Marocco a cinque sensi

Di medina in medina, di riad in riad...
Scritto da: Miche 1
marocco a cinque sensi
Partenza il: 10/08/2009
Ritorno il: 22/08/2009
Viaggiatori: in coppia
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In auto dall’aeroporto di Rabat-El Jadida-Oulidia-Safi-Essauira-Marrakech. Di qui in treno fino a Fez e di lì poi a Meknes. Poi in taxi fino all’aeroporto di Rabat. Abbiamo alloggiato in Riad molto belli, gestiti sia da europei trapiantati in Marocco, che da Marocchini. Tutti gli alloggi sono stati prenotati su internet, contattando direttamente la struttura ricettiva trovata sulla LP, oppure attraversi il sito internet booking.com, che per noi si è sempre rivelato assolutamente affidabile e conveniente. Si può spendere anche meno di quanto abbiamo speso noi, ma vale la pena vivere la vita del Riad, conoscere la sua struttura, stare dentro le Medina. Abbiamo tenuto tutti gli indirizzi e siamo felici di consigliarli a chi ne avesse bisogno. Unico appunto, se dovessimo tornare a visitare questo bel Paese, di certo non lo faremo più ad Agosto: troppo caldo! Ed ora la parola a Roberto, che ripercorrerà passo passo le tappe del nostro viaggio!

EL-JADIDA

Il primo approccio con una citta’ marocchina e la sua medina. Curiosita’ ma anche un po’ di apprensione per queste misteriose ed arcaiche forme di urbanizzazione. Il pensiero va d’istinto inizialmente oltre le immagini viste precedentemente e cerca di capire quanto facile puo’ essere la scoperta e l’attraversamento della medina, con i suoi vicoli stretti e la vita apparentemente sonnacchiosa di coloro che seduti ai bordi dei vicoli ti osservano passare. Chissa’ se sara’ una sorta di “Bari vecchia”, con i suoi problemi. A poco a poco la citta’ si scopre: l’originaria struttura portoghese dei bastioni, delle fortificazioni, del porto si distingue nettamente. Un po’ tutto sa di trascurato, forse pero’ e’ semplicemente tutto molto usato. La citta’ si rivela tranquilla e per nulla invadente. Si lascia scoprire concedendo al viaggiatore un passo tranquillo, lineare e libero. L’occhio si posa gratificato sulla bella struttura del vecchio porto e della citta fortificata eretta dai portoghesi. Un avamposto stabilito da coraggiosi pionieri di altri tempi, approdati con tenacia su terre evidentemente non ospitali e non facili. Attraverso un suggestivo portone che da’ sulla darsena si vede ancora la breve strada che dalla quale i portoghesi fuggirono in fretta e furia, abbandonando la citta’ da loro fondata. Ugualmente affascinante e’ osservare il mare, o meglio l’oceano: essere di nuovo di fronte allo sconfinato Atlantico e di fronte a noi avere migliaia e migliaia di chilometri d’acqua che termina, piu’ o meno sulle coste della Florida. Il sole tramonta a poco a poco e l’imbrunire che accende le luci della citta’ ci porta fuori dalla medina e la consunta e trafficata citta’ nuova ci regala il primo approccio con la vita marocchina, lenta ma intensa, incessante, densa e trascurata al tempo stesso. L’eleganza ed il senso estetico non e’ di casa in Marocco, almeno agli occhi di un italiano. La cura del dettaglio non c’e’. Il portamento nemmeno. La gente cammina quasi barcollando e coloro che portano abiti europei dimostrano un senso della misura e dello stile un po’ approssimativi. Lo scorrazzare delle auto e degli altri mezzi di locomozione risponde sostanzialmente alle medesime regole e misure. E’ la versione marocchina delle cose. A casa loro e’ bella cosi’. Bella come la cena della sera, che ci ha dato una prima impronta al cibo marocchino.

Il viaggio prosegue subito, solo il tempo di dormire una notte nel primo riad, La Villa, confortevole e molto privato. Ma chi glielo ha fatto fare a Daniel di trasferirsi dalla Francia per vivere al El-Jadida? L’auto e’ stata sorvegliata per tutta la notte da uno strano soggetto che il giorno prima al nostro arrivo ci ha chiesto dei soldi per tenerla d’occhio. Abbiamo detto di si’ e che glieli avremo dati l’indomani. Alla partenza, alle otto e mezzo di mattina, mi presento alla macchina con l’obolo in tasca. La vedetta pero’ non c’e’ o forse giace sotto un ammasso scuro di coperte lungo il marciapiede, poco distante. Meglio non svegliarlo. Vediamo se si sveglia col rumore del motore che si accende … No. Grazie comunque per il vigile servizio… Allora partiamo diretti verso sud, sempre lungo la costa atlantica.

OULIDIA

L’auto scorre sulla strada, poco trafficata, verso sud. Meglio usare prudenza e non esagerare con la velocita’, anche se ci aspetta un lungo percorso, perche’ il mezzo messoci a disposizione ha qualche lacuna ed era sicuramente piu’ in forma all’inizio della sua breve vita. La luce e’ intensa. Nel mezzo della mattinata arriviamo finalmente alla nostra prima destinazione, tanto decantata dalle letture fatte: Oulidia. La vista e’ subito magnifica: una mezza luna di mare che forma una laguna incantevole in cui predominano i colori azzurro dell’acqua e giallo oro della spiaggia. E un po’ di biancore dato dagli insiediamenti abitativi. Scendiamo giu’ verso il mare. Un parcheggiatore indipendente ci invita a versargli l’obolo in anticipo. La spiaggia e’ bellissima. Peccato non potersi permettere un bagno in quel mare paradisiaco ed ancora poco frequentato. Alcune barche offrono ai villeggianti la possibilita’ di fare un giretto o offrono servizio di accompagnamento per sub. Nulla c’e’ del fragore e dell’affollamento delle spiagge adriatiche. Ma l’occhio che si posa sulla collina che tutt’attorno a centottantagradi quasi circonda la conca capisce che qui c’e’ un grande fervore, che una perla turistica sta crescendo e tra qualche anno molto sara’ cambiato.

Ci dispiace molto, ma il viaggio deve proseguire.

La strada prosegue per un po’ nell’entroterra, attraversando paesini che sembrano soprattutto ammassi di abitazioni, di qualita’ e condizioni assolutamente improponibili per un europeo, affacciate lungo la polverosa strada che le attraversa. L’occhio del viaggiatore percorre tutt’attorno la scena che si presenta: nella luce intesa e calda con cui il sole sorveglia questi luoghi la gente si muove abbondante e lenta in spazi limitati ma intensamente densi di confusioni: ovunque piccoli spazi bui, disordinati e senza molti dubbi molto sporchi si affacciano sullo spazio vitale della strada proponendo animali macellati ed appesi, cesti e altri oggetti in rafia, pasti di strada cotti su fumanti griglie, venditori di stuoie e tappeti polverosi, botteghini, drogherie, meccanici unti e neri fino al viso, venditori di zucche e fichi d’India, qualche sedia di plastica lurida ha alle spalle una finestra e l’immagine diroccata del logo della Coca Cola. E poi, tanti, tanti uomini distesi all’ombra, appoggiati ai muri, ovunque. Parlano tra loro. Chissa’ quanto durano quelle conversazioni e di che cosa si parla. Parlare forse serve a far dimenticare la calura e sicuramente a far passare le giornate. Del lavoro non sembrano curarsi molto; spesso sono i ragazzetti ad essere cuochi, commercianti o meccanici. E probabilmente, tra qualche decina d’anni anche loro, di diritto, potranno partecipare ai sonnecchianti riposi lungo la strada. Qui i turisti passano. Non c’e’ nulla per loro. Abbassiamo il finestrino per una foto documentativa: oltre all’immagine, ci portiamo via un odore intenso e acre di tutto cio’ che abbiamo visto. Tanti e tanti carretti trainati da asini, sia in versione con autista a bordo che accompagnati a piedi dal conduttore, attraversano l’abitato. Tanti sono anche quelli che si incrociano fuori del paese, prima e dopo. Un’autostrada di carretti e asini. Molte volte si tratta di nuclei familiari che si stanno spostando in paese, probabilmente per fare acquisti: lui sta seduto sull’asino, mentre lei segue a piedi, molto spesso poco dietro. La scena di questa urbanita’ e di questa vita si ripete ad intervalli regolari all’approssimarsi di ogni paesino, piu’ o meno ogni trentina di chilometri. Notiamo che costruzioni che ci sembrano stalle per le pecore e capre, immerse nel giallore del desolato paesaggio, spesso letteralmente diroccate espongono all’aria dei tappeti. Ammassi di pietre roventi con un’antenna parabolica.

Dopo tratti in cui la strada costeggia la costa atlantica regalandoci bellissimi scorci, raggiungiamo la citta’ di Safi, nota per le sue ceramiche. Il discreto anticipo sulla prevista tabella di marcia ci consente di optare per una visita alla citta’. A noi viaggiatori ormai consapevoli di cosa e’ una medina marocchina, il centro storico di Safi ci dice abbastanza poco e ci attrae molto di piu’ l’idea di riuscire a trovare qualche ben pezzo di ceramica. Manchiamo la strada per le fornaci e quindi optiamo per I’ll mercato artigianale, che ben presto si rivela una passeggiata tra cocci di poco pregio, molto meno della fama di cuo godono e spesso totalmente turistici e di gusto alquanto scarso. Probabilmente quelli veri e meritori andavano cercati altrove.

Riprendiamo posto sulla nostra piccola e rovente auto. Ci aspetta l’ultimo tratto che ci portera’ finalmente ad Essaouria.

ESSAOURIA

Scendiamo lungo la strada che dall’altipiano che da’ raggiunge dolcemente la costa. Poco oltre l’ingresso nella cittadina, che ancora non riusciamo a scorgere nella sua sagoma bianca circondata da gabbiani e descritta da molte immagini. Lungo il viale d’ingresso una sequenza di giovani e vecchi, che con improbabile affidabilita’ scuotono dei mazzetti di chiavi per richiamare l’attenzione dei turisti bisognosi di alloggio. Arriviamo al nostro hotel, ubicato ad una distanza dal centro della cittadina pari ad una piacevole passeggiata. Subito, nel tardo pomeriggio stesso, la curiosita’ della scoperta ci porta a dirigerci verso il centro della medina. La passeggiata sul lungomare e’ bellissima. Il sole brillante, la temperatura mite e un lieve venticello rendono piacevolissimi l’ambiente e l’atmosfera. Tantissima gente affolla la passeggiata e la spiaggia, molta meno affronta le quiete onde che l’oceano sospinge da oltre l’isola dei falchi, che si staglia al largo di un paio di chilometri o meno dalla sponda. Essaouria ci si avvicina cosi’, gradevolmente e lentamente, fino a rendere finalmente toccabile l’inconfondibile sagoma bianca che si protende sull’oceano. Entriamo dalle mura storiche di un colore molto simile al manto dei cammelli. Palme disposte lungo ad un importante ed elegante viale che scorre lungo un secondo muro dello stesso colore e oltre il quale si ergono affollate e quiete le case bianchissime della citta’ vecchia, la medina. Viavai di gente. Tanta. Quieta. Si sente l’odore del porto poco distante. Piccolo e tranquillo. La citta’ ci invita pero’ ad entrare, nei suoi meandri. Ci affascina carpire quello che ha affascinato tanti stranieri in questa citta’, soprattutto artisti. Il viavai nel suq, il mercato nel centro della citta’, e’ intenso. Gente a piena strada. Un giro veloce e curioso nel grande cortile porticato in cui si svolge I’ll mercato del pesce. Poi in quello delle spezie. Davvero bello. Ma cosa ha affascinato cosi’ tanto? E dov’e’ la sagoma inconfondibile della cittadine fortificata protesa sull’oceano? Domani lo scopriremo. Per oggi e’ stato abbastanza. Ma rieccoci davanti ai bastioni portoghesi della citta’, di fronte all’oceano. E’ mattino, presto per i ritmi del luogo. La vita della citta’ e’ concentrata sul piccolo porto, sulla cui banchina i pescatori scaricano la loro merce freschissima e la contrattano con gli acquirenti. Odore di salsedine e di pesce. Grossi ammassi di reti da pesca giacciono sulla banchina: sono quasi tutti color porpora: siamo al centro di questo particolarissimo ed unico bacino al quale madre natura ha donato la presenza di forme di vita acquatica dalle quali sin dall’antichita’ si e’ estratto il preziosissimo ed inconfondibile color porpora, simbolo di regalita’, ricchezza e potere. Sul molo, come quasi ovunque sventola una bandiera del Marocco, rosso porpora in cui campeggia una stella verde a cinque punte. Tutto e’ protetto dal molo del porto, un imponente bastione con una sequenza di cannoni puntati verso l’oceano, cosi’ come li hanno lasciati I portoghesi quando se ne andarono. E con la torre del porto, che si erge a vedetta poco dietro e dalla quale si scorge, finalmente, l’immagine sulla citta’ che tanto ha affascinato e tanto rimane nella memoria, emblema di una citta’ di una posizione geografica, di un’atmosfera unici. I leggendari e onnipresenti gabbiani ci sono, e si fanno sentire. Un po’ meno invece l’altrettanto famoso vento. Ci siamo, l’abbiamo vista. Andiamo ora a vedere se insieme a queste immagini e a queste sensaziono possiamo portare via anche qualcosa che di questa terra sia testimonianza. Ci addentriamo nel piccolo centro cittadino. Una mezza’ora spesa per una trattativa con l’immancabile marocchino naturalizzato italiano, dal quale compriamo un piccolo, ma bello souvenir, a prezzo imbattibile, perche’ italiani, ma comunque meno della meta’ del prezzo di offerta iniziale. Dato l’esiguo guadagno ci chiede di comprargli un pacchetto di sigarette, in segno di amicizia. Ritorniamo poco dopo col pacchetto e lo salutiamo ricordandogli che fumare fa male. Senza sapere esattamente il perche’, forse sospinti da quel vento, forse risucchiati dall’atmosfera rilassata e vissuta al tempo stesso ritorniamo d’istinto nel cuore della cittadina, e un po’ col fare di chi cammina col naso all’insu’, un po’ con lo sguardo che frugava tutt’attorno per metabolizzare il piu’ possibile quella situazione, notiamo che c’e’ la cooperativa a femminile e compriamo degli ottimi prodotti a base di argan. Depositati in albergo gli acquisti ci godiamo la spiaggia, gustando dell’ottimo e freschissimo fritto di pesce ed un’altrettanto delizioso succo d’arancia. L’acqua dell’oceano, poi, è fresca ed invitante. Conduttori di cammelli percorrono avanti e indietro la spiaggia in cerca di turisti curiosi di provare improbabili cavalcate esotiche stile Touareg. Ma e’ tutto armonioso, rilassante, bello. Come il cibo di queste due giornate: originale ed eccellente. Arrivederci, Essaouria, probabilmente in inverno, con la curiosita’ di vedere quali nuove sensazioni saprai suscitare.

Ci spiace lasciare Essaouira e la continuiamo a guardare finche’ la nostra auto svolta definitivamente dietro la collina e ci proietta a guardare avanti, verso quel notevole tratto di strada che ci separa da Marrakech.

Fa caldo, il paesaggio e’ secco. Scorgiamo gli alberi di argan, che al mondo vivono solamente in questa parte del Marocco.

Riusciamo anche a vedere alcune capre che stazionano sui rami. La foto e’ imperdibile, ma non gratis, perche’ qualcuno li’ ne fa una fonte con cui sostentarsi. Va bene anche cosi’ e versiamo il modesto obolo.

Via di nuovo sopra l’asfalto rovente e tra innumerevoli cantieri nei quali si stavano realizzando miglioramenti della viabilita’ e probabilmente si procedeva alla costruzione di un’autostrada di collegamento veloce con Marrakech. E’ per noi una sorta di conferma che Essaouira sara’ destinata in futuro a non essere piu’ quella piccola perla sull’oceano frequentata da un turismo intimo. L’autostrada e’ la logica prosecuzione degli altrettanto evidenti interventi di ampliamento della zona residenziale ad utilizzo turistico in corso in quella localita’.

Raggiungiamo l’aeroporto di Marrakech e salutiamo la nostra auto, che restituiamo al locatore. Saliamo in un taxi in cui ci aspetta Rachid che ci accompagnera’ al riad, nostro alloggio all’interno delle viscere della medina di Marrakech. Rachid e’ un tipo allegro ed estroverso che ci racconta in un buon inglese degli abitanti di Marrakech, delle varie etnie berbere e di molto altro. Scendiamo dal taxi di fronte al vialone di ingresso che introduce alla Place, il cuore di Marrakech, ma siamo stanchi e seguiamo il carretto su cui sono state caricate le nostre valigie, addentrandoci nelle viscere della medina. Percorriamo stradine contorte e sovraffollate ed infine svoltiamo in una viuzza stretta e quasi senza persone. Poco dopo il conducente del carretto si ferma di fronte ad una porta piccola ma ben tenuta, situata sotto un oscuro porticato: qualche secondo dopo ci viene aperto. La porta si richiude e ci troviamo dentro una prestigiosa casa tradizionale, un riad.

Ora vogliamo uscire, vogliamo vedere cos’e’ questa citta’.

MARRAKECH

Djemaa el-Fna, “La Place”, piazza affollata di gente vociante, un viavai incessante che passa incurante o curioso di fronte a incantatori di serpenti, tatuatrici di henna, cantastorie, maschere e molto altro. Foto furtive intercettate da una mano che tende il cappello e pretende l’obolo. Tra i morsi della calura pomeridiana, quando i colori raggiungono il massimo biancore e il bagliore e’ accecante, da dietro i carri stracolmi di arance da cui vengono servite magnifiche spremute in bicchieri usati e soltanto risciacquati molte e molte volte al giorno, iniziano le danze, il suono dei pifferi degli incantatori di serpenti si fa piu’ forte, come il ritmo incalzante dei musicisti e danzatori gnaoua. Spettacolo millenario, che per i turisti equivale a un menu e tutto ha un prezzo, da discutere. Ecco che dal mezzo della piazza si levano i primi fumi delle cucine e i ristoranti di piazza si preparano, con le loro organizzate cucine da campo e le sedie e tavoli senza pretese di comodita’, all’incessante banchetto che non vedra’ fine fino a notte inoltrata, levando colonne di fumo intenso e bianco sopra la citta’. Ognuno ha le sue specialita’, sembra. Ognuno ha la sua griglia e l’olio bollente. Ognuno ha i suoi giovani procacciatori di clienti con sdrulciti menu da far vedere. Ad un rifiuto garbato, il giovane procacciatore, sovente dopo il solito breve discorso sul paese d’origine del potenziale cliente, si premura allora di ricordargli il numero del suo ristorante “domani al 25!”, con fare incalzante. La scena puo’ ripetersi molte volte, con ciascun procacciatore. Anche chi ha appena assistito al rifiuto ci prova, come se pensasse che le sue abilita’ convincimento siano magari migliori di quelle del suo competitor. Si va avanti e oltre c’e’ sempre il mercato, che predomina su tutto. Viavai di carretti, trainati da asini ma spesso anche a mano. Trasportano di tutto. Sabbia, immondizie, frutta e verdura o carne o frigoriferi o televisioni al plasma. Tutto. Uno dei tanti motorini che affollano chiassosamente le minuscole stradine della medina trasporta due persone e una enorme antenna parabolica, di quelle che disegnano una giungla metropolitana arcaica e surrealisticamente moderna sul panorama dall’alto della medina. Tutti fanno largo e gli astanti rientrano di un passo negli spazi adibiti a mercato di strada, dove tutti offrono qualcosa: il carretto dei fichi d’india con il venditore armato di coltellino che apre e offre il frutto al cliente che prende la polpa carnosa del frutto nel palmo della mano e la assapora scambiando due chiacchiere col venditore; il vecchio venditore di fasci di menta fresca seduto sulla minuscola sedia lungo la viuzza; il macellaio con la piccolissima bottega col banco affacciato sulla strada. E poi il droghiere, il fruttivendolo, il piccolo botteghino oscuro e carico di mille cose, il banchetto col pane, quello con piramidi di dolcetti carichi di miele e di api, il calzolaio seduto per terra in uno stanzino buio, la ferramenta di due metri per tre. E poi tanti, tanti negozi di babbucce, oggetti in legno, tappeti, gioielli e cosi’ via frequentati da turisti ma non solo. “Bonjour messier”, dice il ragazzotto fuori del negozio per attirare l’attenzione. Non ricevendo risposta prosegue con “Ola’, espagnol?” E quindi riprende “Italiano? Ah si, amico vieni, entra, solo vedere”. Abilissimi venditori il cui istinto e il mestiere tramandato ha inculcato abilita’ commerciali davvero notevoli. Se ci si concede al colloquio si finisce quasi sicuramente per comprare qualcosa. Solo dopo si realizza che, tutto sommato, non e’ stato un affare come sembrava. O, quanto meno, il prezzo deciso tramite discussione e trattativa estenuante, anziche’ fisso e indiscutibile, ingenera inevitabilmente l’idea che, forse, un po’ meglio si poteva fare. Talvolta ci si trova di fronte a dei fini intenditori di sport o navigati commentatori di politica estera: “ah, Italia, Roberto Baggio” o “forza Juve” “cannavaro” campeggiano come emblematici apprezzamenti e dimostrazione di conoscenza del nostro Paese. Ma anche e molto spesso commenti generali che arrivano all’immancabile “Berlusconi mafioso”. Ancora oltre. La miriade di gente prosegue in un incessante e caotico viavai. Un turbinio di movimenti, lingue incomprensibili, espressioni, odori, profumi, rumori e suoni, spinte e strofinii con i passanti tra le anguste e sovraffollate vie avvolge completamente i sensi. Tutti vanno chissa’ dove. Tutti hanno chissa’ cosa da fare. Sempre, incessantemente. Viaggiare nella citta’ dei carretti e’ una danza di continui spostamenti per schivare, per non calpestare, per evitare, per infilarsi in un altra viuzza con un repentino cambio di direzione. Poi, improvviso, si diffonde il grido “Allah ah Bar” dai minareti tutt’attorno. A volte una preghiera, altre volte quasi un grido di battaglia. Odori, senso di polvere e sporcizia ovunque. Ma il segreto per vivere e’ non vederla, come pure non vedere le cose rotte, vecchie e consumate. Basta pensare di continuare ad usarle, andare avanti e null’altro.

Fa caldo, il sole brucia il copricapo e non solo e la luce perfora gli occhiali da sole. Serve un riparo e un altro succo d’arancia. A Marrakech. Finalmente sera. Da nord ovest si leva un leggero e rinfrescante venticello che scende dai vicini ed imponenti monti dell’Atlas, che la foschia estiva, ci assicurano, rende invisibili. Dalla torretta di osservazione del riad lo sguardo istintivamente percorre a tuttotondo il panorama sopra la sconfinata medina: i caldi colori che il sole al tramonto dona ai muri biancastri enfatizzano la struttura della citta’: un grande agglomerato dalle geometrie regolari e ininterrotte. Un mare di muri di altezze variabili e senza soluzione di continuita’ in cui, si sa, in mezzo scorre un groviglio di minuscole strade. Tutti vivono in case addossate a quelle di altri; tutti vivono la loro vita dall’altra parte di un muro. Sopra o sotto qualcun altro. O attorno ad un patio. Tutti poi, probabilmente, cercano anche un occhio verso il cielo: quegli occhi disseminati a frotte sopra I tetti piatti delle case e casupole di tutta la medina. Quegli occhi larghi e bianchi che guardano tutti dalla stessa parte. Quegli occhi che tradiscono una sonnolenta contraddizione di antico e vagamente moderno. Le antenne paraboliche, sopra i tetti di Marrakech. Tetti sui quali al calar del sole si assopisce il bagliore degli occhi parabolici per dare spazio all’accendersi di luci e poi al prender forma di nuovi spazi abitativi: la sommita’ della citta’ diventa un nuovo villaggio: anfratti nascondono dei piccoli spazi abitativi da cui esce luce, il vociare da alcuni terrazzamenti. Altrove magnifici terrazzamenti diventano intimi ristoranti di persone che cenano e chiacchierano. Su altre terrazze si nota il via vai degli inquilini intenti a stendere i panni o altro. Di lato, qualcuno nella penombra continua a tirare masse d’acqua chissa’ dove, forse ha allestito da qualche parte una sua piccola piscina in cui gettarsi con modesto fragore. Di sotto si levano chiacchiere concise e veloci in lingue vocalizzanti una profusione in sequenza veloce e indistinguibile di suoni aspirati, in cui all’orecchio straniero sembrano predominare le lettere “a” e “h” e sequenze di consonanti senza impiego di vocali. Le luci sono tutte gialle intenso, tranne il bagliore biancastro che, insieme al rullo dei tamburi gnaoua, al ritmo ipnotico degli incantatori di serpenti e al fragore incalzante delle miriadi di persone che di li’ ora stanno transitando, si alza anche stasera dalla Djemaa el-Fna. Questa e’ l’ultima sera. Mi guardo attorno dal terrazzo privato della stanza del riad: noto le luci calde e disseminate ovunque che enfatizzano l’ampiezza, la grazia, la quiete e l’armonia di questa struttura che ci ha accolto. Domani all’alba, quando La Place stara’ respirando un po’ di quiete nella brezzolina leggera del mattino e la citta’ sara’ ancora mezza addormentata, ci aspettera’ il carretto che abbiamo prenotato ed insieme al quale ci incammineremo, uscendo da Marrakech.

La sera prima avevamo salutato Daniel il proprietario del riad, un francese di origini completamente piemontesi, trapiantato da ormai quindici anni a Marrakech. Ci spiega tante cose del Marocco, della societa’ della vita in quei posti. Ci accompagna per un giro nel suq e notiamo che e’ molto ben conosciuto. Sfortunatamente non puo’ trattenersi a cena con noi. E’ stato comunque un bell’incontro.

L’indomani salutiamo calorosamente il personale del riad che ci ha ospitato e dimostrato molta attenzione: in particolare il giovane e pacato “maggiordomo” Abdul e la bonaria e massiccia cuoca, Hrattusha, che il giorno prima ci aveva tenuto in informale quanto indimenticabile corso di cucina marocchina, insegnandoci a preparare il cus cus, la tajne d’agnello e la bessara, oltre che altro. Piatti che avevamo poi consumato nella cena del giorno stesso, allestita tutta per noi nel magnifico terrazzo del riad. Indimenticabile. Ad una certa ora poi, la cameriera, Sued, sapendo che l’indomani presto saremmo partiti, passo’ a salutarci. Non vedemmo piu’ invece, Rachid, giovane aiutante dal fare apparentemente intraprendente, che la penultima sera del nostro soggiorno ci aveva raccomandato l’indomani di visitare i monti dell’alto Atlas con una escursione in giornata in taxi che avremmo potuto organizzare l’indomani mattina direttamente tramite lui. Al nostro risveglio scendemmo dalla torre per fare colazione e passammo dal terrazzo dove lo trovammo disteso su uno dei lettini, all’aperto, immerso in un sonno profondo. Sul tavolo attorniato da divanetti sui quali era seduto la sera prima c’era una bottiglia di liquore ed una di vino, vuote.

Il carretto ci aspetta. Un saluto a tutti. Eccoci di nuovo immersi nel via vai della medina. Ma stavolta e’ davvero il momento di salutarla.

Dopo pochi minuti di taxi siamo alla stazione dei treni. Di li a poco il nostro convoglio si posiziona sul binario di partenza. C’e’ tanta gente e i turisti apparentemente sono pochi.

Prendiamo posto nello scompartimento di prima classe a sei posti. Partiamo di li a pochi minuti.

Dopo qualche minuto di viaggio sonnecchioso avvolto dal bagliore del caldo sole, Michela inizia a sonnecchiare, come pure buona parte degli altri compagni di viaggio. Ogni tanto apre leggermente un occhio e mi guarda, come fanno i gatti. Poi si riaddormenta. Mi piace vederla di fronte mentre viaggiamo. Nello scompartimento di tanto in tanto si diffondono incomprensibili e sgraziatissimi odori. Michela sembra non accorgersene. O quanto meno non me ne parla. Evidentemente il torpore del sonno in cui e’ precipitata e’ piu’ forte del suo olfatto sopraffino. Nemmeno io ne parlo a lei, del resto, per non svegliarla. Eppure sono persino nauseato.

Mi guardo intorno per cercare di carpire qualche indizio su che tipo di persone sono i miei compagni di viaggio. Sono tutti marocchini. Sono persone, apparentemente, di un ceto medio che viaggiano in prima classe. Dimostrano pero’, come del resto pressoche’ tutti i marocchini, grandi carenze di stile: vestono male, dimostrano poca cura per gli oggetti di cui dispongono, che sono quasi sempre ammaccati e consunti. Nessuno o quasi nessuno che abbia superato la trentina d’anni puo’ sfoggiare una dentatura completa. Un signore sui cinquanta seduto quasi di fronte a me, che aveva iniziato il viaggio con i migliori propositi, dopo un paio d’ore di noioso percorso, comincio’ a sdraiarsi sulla poltrocina dello scompartimento di prima classe come se fosse sdraiato sul sofa’ di casa sua. Poi si risollevo’ e comincio’ a dedicarsi ad attivita’ collaterali alla toeletta, poco signorili, almeno da sfoggiare in pubblico. Qualcosa, proveniente da chissa’ quale dei viaggiatori, emano’ un odore nauseabondo, seguito in sequenza da altri, di timbro diverso. Il tizio quasi di fronte a me prosegui’ la discesa sulla poltroncina e fino a trovarsi oramai in posizione orrizzontale, postura che conferiva grande evidenza all’epa prorompente, fin prima tenuta un po’ a bada. Il viaggiatore alla mia sinistra, un ragazzotto vestito con pantaloni corti e canotta, rientro’ dopo un certo periodo trascorso in corridoio e con lui rifece capolino un nuovo, acre, odore.

Dopo tre ore di viaggio il tizio sui cinquanta estrae dalla sua borsa qualcosa: e’ una sacchetto di nailon nero di quelli che in Italia si usano per l’immondizia. Estrae una pagnotta di pane e la appoggia sul seggiolino. Poi fruga di nuovo nella borsa ed estrae una scatola di latta, probabilmente contiene tonno. Appoggia la scatola sopra la pagnotta circolare e poco spessa ed esce. Rientra dopo una decina di minuti, senza piu’ nulla in mano. Passa il carretto del minibar e chiede un caffe’, che gli viene servito sul un bicchiere di plastica. Lo appoggia sul pavimento dello scompartimento e ci mette lo zucchero. Poi lo beve. Infine, si guarda un po’ attorno, con lo sguardo di chi non ha molti altri pensieri. Dopo qualche minuto e’ completamente disteso sulle due poltroncine a fianco a quella di Michela. Giace su un fianco con le gambe raccolte e la testa appoggiata su un bracciale.

Casablanca, quindi Rabat. Lo scompartimento ora e’ vuoto e salgono nuovi viaggiatori. Il viaggio e’ quasi finito. Eccoci, infine, a Fes. FEZ

Anno zero, perche’ alla fine arriviamo in quello che generalmente si ritiene il cuore del Marocco. Siamo in una citta’ celebrata, quasi incensata. La sua sagoma adagiata su una dolce conca, e’ imponente e imperiale. Ma non c’e’ quasi traccia dell’impero di un tempo e la citta’ nel suo intimo e’ discreta, modesta nella sua vita attuale, accogliente, sorridente e ingenuamente quasi inconsapevole. Ogni giorno dedica il suo tempo alla sua tenace voglia di sopravvivere a tutto: alle scomodita’ di una medina quasi inaccessibile ai trasporti, talvolta persino per gli asini, alle case diroccate o abbandonate, che giacciono intricate sopra altre vissute, all’assenza di quasi tutto cio’ che per un cittadino normale e’ la modernita’, all’abbandono dei capolavori architettonici e culturali che giacciono ogni giorno piu’ vecchi ed incurati del giorno prima, solo un po’ piu’ usati perche’ al turista interessano e gli si chiede uin piccolo obolo di ingresso. La sua vita si gioca tra i fasti di un tempo e le difficolta’ di oggi, quando le tentazioni di sviluppare la citta’ nuova e di lasciare al suo destino quella vecchia sono forti. La medina e’ un luogo denso di occhi e mani oziosi e operosi lungo le sue tortuose viuzze. Oscuri e minuscoli anfratti, stradine simili a cunicoli contengono chissa’ cosa e portano chissa’ dove. Tutto e’ rallentato, moderato, tollerante e sonnecchiante. La vecchia capitale, signora che riposa su una consunta poltrona, gia’ trono, giace cosparsa di vecchi zelij e decori di cedro intagliato. Non pretende di ammaliare il visitatore in cerca dell’anima, l’anima del Marocco e forse anche della sua. E’ un’anima che giace sudata all’ombra del torrido sole d’estate e che mantiene il ritmo pacato e regolare di imperterriti artigiani. Piazza Seffarine, coi suoi fabbri artistici e realizzatori di ferro battuto sembra imprimere il ritmo a tutta la citta’, immenso borgo imperiale medioevale. Fa caldo. Tanto. I fabbri lavorano lamiere bollenti all’ombra dei loro medioevali laboratori. Per taluno il fuoco che forgia il lavoro aggiunge caldo su caldo. Sudore. La citta’ giace tutt’attorno ad un catino giallo rovente. Denso di vicoli intricati. Perdersi e’ una certezza. Da dietro qualcuno parla e chiede qualcosa. Mani indicano la direzione. Si para davanti qualcuno, un ragazzo o un bambino, che sa dove stai cercando di andare. Se vuoi ti fara’ da guida. Tieni in tasca un obolo. Oppure raccogli le tue forze e vai oltre. Capirai che anche nel disorientamento piu’ totale troverai la strada, magari dopo averla sbagliata per un paio di volte o piu’. E intanto tutto intorno a te il mercato prosegue sempre, ininterrotto, tra cunicoli densi di un universo di cittadini che sopportano docilmente la calura. Da dietro le tende ed i legni che spesso coprono le viuzze per donare un po’ di ombra al viandante, ansimo grondante e controllo il passo per rendere il mio cammino regolare, rilassato e incurante della calura.

Iniziativa e curiosita’ cedono il passo a bisogni primordiali. Acqua, riposo e quiete. Il giorno deve vivere di intensa quiete, qui. Non devo correre da alcuna parte. Qualsiasi preoccupazione del turista svanisce: non e’ necessario vedere tutto e nel minor tempo possibile; non e’ necessario, ne’ tantomeno utile, darsi pena per non aver modo o voglia di uscire a fare l’immancabile shopping. Sopravvivere. Arrivare a sera non spossato. Vivere come vive la citta’, con ritmi calcolati e sapendo che il limite delle proprie possibilita’ fisiche e della resistenza mentale e’ vicino. Forse il segreto e’ esserve vestiti di una lunga tunica, magari bianca, ed una piccola cupola in testa, avere le babbucce, camminare stancamente. Guardiamo moschee, mederse, e fontane che via via diventano sempre piu’ calde e sbiadite. Le mura della citta’ poi, incandescenti ed il quartire che fu ebraico, tranquillamente affollato nel mezzogiorno rovente. La gente si muove a proprio agio, quello degli abitanti di Fez, che nella calura del meriggio si concedono un po’ di pausa sotto il sole cocente e siedono tranquillamente e sonnecchiosamente ai tavoli di improbabili bar. Non troviamo alcun posto che ci possa regalare una sosta fresca e rilassante. Eppure c’e’ tanta gente seduta per terra ai bordi della strada: assapora gelati, mangia khobz imbottito di ogni tipo di ripieno. Oppure semplicemente conversa.

Fez e’ una citta’ facile e inconsciamente difficile al tempo stesso. Perche’ e’ questo suo enorme ed ingenuo anacronismo, e’ il mondo autarchico e privo delle comodita’ normali, che sembra normale ai suoi abitanti mentre non puo’ lasciare indifferenti i visitatori. Perche’ Kate e Alaa’, norvegese la prima ed irakeno il secondo hanno deciso di trasferirsi qui e di affrontare un ingente investimento ed una sfida immane, innanzitutto culturale, per aprire un loro riad? Perche’ persistono nel portare avanti questa loro attivita’, anche se, parlando con loro, si capisce quanto sia diversa da prima la loro vita e come sia difficile per loro divenire convintamente parte di quella societa’? Non l’abbiamo veramente capito.

Il soggiorno e’ trascorso piacevole e interessante, se non fosse per il caldo spossante ed asfissiante che cominciava a mordere dal primo mattino e non dava tregua fino al calar del sole, quando un venticello si alzava e nell’imbrunire arioso il soggiorno sul terrazzo del riad dal quale si godeva una meravigliosa vista su piazza Bab R’Cif, sul quartiere della Seffarine, sulla Moschea Moulay… E su una buona parte della medina, ci ha regalato momenti e senzazioni meravigliose.

A Fez abbiamo provato cosa significa vivere con 45 gradi all’ombra e oltre se si e’ al sole. Abbiamo incontrato i tedeschi Dorotea e Marco, gli italiani Matteo e Federica, due americane di NY, oltreche Gale (anche lei traferitasi qui dal lontano Yorkshire), Zimid e lo spigliato e dai modi molto occidentali Mohamed. Non li dimenticheremo. Purtroppo (o per fortuna) dobbiamo lasciare anche Fez alla volta di Meknes.

Altro viaggio in treno, breve e comodo.

MEKNES

Si presenta subito come una cittadina tranquilla e rilassata. E così è stato anche il nostro breve soggiorno qui.

Al riad Shafraj ci accoglie e ci meraviglia per il suo perfetto italiano. Ci da’ qualche preziosa informazione di cosa visitare nel tempo che abbiamo. Seguiamo il suo consiglio, che ci porta tra l’altro, ad usare per la prima volta una carrozza trainata da un cavallo.

Nel pomeriggio un tassista privato ci accompagna per una escursione appena fuori citta’ presso l’antica citta’ romana di Volubilis e poi oltre fino a Mulay Idriss, bianco e molto tradizionale paesello arroccato sul pendio di una collina.

La sera trascorre serena e l’indomani ci aspetta il trasferimento all’aeroporto da Rabat, da cui salutiamo il Marocco.



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