Marrakech, Essaouira e l’elisir del sole

Un viaggio per trovare il calore dell'estate e la magia della Medina
Scritto da: Mr But
marrakech, essaouira e l'elisir del sole
Viaggiatori: 14
Spesa: 500 €
Refoli traslucidi favoriti dai prezzi stracciati di Easy Jet. 86 euro per volare dalla fredda e uggiosa Milano a Marrakech e trovare là il respiro della primavera e il calore dell’estate. E, a Essaouira, l’epifania dell’oceano e la magia della Medina.

Giovedì 31 gennaio

Marrakech sorge alla convergenza degli opposti e si è manifestata per quello che è fin dal primo ammiccamento dall’oblò: un riflesso traslucido capace di sublimarsi in qualsiasi forma.

Memoria imperiale per turisti e ambizione per il business, il suk magmatico e ancestrale e l’aspirazione alla modernità nei sobborghi occidentaleggianti, il sole come segno zodiacale e le montagne come ascendente, interamente protesa verso il deserto eppure figlia illegittima di un mare troppo lontano.

E’ stato un risveglio forzato dalla suoneria del Samsung alle 3 di mattina e l’adunata alla spicciolata mezz’ora più tardi nell’androne del condominio di via Sannio, al civico 24. Due… cinque… undici… tredici… chi manca? Si parte in quattordici, la quindicesima è annichilita da un virus intestinale, e si sfida l’oltraggio della nebbie e del freddo caino, l’ultimo giorno di gennaio, mesto vagito prelucano qui a Milano, il prologo sonnacchioso della festa patronale a Modena, il mio capoluogo.

Arrivati già stanchi al parcheggio, ci caricano sulla navetta alla stregua dei bagagli fino al Terminal 2 di Malpensa; subito al bar, cappuccini troppo caldi, brioche sintetiche e sigarette.

Tre ore di volo con Easy Jet e l’atterraggio fendendo il cielo così terso da commuoverci, transfughi dalla cupa monocromia di quei giorni.

Sulla scaletta il trench hippy col risvoltone di pelo è accomodato sul braccio e al nastro trasportatore il maglione è a tracolla e la maglietta fuori dalla cintura. 26 gradi.

Il taxista ci informa che Berlusconi possiede due lussuosi Riad nella Medina. Il nostro forse lo è meno ma il cavedio stile frigidarium, con la piscina e le volute moresche, ci fa sentire meno stanchi. Dopo le tribolate pratiche di check in (altro segno ricorrente di Marrakech, oltre al tepore estivo: i conti non tornano mai. Che tornano sempre sono i ‘qui pro quo’) si materializzano teiere di tè alla menta e biscotti marocchini, un tripudio di miele, pasta di mandorle e semi di sesamo.

Accovacciati nella nicchia scavata di fronte alla piscinetta, attendiamo il via libera per depositare le nostre cose nelle camere e trascinare noi stessi in quella ressa che si può trovare in pochi posti al mondo. Uno di questi è il Marocco.

Un factotum del riad ci conduce fino alla piazza Jami el Fna, il baricentro della città. Essendo una comitiva di condomini, amici, gourmet, le strategie di adattamento prevedono immediatamente la liturgia conviviale.

E ci troviamo così alla Terrasse des épices, immersa nella Medina, che impariamo essere uno dei pezzi da novanta della Marrakech più fashion. Già la parola terrasse sa di buono, semi-esposti al sole che si fa sentire senza aggredirci, e sullo sfondo l’Atlante con le cime innevate.

I tajine di pollo al limone, le insalate e i piattini di olive, il mio yogurt nella coppa che sembra un’insalatiera, tutte le portate passano in secondo piano, travolti da quell’insolito tepore. Il pomeriggio prendiamo confidenza con il posto, ci attrezziamo a resistere a postulanti e venditori, ci scappa qualche tatuaggio all’henné sui dorsi delle mani e sugli avambracci femminili.

Alla sera è la receptionist ad accompagnarci, e ci fa accomodare sulle panchine di un tendone attrezzato con griglie e fuochi, ancora a Jami el Fna. Prendiamo atto che l’acqua è un bene prezioso quando assistiamo al lavacro dei bicchieri con la stessa acqua usata per i tegami, una interpretazione naif della teoria dei vasi comunicanti.

Dieci euro circa a testa non sembrano un prezzaccio strepitoso, a quelle latitudini e in quelle condizioni igieniche, per così dire ‘casual’, ma ci adeguiamo, la receptionist sembra imprecare con i gestori, ma se col mio francese in male arnese ancora riesco a difendermi, con l’arabo e il berbero non è che me la passi troppo bene.

Appena ci alziamo dalle panche – quella su cui sono seduto io è appoggiata a un tendone dove fanno una gran caciara e ei commensali invisibili sgomitano come fossero Materazzi – alcuni ragazzini si materializzano per spazzolare quanto di commestibile rimasto sulle tavole. Razziate come trofei le lattine di coca e di fanta.

Venerdì 1° febbraio

Oggi la missione è la gita condominale. Non bastasse trovarci oltre l’altra sponda del Mediterraneo, abbiamo concordato il trasferimento col minibus del riad, tra i sistematici shock dei prezzi pattuiti, più volatili di un titolo in borsa.

E ha veramente il sapore di una gita quando saliamo sul pulmino, noi e l’autista, che non proferiva parola, proprio come durante le gite al Liceo, e il fatto che in questo caso il mutismo sia dovuto a un handicap linguistico non fa differenza. E la gita dura quasi tre ore, con un paio di soste, la prima in una località polverosa spalmata sulla strada, la seconda per iniziativa – supponiamo prezzolata – dell’autista, davanti al miracoloso albero di capre, dove i quadrupedi sembrano intagliati sui rami e dove consegniamo l’obolo ai pastori.

Essaouira si adagia sulla baia con la spiaggia così larga che si direbbe Gatteo Mare e gli insediamenti più recenti a ridosso della litoranea che assomigliano tanto a Lido degli Estensi, ma è tutto troppo armonico per pensare alla Riviera.

Ci dirigiamo però subito alla Medina, patrimonio Unesco. Mura abrase dalla salsedine e un’umanità meno esuberante di Marrakech: passeggiare è un piacere e si intuiscono volti di occidentali, francesi e italiani in particolare, affumicati da una permanenza che non può essere una semplice parentesi turistica.

Perdersi nella Kasba è tanto facile come ritrovarsi. Entro in una panetteria e prendo una focaccia a dieci centesimi; all’uscita incrocio un gruppo di sodali. Dopo aver costeggiato le mura capitiamo in una piazzetta che ricorda vagamente Place des Vosges dove io sono l’unico a saltare il pasto ma a quanto pare perdo poco, perché la cibaria più quotata è un cous cous di aringhe o qualcosa del genere.

Lasciata alla digestione quella parte della comitiva ne accalappio subito un’altra. Siamo nella Mellah, il quartiere ebraico: a proposito di ebrei e non solo, quanto sia piacevole il respiro di una città lo si capisce da quella prospettiva che i respiri non li contempla proprio: i cimiteri. Ed Essaouira può vantare cimiteri arabi, cristiani ed ebrei, dove i figli degli esuli tornano sulle orme consumate dei padri.

Si respira un’aria di pace, all’interno delle mura, attraversando le porte e tra le mura bianche, anche il bazar assomiglia più a un centro commerciale del Tavoliere che al suk di Marrakech.

Sono tentato di fare l’acquisto e prendermi una specie di tabarro col cappuccio, per 55 euro, ma il tempo latita e l’oceano è troppo vicino col suo richiamo, il porto e il castello portoghese di quando quel posto si chiamava Mogador.

A piedi nudi nell’acqua penso che forse anche a me, da pensionato, piacerebbe mettere le tende qua e capisco perché prima di me l’abbiano pensato Jimi Hendrix, Franck Zappa e tanti altri. Questa luce è quello che mi manca, e questo vento, che spazza l’arenile e le piume dei gabbiani. Provo a immaginare Milano o Mirandola con quella luce e quel vento, ma non mi riesce proprio.

Viaggio di ritorno con pennichella e la sera si cena per la disperazione nell’unica locanda con cucina aperta alle 23. Spendiamo la metà della sera prima: i 5 euro mi sono valsi un’insalata abbondante e un cous cous vegetale.

Sabato 2 febbraio

Dopo essere stati richiamati dal personale di servizio per l’assalto alla diligenza della mattina precedente, per la colazione del sabato disciplinatamente centelliniamo quanto offre il delizioso tavolo imbandito: una frittella, una focaccia da farcire con le marmellate di arance e di fichi, una porzione di gateau al cioccolato, una brioche.

La giornata viene scandita a tappe forzate. L’agenda prevede visite intensive: così esige l’anima femminile del gruppo.

Si comincia con la madrassa Ben Youssef, la scuola coranica che ha illuminato il percorso di migliaia di giovani marocchini. Nel dedalo di celle su due piani becco la coppia più giovane della comitiva Sannio 18/24 nelle vesti di Romeo e Giulietta, in contemplazione adorante uno di fronte all’altro nella semioscurità di due archi contrapposti. Torno sui miei passi e, tutto sommato, la vasca e le pareti mi ricordano il riad.

Al museo, il Dar Si Said, siamo già provati, e liquidiamo l’arte locale, pur meritevole di ben altra platea, con i suoi tre livelli, gli intarsi e le geometrie dei mosaici, per abbandonarci allo svacco nel patio, baciati dal sole. Il set fotografico di gruppo scatta sotto un padiglione di legno.

Infine, il Palais de Bahia, residenza del sultano, e la fantasia si alimenta dello sfarzo e dell’harem che quegli ambienti evocano di default. Il lusso non è ancora evaporato, il gineceo sì, ma ne vale la pena, per i suoi giardini, gli stucchi e i soffitti di cedro. Anche qui riverbera la suggestione dello scampanellio ai piedi delle odalische, ma di sole suggestioni non si campa e delle odalische nemmeno l’ombra.

Dopo aver respinto le solite raffiche di avances di venditori e ristoratori, guadagniamo l’ombra e gustiamo il miglior tajine della vacanza. Poi l’ultimo trip culturale alla tombe dei Saaditi, prima del rompete le righe. Mi aggiro per la prima volta in solitaria nel bazar, e nel labirinto devo controllare la mappa di nascosto per evitare le soffocanti effusioni dei postulanti. L’ultimo in ordine di tempo mi accompagna fino all’ingresso del riad rivendicando qualche centinaio di dirham per il servizio di hosting.

Alle 18 ho l’appuntamento per il ‘lavaggio’ nel riad gemello del nostro, stessa proprietà ma la mano dell’architetto non può essere sempre quella. Saranno infatti gemelli ma questo è monumentale, con un patio che ricorda Abu Simbel. L’hammam spurga i peccati e lo scrub (o gommage) abrade le tossine della pelle.

Ed è tra il livido e il rilassato che mi aggrego alla comitiva nella città nuova, trafficata eppure dalle strade ordinate e pulite, nel ristorante libanese dove le amiche più audaci si abbandonano al karaoke e alle esortazioni alla danza delle pingui bajadere.

Il giorno dopo, impietosa, Easy jet ci attende di buon’ora. Peccato, Marrakech ed Essaouira valgono bene una levataccia. E l’ambiguità di quel riflesso così enigmatico.

Memento! (pillole di viaggio)

Fingersi greci oppure infilare gli auricolari del cellulare sono ottimi antidoti contro i postulanti troppo invadenti; Terrasse des èpices e Rock the Kasbah per la vista panoramica; l’immancabile té alla menta dalla terrazza che sovrasta piazza Jami El Fna; evitare di banchettare tra le bancarelle di Jami El Fna; contrattare: imparate a coniugare questo verbo; controllare la mappa all’interno della Kasba può innescare frotte di molestatori. Come antidoto indossate il caffettano locale con cappuccio; l’artigianato di pregio; il tajine di pollo e verdure; la Medina e il tramonto sulla spiaggia di Essaouira; stampate le mail con tutti i prezzi concordati; gli alberi di argan agghindati di capre; il gommage la madrassa Ben Youssef.

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