Ritorno a Kastellorizo
Ritorno a Kastellorizo Dall’alto la breve pista sprofonda il suo limite nel mare.
Le rocce sfiorano la pancia del Dornier. Il rullio sui sassi dell’asfalto. La frenata stridente sino all’orlo del blu.
I sobbalzi e la consueta sbandata laterale.
Sono tornata a Kastellorizo.
Cerco di non guardarmi intorno immediatamente in un unico sguardo.
Alzo gli occhi da terra lentamente, con il timore di vedere qualcosa di nuovo, di “migliore”, ma diverso.
Voglio e cerco la “mia “ Kastellorizo.
La collina brulla è sempre eguale. I pochi sterpi incendiati dal sole non sono cresciuti piu’ di 20 cm. Le pietraie sono sempre lì intorno al piccolo fabbricato dell’aeroporto.
La corriera è ancora lì. Abbandonata con le lamiere blu incandescenti al sole.
Mi siedo al solito posto dietro a Julio. Il tachimetro non c’è, lo specchietto è sempre rotto, il buco della radio un loculo vuoto. E’ proprio la stessa corriera di sempre.
Che mi riporta giù per le curve a rotta di collo tra i sassi, consapevole di non avere rivali a cui contendere la strada.
Le colonne di militari salgono con le armi da guerra in spalla ed infondono lo stesso senso di inquietudine.
All’ultima curva delle nuove costruzioni: cosa sono? Case? Alberghi? Non lo voglio sapere. Non le ho viste.
Sul piccolo piazzale di manovra Julio solleva la polvere impalpabile sui rami pesanti di boungaville rosse, bianche ed arancione.
Ed ecco la baia. La sua facciata color pastello che nasconde le rovine retrostanti.
La facciata bella da mostrare a colui che arriva dal mare e non la coglie alle spalle. Il vestito della festa da sfoggiare all’arrivo degli yachts.
Kastellorizo nasconde le sue pene. Come un’anima forte e pudica mostra solamente il suo sorriso ed inghiotte le lacrime.
La sagoma rossa della caserma con le finestre orlate di bianco si intravede sul lato della baia e più in là la pensione Mediterraneo con le finestre aperte sul blu sullo sfondo delle alte montagne turche, incombenti e quasi minacciose.
Cammino sul molo. I bambini del paese si tuffano giocando nell’acqua bassa dal fondale scolpito dai ricci. Giocano in quel blu che poco lontano si tinge di un nero profondo.
Le reti abbandonate al sole nascondono l’insidia degli ami lucenti.
Alla francese chiedo la stanza di un tempo. E’ troppo grande per me, ma improvvisamente diventa piccola per contenere tutti i ricordi. Perché l’ho voluta? Siedo, come un tempo, sul davanzale a picco sul mare, dietro le imposte accostate e dipinte di blu.
Blu sopra, blu sotto oltre il breve molo.
Mi sembra di sentire di nuovo una voce, le parole apprensive per quel mio modo di stare abbarbicata lassù.
Come un tempo faccio finta di non sentire. E’ troppo bello stare qui, seduta in quello che è il mio posto.
Intravedo, in quel blu sottostante, tra le macchie dei ricci e nel riflesso del vetro, un’immagine perduta e ritrovata. L’immagine di un’altra me stessa.
Risento sulla pelle la freschezza tiepida dell’acqua in un tramonto che si avviava alla sera. L’energia vitale e dirompente che si prova solo nell’infanzia.
Nella stanza c’è ancora la zanzariera che le dona un’atmosfera tropicale un po’ fittizia. E rivedo un viso in posa per una foto. Una faccia che non ha tempo, né età, il viso di chi ha trovato di sé stesso la parte perduta lungo una strada scoscesa.
Il mio tempo si è fermato qui. Qui ho riannodato il filo della mia vita. Qui come un naufrago deve fare una scelta e salvare le cose più importanti e necessarie, ho scelto tra le cose semplici la vita vera.
Qui nel continuo canto dei galli il mondo comincia e termina nel breve cerchio della baia.
Ripercorro il sentiero per il monastero di S. Stefano, la sosta sotto l’unica ombra degli ulivi alla sommità della collina. Le pietre rotolanti sotto i nostri passi sul ciglio del mare. Unico indizio della via giusta un cavo elettrico a tratti perduto tra i rovi e che termina proprio al monastero.
E l’ammasso di membra umane dormienti all’interno dello stesso. Militari che hanno fatto il turno di guardia alle coste turche. Presenza inquietante in quella solitudine dell’ultimo lembo d’Europa che si protende sul mare.
Ed ad ogni passo il presente diventa già un ricordo. Ad ogni scoperta, ad ogni squarcio che si apre dinanzi, sai già che quell’immagine sarà un ricordo. L’attimo presente è già conscio di essere un ricordo.
Torno a Platania. Da Angelina, Maria e Caterina che inaspettatamente, già al primo ritorno, ti riconoscono e si quasi commuovono nel rivederti.
Angelina, anziana, piccola e curva con un ulivo sferzato dal meltemi, ma con gli occhi ridenti e dolci.
Caterina, grassa e rubiconda che sfaccenda attorno alle pentole in cucina e ti serve in tavola con le braccia irsute.
Mangio nella breve cerchia d’ombra dei platani le solite polpette di ceci, mentre tutto introno il sole infiamma il selciato e la polvere si alza al passaggio delle jeep militari.
E mi faccio prendere dallo stesso languore che riconosco nelle facce dei greci quando il sole di mezzodì ti cala in un’apatia che lascia scorrere i pensieri, che non mi consente di riprendere la strada forse perché non c’è posto migliore dove andare e mi pervade tutta la dolcezza del vivere.
Alla sera, sotto il pergolato, allo stesso tavolo di taverna, ascolto i racconti, i pettegolezzi su ogni turista arrivato al mattino completi di dati anagrafici, stato civile ed economico, mentre continua incessante il sommesso turbinio delle rondini che entrano ed escono dal locale a visitare il loro nido sopra le saliere.
I gatti attendono in disparte l’arrivo di qualche boccone, famelici, abbruttiti e feriti nella loro individuale lotta. Una gatta ha nascosto i suoi piccoli dietro l’inferriata di una finestra di una delle tante case in rovina. Devono crescere prima di gettarsi un quella mischia crudele.
All’improvviso la sera sonnolenta si ridesta. Una sirena lancia più volte il suo urlo.
Ed è tutta una frenesia, un correre attorno, sistemare tavoli e sedie, entrare ed uscire dalla cucina. I personaggi quasi inanimati finora prendono vita come se un regista sul set avesse lanciato un ciak si gira! Ed appare oltre il promontorio, si affaccia sulla baia il traghetto che quasi la riempie tutta.
Tutto il paese si anima, fervono i preparativi per il carico e lo scarico delle merci. Si accatastano sul molo mercanzie di ogni genere. Scendono i turisti in sosta ed affollano le taverne. Tante lingue si intrecciano tra i tavoli. Il silenzio non sta più qui.
Ma sul tardi si riparte. I turisti lasciano le taverne di questo luogo solo intravisto nell’oscurità, si imbarcano.
Non hanno visto nulla.
Forse non torneranno.