Safari in Tanzania e ritorno a Zanzibar
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Clima: a settembre ho trovato, nei parchi, un clima primaverile, con escursione termica. Più freddo di sera e di mattina presto. Stagione secca senza piogge. A Zanzibar: caldo non eccessivo, ma sole forte, con giacchetta per la sera e acqua del mare con temperatura giusta.
Valuta: scellino tanzaniano (1 euro=26.000 scellini circa). Io non ho cambiato in valuta locale, ma ho usato tranquillamente sia dollari sia euro (ad eccezione degli hotel e di qualche negozio, di solito hanno applicato parità tra euro e dollaro.)
Documenti: passaporto + visto, da ottenere all’arrivo in aeroporto al costo di 50 dollari.
Questo viaggio può essere diviso in due parti: i safari nei parchi della Tanzania e il soggiorno mare a Zanzibar.
Organizzazione viaggio:
Abbiamo comprato un pacchetto Viaggidea (Alpitour) che offriva safari più mare, ma l’abbiamo personalizzato scegliendo voli di linea per poter prolungare il soggiorno mare.
Bagaglio: Per i safari ci avevano suggerito di portare valigie morbide: noi abbiamo preso troppo alla lettera il consiglio, usando borsoni senza rotelle, molto scomodi, voluminosi e pesanti. Si possono tranquillamente portare bagagli non rigidi, ma con rotelle.
Volo andata: Siamo partiti da Roma verso mezzanotte, con il volo (ET 0703) dell’Ethiopian Airlines per Addis Abeba. Arrivati verso le 7.00, abbiamo aspettato fino alle dieci per imbarcarci su un affollatissimo volo (ET 815) per Zanzibar, con sosta a Kilimangiaro-Arusha, dove siamo scesi. All’aeroporto abbiamo fatto la fila per il visto di entrata (50 dollari o euro). Abbiamo preferito passare una notte ad Arusha per ammortizzare la fatica del viaggio. La scelta si è rivelata molto comoda. Abbiamo soggiornato all’hotel Monte Meru, distante dall’aeroporto circa un’oretta. È una bella struttura, immersa nel verde, con campi da golf confinanti e una piscina che termina con una piccola cascata. La costruzione è moderna: ha parecchi piani e vetri azzurri. L’arredamento interno è arricchito da statue di legno e altri oggetti di gusto etnico. La nostra camera era ampia e comoda, con una bella vista sul Monte Meru, alto 4.566 metri. Il territorio dall’aeroporto ad Arusha è molto verde perché dal Monte Meru partono parecchi fiumi che permettono una buona irrigazione. Oltre all’agricoltura, la Tanzania ha un forte turismo prevalentemente europeo, sia per il trekking sul Kilimangiaro sia per i safari e per il mare. Ha anche molte miniere d’oro e diamanti, ma come accade spesso, i proprietari sono per lo più stranieri. Ci hanno raccomandato, quando si attraversano le città, di fare attenzione a non mettere il cellulare fuori dal finestrino perché passano con le moto e lo rubano.
Safari nei parchi del Ngorongoro, Serengeti e Lago Manyara
Trasferimento al parco del Ngorongoro: La mattina seguente abbiamo incontrato, verso le dieci, la nostra guida-autista Amani che ci ha portato in un centro artigianale con parecchi negozi, sistemati in capanne. Gli articoli di souvenir erano carini, ma non proprio economici. Abbiamo poi pranzato all’hotel Sundown, dove un addetto della Leopard Tour (l’agenzia che ha organizzato il nostro safari), ci ha dato info utili sul programma e sul comportamento da seguire nei giorni seguenti. È importante soprattutto non uscire dai lodge, specialmente nel Serengeti (pronuncia serengheti), perché, essendo situato l’hotel al centro del parco e senza recinzioni, si potrebbero fare brutti incontri. Per quanto riguarda la malaria, di giorno non c’è pericolo, anche con le maniche corte, ma è meglio usare repellenti per altri insetti. La sera, invece, è sempre consigliabile indossare pantaloni e camicie a manica lunga, e applicare anti zanzare nelle parti scoperte, per precauzione. (Noi abbiamo deciso di NON fare la profilassi anti-malarica). Abbiamo fatto il tragitto verso il Ngorongoro in jeep comoda, in cinque persone. Il paesaggio intorno era abbastanza monotono, con campi sempre più aridi, rispetto alle coltivazioni verdi (mais, caffè, riso, banane, fagioli) incontrate nella zona di Arusha. Questo dipende dalla stagione secca: quando piove, è tutto verdissimo. Spiccavano, sul giallo bruciato dal sole, moltissimi alberi di acacie. Capre e mucche con una strana gobba, erano gli animali che punteggiavano gli spazi piatti. Ogni tanto attraversavamo dei villaggi, costituiti da baracche con i tetti di lamiera e vivacizzati da mercati, pieni di merce di vario tipo.
Abbiamo incontrato moltissimi Masai che appartengono a una popolazione nomade, che vive tra la Tanzania e il Kenia, originaria della prima nazione: vestono prevalentemente in blu o in rosso, per spaventare gli animali. A proposito del loro abito-coperta, lo shuka, spesso di colore rosso, con quadri neri o blu, bisogna sapere che quest’abbigliamento è stato adottato intorno al 1960, dopo la colonizzazione europea, copiando dai soldati inglesi le coperte che servivano da kilt. In precedenza i Masai usavano indossare pelli di vitello o pecora. Un’altra particolarità dei Masai è quella di adornarsi con collane di perline colorate e portare una spada corta di ferro, usata come arma. Indossano sandali di cuoio, sempre di più sostituiti da calzature ricavate da copertoni di automobili. È caratteristico vedere i lobi delle orecchie con fori molto allungati, anche se oggi i giovani non amano più quest’usanza. Praticano soltanto la pastorizia e si sposano unicamente tra di loro, pagando una dote in mucche alla famiglia della donna, che decide anche il prezzo. Questo vale anche per le altre popolazioni della Tanzania, che però, invece delle mucche, pagano una somma di denaro. È molto caratteristico vedere per le strade della Tanzania, specialmente verso Arusha, numerose mandrie di mucche guidate dai Masai. Quelli che vivono in queste zone si sono modernizzati, sia nel parlare in lingua swahili sia negli usi e costumi: vicino ai centri urbani gli allevamenti sono finalizzati alla vendita della carne. Invece i Masai che abitano nei villaggi del Ngorongoro, sono ancora tribali e allevano gli animali solo per il loro consumo. Anche la loro alimentazione è limitata ai prodotti allevati: infatti si basa su carne, sangue e latte. Abbiamo viaggiato per circa tre ore, su strada asfaltata, fino al gate del Ngorongoro, il cui nome significa “grande cratere”. Mentre Amani (la nostra guida) compilava le carte necessarie alla registrazione, abbiamo fatto alcune foto accanto, ma non troppo, ad alcuni babbuini, che sono pericolosi sia nel rubare il cibo sia nell’aggressione. Entrati nel parco, abbiamo dovuto percorrere una strada non asfaltata, per un’altra oretta, per raggiungere il nostro hotel, che si trova sul bordo del cratere.
Pernottamento al Sopa Lodge Ngorongoro: La nostra suite aveva un vano d’ingresso, con un armadio e un tavolino fornito di bollitore per tè e caffè, un bel bagno, con un’ampia doccia, e una camera spaziosa, con due letti queen size senza zanzariera, perché a 2200 metri di altezza non ci sono problemi di zanzare. Il ristorante è situato in un’ampia zona circolare, col tetto conico rivestito di legno scuro e con un grande camino tondo al centro, per riscaldare i freddi mesi invernali (maggio, giugno e luglio). La hall, è l’unica zona con wifi. Tornando in camera abbiamo incontrato un gigantesco bufalo, sistemato appena fuori la nostra stanza: per questo i sentieri di collegamento sono pattugliati giorno e notte da guardiani.
Considerazioni generali sul safari
Fare un safari è sicuramente una bellissima esperienza e mi piace molto. Devi però essere interessata a farla. Ci sono persone che lo provano una volta e non vogliono più ripeterlo, altre, come me, che sono curiose di sperimentare sensazioni nuove in posti diversi, perché, anche se la tipologia è simile (jeep, avvistamenti e foto), cambiano i paesaggi, la distribuzione degli animali e l’atmosfera. La sensazione magica di un safari è la percezione di attraversare zone ancora selvagge, seppur protette, dove non ci sono abitazioni (i villaggi e le strutture sono nelle zone marginali) e vagare nel nulla con tanto silenzio, se non il rumore della jeep, e all’improvviso, dal niente, sbuca una gazzella che corre elegantemente, un’antilope con le corna ricurve, i mastodontici gnu con fili di barba, i bufali con le minacciose corna, le leonesse sinuosamente pericolose, le orribili iene. Ti senti allora spettatore di un mondo non tuo, dove t’introduci in silenzio per spiare le vite di questi animali.
Mattina – Safari nel Ngorongoro: È un’area di conservazione situata a nord-ovest di Arusha e a est del Serengeti. Il cratere ha un diametro di 16 chilometri e una superficie di 265 chilometri quadrati: è la caldera intatta più ampia del mondo. C’è un’unica strada sul bordo del cratere e quattro discese di circa trenta minuti di jeep. L’intera riserva naturale del Ngorongoro è grande circa 8300 chilometri quadrati. A differenza degli altri parchi della Tanzania, l’interno di quest’area (escluso il cratere) è abitato dai Masai. La particolarità del parco è la sua posizione dentro a un cratere. Alla partenza faceva freddino e ho messo il piumino 100 grammi. A poco a poco abbiamo iniziato ad avvistare tantissime zebre, o isolate o mischiate agli gnu, che si spostavano verso le pozze d’acqua. Poi abbiamo riconosciuto gruppi di facoceri, iene, bufali, struzzi e sciacalli; solo due elefanti in lontananza, ma giganteschi. All’inizio ero rimasta un po’ delusa, perché mi aspettavo un numero maggiore di animali, ma poi è arrivata la cosa più emozionante del nostro safari di oggi: l’incontro con tre leonesse. A parte un paio di leoni visti da molto lontano in Namibia, non avevo mai fatto un incontro ravvicinato con questi felini. Durante una sosta abbiamo consumato dei cestini-pranzo, e durante tutti i safari ci è sempre stata fornita gratuitamente l’acqua minerale. Idem negli hotel: a parte le due classiche bottigliette in omaggio, abbiamo di solito trovato altra acqua per lavarci i denti, per precauzione, non essendo molto sicura quella erogata dai rubinetti.
Pomeriggio – Safari nel Serengeti: Prima di entrare nel Parco Nazionale del Serengeti, ci siamo fermati a visitare il sito archeologico delle gole dell’Olduvai, note come la “culla dell’umanità”: infatti in questo luogo sono testimoniati importanti ritrovamenti, a cominciare dall’australopithecus boisei, una specie di ominide vissuto oltre due milioni di anni fa, per proseguire con le “orme di Laetoli”, impronte di ominidi ancora più antichi (tre milioni e mezzo di anni fa). Nelle teche del museo sono conservati diversi tipi di utensili, usati dagli ominidi nelle varie ere. Ci sono anche manufatti dell’uomo moderno. In un primo momento avevo capito che in questa zona fossero stati scoperti i resti di “Lucy”, ma in un secondo approfondimento ho scoperto che il luogo esatto è l’Etiopia, dove, nel 1974, sono stati ritrovati centinaia di frammenti di ossa fossili, appartenenti a quest’ominide femmina (ora conservati in un museo ad Addis Abeba). Il percorso di questa giornata è stato veramente stancante. Per quasi dodici ore siamo stati sballottati lungo strade sterrate piene di buche e abbiamo sobbalzato, a volte violentemente, senza poter nemmeno appisolarsi, perché la testa vibrava sul sedile o la schiena prendeva pericolose botte. Dopo tante ore di viaggio la nostra fatica è stata ampiamente ricompensata dagli avvistamenti che faremo nell’immenso Parco Nazionale (dove nessuno può abitare) del Serengeti, che presenta zone più verdi, molto ricche di acacie, e anche punti scenografici, con grandi rocce granitiche e macchie di alberi. Il suo nome significa “pianura sconfinata”: infatti è veramente esteso, con i suoi 15.000 chilometri quadrati, e si trova nell’omonima pianura, tra il lago Vittoria e il confine del Kenya. Quando si vedono concentrazioni di jeep sulle piste, vuol dire che ci sono animali: infatti abbiamo incontrato tante leonesse con i loro cuccioli, che avanzavano imperterrite verso di noi o addirittura si stendevano in mezzo alla strada, incuranti dei cento sguardi dei turisti che cercavano di fotografarle, sporgendosi dai tetti apribili delle jeep, con macchine e attrezzature tecniche elaborate. Poco dopo un altro incontro “clou”: un magnifico ghepardo, sdraiato su una roccia: era bellissimo, con le macchie più chiare del leopardo, che abbiamo avvistato poco dopo “spalmato ” su una roccia (i ghepardi amano zone pianeggianti, i leopardi stanno sempre vicino agli alberi). Questa volta abbiamo visto il felino solo da lontano, col binocolo, guardando in modo macabro i resti di un cucciolo di leone, da lui ucciso e appeso a un ramo. Andando avanti ci siamo imbattuti ancora in leonesse: una stava tranquillamente divorando un facocero e l’ho filmata con morbosità e schifo, mentre finiva il suo pasto.
Pernottamento al Sopa Lodge Serengeti: L’hotel è molto bello, ma in uno stile diverso dall’altro, più colorato e leggermente più sportivo, con una bellissima camera grande, con vista sulla distesa verde del parco. Sognavamo una bella doccia per lavare la polvere copiosa che in questo periodo secco è moltissima, sollevata dal passaggio delle numerose jeep.
Safari Serengeti e trasferimento al Lago Manyara: Durante la mattinata abbiamo attraversato nuovamente il Serengeti e abbiamo fatto subito bellissimi avvistamenti: leonesse, leoncini, coccodrilli e giraffe molto scenografiche. Abbiamo concluso il safari di oggi con l’incontro più desiderato e mancante: il leone, anzi due imponenti e maestosi esemplari, accovacciati sotto un albero proprio sul bordo della strada. Abbiamo potuto fotografarli a distanza ravvicinata ed è stato proprio emozionante. Lungo la faticosa strada del ritorno, che ci ha fatto costeggiare il cratere del Ngorongoro per poi riprendere la via asfaltata fino al lago Manyara, abbiamo riflettuto sul fatto che siamo stati veramente fortunati a vedere tanti felini. In caso contrario non sarebbe valsa la pena percorrere tanti chilometri, per attraversare un’immensa savana semi-deserta. La bellezza e particolarità del Serengeti sta nella moltitudine di animali (circa 1.700.000 gnu e 250.000 zebre) che popolano il parco e che, nella stagione secca, migrano in Kenya in cerca di acqua, per tornare qui verso dicembre-gennaio. In questo periodo si vedono masse di animali scalpitanti che si spostano da una savana all’altra, offrendo ai visitatori uno spettacolo notevole (a detta di chi l’ha visto). Avendo noi perso la “grande migrazione”, abbiamo compensato il mancato spettacolo con la vista dei felini, che sono animali più stanziali e si spostano solo per pochi chilometri, per avvicinarsi alle pozze d’acqua in cerca delle prede: le gazzelle. Durante il percorso abbiamo fatto una sosta picnic all’uscita del Serengeti e un’altra in un villaggio Masai, dove si deve pagare una quota per la visita (dai 20 ai 10 dollari a testa, usati per acquistare l’acqua potabile). L’esterno è particolare, con una palizzata tonda simile a un fortino apache. Ci hanno accolto due gruppi di uomini e donne, intonando un canto-danza di benvenuto prima di farci entrare. Nel cortile centrale erano disposte, in cerchio, delle strette bancarelle di chincaglieria, sporca e cara. La “visita” delle abitazioni è stata scioccante per me: ho fatto un veloce tentativo di entrare in una capanna di argilla circolare, con un ingresso strettissimo a spirale, buio e pienissimo di mosche. Questi insetti sono attaccati agli occhi dei bambini e (a detta della guida) non sono rimossi per superstizione, per auspicare un buon allevamento di mucche. Gli altri amici sono stati meno schifiltosi di me e non solo sono entrati in un’abitazione, ma si sono seduti anche nel buio, illuminato da una minuscola fessura, aperta sul tetto per far uscire il fumo del camino centrale, per ascoltare la spiegazione. Devo dire che il villaggio Masai non mi ha colpita particolarmente: sicuramente è una realtà vera, anche se approfittano dei turisti per guadagnare qualche dollaro. Tornando sulle strade asfaltate, anche le città, che sono costituite prevalentemente da baracche col tetto in lamiera, marciapiedi sterrati e gente in mezzo la strada, mi sono sembrate terribilmente civili rispetto all’ambiente selvaggio, nel quale siamo stati immersi in questi giorni.
Pernottamento al Wildlife Safari Camp di lago Manyara: La struttura ha uno stile molto africano nell’arredamento della zona reception, del bar e del ristorante, dotato di tetto di paglia e affacciato su una minuscola piscina che guarda il lago. Le camere invece sono vere e proprie stanze tendate, unica tipologia della zona. In realtà siamo rimasti un po’ perplessi, non tanto per la sistemazione spartana, che, in effetti, ha tutti i comfort indispensabili, ma per il fatto di avere una camera con pareti di stoffa, chiuse all’entrata da chiusure lampo verticali e orizzontali. Il bagno invece è interamente in muratura e la doccia decente.
Safari al Lago Manyara: Il parco del lago Manyara è molto più piccolo rispetto agli altri (100 metri quadrati più 200 di lago), ma ha più vegetazione che nasconde gli animali, pur numerosi. All’inizio abbiamo percorso lunghi tratti senza incontrarne nemmeno uno, poi invece riusciamo a fotografare, in zone diverse e a distanza molto ravvicinata, due gruppi numerosi di elefanti: ho un emozionante brivido vedendo gli enormi pachidermi sfiorare la jeep e passarmi accanto. Un altro punto scenografico è stato la zona lacustre, dove parecchi ippopotami erano immersi nell’acqua, con solo le teste e la sommità delle schiene visibili. Dalla parte opposta c’era un grosso bufalo, sprofondato nel lago fino al busto, che mangiava avidamente l’erba galleggiante. Altri incontri di questa mattina sono stati due gruppi di altissime giraffe, parecchie antilopi, impala e numerosi babbuini, sistemati lungo la strada, che non accennavano a spostarsi al nostro arrivo: continuavano a spulciarsi e addirittura alcuni si arrampicavano sul cofano della jeep. Nonostante la lunga e faticosa strada percorsa, sono rimasta molto soddisfatta dei parchi visitati e soprattutto degli animali avvistati. Tre giorni di safari sono perfetti: di più sarebbe stato troppo e anche monotono. E’ stata un’ottima scelta arrivare un giorno prima, per ammortizzare la stanchezza del viaggio, che mi aspettavo meno impegnativo.
Trasferimento e arrivo a Zanzibar
Abbiamo fatto il safari al Lago Manyara di mattina molto presto per poter raggiungere l’aeroporto alle 11.30 e prendere il volo (4202) delle 13.00 per Zanzibar, di circa un’ora e mezzo. L’aeroporto dei voli nazionali di Arusha è veramente ruspante, con una pista minima e con aerei prevalentemente piccoli. Il nostro era da dodici posti circa e talmente basso che, per occupare il sedile, bisogna piegarsi molto, come per entrare in un tunnel. Il paesaggio che si vede dall’aereo è deserto: si alternano zone marroncine e verdi e lasciata la città, non si scorge più nessuna abitazione. Mentre il velivolo si abbassava per atterrare, si iniziavano a intravedere alcuni atolli circondati da reef e acqua azzurra. Stone Town, la capitale di Zanzibar, dall’alto mi è sembrata molto più estesa di come la ricordassi. Siamo arrivati alle 15.00 e dopo aver recuperato le valigie, una bella macchina comoda ci ha fornito un transfer privato. La distanza dall’aeroporto al nostro hotel è di circa un’ora e mezzo. C’era molto traffico e il paesaggio era completamente diverso da quello visto finora.
Zanzibar è quasi tutta musulmana e le donne che camminano per strada sono completamente coperte. Le baracche lungo la via e lo stato dei marciapiedi rivelano molta povertà e sporcizia. Credo che il grande sviluppo turistico dell’isola abbia arricchito soltanto le grandi società straniere, che hanno investito nella costruzione dei nuovi alberghi, senza apportare molti benefici alla popolazione locale, se non quello di creare nuovi posti di lavoro. Nel mio primo viaggio a Zanzibar avevo soggiornato a Kiwengwa, nella zona est dell’isola, dove il fenomeno delle maree è molto evidente: pur essendo spettacolare per la lunghezza dell’arenile, il colore accecante della sabbia e le sfumature verdi del mare, non sempre è possibile fare il bagno in acqua sufficientemente alta. Questa volta quindi ho preferito scegliere un hotel sulla costa nord-ovest, a Nungwi, che ha spiagge più strette rispetto a Kendwa, posta più a sud, ma ugualmente bellissime, con acqua azzurra e trasparente, e dove è possibile nuotare anche con la bassa marea. Fin dal primo impatto l’hotel Royal Zanzibar Beach Resort ci è apparso bellissimo e lussuoso. La tipologia è simile agli alberghi delle località di vacanza (Caraibi, Egitto, Tunisia ecc.) con il ristorante, il bar e le palazzine delle camere sistemati nel verde e collegati da stradine pavimentate. I terrazzi sono merlati, tipo castello, e l’arredamento è in stile sia moresco sia africano, con i tetti ricoperti di paglia e i soffitti con travi di legno. Zanzibar è un crocevia tra la cultura africana, araba e indiana. La cosa più spettacolare però sono le piscine: mai viste tante in un hotel. Quella principale è divisa in vari “scompartimenti”, con zona bar e piattaforma prendisole. Altri grandi canali s’immettono nel bacino centrale da tutti i lati. Ho visto molte piscine, magari più scenografiche, con inserimenti di pietre e cascate, ma queste sono immense. Poco oltre c’è un’altra grande vasca “infinity”, che sembra proseguire nel mare: bellissima. La nostra prenotazione era relativa a una camera “superior”, ma abbiamo beneficiato di un upgrade, soggiornando in una suite “ocean view”, affacciata sulla spiaggia situata dinanzi all’hotel, arredata in stile moderno etnico, con un bagno dotato sia di grande vasca sia di doccia, con due lavabi.
Qui a Zanzibar le spiagge sono pubbliche e gli hotel devono creare zone private più indietreggiate. Dalla nostra finestra abbiamo avuto modo di goderci tutta la vita dei locali (prevalentemente Masai) che, dalla mattina presto fino alla sera, popolano l’arenile camminando, parlando, vendendo mercanzie, organizzando escursioni (i beach boys) o importunando i turisti che passeggiano sulla sabbia. Sul bellissimo mare azzurro inoltre abbiamo ammirato i daw, le tipiche imbarcazioni dei pescatori locali, che buttano e raccolgono le reti: a volte alcuni nuotano verso il largo per recuperare le nasse. Quasi tutte le sere poi, prima di cena, i Masai si riunivano per una partita di calcio, sport veramente universale.
Giornata di mare e relax in spiaggia: In una zona leggermente rialzata rispetto alla spiaggia, l’hotel ha predisposto comodi lettini e ombrelloni su sabbia riportata. I teli mare sono forniti e cambiati a volontà, dopo aver fatto segnare il numero della camera. Bisogna stare attenti, alla riconsegna, che questa sia ben annotata, pena il pagamento di una salata cauzione. Dopo aver scelto una bella postazione in prima fila, abbiamo fatto una passeggiata verso la parte sinistra della spiaggia perché in quei giorni la bassa marea arrivava di mattina e consentiva di andare oltre le alte rocce sulle quali è sistemata la zona prendisole dell’albergo. Nel pomeriggio invece il mare avanzava e rendeva impossibile il passaggio, se non a nuoto: verso la parte destra invece, c’è un mercatino Masai, che si raggiunge imboccando uno stretto corridoio con tante bancarelle affilate: le venditrici sono prevalentemente donne (che in questo popolo svolgono le principali attività lavorative), mentre gli uomini per lo più si attardano sulla spiaggia.
Escursione a Nakupenda e Prison Island: Consiglio vivamente di fare questa escursione. Per arrivare a Stone Town abbiamo impiegato circa un’ora e mezza. Poiché il bus non può arrivare fino alla spiaggia, abbiamo dovuto attraversare a piedi il centro storico di questa cittadina, ora patrimonio dell’Unesco, che ricordavo abbastanza bene, ma che mi è sembrata più interessante. È qui evidenziato il mix di culture arabe, indiane e africane che contraddistinguono Zanzibar. Devo dire che la città, come tutta l’isola, è davvero sporca e malandata: spazzatura dappertutto e case fatiscenti. Capisco che sia caratteristico mantenere un’atmosfera tipica e autentica, ma qualche miglioria non guasterebbe. Ho notato che ci sono hotel in residenze antiche e qualche negozio invitante. Sono passata anche davanti alla casa si Freddie Mercury, che ora è un hotel. Il tempo era nuvoloso, ma quando siamo arrivati alla spiaggia, fortunatamente è uscito il sole. Siamo saliti sui tipici dow in legno: la gita è stata organizzata da una signora italiana che probabilmente abita qui e che ha noleggiato le imbarcazioni con i relativi capitani e alcuni inservienti per allestire i gazebi, sotto i quali sono stati sistemati i tavoli con il cibo. La marea determina la sequenza dell’escursione: ci hanno portato prima a Nakupenda perchè in quel giorno la bassa marea, che fa affiorare l’isoletta, capitava di mattina: nel pomeriggio, con l’alzarsi del mare, la sabbia sarebbe sparita. Il tragitto da Stone Town alla lingua di sabbia è di circa trentacinque minuti e la navigazione è stata tranquilla e rilassante. Mi sono messa una felpa perché io sono un po’ freddolosa e avevo mal di gola, ma non faceva molto freddo. Man mano che ci avvicinavamo a Nakupenda s’iniziavano a vedere i colori e le gradazioni di azzurro dell’acqua. Il posto è bellissimo, proprio come un atollo maldiviano. Io sono abituata a questi scenari, ma ogni volta mi emoziono ugualmente e godo nell’essere circondata dal bianco accecante della sabbia corallina e dal mare trasparente celeste e azzurro. Appena arrivati, ci sono state offerte bibite, frutta e dolcetti fritti. Sistemati gli asciugamani sotto i tendoni, abbiamo fatto una lunghissima passeggiata intorno alla lingua di sabbia, alternando bagni e foto. All’ora di pranzo abbiamo gustato piadine farcite con tonno, alici e formaggio, varie pizzette fritte e grigliata di pesce e carne. Io ricordavo un’escursione simile (fatta nel 2016) con un menù a base di aragoste, ma quelle sono una peculiarità dei beach boys: infatti io l’avevo organizzata con loro. Dopo pranzo, con un’altra mezz’ora di navigazione, abbiamo raggiunto Prison Island, chiamata inizialmente isola di changuu, dal nome di un pesce qui pescato. In seguito l’isola è stata adibita ad alloggio per gli schiavi africani, il cui commercio era gestito da mercanti arabi.
Quando Zanzibar è diventata un protettorato britannico, il governatore Lloyd è arrivato sull’isola e ha costruito l’attuale prigione, mai utilizzata come tale e invece usata in seguito come zona di quarantena. L’arcipelago di Zanzibar comprende anche l’isola di Pemba e Mafia. Il nome Tanzania è l’unione della parola Tanganica e Zanzibar. Dopo la spiegazione della guida siamo andati a vedere le famose tartarughe giganti qui conservate. Provengono dalle Seychelles, ma non è sicuro il modo in cui siano arrivate qui. Vivono oltre 200 anni e ce ne sono di tutte le dimensioni, dalle piccolissime alla più grande. Sono grigie e brutte e hanno la loro età scritta sul carapace: la più vecchia ha 196 anni. Di nuovo mezz’ora di barca per Stone Town e un’ora e mezzo per il nostro villaggio. Siamo stati veramente fortunati con il tempo: durante la permanenza sulla lingua di sabbia è stato splendido, con il sole forte che ha reso tutti i colori brillanti e luminosi. Dopo pranzo invece il cielo si è annuvolato e anche il mare si è un po’ increspato. Se fosse accaduto il contrario sicuramente la nostra escursione si sarebbe rovinata.
Serata in hotel: Un paio di volte la settimana l’hotel sposta la cena dal ristorante alla spiaggia o a bordo piscina. Noi abbiamo partecipato alla prima: dalla pole position della nostra stanza, abbiamo seguito l’allestimento dei tavolini bianchi, con tovaglie azzurre, e del buffet: l’effetto era molto bello con i fari accesi che illuminavano tutta la zona. Ad allietare la serata ha contribuito un complesso di musica africana, con musicisti e cantanti bravi. La donna poi si è esibita anche in balli tipici, mostrando la sua abilità nell’agitare il sedere, in un tipo di danza che assomigliava a quella del ventre, ma col posteriore, o a una specie di tamurè.
Giornata di mare e relax in hotel: Le quattro notti al mare del pacchetto classico (con praticamente tre giornate intere) mi sembravano troppo poche. Avevo quindi aggiunto un giorno in più, con la speranza di godermi meglio i bagni e il sole di Zanzibar. Purtroppo il tempo non mi ha aiutato poiché è stato nuvoloso e anche un po’ piovoso, rovinandomi le aspettative. Ero comunque in vacanza.
Volo di ritorno: Purtroppo anche nell’ultima mattinata a Zanzibar il tempo è rimasto nuvoloso, e non sono riuscita a fare un ultimo bagno. L’aereo che partiva da Zanzibar nel primo pomeriggio (volo ET 814) si è fermato a Kilimangiaro, dove non siamo scesi, ma abbiamo aspettato per un’oretta lo sbarco e l’imbarco dei passeggeri. Ripartiti poi per Addis Abeba, abbiamo cambiato aeromobile (volo ET 732) con direzione Roma, dove siamo arrivati alle 4 di mattina del giorno dopo.