Tra le montagne color ocra del Marocco c’è un festival che unisce culture e popoli all’insegna di dialogo e tradizione millenaria

Un racconto che supera i tradizionali confini del turismo nel continente nero: il nostro TPC mronz ci porta alla scoperta di un evento tradizionale del Marocco, il Festival International des Nomades, dove cultura berbera e contaminazioni si incontrano all’insegna del dialogo
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Diario di viaggio in Marocco
I monti dell’Atlante marocchino sono ormai alle nostre spalle. Ci stiamo spingendo a sud-est, verso il deserto. La Valle del Draa, il più lungo e importante fiume del Marocco, ci accompagna verso il confine algerino, così vicino ma così inviolabile, retaggio dei forti contrasti tra Algeria e Marocco risalenti agli anni settanta del secolo scorso a seguito della contesa dei territori del Sahara Occidentale, ora provincia interna marocchina del profondo sud che si spinge fino alla Mauritania. La valle, chiamata anche la Valle delle Mille Kasbah, ospita numerosi villaggi fortificati edificati con il Pisé, misto di argilla e paglia con cui vengono ancora costruite le case. Tra il 1600 ed il 1700 qui avvennero numerose battaglie tra le varie tribù nomadi del deserto e le alte mura di tali città-fortezze circondate da palmeti servivano a proteggersi dal clima e a difendersi.
Zagora è l’ultimo vero centro abitato organizzato prima di affrontare la discesa verso il Mare di Sabbia. I suoi abitanti appartengono alle tribù berbere dell’Atlante. Essendo stata tappa delle edizioni africane della Parigi-Dakar, la cittadina è piena piccole officine meccaniche pronte e preparate ad aggiustare qualunque tipo di moto e 4×4 e di agenzie di tour nel deserto. Uscendo dalla città, un pannello decorato porta la scritta Timbouctou 52 giorni, riferendosi a quanto in passato fosse necessario per raggiungere a dorso di cammello la famosa città del nord del Mali, importante centro arabo commerciale e culturale considerato, per le sue favolose ricchezze e per la sua inaccessibilità, un luogo più mitico che reale fino alla sua scoperta all’inizio del XIX secolo.
Zagora e l’Hammada
Oltre Zagora la strada corre nell’Hammada, un ambiente pietroso arido le cui uniche forme di vita sono arbusti, sterpaglie ed acacie. Nel comune immaginario il deserto è l’Erg, caratterizzato da sabbia e dune mobili, ma contrariamente a quanto si possa pensare, l’hammada è la forma più diffusa del Sahara e la sua superficie sassosa che assorbe velocemente l’acqua piovana è il luogo più ostile alla vita umana. Circa novanta chilometri separano Zagora dal villaggio di M’Hamid El Ghizlane, la vera e propria porta del Sahara, dove l’asfalto finirà perdendosi lentamente nella sabbia. Incredibilmente scrosci di pioggia si alternano e si mischiano a fitte nubi di polvere ocra sollevate da un forte vento. M’Hamid El Ghizlane significa La pianura delle Gazzelle, antiche abitatrici dell’area. In passato era un luogo di serenità e di rifugio per i nomadi contro le calamità naturali come le tempeste di sabbia. Il confine algerino è a soli quaranta chilometri ma essendo chiuso da tempo non ha permesso al villaggio di continuare ad essere una tappa per le carovane trans-sahariane e ha limitato fortemente la mobilità delle popolazioni nomadi. M’Hamid oggi è un agglomerato di semplici case di terra miste a negozietti e localini. Qualche albergo è sorto negli ultimi decenni per ospitare un turismo saltuario molto legato al deserto. Una nuova moschea svetta vicino al ponte che scavalca il letto asciutto del fiume Draa che attende solo di accogliere le acque fangose provenienti dalle vette dell’Alto Atlante e trasportarle fino all’Oceano Atlantico dopo un viaggio di oltre mille chilometri.
Festival International des Nomades
Il vento continua a soffiare impetuoso, muovendo le dune e cambiando la superficie del territorio. Polvere e sabbia si attaccano in gola e fanno lacrimare gli occhi, ma niente potrà offuscare il fascino di un luogo che sembra fermo nel tempo. La gente è semplice e cordiale. I pochi commercianti offrono da articoli dozzinali a splendidi manufatti, anche se sono un po’ troppo tarati sui prezzi europei. Ci troviamo in questo sperduto angolo di mondo per vivere parte del Festival International des Nomades, giunto alla sua ventesima edizione, dedicato alla musica ed al patrimonio culturale nomade. Qui, dove per noi europei finisce il mondo visitabile ed inizia il Regno della Sabbia, i popoli Berberi, Tuareg e Sahrawi si riuniscono con le loro usanze millenarie per dar vita a musica, danza, attività ed incontri, con corse di dromedari e cavalli.
La musica tradizionale si mescola a ritmi tribali e rockeggianti suonati con strumenti popolari o moderni da bravissimi esecutori nei tipici costumi. Il livello è molto alto sia che si tratti di nomi famosi, sia di gruppi emergenti. E mentre la musica riecheggia tra le palme e gli edifici, è bello assaggiare il Mella, il pane ancora caldo cotto sotto la sabbia. Oggi il Festival sta lentamente perdendo il valore che aveva originariamente. Noureddine Bougrab, il fondatore dell’Association Nomades, lo aveva ideato come un momento di riunione e confronto dove si potessero fondere tradizioni e musiche di tutte le popolazioni nomadi. Ora è un evento più turistico che etnico-folkloristico che attira visitatori e curiosi, da giovani nostalgici anacronistici nei loro vestiti da hippies degli anni sessanta, a camperisti, motociclisti o semplici viaggiatori. Ma anche così è il modo per cercare di conoscere e capire un po’ la vita nomade, prima che purtroppo scompaia per sempre fagocitata da un mondo e da tempi che non le sono più adeguati.
Ma chi sono questi popoli erranti? I nomadi del Sahara sono composti da varie etnie con lingue frutto di un antico mix di egizio, arabo ed ebraico assolutamente incomprensibili a tutto il mondo arabo. I Berberi dell’area dell’Africa nord-occidentale detta Maghreb, rappresentano il 40% della popolazione marocchina. Il loro nome deriva dal termine greco-romano barbaro che identificava chi non parlava il latino o il greco. Sono anche conosciuti come Tamazigh, che significa Uomini Liberi. La lingua berbera o tifinagh, divisa in molti dialetti ancora in uso, è parlata in quasi tutta l’Africa settentrionale. I Berberi possiedono una scrittura ancestrale composta da caratteri stranissimi, riconosciuta come lingua ufficiale nel 2011 insieme all’arabo, tant’è che oggi spesso i segnali e i cartelloni lungo le strade riportano la stessa informazione nei due idiomi. I Tuareg, un sottogruppo berbero, sono i più riconoscibili. Chiamati Uomini Blu dal colore indaco delle loro vesti che spesso finisce per tingere in modo permanente la pelle, indossano sempre il copricapo tradizionale, detto Tagelmust, una fascia di cotone lunga di solito tra i 3 e i 5 metri ma che può arrivare anche a 12 metri, avvolta sul capo e sul viso in modo da formare al contempo un turbante ed un velo che copre il volto lasciando libera solo una fessura per gli occhi. Il modo di avvolgerla e piegarla è diverso a seconda del clan o della regione di origine e la tinta più o meno scura dimostra la ricchezza di chi la indossa.
Contrariamente a tante società islamiche in cui è alle donne che spetta il velo sul volto, qui sono gli uomini a tenerlo coperto mentre le donne sono solite tenere il viso scoperto. Gli uomini indossano sempre la tagelmust in presenza di estranei e possono toglierla solo quando sono con i famigliari stretti. Presso i Tuareg viene considerato vergognoso mostrare la bocca e il naso, che devono sempre restare coperti. Anche durante i pasti, in presenza di estranei, la tagelmust non viene levata e chi l’indossa introduce il cibo in bocca passandolo sotto il lembo inferiore. Il popolo Sahrawi, cioè sahariano, è costituito da gruppi arabo-berberi residenti nel sud del Marocco, area conosciuta come Sahara Occidentale. Parlano l’Hassāniyya, un dialetto misto di arabo, berbero e wolof, la lingua dell’Africa centrale.
Il Festival richiama anche semplici commercianti ambulanti che approfittano della presenza di tanti visitatori per imbastire piccoli mercati dove vendere tessuti, abiti e calzature usati, pentolame, bigiotteria e dove si gustano ottime brochettes, gustosi spiedini per lo più di pollo, e si bevono fumante tè alla menta o dolci spremute di arancia. Certo non bastano due giorni a M’Hamid el Ghizlane per pensare di aver conosciuto questo mondo e queste genti. Anche se è la semplice curiosità ad averci portati qui, in qualche modo stiamo dando loro la possibilità di continuare ad essere ciò che erano e conservare e tramandare quelle tradizioni che sono un patrimonio dell’umanità.