Marocco, terra di suq e casba
Domenica 29 aprile 2018
Partiamo da casa alle 9 e alle 11 siamo al parcheggio Planet Parking di Milano Malpensa. Al check in c’è poca gente e in pochissimo tempo abbiamo la carta d’imbarco. Il volo Royal Air Maroc AT0955 imbarca a rilento e decolla alle 14, con un’ora di ritardo. Servono pranzo con pollo e riso, yogurt, formaggio spalmabile. Per essere cibo di aereo, il pollo ha anche un buon sapore. Abbiamo a disposizione un finestrino, ma la visuale è rovinata dalle nuvole. Passiamo sopra Marsiglia, ma è nascosta dalle nuvole, le Baleari di cui intravediamo il profilo e una città andalusa ai piedi di monti innevati. Non riusciamo a vedere lo stretto di Gibilterra.
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Atterriamo a Casablanca dopo 3 ore di volo, alle 17, le 16 ora locale, perché anche qui c’è l’ora legale che aboliranno tra meno di un mese nel periodo del Ramadan. La temperatura è fresca e ventosa, sui 20 gradi. La coda per l’ingresso nel paese è accettabile e il nostro bagaglio è già stato scaricato quando arriviamo al nastro. Fuori ci aspetta in nostro accompagnatore T.. Lasciamo l’aeroporto, che dista circa 30 km dalla città, dopo le 17. Il Kenzi Tower Twin Center è una torre moderna di 28 piani: a noi viene data la stanza 802, molto ampia ma ha odore di chiuso. Ampia sala da bagno con vasca, doccia e persino il bidè. Buona dotazione di prodotti per la cura della persona.
Usciamo verso le 18.45 per l’itinerario a piedi del quartiere deco. La prima struttura che incontriamo è la cattedrale del sacro cuore, bianchissima e fresca di restauro. In piazza Mohammed V, la torre dell’orologio della stazione della polizia mi delude, anche se è indicata come modernista nella guida. In piazza c’è una marea di gente: è giornata festiva anche per loro e i ragazzi giocano a palla in questo scorcio di week end. Notiamo altri edifici che raccontano un passato elegante che ha ceduto il passo a un presente in cui sono sfioriti. Le Petit Poucet ha al suo interno una bacheca dedicata a Saint-Exupery, ma l’atmosfera cupa che regna all’interno non induce ad entrare. Noi l’abbiamo fatto perché il cameriere ci ha invitato calorosamente a dare uno sguardo al proprio locale, orgoglioso del passato che quelle sale possono offrire. Proprio lì vicino ci sono le forme stondate del cinema Rialto. Quello che abbiamo visto ci delude un po’ e cominciamo a tornare indietro. La cena è al 27° piano della torre, al ristorante Sense. È ancora giorno, ma le luci della sera comincino a fare capolino. La città bianca si estende in ogni direzione ai piedi della torre, immensa con i suoi 6 milioni di abitanti. La vista dall’hotel è strepitosa. Io guardo da tutte le vetrate alla ricerca della moschea Hassan II, diventata ormai il simbolo di Casablanca. Il suo minareto si staglia alto verso il cielo e il mare appena dietro. Ma torniamo alla cena: si può scegliere tra due alternative e noi ordiniamo pomodoro e mozzarella come piatto d’entrata e salmone con verdure come piatto principale. Il dolce è una mousse agli agrumi. La cena non è male.
Lunedì 30 aprile 2018
Prima colazione alle 7 al secondo piano, nel ristorante che si chiama Insense, un gioco di parole per distinguerlo con quello del 27°. C’è ampia scelta, ma, incredibile per essere in Marocco, non c’è il tè verde. Mangio pain au chocolat, madeleine, altri dolci con latte caldo e caffè. Spalmo su una crepe del cioccolato fuso. Finisco con uno yogurt e un piatto con melone, ananas, kiwi e prugne secche. Alle 8 comincia un breve giro di Casablanca, partendo dalla Moschea Hassan II; inaugurata nel 1993 è il 3° edificio di preghiera più grande al mondo. Ospita al suo interno 25.000 fedeli. Il minareto, alto 200 m, è decorato in cima da disegni in verde, il colore dell’Islam. Costruita su un terrapieno direttamente sul mare, la moschea domina la costa che in questo momento è in ristrutturazione: tra qualche anno sarà interessante osservare come sono cresciute le palme appena piantate per ornare il lungomare di una città che vuole essere soprattutto una metropoli moderna. Poco distante si intravede il faro, circondato dalle baracche dei pescatori. T. dice che abbiamo avuto fortuna a potere vedere la moschea con il sole, perché di solito è la nebbia a farla da padrona. In pullman attraversiamo il quartiere di Anfa dove ci sono le case residenziali e giungiamo al quartiere dei francesi dove si trova la chiesa di Lourdes che risale agli anni ‘50, con tanto di grotta allestita nei primi anni del ‘900. All’interno ci sono belle vetrate stilizzate che rappresentano scene sacre. Costeggiamo il muro di cinta del palazzo reale, ma non ci fermiamo.
Lasciamo Casablanca per dirigerci a Nord. Il territorio ha una vegetazione rigogliosa, ma il grano non è ancora maturo. Ci fermiamo nell’autogrill di Bouregreg i cui bagni sono pulitissimi. Poco dopo attraversiamo il nuovissimo ponte omonimo. Entriamo nella zona di Rabat circondata da alberi di sughero, i cui tronchi sono talvolta scorticati. Dopo Rabat il territorio da pianeggiante diventa collinare. Arriviamo a Meknes verso le 13, una cittadina caratterizzata da tre cerchie di mura. La scelse come capitale l’alowita Moulay Ismail (1672-1727), che rase al suolo la città vecchia per edificarla secondo i suoi desideri, usando materiale proveniente da Volubilis o Marrakech. Regnò per 55 anni dal 1672 al 1727, annientando gli eredi del fratello e esponendo le teste sulle mura di Fes. Moulay chiese persino la mano della figlia di Luigi XIV, Maria Anna di Borbone, per aggiungerla alle 500 mogli che popolavano il suo harem, ma l’accordo non andò mai in porto. Sostiamo alla porta del giovedì, poi visitiamo le scuderie di Moulay Ismail, struttura in pisé (pietra e calce) dalle alte mura con soffitti a botte dove era conservato il grano. Di fronte un bacino d’acqua che garantiva autonomia durante le guerre. La piazza el-Hedim è il cuore della città: qui ci sono venditori di olio d’argan (o presunto tale, T. ci spiega che è venduto dappertutto in Marocco, ma non può essere tutto puro per la scarsa resa che si ottiene spremendo il nocciolo dell’albero e la presenza ridotta della pianta sul territorio), le scimmie in costume che ammiccano ai turisti per farsi fotografare. Dall’altra parte della piazza ci sono negozi che vendono oggetti in ceramica. Qui si trova la famosa Bab Mansour (porta del vittorioso), fatta costruire da Moulay Ismail, con colonne provenienti da Volubilis: la porta andrebbe restaurata per farla ritornare al suo antico splendore. Pranzo nella ville nouvelle di Meknes al Palais Terrab, un vero ristorantificio per turisti. l’antipasto è un piatto in comune per tutto il tavolo ed è a base di verdure: zucchine, patate, tuberi, cavolfiore. La portata principale è il couscous di vitello con verdure. Come frutta c’è melone e mele, mentre i dolci assomigliano agli amaretti ma sono alle arachidi, per me immangiabili. Si chiude con il tè alla menta. Pranzo appena sufficiente. Dopo circa mezz’ora arriviamo a Volubilis, da cui si staglia il profilo della città santa di Moulay Idriss.
In mezzo a una vegetazione rigogliosa (il fiore del convolvolo dà il nome alla città) Volubilis fu capitale del regno mauretano di Giuba II (25 a. C. 24 d. C.), poi venne conquistata dai Romani nel 42 d. C.; fiorì tra i secoli II e III d.C. per cadere in declino dopo che rimase fuori dai confini tracciati da Diocleziano. In tempi recenti, nel 1874, fu scoperta dal diplomatico e archeologo francese Charles-Joseph Tissot.
La città è ricca di mosaici che prendono il nome dai soggetti rappresentati. Si comincia dalla casa di Orfeo, poi la basilica, sede della vita politica. Su una colonna una cicogna ha fatto il nido. L’arco di trionfo è stato eretto nel 217 in onore di Caracalla e della madre Iulia Domna, come testimoniano i medaglioni ai lati. L’arco si apre su una bella vallata verde. Visitiamo la casa dell’acrobata, la casa delle colonne, la casa del cavaliere, dove sono rappresentati Dionisio e Arianna, la casa di Dionisio e delle quattro stagioni. L’antica città romana venne scelta da Scorsese per ambientare l’ultima tentazione di Cristo. Verso le 17.30 si riparte diretti a Fes, dove arriviamo alle 19. L’hotel Palais Medina si trova all’interno di un parco alla fine della città moderna e a pochi minuti dal Cimitero ebraico e dalla Madrasa di Bou-Inania. Ci viene assegnata la stanza 327 palazzina b. Appena usciti dal parco dell’hotel, sulla sinistra c’è Carrefour. Al reparto della cura della persona troviamo la fila di turisti che comprano l’olio di argan. La cena è al ristorante Arabesque dell’hotel e purtroppo è a buffet. Comincio con la zuppa, poi scelgo del cous cous (ma ha la cipolla e lo lascio nel piatto), melanzane, patate, pomodoro e mozzarella, pollo. Come frutta scelgo il melone e qualche dolce come tortine ai lamponi e torta alle mandorle. Dopo cena tentiamo una passeggiata, ma il vento non proprio estivo ci fa desistere. Chiacchieriamo nella hall con qualche compagno di viaggio.
Martedì 01 maggio 2018
Ci svegliamo alle 6.30, doccia e poi colazione al ristorante Imperial con cappuccino al cacao (l’hotel ha la macchinetta), pain au chocolat, dolci, crepe con cioccolato fuso, melone. Alle 8.30 comincia il giro con una visione d’insieme della medina da uno dei due bory che sovrastano le colline di Fes, la più antica capitale del Marocco. La città vecchia è sconfinata e al suo interno vivono 350.000 persone. Le due parti della città sono divise dal Wadi Fes, da una parte la città voluta da Moulay Idriss, Fes el-Jedid, dall’altra quella voluta dal figlio Idriss II, Fes el-Bali, che risale al 809. Fondata poco dopo che gli arabi ebbero invaso il Nord Africa e la Spagna, qui giunsero migliaia di famiglie dalla Spagna musulmana, alle quali si unirono gruppi di arabi provenienti da est. Nel 1250 divenne la capitale dei merinidi di cui si scorgono le tombe su una collina da cui si domina la vallata della medina. Cominciamo la visita dalla fabbrica di ceramica Art Naji che usa l’argilla scura, mentre quelle di altre città lavorano la terra rossa. Esiste da 120 anni e vi lavorano 93 persone. L’argilla viene messa nell’acqua per una settimana e poi esposta al sole per 3 giorni. Si modella al tornio, poi si asciuga per 4 ore e si passa alla rifinitura. Si lascia al sole per 10 giorni e poi si cuoce a 1200 gradi per 8 ore; per lo smalto cristallino si rimette in forno a 900 gradi. I forni sono alimentati da legna e noccioli di olive. Alcune lavorazioni sono abbellite con stagno fuso. Qui compro un piccolo tajine che può andare al microonde. Il giro con T. inizia da Fes el-Jedid con molti negozietti che vendono frutta secca, galline legate tra loro (vengono uccise e pulite sul momento dinanzi al futuro acquirente), matasse di seta ricavate dalle foglie di agave.
Durante il nostro tragitto intravediamo la porta semi-aperta della medersa Sahrij con il portone di ottone lavorato. Entriamo nel laboratorio di un falegname che lavora il legno di cedro. In esposizione c’è la testata di un letto dipinta e lavorata a mukarnas. Visitiamo una casa tipica della medina che è stata restaurata per diventare un riad. Ogni casa ha un cortile interno con la fontana al centro; attorno si sviluppano le camere dei vari piani che di solito hanno decori in stucco e legno di cedro. In alcuni casi il cortile viene coperto. Oltrepassando il wadi Fes, ci troviamo nella medina chiamata Fes el-Bali. Assaggio un dolce chiamato le corna di gazzella (kaab al-ghazal), pasta filo con un ripieno di mandorle, davvero buono. In piazza Sffarine gli artigiani lavorano l’orrore. Visitiamo il negozio di tappeti berberi Dar Essad, ospitato dentro una casa del 1500 restaurata. Le donne lavorano a casa i tappeti e poi li portano a vendere nella struttura. Ce ne mostrano alcuni, i disegni sono a quadroni, ma i prezzi non sono economici. Entriamo nella medersa Acharatine, dove dormivano fino a 150 ragazzi; non è mai stata destinata all’insegnamento. Salgo al primo piano e trovo le molto celle anguste, forse per tenere distanti le tentazioni.
Verso le 14 siamo al ristorante La Medina Bis, anch’esso ricavato in una case ristrutturata. Nei bagni noto gli originalissimi lavandini in ottone. Ci portano come antipasto bietole, cavolfiore, crema di melanzane, lenticchie, olive, come secondo delle cosce di pollo in umido, come frutta arance e banane. Pranzo da 7.
Riprendiamo il nostro giro labirintico e andiamo in un negozio dove tessono la seta ricavata dall’agave per farne sciarpe, copridivani o cuscini. Non riesco a comprare per 10 euro una pashmina (ne chiedono il doppio) e ci rinuncio. Passiamo accanto alla moschea di el-Karaouin, dove, da non musulmani, possiamo solo affacciarci: T. farà qualche foto per me all’interno. Vicino c’è la moschea di Moulay Idriss e poi il suo mausoleo, altro luogo sacro dove possiamo fotografare solo la porta di ingresso e il soffitto. In un negozio che vende oggetti in pelle saliamo sulla terrazza per vedere le vasche dei conciatori. Non riusciamo a vedere le pozze colorate tanto fotografate (sembra che una parte sia crollata), ma l’odore insopportabile è rimasto. Ad attenuarlo ci danno un rametto di menta. Le pelli vengono immerse nella calce per impermeabilizzarle, poi in guano di uccello e urina di vacca, poi in legno di cedro per eliminare il cattivo odore. Il colore viene ottenuto per immersione per 10 giorni usando prodotti naturali: il rosso è ricavato dai papaveri, il verde dalla menta. Compro per 15 euro un paio di babbucce in pelle dalla punta rotonda. Entriamo dentro un caravanserraglio che ospita il museo Nejjarine dedicato all’artigianato del legno. Al primo piano, nelle varie sale sono esposti oggetti antichi in legno: si tocca con mano come il legno venga usato in tanti aspetti della vita casalinga: letti, bauli, mensole, tavoli, culle, sedie, tutti lavorati con una maestria che ormai abbiamo dimenticato. Nella piazza antistante il museo compro dei magneti in legno, per rendere omaggio al luogo che ho appena visitato.
Riprendiamo il pullman quando è ormai pomeriggio inoltrato e, costeggiando un cimitero, giungiamo sulla collina dove si trovano le tombe dei Merinidi. Mentre T. dall’alto ci indica il tragitto che abbiamo fatto durante la giornata all’interno della medina, vento e pioggia ci fanno desistere. In autobus andiamo verso la porta blu, poi ci rechiamo al negozio Allal’s Art Gallery che ha realizzato le porte di ottone del palazzo reale alla ricerca di una lanterna. Ha begli oggetti, ma i prezzi sono da regnanti: una lanterna in alpaca (bronzo e rame) con vetri colorati costa 120 euro. Usciamo tutti a mani vuote, ma ammirare la bellezza è sempre appagante. Il palazzo reale, ammirato solo da fuori, ha dalle belle porte di ottone sbalzato. Accanto c’è il Mellah, il quartiere degli ebrei che si sono arricchiti nel corso dei secoli scambiando il sale con l’oro. Le loro abitazioni si distinguono dalle altre perché hanno i balconi, mentre quelle arabe nascondono la bellezza all’interno, per tenere lontano l’invidia dei vicini. Passeggiando noto che le vetrine dei gioiellieri espongono vistose cinture d’oro incastonate da pietre preziose che vengono indossate dalle donne il giorno del matrimonio. Ritorniamo in hotel nel tardo pomeriggio e poco dopo comincia a piovere. La cena è a buffet: assaggio la minestra e poi del pesce con patate e besciamella. Come dolce trovo buona la millefoglie. Dopo cena chiacchieriamo con alcuni compagni di viaggio.
Mercoledì 2 maggio 2018
Ci svegliamo alle 6 perché dobbiamo partire presto. Alle 6.45 facciamo colazione con cappuccino al cacao, pain au chocolat, qualche dolcino, prugne secche, kiwi, yogurt. Partiamo alle 8.30 e man mano che ci si allontana da Fes cominciano a vedersi una serie di villette con terrazza e muro di cinta; poi la parte residenziale lascia il posto ad alberi d’ulivo e da frutta. La strada sale fino a 1650 m; ci fermiamo a Ifrane, costruita dai francesi intorno al 1930 con l’intenzione di farne una località di villeggiatura montana. Fa abbastanza freddo anche se c’è il sole. Il villaggio sembra addormentato e le case di villeggiatura sotto tutte chiuse. Sui tetti svolazzano le cicogne. Sorseggio un tè alla menta per scaldarmi e faccio un giro attorno all’isolato in cerca del grande leone di pietra, in memoria dell’ultimo leone ucciso da 2 italiani nel 1950. Ripartiamo alle 9.30 e la strada passa in mezzo ad una foresta di lecci e cedri del Libano. Per un tratto proseguiamo a piedi in cerca delle scimmie che abitano questi luoghi, ma oggi non c’è traccia di loro, probabilmente non le incuriosiamo. Risaliamo sul pullman per proseguire attraverso un altopiano pianeggiante coperto da erba verdissima dove brucano le pecore. Oltrepassiamo il colle dello Zad (2178 m) e ci fermiamo a Zaida dove sfilano le tajine sui fornelli all’aperto perché è quasi ora di pranzo. Qui compro da un ambulante un fossile composto da due parti con dentro un’ammonite. Ripartiamo e il territorio cambia ancora e diventa desertico con cespugli (chiamato deserto di Hemmada). Alle 12 mangiamo al ristorante Taddart, alle porte di Midelt, dove una volta l’anno si svolge la festa delle mele. L’ingresso al locale è decorato da enormi quarzi che incorniciano la porta. Mangio minestra di carote, verdure (patate, carote e zucchine) cotte nel tajine con il limone (il piatto si chiama djej msharmal e viene realizzato con limoni conservati in salamoia che avrò modo di notare al suq di Marrakech), cous cous, pollo. Come frutta sono previste succosissime arance. È un pranzo superiore alla media. Ripartiamo alle 13 e arriviamo al col Tizi n’Talghaumt (1907 m). La strada attraversa montagne rossastre erose dagli eventi atmosferici. Si cominciano a vedere i villaggi fortificati fatti di terra e paglia chiamati Ksar che si distinguono dalle kasbe perché hanno il muro di cinta.
La strada costeggia il fiume Ziz (gazzella), colore del fango per le piogge recenti. Attraversiamo il tunnel Zaalid, una galleria scavata a mano. Vicino a un ponte sullo Ziz ci fermiamo per fotografare il villaggio di Tassmailt in terra e paglia. Impossibile percorrere la strada verso Erfoud senza incontrare dei camion stracarichi di paglia, usata sia per nutrire gli animali che per costruire le case. Alle 15.30 ci fermiamo all’autogrill prima di Errichidia, città militare. Qui compro 2 cartoline che riproducono i cartelloni pubblicitari di inizio ‘900. Dopo questa città l’asfalto diventa imperfetto, ma il disagio viene ricompensato da uno splendido panorama: è il palmeto dello Ziz, il più antico del Marocco, immenso con sopra la montagna piatta e punteggiato da case in terra e paglia. In mezzo alle palme crescono pesche, albicocche e prugne. Alle porte di Erfoud ai bordi della strada ci sono reticoli di canne per impedire che la sabbia invada la strada. Alle 17 arriviamo all’hotel Kasbah Xaluca, costruito su di una tipica abitazione marocchina, che dispone di 134 camere, tutte decorate con materiali della regione come il lavello in pietra fossile, il soffitto di canne, lampadine dentro ceste di vimini, pavimenti a mosaico. La piscina sorge in un giardino rigoglioso che la sera è illuminato da tante lanterne. Appena arrivata rimpiango di non potere rimanere più a lungo di una notte. Ci viene assegnata la camera 29. Alle 17.30 si esce sui fuoristrada per raggiungere 50 km a sud di Erfoud, erg Chebbi, vicino al minuscolo villaggio di Merzouga. Si racconta che, quando una famiglia del posto negò ospitalità a una madre con il proprio bambino, Dio li punì seppellendoli sotto cumuli di sabbia, formando queste dune.
Attraversiamo il paesino di Erfoud dove notiamo una troupe cinematografica e poi il paesaggio diventa desertico: lungo il tragitto, scritte in pietra sul fianco della collina indicano la vendita di fossili. Dopo circa mezz’ora si abbandona l’asfalto per percorrere lo sterrato e raggiungere l’albergo Caravana, dove si trovano dune non tanto alte, dove alcuni del gruppo salgono sui dromedari prenotati dal giorno prima. Noi passeggiamo sul costone delle dune pensando a quelle molto più alte viste 6 mesi fa in Oman; in lontananza intravediamo un uomo con un turbante e vestito di azzurro; si dirige verso di noi e gli chiediamo di scattarci una foto. Si chiama Omar e per un po’ passeggia con noi, disegna sulla sabbia delle palme e i nostri nomi e infine va all’obiettivo: mostrarci i suoi fossili. È gentile, discreto ed educato. Sarebbe veramente da insensibili non acquistare niente. E così compriamo sulle dune un piattino a forma di cuore e una scatolina, entrambi in materiale fossile. Saliamo sulla terrazza del bar, ma ci accorgiamo che il sole sta tramontando dietro delle nuvole. Così svanisce la possibilità di ammirare il sole che tramonta all’orizzonte, mentre le rondini svolazzano in cerca di pappa. Rientriamo alla base dopo le 20 e subito andiamo a cena. Appena arrivo noto un signore che assomiglia a un attore francese, intento a mangiare con un’altra persona. Proprio quando chiedo a mio marito il suo parere, lui alza la testa e ci guarda. Per mio marito è solo qualcuno che gli somiglia, mentre un compagno del gruppo è d’accordo con me. Nessuno di noi ha il coraggio di avvicinarsi e poco dopo andrà via. Io mi convinco che stia girando un film con la troupe vista nel pomeriggio nel centro paese. Torniamo con i piedi per terra: mangio un’insalata di pollo, cous cous con verdure, melanzane, arance, melone. Approfitto del fatto che preparino la crepe sul momento per deliziarmi con questo dolce. Cena da 8. Curioso nella boutique dell’hotel prima di andare a dormire.
Giovedì 3 maggio 2018
Ci svegliamo alle 6.15, doccia e colazione alle 7. C’è maggior scelta rispetto agli altri posti: tanti tipi di dolce, bevande, marmellate. Sul momento preparano la crepe marocchina su cui ho spalmato la marmellata. Mangio due pain au chocolat con il cappuccino. Il tè è servito dall’addetto versandolo da 2 teiere mantenute calde. Qualche foto a questo bellissimo hotel e si parte alle 8. T. racconta le abitudini dei dromedari. Loro non attaccano mai un animale di un’altra specie, ma solo un loro simile. È pericoloso per il padrone picchiare il proprio dromedario: lui è capace di aspettare che il padrone si addormenti per soffocarlo sedendosi sopra. Il suo corpo è calloso, la zona vulnerabile è la parte inferiore delle zampe che viene attaccata dalla vipera cieca che lo uccide in pochi secondi. Si dice che il grasso contenuto nella gobba curi l’asma. Riescono a non mangiare per due mesi, attingendo alle riserve contenute nella gobba che man mano si assottiglia. In un giorno camminano al massimo per 30 km.
Ci fermiamo per vedere i pozzi del sistema di irrigazione chiamato Kettara: viene sfruttata l’acqua derivata dalla neve che si scioglie per incanalarla utilizzando le pendenze del suolo fino ad arrivare alla zona da irrigare. Così si scavano pozzi sempre più profondi man mano che ci si allontana dalla montagna. Ogni tanto si incontrano donne che portano fascine di erba medicinale sulle spalle, curativa per le mucche. Il caffè marocchino è preparato solamente in casa macinando i grani del caffè con zenzero, noce moscata e cannella; talvolta viene aggiunto del pepe. Il tutto viene lasciato in infusione in acqua calda prima di berlo.
Alle 9.30 lasciamo la regione di Tafilat (dove le donne portano il velo nero sulla testa) e comincia la strada delle 1000 kasbah, dove le donne passano il velo sotto la spalla per usarlo come sacca. Si tratta di usanze legate alla tribù di appartenenza e non alla religione. Facciamo pausa al caffè ristorante Itran. Rimango incantata dal villaggio di Tinghir (il nome vuol dire vivere in alto, coltivare in basso), un’oasi a 1350 m in terra e paglia con alla base il rigoglioso palmeto di Todra, che prende il nome dal fiume che scorre vicino. Da un tornante della strada che sale alle gole del Todra, tra una foto e l’altra al colore ocra di Tinghir, compro una sciarpa pashmina. Il cielo comincia ad offuscarsi.
Lasciato Tinghir, la strada si restringe per incunearsi tra pareti imponenti di roccia rossa, prima solo a destra, poi su entrambi i lati: siamo arrivati alle gole del Todra, un canyon spettacolare con rocce alte fino a 300 m con l’acqua che scorre sotto. Qualche scalatore tenta l’impresa di salire su queste ripide pareti, mentre sulla destra si intravede un hotel, proprio sotto le rocce imponenti; un tempo i gruppi provavano l’ebbrezza di pranzare proprio in questa struttura fino a quando non si è staccato un masso che ha reso troppo pericoloso continuare a farlo. Dopo la passeggiata nelle gole del Todra, torniamo indietro perché la strada finisce. Nel paese moderno di Tinghir, visitiamo un negozio di artigianato berbero, dove rimango colpita da un tappeto tuareg che presenta alternativamente parti in tessuto, ricamate e annodate. Mi piace anche uno in seta d’agave tessuto dalla tribù nomade berbera Ait Zammour che finiamo per comprare dopo una discreta contrattazione (dai 3700 dirham iniziali lo acquisteremo per 1800). Mangiamo a Tinghir all’hotel ristorante Lamrani con minestra vegetale, tacchino, pollo, patate lesse, olive, arance.
Verso le 14.30 ripartiamo da Tinghir: la città è in forte espansione immobiliare e una grande parte di terreno è già predisposta con acqua e luce in attesa che un’impresa costruisca. Percorriamo un territorio di roccia friabile dove crescono solo cespugli. Il paesaggio cambia quando il fiume Dades permette di coltivare mandorle, fichi e rose. Il paese di Tamalout è in fermento per la preparazione della festa delle rose Miss Rose, che deve concludersi prima del ramadan che quest’anno comincerà a metà maggio. Lungo la strada i ragazzi vendono ghirlande a forma di cuore fatte con le rose. A Kelaa des Mgouna compro dei prodotti a base di rose damascene: acqua, olio, maschera. Il proprietario del negozio mi regala un sapone e io faccio in modo di includere nella contrattazione anche il burro cacao. Il paesaggio torna ad essere lunare prima di incontrare il palmeto di Skoura, nella provincia omonima. Qui sorge lo ksar Ait Ben Mouro e sullo sfondo l’antica kasbah Amridil.
Verso le 17 arriviamo a Ouarzazate a 1160 m, chiamata la Hollywood del Marocco; qui alcune rotonde sono abbellite con installazioni che riproducono pellicole o il ciak. Visitiamo la kasbah di Taourirte, una delle più grandi del paese con edifici a più piani di fango e terra che risale al 1510, proprio di fronte al museo del cinema. L’interno è un labirinto di sale, tra cui alcune con soffitti di canne, la sala coranica con stucchi decorati, quella dello sceriffo in legno di limone affrescato e stucchi intarsiati e dipinti. Alcuni artisti del luogo espongono le loro opere all’interno: mi colpisce per la sua bellezza un volto di donna. T. racconta che ogni volta che Moulay Ismail veniva nella kasbah portava con sé una sola donna. Per questo motivo c’è anche l’hammam. Il tempo è peggiorato e minaccia tempesta: nell’aria si percepisce la sabbia. Proseguiamo per Ait Ben Haddou che dista 30km e lungo la strada vediamo gli studi cinematografici. Arriviamo all’hotel Ksar Ighnda verso le 19. La struttura rappresenta un grazioso villaggio fortificato con parti comuni molto accoglienti; purtroppo la stanza 702 è piccola con la zona wc sghemba e microscopica. Un cartello affisso al muro della doccia avverte che le graziose bottiglie di vetro e peltro per la cura della persona contengono sapone di Aleppo, antenato del sapone di Marsiglia, e sono in vendita alla boutique, un monito a non portarsi via quelle in dotazione alla camera. Ceniamo alle 20. Prendo minestra di zucca, una specie di vol au vent con formaggio fuso e dello spezzatino, macedonia, melone, mousse al cioccolato, frolla con marmellata. Cena discreta. Piove a dirotto e soffia il vento: impossibile passeggiare.
Venerdì 4 maggio 2018
Mi sveglio con il cinguettio degli uccelli quando il sole sta per sorgere. Mi vesto in fretta per cogliere nelle foto i primi raggi sulle montagne circostanti, ma ogni scatto mi regalerà solo foto buie, indipendentemente da dove orienti la macchina. Facciamo colazione alle 7.30 con latte caldo, pancake e marmellata, pain au chocolat (veramente scarso), yogurt. L’hotel è accogliente, ma la cucina è da migliorare. Eleggo l’hotel di Erfoud il migliore del tour. Alle 9 visitiamo la splendida kasbah Ait Ben Haddou, una delle più spettacolari e meglio conservate della regione dell’Atlante, costruita addossata alla montagna. Ait indica apparenza, Ben figlio di, quindi il nome significa “del figlio di Haddou”. Varchiamo il fiume salato saltando da un masso all’altro. Le pietre sono ricoperte da sacchi di iuta come antiscivolo. Parzialmente restaurata, qui sono stati girati film famosi come Lawrence d’Arabia, il gioiello del Nilo, il Gladiatore e Alexander. Le torri antistanti il villaggio fanno parte della scenografia del film Il gioiello del Nilo nella scena in cui Michael Douglas sfonda il muro con l’aereo. La torre più a destra fa parte dello scenografia di Laurence d’Arabia. La struttura è dell’XI secolo e abitano all’interno 10 famiglie che partecipano come comparse nei film, alla preparazione delle scenografie e al mantenimento degli edifici (i muri hanno bisogno di manutenzione ogni anno e si usano i fondi Unesco). I muri interni sono fatti di sassi e terra, l’intonaco di paglia e terra. All’interno si passa in mezzo ai venditori di tappeti, monili, piatti in ceramica o a chi realizza schizzi di palme e deserti passando il foglio di carta sopra una fonte di calore facendo emergere il disegno fatto prima con il limone. Salendo scale e attraversando cunicoli, si giunge in cima alla collina da cui la vista spazia sui monti rocciosi, sull’Atlante innevato in lontananza, sul fiume e le palme ai piedi della kasbah. Poco prima di uscire mio marito acquista una paglietta.
Pranziamo alle 11.30 al ristorante Oasis Dok perché ci aspettano 180 km complicati per arrivare a Marrakech. Mangiamo minestra di verdure, una buona frittata berbera con uova, pomodoro e formaggio, spiedini di pollo, una salsiccia di una carne non identificata, polpette di agnello da cui mi sono tenuta ben alla larga, melone e anguria.
La strada che conduce al passo di Tichka (2260 m) è abbastanza dissestata e si inerpica attraverso un terreno roccioso. Oltrepassato il colle, l’asfalto migliora e il territorio cambia; la roccia presenta striature rossicce soprattutto nella zona di Taddart. Alle porte di Marrakech si intravedono i campi di golf, la città ne ha ben 18 e fino a qualche tempo fa, prima che i prezzi crollassero a favore di Tangeri, era di moda, per le persone abbienti, farsi costruire la villa dentro il campo.
Arriviamo all’hotel Les Jardins de L’agdal verso le 17.30; situato lungo la moderna Avenue Mohamed VI, la piazza Djemaa El Fna non è raggiungile a piedi. Verso le 18.30 usciamo a prendere il calesse per visitare le mura e la medina. Osservo i luoghi da un’altra prospettiva, ma il giro non mi entusiasma: mi sono sentita la turista che vede tutto dall’alto, mentre io preferisco confondermi con le persone. Il tour termina verso le 19.30 in prossimità della famosa piazza Djemaa El Fna che è affollatissima. Ad osservarla bene qui l’umanità ha un tocco singolare. Solo in India avevo già visto gli incantatori di serpenti. Qualcuno espone dentiere di seconda mano o foto dell’apparato digerente a indicare che di professione fa il curatore. Le donne che decorano con l’henné sono invece più comuni. Tante bancarelle vendono prodotti per il corpo a base di olio di Argan. Quelle alimentari invece vengono allestite solo di sera. Ci inoltriamo nel suq, ma al momento non noto niente di interessante.
Rientriamo in hotel per la cena. La scelta è vasta: comincio con una minestra, assaggio un pezzo di tacchino (tagliato sul momento) con patate, del couscous, olive. Anche sui dolci c’è l’imbarazzo. Assaggio, ma non mi piace, una mezza sfera di colore arancione: all’interno c’è una mousse alla fragola che non mi convince, buoni la millefoglie e un bignè farcito con una crema. Come frutta l’arancia è meno succosa di altre assaggiate prima. Dopo cena facciamo un breve giro nei dintorni dell’hotel con alcuni compagni di viaggio.
Sabato 5 maggio 2018
Sveglia alle 7 con colazione alle 7.30 con latte caldo, un buon croissant, pain au chocolat, tè alla menta, prugne e albicocche secche. Oggi ci accompagna Said (Felice), come guida ufficiale di Marrakech. Ci racconta come la lingua araba sia poetica nell’indicare alcuni concetti; per esempio la zitella è il tesoro dimenticato mentre il cimitero è il giardino dei silenziosi. La città è stata fondata nel 1062 dal sultano Youssef Bin Tachfin e nei secoli è diventata uno dei centri artistici e culturali più importanti del mondo islamico. Si parte alle 8.30 e ci dirigiamo verso i giardini Menara (si pronuncia Minarà cioè minareto) che risalgono al XII secolo anche se i padiglioni sono ricostruzioni ottocentesche; quello che è un giardino di ulivi con una piscina dove nuotano le carpe era il luogo dove si esercitavano i soldati. Alle spalle in linea retta si vede il minareto della Koutoubia. L’acqua che alimenta la vasca arriva dall’Atlante tramite canalizzazioni. Ci spostiamo verso la medina, inoltrandoci nel mellah per raggiungere le affollate Tombe dei Saaditi, necropoli iniziata verso la fine del 1500 da Ahmed el-Mansour per la mamma Lalla Messaouda e per se stesso. Circondato da un alto muro e da un giardino, simbolo del paradiso, vi si accede da un corridoio stretto; a sinistra c’è il mausoleo del sovrano con 3 sale decorate con oro zecchino e marmo di Carrara, come le dodici colonne che reggono la cupola che protegge la tomba del sovrano. Il secondo mausoleo, meno sontuoso, ospita la madre. Il complesso fortunatamente sfuggì alle razzie del successore alawita Moulay Ismail. Nel giardino incontriamo una mamma micia con il suo cucciolo rosso.
Da un bel giardino dove stanno montando una rudimentale giostra si arriva al Palazzo de la Bahia, dimora signorile risalente al XIX secolo, che prende il nome dalla moglie del visir Ba Ahmed. Ha una struttura irregolare con fontane, sale con soffitti di cedro intarsiato e dipinto, stucchi decorati, gradevoli giardini, un harem per le tante concubine di cui il governatore amava circondarsi; qui è stata girata una scena del film 100 dollari al sole. La moschea Koutoubia, edificata alla fine del XII secolo in calcare di Gueliz adesso ha perso l’intonaco e le piastrelle; con il suo minareto alto 70 m diventa un punto con cui orientarsi in città. In cima ci sono sfere di rame dorato, un tempo d’oro. La moschea è detta dei librai perché attorno c’era il suq del librai. L’altra moschea con un minareto più basso è quella della kasba. Addentrandoci nel suq arriviamo all’erboristeria garantita dallo stato che vende l’olio di argan puro, spezie, zafferano in pistilli (2 gr 10€), una sostanza simile al balsamo di tigre chiamata nigella e tanti altri prodotti naturali. Compro l’olio di argan, il profumo d’ambra, una crema alla mandorla. Pranziamo in hotel alle 13.30 con insalata di riso, paella, totani al pomodoro, olive, patate al forno, arance, millefoglie, crostatine con crema e fragole. Purtroppo per 2 minuti di ritardo il gruppo è partito e non riusciamo a vedere il negozio di antiquariato dell’amico di T.. Per occupare il tempo, chiediamo una cartina in hotel e cerchiamo di raggiungere la piazza della medina a piedi.
A causa del caldo e delle distanze, oltrepassiamo le mura, ma non orientandoci bene, invece di addentrarci nella città vecchia, ne attraversiamo solo una parte marginale. Alle 17.15 facciamo dietro front. Rientriamo in camera accaldati e per riprenderci facciamo una doccia. Alle 18.45 si va in piazza Djemaa El Fna con il gruppo. Girovaghiamo con alcuni compagni di viaggio. Alle 20 a piedi andiamo nel ristorante ksar El Hamra, dove fuori è affissa l’etichetta che contraddistingue uno dei migliori ristoranti del Marocco. Veniamo ospitati nel cortile di una casa signorile con stucchi e legno dipinti e l’immancabile fontana al centro. Il menu prevede antipasti con bietole, lenticchie, fagioli, melanzane, peperoni, zucchine (tutto sa solo di cumino, non mi soddisfa), tajine di pollo con olive, couscous da bagnare con il brodo della carne (buono), il dolce è scenografico: arriva un piatto grande con della pasta filo su cui è stata spalmata una glassa bianca al latte e mandorle. Sa di fiori d’arancio, sfizioso ma non eccezionale. Dopo arrivano dei dolci che sembrano amaretti, ma non lo sono e delle strisce di pasta fritta e passata nel miele. La cosa più buona è il tè alla menta, il migliore che ho assaggiato qui in Marocco. La serata si chiude con la danzatrice del ventre che ancheggia a suon di musica in mezzo ai tavoli, soprattutto quelli con solo uomini che cedono alla tentazione di infilare delle banconote nelle spalline del suo reggiseno. Uno spettacolo che annienta anni di femminismo!
Domenica 6 maggio 2018
Come preannunciato sin dall’inizio del viaggio, accettiamo la proposta della guida di andare direttamente a Essaouira senza passare da Taroudant, visto che il numero di ore di viaggio si aggira sulla decina. Facciamo colazione alle 7.30 con latte, croissant, pain au chocolat, yogurt, prugne e albicocche secche, tortillas di mais. Alle 9.30 T. ci mette a disposizione il pullman per andare al Jardin Majorelle, villa appartenuta al pittore francese Jacque Majorelle, che commissiona la costruzione in stile moresco con un lussureggiante giardino marocchino. Dopo la sua morte la struttura va in declino fino a quando Yves Saint Laurent la compra per ridarle nuova vita, arricchendo il giardino botanico con piante provenienti da tutto il mondo. Della villa e del famoso blu majorelle avevo sentito parlare sia in tv che durante la visita guidata della villa omonima a Nancy, la dimora del padre, il famoso ebanista art nouveau Louis. Annunciato da una serie di boutique ispirate al marchio ISL e da una discreta coda che brucia metà dell’ora a nostra disposizione, il giardino ha una vegetazione rigogliosissima, come d’altronde tutta la città di Marrakech. Il verde delle piante si mischia con il blu dei vasi e delle strutture presenti: padiglioni moreschi, vasche, fontane. Nel giardino troviamo il memoriale dedicato allo stilista e al suo compagno, morto nel 2017. Si rientra in hotel per riprendere il resto del gruppo e alle 11.45 pranziamo nel mellah della medina, al Palais Chahramane, antica dimora ebrea trasformata in ristorante. L’ingresso non è per nulla invitante, ma come ci ha detto ieri Said, le bellezze vanno nascoste per non attirare il malocchio. Ed ecco che all’interno troviamo un trionfo di maioliche alle pareti e stucchi decorati ai soffitti. Come antipasto vengono serviti fagioli, bietole, melanzane troppo piccanti, finocchi, carote, germogli. Come secondo arrivano spiedini di pollo e manzo (buoni), del riso da bagnare con un brodo. La frutta sono delle arance tagliate e affettate con della cannella sopra. Si termina con il tè alla menta, che non è buono come quello di ieri sera. Alle 14 si lascia Marrakech in direzione dell’oceano.
Il tempo continua ad essere nuvoloso. Durante la sosta bevo un succo di fragole. Lungo la strada ci fermiamo per vedere gli alberi di argan che danno frutti 2 anni si e 1 no. Il frutto ha 2 bucce, una verde, l’altra scura. Ci sono solo 2 cooperative Afous e Megene che raccolgono i frutti e 5 laboratori che lo lavorano, tra cui Rosa Huile dove ieri abbiamo comprato l’olio cosmetico. Da 100 kg di frutti si ricava 1 lt d’olio. La futura concorrenza per l’olio d’argan sarà l’olio di fico d’india, ottimo come cosmetico, ma non per scopi alimentari. L’argan contraffatto è ricavato dalla pasta di argan (frutto pestato) ammorbidito nell’olio di girasole. Lungo il tragitto gli alberi di argan lasciano il posto a quelli di tuia dalla cui radica vengono ricavate scatoline e altri oggetti. Arriviamo a Essaouira verso le 17 e la nostra passeggiata comincia dalla sqala della kasba, la piazza dove Orson Wells ha girato la parte in esterno di Otello. I bastioni con i cannoni danno direttamente sull’oceano e ovunque si vedono negozi (una sorta di suq a cielo aperto), gatti di tutti i colori che dormono beati e gabbiani che volano sulle nostre teste. In una piazza interna si apre il mercato del pesce. Entro nell’hammam dove Orson Wells ha girato una scena di Otello: lì alcune donne sono in desabillé. Usciamo subito perché già ci stanno chiedendo i trattamenti che vogliamo fare. Assaggio la crema a base di olio di argan, mandorle tostate e miele chiamata amelou. Mi sembra di cogliere il gusto delle arachidi piuttosto che quello delle mandorle e non mi entusiasma. A piedi giungiamo all’hotel Atlas Essaouira, sul lungomare e a 15 minuti dal centro della cittadina. Anche se la struttura è del 2008, le parti comuni, soprattutto la moquette e la hall, sono un po’ demodé. Ci viene assegnata la stanza 1011 che dà sul giardino e non sul mare. Ceniamo alle 20.30 con tranci di pesce, zucchini, insalata di riso, patate al forno, minestra di zucca, crostate al cioccolato e alla frutta. Nel complesso non ho mangiato male. Dopo cena, passeggiata sul lungomare con alcuni compagni di viaggio.
Lunedì 7 maggio 2018
Prima colazione alle 8 con cappuccino della macchinetta, pain au chocolat, croissant, melone e arance, tè alla menta. Alle 9 si parte per il porto di Essaouira, sicuramente uno dei luoghi più affascinanti e celebri del Marocco, adagiata sulle rive dell’Oceano Atlantico e sferzata dagli alisei che i berberi chiamano taros. È circondata da mura direttamente sul mare dalle merlature smussate progettate dall’urbanista francese Cornut, lo stesso architetto che ha disegnato Saint Malo, mentre quelle interne con merli squadrati sono di stampo islamico. Dalla scala del porto, la vista sulla cittadina e le sue mura è splendida. Mentre i gabbiani volano sulle nostre teste e i gatti si aggirano tra reti e barche in cerca di pesce fresco, ammiriamo i torrioni delle mura che ricordano la torre di Belen di Lisbona, anche se T. con orgoglio afferma che sono di stampo arabo. Sotto la scala della kasba ci sono i laboratori degli intarsiatori del legno, tra cui la tuia. Qui compriamo due scatoline con un intarsio, una barchetta a remi, un dado. Proseguendo, vedo appese delle cornici intarsiate e penso che una con uno specchio dentro potrebbe stare bene a casa nostra. Compro quella a forma di arco arabo. Pranziamo alle 12 al ristorante Seven, direttamente sul mare. Oggi il tempo è bello e la conca che racchiude Essaouira fa venir voglia di non andare più via. La spiaggia è immensa ed è insolito vedere i dromedari su una sabbia che non è quella del deserto. Accomodati con la vista sull’isola di Mogador, penso ai grigi autunni e ancora una volta mi rendo conto che avere perso il mare dell’infanzia ha lasciato in me un vuoto difficile da colmare. Cerco di vivere appieno questo brandello di tempo che mi rimane respirando l’aria che sa di salsedine. Voglio ricordare a lungo quest’attimo di luce.
Ci viene servita un’insalata di patate, peperoni, zucchine e altre verdure accompagnata da pagnottine calde cosparse da vari tipi di semi (papaveri, avena). Si prosegue con un filetto di scorfano in umido con zucchine, piselli e purè. Si conclude con arance e cannella. Ottimo pranzo in uno splendido contesto. Lascio Essaouira a malincuore.
Si riparte verso le 14, percorrendo una strada statale fino a raggiungere l’autostrada. Noto che per un tratto le indicazioni sono trilingue, arabo, francese e berbero, poi più a nord sono usate solo le prime due. Attorno i campi di grano biondi sono sul punto di essere trebbiati e tante capre brucano l’erba. Arriviamo a Casablanca dalla strada costiera, passando accanto al Morocco Mall, il secondo centro commerciale più grande al mondo, dopo quello di Dubai. T. ci dice che è il regalo di un uomo ricco alla moglie, sottolineando come gli uomini musulmani amino tanto le loro donne da lasciare segni tangibili del loro amore. Alle 18.30 siamo di nuovo al Kenzi Tower. Salutiamo la nostra guida. In hotel ci assegnano la stanza 1007, angolare e mastodontica con vista sulla moschea. Facciamo un giro con due dei nostri compagni di viaggio al centro commerciale vicino all’hotel e noto che tanti negozi sono stati chiusi. Compriamo una scatola di sardine, come è ormai consuetudine farlo nei paesi che ne sono produttori. Ceniamo alle 20 al ristorante del 2° piano che si chiama Insense con minestra con pezzi di carne un po’ piccante, olive nere, insalata di farro, zucchini grigliati, pesce, spezzatino di vitello con noci e prugne, cheese cake, cremino al cioccolato, mousse all’arancia. Dopo ci spostiamo nel salone della hall per chiacchierare e dove salutiamo i compagni che domani prenderanno un volo diverso dal nostro.
Martedì 8 maggio 2018
Colazione alle 7 con latte, pain au chocolat, croissant, crepe al cioccolato, prugne, yogurt. Alle 8.30 arriva un pulmino molto più piccolo di quello che ci ha accompagnato per tutto il viaggio. Durante il trasferimento in aeroporto ci telefonano per dirci che il volo subirà un ritardo di circa 2 ore. Quando arriviamo in aeroporto scopriamo che tutti gli aerei diretti in Italia sono in ritardo a causa di uno sciopero in corso e che alcuni voli Alitalia sono stati soppressi. Il giro al duty free si esaurisce in breve tempo (è tutto molto caro e i negozi non sono poi così tanti) e ci scambiamo i numeri di telefono con i compagni di viaggio. Partiamo alla fine alle 15.40 (invece delle 12.20) da Casablanca con il volo AT950. Arriviamo a Milano Malpensa alle 19.20 (invece delle 16.25), salutiamo i compagni di viaggio e saliamo sul pulmino diretti al parcheggio.
Al prossimo viaggio!