Tanzania: avventura pura tra natura incontaminata e popoli ancestrali

Appunti tratti da un taccuino di viaggio: alle falde del Kilimangiaro, tra le storie dei masai e la grande migrazione
Scritto da: Marilisa Somma
tanzania: avventura pura tra natura incontaminata e popoli ancestrali
Partenza il: 17/08/2016
Ritorno il: 31/08/2016
Viaggiatori: 6
Spesa: 3000 €
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La mia avventura nel nord della Tanzania inizia ad Arusha, una città africana ma dai tratti occidentali, disordinata, verdissima, e sotto lo sguardo attento del Monte Meru, gironzolo tra le vie caotiche e coloratissime, e grazie a Rocco Lastella, un italiano studioso di antropologia e dal cuore africano che mi dà il benvenuto in terra d’Africa con un frullato di mango e storie di Masai, visito prima il Faraja Center, un istituto che aiuta giovani ragazze madri, vittime di traffico umano e violenze domestiche, e poi, tra cantieri appaltati a ditte cinesi e venditori di prodotti locali, perdo qualche ora a fare shopping a Shanga, un delizioso negozio di artigianato locale dove collanine di perline, animali di stoffa, bicchieri ed oggetti di vetro vengono inventati e creati da disabili utilizzando materiale riciclato. Mi accompagna, in questo viaggio-spedizione nel nord della Tanzania, Naftal Zakayo (www.safaricrewtanzania.com), una giovane guida di Arusha, dagli occhi fintamente timidi e dai racconti infiniti e pronti a soddisfare ogni mia curiosità. Da Arusha parto alla volta di Longido, per il mio primo incontro con il popolo Masai. Mi accoglie Sam, un vecchio Masai dal sorriso saggio e dalle storie affascinanti, e con lui, avvolto nel suo manto rosso, mi inerpico nella sua montagna alla volta della Grotta della Circoncisione. Attraverso il ‘boma’ di Sam, dove mi salutano le sue mogli, e lui mi racconta che i Masai sono come i leoni: ogni capo tribù stabilisce le regole del suo villaggio; le donne costruiscono le case, allevano i figli, vanno al mercato e coltivano la terra, i ragazzini fanno pascolare le caprette e a fine giornata, seduti sulla roccia della Grotta della Circoncisione, seguono le lezioni, solo orali, che lo stregone impartisce per imparare le tre cose più importanti per il popolo Masai: curare le mogli, saper gestire la casa ed allevare le mucche. Un uomo Masai è ricco se ha tante mogli, tanti figli e tante mucche; più mucche possiede e più mogli può desiderare. Tra bambini saltellanti e caprette che seguono i ragazzini, giungo alla Grotta della Circoncisione, luogo sacro ed intimo: qui i ragazzini, intorno a 15 anni, vengono circoncisi con un rito ancestrale e magico, senza poter versare neppure una lacrima, pena l’allontanamento dal villaggio, ed alla fine, hanno in dono il permesso di indossare, dopo un periodo vestiti di solo manto nero e con il volto truccato di bianco, il manto rosso e di poter prendere moglie.

E dopo i racconti dei Masai, mi perdo nel parco del Lake Manyara, un piccolo parco verdissimo, il cui nome ricorda la pianta selvatica che i Masai utilizzano a protezione delle loro case, con il suo lago sempre più secco ed in attesa della stagione delle piogge, con i suoi fenicotteri rosa pronti a volare verso il Lake Natron, con i suoi leoni arboricoli che si rilassano, pigri, tra le fronde degli alberi, con le sue mandrie di elefanti e di scimmiette che seguono, incuriosite, la jeep, e con gli enormi baobab che tmarii dominano dall’alto.

E dopo un verdissimo safari, di nuovo storie di vita e di tradizioni ancestrali; la mia jeep abbandona le strade principali e continua la sua avventura verso il Lake Eyasi: qui, da centinaia di anni, convivono, su in montagna, gli Hadzabe e, più in valle, i Datoga, due popoli strettamente legati tra loro ma con tradizioni e linguaggi diversi.

Gli Handzabe sono una tribù di cacciatori che, volutamente, rifugge quasi del tutto la modernità; vivono di sola caccia e dunque gli uomini trascorrono quasi tutto il giorno in giro per la montagna alla ricerca di uccelli e, se fortunati, di babbuini da cacciare mentre le donne creano oggetti, di perline e semi, da barattare al mercato, insieme al miele, con i Datoga per avere cibo e frecce per gli archi.

E’ da poco trascorsa l’alba, quando inizia la mia giornata con gli Handzabe, e nel vento freddo invernale e tra arbusti di acacie e piante selvatiche che mi impediscono il passaggio, seguo due giovani Handzabe che, avvolti nelle loro pellicce di babbuino, cacciano, con l’arco in mano e le frecce nel piccolo sacco sulla schiena.

La caccia è dura, e dopo un’ora di camminata, i giovani cacciatori, accovacciati sui talloni, si riposano e, mentre fumano del tabacco ed erba, mi raccontano, facendo schioccare la lingua contro il palato nel loro caratteristico modo di parlare, che la loro carne preferita è il babbuino mentre non mangiano né lo strisciante serpente né le iene, perché queste potrebbero cibarsi dei loro cari che, una volta defunti, non vengono sotterrati ma abbandonati tra gli alberi.

Sorride un giovane Handzabe e mi racconta che, a differenza dei Datoga, loro non sono poligami e che si sposano solo tra Handzabe e che ormai sono sempre più pochi.

Qualche ora più tardi, dopo una magra caccia, e dopo aver barattato una mia maglietta per un cestino fatto di seme di baobab e perline, sono invitata in un villaggio del popolo Datoga, fabbri e agricoltori e lì, tra canti e allegri balli, mi diverto a scattare selfie con le donne del villaggio, non più timide e sempre più curiose dell’iphone e delle fotografie.

Lascio due popoli animisti, il cui credo è nel cielo e negli elementi naturali, dai sorrisi sinceri e dalle tradizioni e storie affascinanti e mi dirigo verso il cratere più famoso al mondo, nella terra dei Masai: il Ngorongoro, Patrimonio dell’Umanità. In questo antico ed immenso cratere, il cui nome deriva dal rumore del campanaccio al pascolo delle mucche Masai, la mia jeep cammina in un ambiente naturale unico al mondo, tra zebre e gnu che brucano a pochi metri da me mentre concedo il passo a mandrie di elefanti che attraversano le strade col loro incedere lento. E poi la mia jeep si ferma, perché una leonessa riposa lungo la strada e un rinoceronte nero si nasconde tra l’alta erba piumosa.

Due giorni dopo, sono nel nord del Serengeti, a due passi dal Kenya e in una tenda da campo gonfiata dal vento. “Dopo 3 giorni di vento, nel Serengeti arriva la pioggia”, mi racconta un anziano davanti ad un fuoco da campo, mentre bevo la mia Serengeti Beer e gusto del pollo fritto. E con la pioggia (che può durare diversi mesi), arriva l’erba fresca, le piantine fuoriescono ed anche l’arido sud del Serengeti si trasforma: il suo manto giallo diventa verde e così la grande migrazione degli gnu e degli erbivori finisce il suo cerchio vitale. In agosto, quanto tutto il Sud Serengeti è solo gialla erba piumosa e savana bruciata per autocombustione (per formare il concime), per seguire la Grande Migrazione si deve andare nel Nord del parco più grande d’Africa: lì, gli gnu ed altri erbivori cercano l’acqua e l’erba da mangiare e lì, leoni e leopardi cercano la loro soddisfazione culinaria. In acqua i coccodrilli, sulla terra i grandi felini: gli gnu e le zebre più deboli ed alcuni cuccioli crollano nella Grande Migrazione, i forti ritornano nel sud Serengeti, dopo la stagione delle piogge, per completare il proprio giro vitale.

Sorrido alla nostra guida, mentre lui mi dice di restare in silenzio, perché, nascosto tra i rami di un albero, c’è un leopardo che, rilassato, si gode il panorama e nel frattempo, muove la coda appesa, come se fosse il pendolo di un orologio.

E dunque, la jeep si ferma lì, ai piedi dell’albero e mentre osservo il pigro leopardo tra i rami, rivedo l’immensità del Serengeti, che nella lingua dei Masai vuol dire “pianura senza fine”, i suoi milioni di gnu e zebre, enormi mandrie di elefanti e impala, giraffe e genette, e leopardi e ghepardi e famiglie di leoni, e capisco perché questo parco nazionale è patrimonio UNESCO dal 1980…. per la sua diversità di paesaggi e colori, per la ricca e varia popolazione di animali, per il miracolo della Grande Migrazione che, solo qui ed in Kenya, si ripete ogni anno.

Dopo un’intera giornata trascorsa a mangiare polvere e a cercare animali, nel mentre saluto il Mara, il lungo, tortuoso, pigro fiume che divide la Tanzania dal Kenya, il Parco del Serengeti da quello del Masai Mara, ritorno al mio accampamento e lì, circondata da decine di zebre al pascolo, davanti ad un fuoco da campo, rivedo i giorni trascorsi in Tanzania e scrivo fiumi di storie nelle pagine del mio taccuino.

L’alba del giorno dopo mi rivede di nuovo lungo strade sterrate, tra la terra rossa polverosa e le svettanti acacie, e mi dirigo verso il lunare Lake Natron, dove incontro Pipi, un giovane e bellissimo Masai che non crede più al Dio che vive sulla Montagna sacra dei Masai, Oldoinyo Leng’ai, e che mi conduce prima lungo le sponde del torrente Engare Sero, dove, dopo una breve passeggiata, mi tuffo in una cascata dalle acque fredde e mi diverto a lasciarmi scivolare lungo le erose rocce, e poi in giro tra i boma dei Masai, dove trucco le bambine e contratto con le donne per gli acquisti di braccialetti di perline. Il giovane mi spiega che i Masai segnano il volto col fuoco, e che ogni incisione ha un significato: sotto gli occhi disegnano dei cerchi perché è l’augurio che non devono avere mai problemi agli occhi, o anche delle linee perché è l’augurio di non piangere mai nella vita.

Il giorno dopo è magia pura, mi sveglio con milioni di fenicotteri che, pigri, riposano nel Lago Natron e che, al battito di mani, prendono il volo, con il becco rivolto verso il blu del cielo e lasciando scivolare ai miei piedi alcune piume rosa, e mi addormento nel parco Tarangire, che nella lingua degli Handzabe vuol dire “fiume di facoceri”. Lì, dove troneggiano i baobab scorticati dagli elefanti e dove, intorno al fiume, si abbeverano centinaia di elefanti ed altri erbivori, gusto il mio ultimo safari in Tanzania e prima di tornare a casa, giungo a Marangu, un paese ai piedi del Kilimanjaro, dove incontro il ricco popolo dei Chagga e visito prima il mercato e dopo le loro grotte, dedalo di caverne e cunicoli scavati nella roccia, usato anticamente dai Chagga per nascondersi dai guerrieri Masai quando il popolo dei fieri Masai si spostava alla ricerca di nuove terre da conquistare.

Un ultimo mercato a Rondugai, un saluto masai con le mani chiuse a pugno, pugno contro pugno, pugno sul cuore, pugno rivolto al cielo e, con gli occhi rivolti all’immenso Kilimanjaro, la cui punta spesso spunta dalla corona di nuvole bianche e profumato di caffè, lascio la mia Tanzania, con un solo pensiero: ritornerò…. Inshallah!



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