, il mal di montagna, ci coglie tutti, rendendo difficile l’ ultimo tratto in fuoristrada. Ma finalmente siamo a Sakya, la nostra prima tappa importante. La visita del sito è rimandata a domani: è già tardo pomeriggio, e come primo giorno in Tibet non c’è male! Ora bisogna solo dormire, e permettere al fisico di acclimatarsi completamente.
L’ indomani, infatti, il mal di montagna è sparito: ci è costato solo mezza giornata di sofferenza; ora siamo pronti a scoprire il primo dei tanti monasteri buddisti che visiteremo nell’ arco del viaggio.
E’ il monastero di Sakya, nella storica provincia dello Tsang, la quale per molto tempo controllò l’ intero altopiano, e dette i natali ad uno dei principali ordini moderni del buddismo tibetano: quello dei Sakyapa. Insieme agli altri – Nyingmapa, Kagyupa e Gelugpa (l’ ordine dell’ attuale Dalai Lama) – l’ ordine Sakyapa crebbe dall’ XI secolo in poi, fino a dominare la società tibetana, mentre il paese assumeva la forma che avrebbe conservato per un millennio: uno Stato religioso chiuso in se stesso. Prima della Rivoluzione Culturale, era uno dei monasteri più grandi del Tibet, capace di ospitare oltre tremila monaci, impegnati in studi tantrici.
E’ un giovane ragazzo tibetano, nostra guida (che qui chiameremo semplicemente T.), a spiegarci tutto ciò, nel suo inglese un po’ stentato, e ad introdurci all’ intricata storia del Tibet e del buddismo. Ci rendiamo conto di due cose: il buddismo che qui è giunto dall’ India e che così fortemente si è caratterizzato, mescolandosi alla religione preesistente nel territorio (la religione bon) ed accogliendo anche elementi hindu, ha dato vita ad una vasta schiera di divinità, sia adirate che benevole, ciascuna rappresentante un diverso aspetto dell’ animo umano. E’ diventato così molto più complicato di quanto ci aspettassimo, e di certo non si riduce all’ idea superficiale che avevamo prima di partire, di una fede ascetica, che rinuncia all’ io per intraprendere un cammino di meditazione.
Secondo aspetto che è subito chiaro è che la Rivoluzione Culturale costituisce un drammatico spartiacque nella storia di questo paese e delle sue tradizioni religiose: molto cambiò dopo l’ invasione cinese, molto venne distrutto, per cui T. È costretto a specificare di continuo “prima” o “dopo” la Rivoluzione Culturale, e deve anche far attenzione nel dirlo! Voce bassa, tono sommesso, il Dalai Lama mai nominato, ma genericamente definito His Holiness, Sua Santità: questo ci colpisce molto; avremo modo di apprezzare enormemente il fatto che T. Sia un tibetano puro, nato e cresciuto nel suo paese.
Di nuovo a bordo del fuoristrada, il viaggio prosegue alla volta di Shigatse, capitale storica dello Tsang, e del monastero di Tashilhunpo, importantissima istituzione dell’ ordine Gelugpa e sede ufficiale del Panchem Lama, il secondo capo spirituale del Tibet. Il monastero è una vera e propria cittadella circondata da mura, che lo separano dal resto di Shigatse, e la sua vista dall’ entrata è imponente: i numerosi edifici che lo compongono si arrampicano l’ uno sull’ altro lungo il versante del monte, davanti le bianche abitazioni dei monaci, più in alto le costruzioni color ocra, dai tetti dorati, che ospitano le cappelle e le tombe dei Panchen Lama del passato.
Camminiamo lungo le strette viuzze acciottolate ed incontriamo pellegrini che qui arrivano da ogni parte del Tibet a pregare compiendo il rituale percorso in senso orario, in mano il rosario tibetano, ad ogni grano una preghiera, e naturalmente monaci, inconfondibili nella loro veste rossa, ma un po’ “deludenti”: frettolosi, scortesi; addirittura, ci viene detto, alcuni sospettati di essere finti monaci, collaboratori del governo cinese.
E’ il prezzo che si paga spesso in Tibet, soprattutto nei centri culturalmente e spiritualmente più importanti, di cui la Cina non vuole farsi sfuggire il controllo. Dovremo aspettare la seconda parte del viaggio per liberarci da queste “contaminazioni”.
I monaci riuniti in preghiera li vediamo per la prima volta nel monastero di Shalu che visitiamo subito dopo Tashilhunpo: ci permettono infatti di assistere al loro rito del pomeriggio. Si ritrovano tutti assieme nella sala delle riunioni, la stanza centrale di ogni monastero, di solito piuttosto buia, e prendono posto su lunghe file di cuscini disposti a terra. A gambe incrociate, qualcuno intona un mantra, e la preghiera ha inizio: le loro voci all’ unisono, quasi uno strumento musicale, il movimento ritmico dei loro corpi, l’ oscurità, i dipinti murali bellissimi che ci circondano e si intravedono a malapena, l’ intenso profumo del burro di yak che brucia incessantemente come offerta alla divinità, tutto crea un’ atmosfera davvero suggestiva. A dispetto di quanto abbiamo pensato a Tashilhunpo.
L’ ultima meta della giornata è Gyantse, famosa in tutto il paese per il monastero di Pelkor Chode e per il suo kumbum: una struttura a più piani sormontata da una cupola d’ oro, lungo la quale si apre un’ infinità di cappelle finemente decorate ed arredate. Un percorso a spirale che i pellegrini compiono sempre in senso orario, e noi con loro: più si sale, più è alto il livello spirituale e di conoscenza che il pellegrino raggiunge. Noi non pretendiamo tanto: ci basta, una volta in cima, il panorama mozzafiato che scopre l’ altopiano! Il giorno dopo, di buon mattino, si parte alla volta di Lhasa, l’ ultimo tratto che percorriamo in fuoristrada. Paesaggi diversi ci sfilano davanti: immensi campi verdi, adibiti ad agricoltura e pascolo, che improvvisamente lasciano il posto a distese semidesertiche ed aride, con villaggi letteralmente aggrappati alla montagna, e la strada qui diventa una pista faticosa anche per il nostro Land Cruiser. Poi, salendo ad altitudini incredibili, laghi considerati sacri nelle terre che, come migliaia di anni fa, sono ancora dei nomadi e dei loro yak. Il vento è fortissimo, disperde le nostre voci, impedisce i movimenti, mette a dura prova le tende dei nomadi, che tenaci restano salde al terreno, mentre sventolano senza sosta le bandierine di preghiera: è il messaggio del Budda che il vento diffonde in tutto il paese. Infine, l’ esplosione del deserto con le sue dune, al cui richiamo non resistiamo! Eccoci lì, a scalare la montagna di sabbia e , piedi nudi e scarpe al collo, correr giù come pazzi! Finalmente, entriamo a Lhasa: ed è come essere catapultati senza preavviso in un altro mondo. Una grande e moderna città cinese, a prima vista: automobili, strade, semafori, raccapriccianti negozi cinesi (il dentista che ti cura in vetrina e, se vuoi, ti noleggia una dentiera per due giorni, giusto il tempo di sposare tua figlia…), locali notturni, ristoranti, arroganza, anche, e maleducazione. Le guest houses piuttosto spartane che finora ci hanno ospitati lasciano il posto al grande albergo – cinese, è chiaro – di moderna generazione, quattro pretese stelle, sufficientemente pulito per fortuna.
Per carità, ben vengano il progresso ed il benessere (purchè siano condivisi, e qui non lo sono): ma, ci chiediamo esplorando la città, perché non lasciare a popoli e nazioni di lunga e indipendente tradizione la possibilità di trovare una strada propria? Perché snaturarli ed ucciderne l’ identità in questo modo? Per legittimarsi, infatti, è poi necessario distruggere templi millenari ed insegnare una storia quantomeno discutibile.
Solo questo di Lhasa voglio sottolineare: il contrasto che si percepisce, fortissimo, e la tensione che si avverte, innegabile. I pellegrini prostrati davanti al tempio Jokhang, il luogo sacro più venerato del Tibet; la maestosità del Potala, un tempo residenza del Dalai Lama, che nel suo bianco ed ocra si eleva ad una delle maggiori altitudini del mondo, bellissimo sopra la città, e la piazza d’ armi (impossibile non pensare a Tien – An – Men) che hanno costruito ai suoi piedi, con tanto di bandiera cinese che sventola orgogliosamente.
Molto interessanti le visite ai monasteri di Drepung e di Sera, entrambi a pochi km dal centro di Lhasa: Drepung perché era un tempo il più grande monastero del mondo ed assomiglia ad un piccolo villaggio; il monastero di Sera, altrettanto importante, ci offre invece lo spettacolo dei dibattiti filosofici tra i monaci, che si radunano in un cortile, e si affrontano a due a due in una sorta di esercitazione intellettuale, in cui, oltre alla lingua che naturalmente non capiamo (sorpresa: neanche T. La capisce, è tibetano arcaico), è fondamentale la gestualità, fortemente simbolica.
E’ l’ ultimo dei nostri tre giorni a Lhasa: dopo una buonissima e allegra cena tibetana, accompagnata da danze e canti tradizionali, l’ ultimo saluto è al Potala, ancor più bello illuminato…E’ metà luglio: l’ aria della sera è frizzante e piacevole, crescono in tutti noi l’ emozione e l’ aspettativa per la seconda parte del viaggio: quella a bordo delle gowa.
Le gowa sono tipiche imbarcazioni tibetane a remi, fatte di pelle di yak essiccata, che nella forma ricordano vagamente le nostre gondole: sono però molto più piccole e, di primo acchito, ci chiediamo se riescano a galleggiare! Ci rendiamo conto ben presto che i nostri dubbi non hanno ragion d’ essere: la squadra di rematori tibetani che a questo punto del viaggio si è unita al gruppo, ci aiuta a caricare gli zaini e a sistemarci comodamente (più o meno!) a bordo. Sono due le gowa che ci ospitano, ognuna guidata da due rematori, l’ uno a prua e l’ altro a poppa; altre due imbarcazioni seguono con le tende per i campi nei quali sosteremo la notte, e con la cambusa con l’ attrezzatura per la cucina.
Abbiamo davanti sei giorni di navigazione: percorreremo il fiume Kyi-chu, dirigendoci inizialmente a Sud di Lhasa, per poi virare ad Est entrando nelle acque del fiume Yarlung e visitare l’ omonima e storica valle che esso attraversa, dalla quale gli antichi re del VII secolo diedero inizio all’ unificazione del Tibet. Un percorso che ci permetterà di visitare luoghi di grande importanza storico – culturale, monasteri tra i più grandi e venerati del paese (come il monastero di Samye o quello di Dorje Drak), che ospitarono nel corso dei secoli figure di lama fondamentali nella storia del buddismo tibetano, che in questa valle ebbe i natali; ma non solo: ci permetterà anche di scoprire siti minori, lontani dai circuiti più battuti, piccoli centri che molto di rado ricevono visitatori stranieri. E, ancora, di entrare in una diversa dimensione di viaggio, lenta, silenziosa: il ritmo è dettato dal remo sull’ acqua, la maestosità del paesaggio che ammiriamo non ha bisogno di parole, ognuno di noi assorto in questa meraviglia che alterna spiagge di sabbia bianca e fine a boschetti verdi e rigogliosi come oasi che si aprono all’ improvviso, e sullo sfondo sempre loro, “gli Ottomila”, come ormai definiamo amichevolmente le montagne più alte del mondo. Qualche solitario pescatore ed un’ aquila che per un tratto decide di seguirci sono la nostra compagnia; ogni tanto approdiamo lungo la riva per uno spuntino per lo più a base di uova sode, formaggio e frutta. L’ atmosfera è molto serena: il gruppo ha saputo creare un buon clima, ci sono persone di età e provenienza diverse ma tutti viaggiatori incalliti; ognuno mette a disposizione parte della propria esperienza, e la sera, a cena tutti insieme in cambusa, diventa un piacevole momento di scambio e condivisione di quanto vissuto durante il giorno. Anche T. Si integra perfettamente; è un ragazzo che ha a cuore la causa tibetana, non per aver vissuto personalmente l’ invasione cinese, che suo nonno e suo padre gli hanno raccontato, ma per averne subito le conseguenze: la difficoltà di studiare, e di studiare in testi e con insegnanti che non facessero propaganda, la difficoltà poi di trovare lavoro e di migliorare le proprie condizioni di vita, in un paese in cui quelli come lui, tibetani da generazioni, stanno diventando una minoranza etnica. La paura nell’ esprimere liberamente le proprie idee, il doversi guardare continuamente le spalle, anche dal vicino di casa, che potrebbe denunciarti se, per esempio, si accorgesse che parli ad un gruppo di turisti italiani del Dalai Lama in esilio, e tenti loro di far capire quanto è grande e profonda la tua devozione per quest’ uomo che, nonostante tutto, continua ad opporre il dialogo alla forza militare; la rabbia, per noi trentenni occidentali davvero inimmaginabile, nel sapere abbattuti a cannonate edifici storici e religiosi che sono il simbolo stesso del tuo paese, e che ora, paradossalmente, vengono ricostruiti da chi li distrusse.
Il suo pianto di commozione di fronte ad una vietatissima immagine del Dalai Lama, che impavide monache di un remoto monastero che visitiamo si ostinano ad esporre perché i pellegrini possano venerarlo e offrirgli doni, è per noi una scossa al cuore, un monito, una promessa che facciamo a noi stessi: che un viaggio come questo non resti solo una bella vacanza e un album di foto da sfogliare, ma insegni qualcosa, ci ricordi continuamente, una volta a casa, che la gran parte del mondo vive ancora in sofferenza e difficoltà estreme.
Le monache donne sono un’ inaspettata sorpresa di questa seconda parte del viaggio: visitiamo più di un monastero femminile, e restiamo colpiti dalla loro simpatia; schive all’ inizio per timidezza, ma subito pronte al sorriso, ad invitarti nella cucina del monastero per offrirti un tè e del pane appena sfornato, a mostrarti le loro stanze, i dipinti alle pareti che, da sole, stanno restaurando dopo le distruzioni che – incredibile – sono arrivate fino a luoghi così sperduti.
Uno dei campi tendati più belli di questi giorni è quello che allestiamo nella zona di Ngadrak: anziché fermarci per la notte sulle rive del fiume, come fatto finora, lasciamo le gowa ad asciugare in luogo riparato, e raggiungiamo un piccolo centro rurale talmente abbarbicato che è un trattore a portarci fin lassù, tra scossoni, buche e sentieri di montagna. Le tende vengono montate in un immenso prato che funge da pascolo e che ci ospita per due notti consecutive. Sono due giorni di passeggiate che mettono gambe e fiato a dura prova, ma ripagano con la bellezza del paesaggio e con sporadici incontri di personaggi che vivono in solitudine e meditazione.
Quando, nel tardo pomeriggio, si rientra al campo, c’è sempre del tè caldo ad aspettarci, un piccolo spuntino, ed anche la compagnia dei pastori e dei loro bambini, che per nulla intimiditi dalla nostra diversità e dalle difficoltà di comunicazione, ci accolgono sorridenti, finchè non viene per loro il momento di tornare a casa, mentre noi siamo richiamati in cambusa dai profumi della cena imminente che il cuoco tibetano prepara con cura ed attenzione: è davvero bravo, e in questo proprio non speravamo! Una delle escursioni a piedi ci porta alle grotte sacre di Drag Yongzom, una serie di cunicoli scavati nella roccia, all’ interno dei quali un importante maestro indiano visse in meditazione per tre anni, tre mesi e tre giorni: così vuole la leggenda. Si raggiunge l’ entrata attraverso una scala ripidissima e, subito, ci si rende conto che si può proseguire solo se non si soffre di claustrofobia o non si ha paura del buio totale! I passaggi sono così stretti e bassi che a tratti si striscia, ma la sorpresa vera è scoprire che l’ interno è molto frequentato! Incontriamo un gruppo di monache riunite in preghiera, alla sola luce di una candela, ed una di loro ci porta con sé a visitare altre stanze delle grotte, alcune per fortuna alte tanto da permetterci di stare in piedi. La più suggestiva è la “stanza delle canzoni”, dove ciascuno può, se vuole, intonare tre canzoni che saranno di buon auspicio per tutti i partecipanti. Infine, anche l’ esperienza delle gowa e del campo si conclude: l’ ultima tappa raggiunta via fiume è Samye; salutati con sincero affetto i rematori ed il cuoco, da qui proseguiamo via terra per la città di Tsetang, dove ci attendono le visite al castello di Yumbulagang, l’ edificio più antico del Tibet, e al monastero di Tamdruk. E’ l’ ultima tappa: ma, con la sua “modernità”, con la sua confusione, Tsetang non ci conquista. Il cuore è rimasto alle vette innevate degli Ottomila, che così benevolmente ci hanno accolti e accompagnati dall’ inizio alla fine di questa avventura, il cuore è nei piccoli e sperduti villaggi dove la vita ha un sapore ed un ritmo a noi sconosciuti, nelle grotte sacre, nei sentieri di montagna, nel sorriso innocente delle monache ragazzine, e in quello di T. A loro, al Tibet: buona fortuna.
Letizia Martelli