Madagascar: contrasti e colori
12 LUGLIO MILANO / NOSY BE / ANKIFY /AMBILOBE / DIEGO SUAREZ Dopo una notte non proprio confortevole (9 ore!) rischiarano la carlinga dell’aereo le prime luci dell’alba, molto gradite sia a chi è riuscito a dormire, sia a chi, da ore, aspetta di poter mettere la parola fine a questa costrizione obbligata.
Ci avviciniamo… sono le 6:30 del 12 luglio 2010 e si scorgono dagli oblò alcune isolette: Madagascar! Ho sempre associato questo nome a mondi inesplorati e viaggi avventurosi: chissà se le promesse saranno mantenute… Dopo essere scesi dall’aereo ci tocca una lunga fila per entrare nel piccolo aeroporto dell’isola di Nosy Be, “l’Isola Grande”, chiamata anche Nosy Manitra, “Isola dei profumi”. Mentre attendiamo pazientemente il disbrigo delle pratiche doganali un grande cartello attira la mia attenzione: “Aiutateci a combattere la corruzione”. Sono piacevolmente sorpresa, ma l’illusione dura pochi istanti: proprio mentre passiamo sotto l’avviso un poliziotto ci chiede, inutilmente, denaro per non aprire le valigie… Fuori dall’aeroporto troviamo il rappresentante del nostro tour operator: è una ragazzina gentile che parla un buon italiano, ci accoglie con “Tonga soa!” (Benvenuti!) e ci accompagna verso una macchina con autista. Inizia così la nostra avventura, correndo lungo l’unica strada asfaltata dell’isola che collega l’aeroporto di Nosy Be al porto del capoluogo; dopo il lungo viaggio aereo non c’è tempo per riposare: ci attende ora una traversata del tratto di mare che ci separa dal Madagascar vero e proprio e, subito dopo, un viaggio in 4X4 di circa 300 Km. Attraversiamo piantagioni di strani alberi contorti: la nostra guida ci spiega che sono i profumatissimi ylang-ylang ( Cananga odorata)che trovano, nell’isola di Nosy Be, il loro habitat naturale. La strana forma dell’albero dipende dai tagli che vengono eseguiti sulla cima, per favorire la raccolta dei fiori, in quanto in natura è un albero a crescita rapida che raggiunge un’altezza media di 12 metri. I numerosi e profumatissimi fiori crescono solitari o riuniti in piccoli grappoli, sono giallo-verdastri e hanno 3-5 petali allungati e un po’ arricciati. La raccolta, a mano, avviene il mattino presto; da 100 kg di fiori si ottiene un litro di olio essenziale di ylang-ylang, utilizzato nell’industria dei profumi, come essenza base per le migliori e costose fragranze. Continuiamo per la nostra strada, affiancata anche da piante di pepe e caffè e attraversiamo la frenetica Helville, il capoluogo dell’isola, con il suo frequentatissimo mercato, fino al porto, dove ci attende una barca veloce. C’è appena il tempo per i saluti e per sistemare i bagagli che già la nostra barca parte a tutta velocità, solcando il tratto di mare che ci separa da Anfiky, nella “Grande Terre”. Ed ecco, dopo circa mezz’ora di traversata, l’imbarcadero di Anfiky: una banchina approssimativa e desolante, che ci accoglie con le sue capanne su palafitte, gli odori di nafta e spazzatura, con l’ammasso di povere cose, copertoni e stracci nella fanghiglia, con la confusione di voci che si accavallano le une alle altre nel tentativo di sopraffarsi, col suo caos di mani che cercano di conquistare il “privilegio” di accollarsi, per poche monete, i nostri bagagli. Travolti e frastornati da questa confusione, ci ritroviamo su un fuoristrada, accompagnati da Augusto, il giovane malgascio che ci farà da guida in questo breve tour del Nord. Lasciamo il triste approdo di Anfiky e iniziamo a percorrere l’unica strada percorribile verso il nord del paese, attraversando un paesaggio in continua evoluzione: piantagioni di manghi, banani, canna da zucchero, piccoli e grandi corsi d’acqua sulle rive dei quali vediamo persone che lavano i panni, fanno il bagno… finché arriviamo al primo mercato di un centro abitato. Siamo ad Ambanja, sulle rive del fiume Antsampahaho; restiamo sorpresi dalla quantità di persone che affollano la via principale e le polverose stradine laterali: uomini che vanno in bicicletta, altri che attendono clienti ai lati della strada con i loro risciò, ciclo taxi, o spartane Renault 4, donne vestite con eleganti e colorati costumi tradizionali con la borsa della spesa, bambini che giocano dappertutto… Le bancarelle occupano ogni spazio utile ai lati della strada, mettendo in mostra la loro merce: stuoie e manufatti di paglia, teli colorati, spezie, pezzi di ricambio, utensili per la casa… persa tra la folla mi sento un’intrusa che, in modo indiscreto e senza permesso, spia un’intimità inavvicinabile. Ci rimettiamo in cammino, per sostare poco dopo nei pressi di una piantagione di cacao, alberi del pane (jackfruit), caffè, pepe e vaniglia; Augusto ci illustra le caratteristiche e le modalità delle diverse coltivazioni e le condizioni del duro e non sempre rimunerato lavoro. Quando torniamo sulla strada ci aspetta un gruppo di ragazzi e bambini che ci offrono campioni delle varie spezie che qui vengono coltivate. E il viaggio verso il nord continua… Prima di partire, sfogliando depliant di viaggio o navigando su Internet, pensavo che il Madagascar fosse un’isola nella quale, forse, si potevano ancora trovare angoli naturali intatti; ora invece mi sto rendendo conto che questo paese, grande due volte l’Italia, è ancora quasi del tutto incontaminato, nonostante il turismo di massa, che, almeno per ora, è riuscito a violarne solo minime parti. Ed ecco di nuovo scorrere davanti i nostri occhi immagini di una natura imprevedibile: foreste pluviali, risaie, distese di piante medicinali, boschi di Ravenala, la “Palma del viaggiatore”, simbolo di questa terra…: un vero paradiso terrestre. Ma è un Eden nel quale le condizioni di vita, purtroppo, sono, nella maggior parte dei casi, ai limiti della sussistenza. La strada che stiamo percorrendo, spesso piena di buche (nella stagione delle piogge le inondazioni frequenti portano via l’asfalto), è fiancheggiata da poveri villaggi di capanne di canne e fango, con tetti di foglie di palma intrecciate; non esistono servizi igienici, né elettricità o acqua corrente. E bambini, bambini ovunque…ai lati della strada, a piedi, in bicicletta, a terra, tra la polvere e gli animali da cortile, o dietro gli zebù nei campi. Ad un tratto comincia ad accompagnarci lungo il viaggio un triste ticchettio, come un’ossessiva e angosciosa pulsazione: sono i colpi degli spaccapietre, uomini, donne e anche bambini, che passano le giornate accovacciati sui talloni, a ridurre, con strumenti rudimentali e in condizioni disumane, pietre in ghiaia, che verrà poi rivenduta per pochi spiccioli come materiale da costruzione. Anche il paesaggio sembra ora adeguarsi a quella miseria: il colore predominante è il giallo della terra riarsa, della savana, dove resistono solo cespugli spinosi e rari alberi contorti. D’un tratto Augusto fa bloccare il fuoristrada: mentre si andava a tutta velocità, è riuscito a scorgere, non si sa come, un camaleonte giallognolo, striato di verde, che attraversa lentamente la strada, confidando nell’innocuità della nostra curiosità, per poi sparire fra gli steli d’erba secca. Ci fermiamo poi presso un mercato coperto: qui gli odori hanno il sopravvento sulla percezione visiva; su lunghi tavolati è esposta una varietà infinita di mazzetti di erbe medicinali: nel paese la sanità pubblica è per lo più inesistente e i malgasci si affidano quasi completamente alla medicina naturale. Augusto ci illustra i benefici effetti di molte di queste piante che sono un’altra delle ricchezze naturali del paese. Le merci occupano ogni piccolo spazio utile: manufatti di terracotta, utensili in legno, cesti in rafia di ogni dimensione, sacchi di gamberetti essiccati… Usciamo all’aperto sopraffatti dalla moltitudine e dall’intensità degli odori: ci ritroviamo così tra le bancarelle dei venditori di frutta , verdura, spezie e granaglie, dove vengono anche improvvisati spuntini a base di banane arrostite. La nostra meta è ancora molto lontana e, lungo la strada, incontriamo ogni tanto mandrie di zebù, o i tipici taxi-brousse, pittoreschi mezzi locali stracolmi di persone e di merci, che collegano località anche lontanissime fra loro, mettendo in atto la filosofia del “mora mora” (piano piano), la lentezza del vivere malgascio. Finalmente ci fermiamo a pranzare in un piccolo punto di ristoro nelle vicinanze di Ambilobé, base di partenza per le escursioni al Parco dell’Ankarana. La stanchezza del viaggio ci sta sfiancando ed io cerco di non guardare le condizioni igieniche delle latrine e della cucina del posto, avviandomi a consumare il pasto sotto un pergolato di canne. Per fortuna, però, il pranzo, servito con gentilezza da una graziosa ragazza dal coinvolgente sorriso, è ottimo: insalata di verdure cotte, riso con squisiti gamberi di mangrovie, piccole e dolcissime banane. Il resto del viaggio è sbiadito nell’abbiocco postprandiale; ma ecco finalmente entriamo ad Antsiranana, la capitale del nord, più nota col nome di Diego Suarez (dall’unione dei nomi dei due ammiragli portoghesi che scoprirono la baia all’inizio del XIV secolo). Il nostro hotel si trova in rue Colbert, la strada principale che attraversa un centro città piuttosto anonimo, ma l’albergo è inaspettatamente splendido: ascensore panoramico, camera arredata con gusto…la cena, ai bordi dell’elegante piscina, è all’altezza del resto. Tutto bello, forse troppo e il senso di colpa galoppante non ci farebbe chiudere occhio se non fosse che la stanchezzzzzzzzzz…
13 luglio
DIEGO SUAREZ/ MONTAGNE D’AMBRE / TSINGY ROSSO
Di prima mattina, vestiti con camicie e pantaloni lunghi per scongiurare eventuali punture di zanzare o,ancor peggio, morsi di sanguisughe, partiamo per Ambohitra (il prefisso An, nei nomi dei centri abitati, j sta per “città”), o Joffreville, piccola ex stazione militare, 35 Km a sud-ovest da Diego, fondata a più di 700 m di altitudine, all’inizio del secolo scorso, dal maresciallo francese Joffre. La cittadina, un tempo guarnigione e stazione climatica per i militari francesi, vantava numerose e belle ville in stile coloniale che ora, abbandonate e in rovina, la fanno somigliare ad un villaggio fantasma. Continuiamo a salire lungo una strada che attraversa una natura rigogliosa e coltivazioni di leetchies e giungiamo all’ingresso del Parco Nazionale della Montagne D’Ambre (biglietto 10000 aryary); uno dei parchi protetti del Madagascar, istituiti per cercare di risolvere uno dei problemi più scottanti di questo paese: la distruzione della foresta vergine. La sopravvivenza quotidiana della popolazione dipende dall’utilizzo delle risorse naturali e quindi le cause principali di questa continua devastazione sono il commercio del legno, gli incendi di grandi superfici per guadagnare spazio per le coltivazioni o l’allevamento del bestiame e gli incendi più piccoli, causati dai contadini per sottrarre alla foresta sempre nuovi terreni coltivabili. Il WWF prima e oggi l’A.N.G.A.P (Association Nationale des Aires Protégées), hanno permesso, almeno fino ad ora, di salvaguardare la natura incontaminata di questa regione. Il clima è fresco e piacevole, saliamo a circa 1200 m di altezza e poi ci incamminiamo a piedi nella riserva, una foresta pluviale che ricopre un massiccio vulcanico che ha un ruolo importante nell’approvvigionamento idrico per tutta la regione del nord. Appena entriamo nel parco siamo subito avvolti dai colori, le luci, le ombre della foresta tropicale; un largo sentiero sterrato ci conduce, fra una fitta vegetazione e alberi altissimi, all’interno di un autentico santuario naturale, un vero e proprio paradiso terrestre. Augusto, che ha studiato dai Salesiani, ci mostra le caratteristiche delle diverse piante e ne ricorda il nome botanico in latino; ci illustra poi le differenze fra piante epifite, che crescono sostenendosi su altre piante, saprofite, che vivono assorbendo sostanze organiche in decomposizione e parassite, che vivono sulle piante ospitanti fino a causarne la morte. Cespugli di felci (Asplenium nidus, felce a nido d’uccello) che si aggrappano ai rami di alberi che, con il loro fogliame, escludono l’azzurro del cielo, piante di orchidee, alberi con il tronco tri-quadrilobato (Augusto, dopo averne precisato il nome botanico, Canarium Madagascariensis , lo chiama “pisciatoio naturale”), felci arborescenti preistoriche,dalla lentissima crescita, ficus strangolatori, vari tipi di Pandanus, enormi radici aeree che cadono dall’alto e riescono a sopportare il nostro peso, liane, fiori scarlatti come esplosioni di colore tra le mille tonalità di verde… Il sentiero non è molto frequentato da turisti; incontriamo invece due ragazzini che, accompagnati dai loro zebù, si apprestano a macinare km su km per andare a vendere il loro riso in città. Augusto ci sorprende indicandoci esemplari di fauna che noi mai avremmo scorto senza il suo aiuto: un bellissimo Camaleonte di Parson, cosiddetto “dalle orecchie di elefante”, che avvolge a spirale la sua lunga coda prensile e che cambia colore istantaneamente, a seconda della luce o della superficie sulla quale lo posiamo e, incredibile a vedersi, due minuscoli esemplari di Brookesia minima, il camaleonte più piccolo del mondo, che la nostra abile guida scova frugando fra le foglie del terreno… Ci facciamo più attenti, cercando di intravvedere qualcosa tra il fogliame; anch’io riesco a scorgere un grosso Diplopode nero, che si racchiude a palla al contatto delle nostre dita. Arriviamo ora alla Piccola Cascata, che versa le sue acque in un piccolo cratere sprofondato nella vegetazione; qui la foresta è ancora più fitta, il sentiero più stretto e accidentato: un grosso ragno ordisce la sua tela attraverso il viottolo e Mauro, per evitarlo, inciampa, rischiando di cadere giù dal salto della cascata. Riprendiamo il cammino per un sentiero più agevole, che si snoda sotto alberi dal fusto altissimo in un sottobosco che ogni tanto si colora di fiori giallo-rosa (arbusti di Lantana), azzurri, fucsia, rossi… All’improvviso un fruscio fra le liane e i rami degli alberi, un movimento fulmineo, un’ombra veloce fra il verde e poi… due piccoli luminosi punti arancione fra le foglie: i lemuri! Un maschio grigio-marrone, dalla testa incorniciata da una corona di pelo chiaro si avvicina a noi curioso, gli occhietti vispi brillano nel musetto nero e ci fissano senza timore; la bestiola si muove agilmente e scende verso di noi attratta dal colore rosso della mia fotocamera: il corpo e la coda sono ricoperti da una fitta e morbida pelliccia dalla quale spuntano le zampine che sembrano le piccole mani di un bambino. Ed ecco altri lemuri (lemuri di Sanford) scendono velocemente dai rami più alti, aiutandosi con le zampine e le code prensili, ci degnano di un’attenzione di breve durata e poi, per nulla impauriti o infastiditi, si accoccolano sui rami sbucciando e mangiucchiando degli agrumi verdi. E’ un incontro davvero emozionante, sia per la bellezza di queste bestiole, sia per la fiducia e l’assenza di timore con le quali si avvicinano a noi. Percorriamo ora la “Via dei mille alberi”, fiancheggiata da palissandri e altri alberi dal legname pregiato, jacaranda, piante officinali, ficus elastica, aralie, orchidee, trombe degli angeli (Datura arborea)… e raggiungiamo una radura nella quale sorge un centro di accoglienza per i visitatori del parco. Graziosi uccellini giallo-azzurri si posano sui tetti dei fuoristrada, becchettano il terreno vicino ai nostri piedi e ci accompagnano per un tratto. Anche qui incontriamo grossi ragni appariscenti e un camaleonte “dal naso azzurro” (Calumna nasuta). Dopo un breve cammino arriviamo ad un’altra piccola cascata, la Cascade des Rousettes, una cascata ritenuta sacra che si getta in una conca naturale circondata da rocce e grandi felci. Augusto ci spiega che in questo luogo ancora oggi si compiono riti di ringraziamento sacrificando zebù e offrendo doni agli spiriti del luogo e agli antenati. Gran parte della popolazione del Madagascar segue le religioni tradizionali animiste: i Malgasci hanno estremo rispetto per la morte, e il culto degli antenati è molto importante. Spesso, alla morte di un familiare, si fanno seguire feste che durano giorni e, negli anni seguenti, si eseguono oscure cerimonie funebri, come il famadihana o rovesciamento delle ossa: durante il rito le ossa del familiare deceduto vengono dissepolte, lavate e cosparse di unguenti, quindi ancora sepolte, avvolte in nuove bende. Fra le rocce si scorgono resti di offerte di cibo: l’atmosfera del luogo è davvero magica e coinvolgente; saranno le spiegazioni della nostra guida, ma qui sembra davvero di avvertire la presenza di qualcosa di soprannaturale. E’ ora di pranzo e ci rechiamo in auto al “Relais de la Montagne d’Ambre”, in una fresca e tranquilla villa coloniale ristrutturata, immersa nel verde di un giardino tropicale con frutta esotica e bellissimi fiori, nel quale consumiamo un pasto tipico malgascio al fresco di una capanna. Nel primo pomeriggio ci rimettiamo in cammino verso sud-est; lasciamo la strada principale e, attraversando boschi di eucalipti, saliamo lungo una pista sterrata piena di buche, che si arrampica su rossi terreni scoscesi. Il fuoristrada si ferma sul crinale di un’altura che si affaccia su un panorama incredibile: la pianura alluvionale del fiume Irodo. Davanti a noi colline riarse punteggiate da rari arbusti e una pianura amplissima che si perde nell’Oceano Indiano. Ll contrasto con il verde lussureggiante del paesaggio di poche ore fa è smisurato: nella Montagne d’Ambre le piogge sono quotidianamente presenti, qui il rosso terreno inaridito appare fra gli steli d’erba bruciata dal sole e dal vento. Scorgiamo sulla destra del crinale profondi canyons: le Lavakas (buchi in malgascio), enormi spaccature nel terreno causate dall’erosione successiva alla deforestazione, profonde ferite della terra che,paradossalmente, creano un paesaggio molto suggestivo; un corso d’acqua, colorato dal rosso della laterite, serpeggia sul fondo del canyon. E’ il primo assaggio di un fenomeno del tutto particolare: gli “Tsingy rouge”. Raggiungiamo una radura e ci incamminiamo a piedi lungo il letto di un ruscello che si addentra nel canyon, per vedere più da vicino le strane formazioni degli tsingy rouge; dietro ad una curva ci appare all’improvviso, nella luce del tardo pomeriggio che crea incredibili sfumature, uno spettacolo davvero unico. Fantastiche guglie rossastre si elevano dal terreno, come pinnacoli di sabbia rosa creati da giochi di bimbi; erosioni, infiltrazioni, pioggia e vento hanno modellato queste cuspidi calcaree effimere, quali piccoli castelli fatati ricoperti di zucchero a velo. Ripercorriamo a ritroso la strada percorsa e, una volta raggiunta Antsiranana, prima che cali la sera, costeggiamo la grande baia, la seconda al mondo per grandezza, in mezzo alla quale appare il sacro “Pan di Zucchero” (luogo inaccessibile, tabù, fady per i malgasci). Continuiamo con un breve giro lungo rue Colbert, la via principale dove i colonnati, i balconi in stile coloniale delle case che vi si affacciano, il fatiscente antico Hotel de la Marine, sembrano essere malinconici ricordi di antichi splendori, fino a raggiungere la piazza con la statua del maresciallo Joffre, dalla quale si scorge l’arsenale e, poco oltre, il porto. E’ ormai sera: salutiamo David l’autista e Augusto, la nostra preziosa guida e andiamo a riposare in albergo.
14 luglio
DIEGO SUAREZ/ ANKARANA EST/ ANKIFY E’ tempo di tornare da Antsiranana ad Anfiky, dove terminerà il nostro minitour del Nord. Ripercorriamo a ritroso la strada fatta all’andata, mentre ci scorre davanti agli occhi la grande varietà di paesaggi della Grande Terre. Facciamo una sosta in una valle arida e spoglia, fiancheggiata da tristi capanne ammassate ai lati della strada: è il villaggio dei cercatori di zaffiri. Nonostante trattino pietre preziose le loro condizioni di vita ci sembrano le più difficili e dure. Nei pressi della riserva dell’Ankarana, parco nazionale, sono stati trovati alcuni giacimenti di zaffiri e molte persone hanno lasciato i loro villaggi e il lavoro nei campi col miraggio dell’”oro blu”, stabilendosi nei pressi dei filoni e facendo nascere questi poveri villaggi improvvisati. I cercatori scavano buche nella riserva dell’Ankarana, nelle quali si calano alla ricerca delle pietre, nell’illegalità più completa, rischiando la vita per pochi aryary . Appena scesi dall’auto ci circondano alcuni abitanti del villaggio, alcuni, tentando di venderci ciottoli e vetri colorati senza valore e altri, zaffiri stellati tagliati a cabochon. Diverse pietre davvero belle ci vengono offerte per poche decine di euro; noi ci dichiariamo subito non interessati all’acquisto, per non creare false speranze, ma, anche se avessimo una minima intenzione di acquistare, tanta è la ressa intorno a noi, l’insistenza e la pressione nei nostri confronti che non riusciremmo di certo a decidere chi accontentare del gruppo. Alcuni bambini mi chiedono di fare loro una foto… sarà una mia impressione, ma la mancanza di speranza si può leggere anche nei loro occhi senza sorriso.Arriviamo a Ambilobé, all’ingresso est del Parco dell’Ankarana, nei pressi del quale sorge un piccolo villaggio di capanne di legno e foglie di palma; alcune persone sono accovacciate all’ombra, una bambina sta pulendo al setaccio del riso, mentre altri bambini vociando e ridendo, sono impegnati, con una pertica, nella raccolta di frutti da un albero. La visita al Parco, al primo impatto, si presenta abbastanza disagevole: fa molto caldo e l’aridità della zona offre pochi punti di ristoro. I colori predominanti della riserva sono il grigio, il giallo, l’arancione, il marrone in tutte le tonalità, che ben si adattano al colore delle rocce. Vediamo baobab grigi (Adansonia perrieri) dagli enormi tronchi, che sembrano alberi capovolti, con le radici verso il cielo, Pandanus, Ficus Benjamina, alberi-damigiana con lunghe liane ricadenti (Adenia lapiazicola), grandi esemplari spinosi di Euphorbia, i curiosi Pachypodium, o piede d’elefante, di poche decine di centimetri d’altezza con tronco e rami tozzi di diametro relativamente largo… Augusto ci chiede di fare silenzio ed ecco, da un buco in un alto tronco, spunta la testolina e la manina dalle lunghe dita di un piccolo lemure notturno, con gli occhi spalancati, ma completamente ciechi. Iniziamo a vedere i primi tsingy grigi, le rocce calcaree, appuntite e molto taglienti che sono una delle attrattive dell’Ankarana; le guglie aguzze hanno una particolarità: se colpite con un sasso producono un suono acuto e metallico. Piccoli incontri durante il cammino: gusci di grossi molluschi, un camaleonte perfettamente mimetizzato su un ramo, graziosi uccellini blu, altri lemuri notturni nelle cavità degli alberi, un lemure diurno che salta da un ramo all’altro sopra le nostre teste, un bellissimo uccello grigio, un Cua crestato, con il petto rosa ed una deliziosa mascherina azzurra sugli occhi… Arriviamo ad una piattaforma posta su un punto panoramico; il paesaggio che abbiamo davanti è irreale: un’estensione immensa di acuminati e altissimi picchi grigi, aspri e inaccessibili, dove l’uomo sembra essere stato bandito per sempre, dai quali spuntano ogni tanto le chiome di alberi che si riparano dal vento, nei canyon stretti e lunghi che si aprono tra gli anfratti. Corsi d’acqua hanno provocato nei millenni l’erosione di questa terra, dando luogo a queste formazioni calcaree che costituiscono un incredibile deserto lunare, dall’aspetto assolutamente inospitale, ma altrettanto affascinante. Percorrendo un altro sentiero arriviamo in una sorta di anfiteatro naturale scavato nella roccia, che sprofonda improvvisamente in un gigantesco foro, la “Perte de rivières”. Questo fenomeno carsico è provocato dalla confluenza in questo punto di tre fiumi, le cui acque, nel periodo delle piogge, qui si scontrano violentemente e vorticosamente; i fiumi spariscono attraverso questa forra nel sottosuolo, per riapparire dopo 25 km e gettarsi in mare. Dopo la visita all’Ankarana pranziamo nello stesso punto di ristoro del primo giorno e ritroviamo Maria, la graziosa giovane cameriera che, sorridendo gentilmente, ci accoglie stavolta con il viso dipinto con fregi gialli (le giovani donne in Madagascar usano decorare il viso, sia per bellezza che per proteggersi dal sole, con una tintura naturale gialla o bianca). Sarà che la stanchezza del primo giorno ormai se ne è andata…oggi questo posto di ristoro non ci sembra più così squallido come due giorni fa e, al contrario, ci appare semplice e spartano, ma gradevole. Percorriamo l’ultimo tratto di strada che ci separa da Anfiky, fermandoci solo per scattare qualche foto e congratularci con un gruppo di ragazzi che attendono, ai bordi della strada, l’acquirente della loro pesca fortunata: un grande esemplare di tonno pinne gialle. Arriviamo all’ Hotel Baobab al tramonto; abbiamo solo pochi secondi per ringraziare e salutare con un po’ di rammarico Augusto e David: il battello che li porterà a Nosy Be sta partendo. Ci ritroviamo nel nostro bungalow, proprio sulla riva del mare; la struttura è semplice, ma molto piacevole e accogliente: sul nostro letto c’è una bellissima zanzariera, che ha per tetto un telo ricamato con un baobab intagliato; la porta d’entrata, trasparente all’interno e specchiata all’esterno, permette di godere da letto della vista del mare. Approfittiamo della luce del tardo pomeriggio per esplorare la spiaggia su cui sorge il nostro bungalow: di fronte vediamo l’isola di Nosy Komba, a lato un villaggio di pescatori che si affaccia su una lunga striscia deserta di sabbia bianca, frangiata da palme da cocco…e poi barche con bilanciere tirate a secco, galline che becchettano fra le alghe secche, grosse e bellissime conchiglie portate dalle onde, granchi pallidi che si nascondono dentro buchi nella rena… E infine il tramonto, mentre una barca, intravvista tra le palme, sembra catturare l’ultimo raggio di luce. Dopo cena cammino sulla spiaggia nell’oscurità più assoluta… e il Madagascar mi offre uno dei suoi incantevoli regali: il cielo nero sembra bucato da globi scintillanti, le stelle mi paiono in rilievo, enormi, la via lattea un sentiero opalescente che invita verso una profondità imperscrutabile; ora capisco che cosa vedeva Vincent quando dipinse il cielo stellato. Lo spettacolo è affascinante, ma le sagome luminescenti dei granchi che scorrazzano sulla spiaggia nera mi impauriscono e io ritorno nel mio letto, cullata dalle piccole onde che accarezzano la battigia, lì fuori.
Vivere qui è cogliere il respiro della Terra, col vento che struffa palme e savane e poi risuona negli anfratti aspri dei canyons. È riempirsi gli occhi e il cuore di colori, è scoprire acque di diafana trasparenza. Il Grande Spirito è ovunque, nel grande Baobab, nello zebù ucciso per nutrirsi, nel magico eclissarsi di un astro. Non cercare sicurezza! Ma negli occhi dei bimbi vedrai la speranza di un nuovo sole, di un nuovo seme, anche domani. Non cercare ricchezza! Ma apprendi a trarre da un legno informe suoni vibranti, che rimbalzano nei cuori e nelle onde tra nubi maestose, conchiglie e tramonti, Qui sentirai il respiro della Vita.
(Cinzia Scarpini Schmidt)
15 Luglio
ANFIKY/NOSY BE/ANDILANA BEACH/ MONT PASSOT
La mattina, alle 8, una barca veloce viene a prenderci direttamente sulla spiaggia, a due passi dal nostro bungalow; ancora una volta attraversiamo il tratto di mare che ci separa da Nosy Be, l’isola nella quale trascorreremo i restanti giorni del nostro soggiorno. Al porto di Hellville ci viene incontro la rappresentante di Alpitour jeans, che ci aveva accolto al nostro arrivo in Madagascar; dopo circa mezz’ora arriviamo al Vanila Hotel & Spa. Il nostro albergo, che sorge sul versante Nord ovest di Nosy Be, è una bella struttura in stile locale, con tipico tetto in foglie di Ravenala, circondato da un colorato e profumato giardino tropicale. Percorriamo le passerelle in lucidissimo tek e prendiamo possesso della nostra camera, molto ampia e confortevole, con stupenda vista sul mare e l’isola di Sakatia di fronte, l’isola delle orchidee. Poco dopo ci facciamo portare da un taxi ad Andilana beach, una bellissima e lunga spiaggia di sabbia bianca; camminiamo lungo la battigia, fino ad arrivare ad un promontorio che si erge su nere rocce basaltiche. Qui sorge la struttura alberghiera più grande e più turistica dell’ Isola; l’autenticità e la semplicità che abbiamo ammirato fino ad ora nel paese sono qui contaminati dalla pretenziosità e la falsificazione dei soliti resort di massa cafoni e chiassosi. Ci allontaniamo in fretta da questa realtà che non sentiamo nostra, seguiti dai venditori che operano sulla spiaggia: ci vengono offerte tovaglie intagliate, collane e bracciali in corna di zebù, oggetti in rafia, gite e escursioni nelle isole vicine… Chiediamo ad alcuni ragazzi notizie di Gedeon, un ragazzo col quale avevo stabilito un contatto su Facebook, ma la ricerca sembra infruttuosa. Intanto osserviamo come le acque limpide della baia si stiano ritraendo quasi a vista d’occhio: la bassa marea sta lasciando in secca vaste zone prima sommerse e una barca di pescatori si posa adesso sul fondo sabbioso… Ci fermiamo ora al fresco sotto le palme che ombreggiano un tipico ristorantino sul mare, “Chez Lulù”; qui consumiamo un ottimo pranzo a base di pesce alla piastra. La struttura è spartana, ma al contempo deliziosamente accogliente: le bianche tovaglie intagliate sui tavoli, le composizioni di conchiglie e fiori tropicali, il sorriso dei gestori, la brezza che spira fra le piante, il chiacchiericcio delle ricamatrici che riposano sdraiate sulla sabbia, all’ombra …tutto contribuisce a creare un’atmosfera veramente gradevole. Dopo un bagno nelle calde acque della baia, passeggiamo lungo il litorale, curiosando fra i coloratissimi negozietti improvvisati vicino al bagnasciuga; l’artigianato malgascio è molto ricco e possiamo ammirare molti manufatti originali: oggetti intagliati in legno pregiato, quali l’ebano e il palissandro, minerali e fossili, batik, tende e tovaglie ricamate, cesti e borse in rafia o sisal, posate e monili ottenuti dal corno di zebù, cintole e portafogli in coccodrillo, portafoto, album, quaderni in “Papier Antaimoro”, ottenuta dalla lavorazione della corteccia della “Avoha”, pianta semiacquatica che cresce nel sud del paese… Nel pomeriggio saliamo col taxi lungo una pista che ci porta sulle pendici del Mont Passot, il punto più alto dell’isola (330 m). Lungo il percorso ci fermiamo presso alcuni punti panoramici dai quali possiamo vedere scorci del paesaggio costiero e alcuni laghi vulcanici, considerati sacri, circondati da una folta vegetazione: dall’alto possiamo scorgere distintamente le sagome scure dei coccodrilli che nuotano nei laghi, appena sotto la superficie, mentre poco lontano alcuni ragazzi pescano tranquillamente. Facciamo una sosta anche sulla riva di uno di questi laghi: l’acqua scura appena increspata sembra nascondere un’insidia reale, anche se il nostro autista ci rassicura, dicendo che i coccodrilli si trovano solo sulla riva opposta. Ad ogni sosta incontriamo, vicino a delle bancarelle, bellissimi bambini, dagli occhi splendenti come perle nere, che ci sorridono timidamente. Arrivati sulla cima, troviamo un belvedere naturale dal quale si offre ai nostri occhi un panorama grandioso, a 360° su Nosy Be e sulle numerose isole e isolette dell’arcipelago, in una scenografia di incomparabile suggestione. Attendiamo qui il tramonto, mentre ad ogni minuto cambiano i colori e i profili intorno: il mare si accende di un azzurro profondo, i laghi sacri si colorano di blu zaffiro, la vegetazione circostante sembra riflettere i gialli e gli arancio del sole che cala all’orizzonte, mentre il cielo e le nuvole si tingono di rosa, di viola, di arancio, di rosso: un momento di rara magia. Pochi minuti ed è già buio; scendiamo velocemente lungo la pista che porta alla costa ed arriviamo sulla strada asfaltata: non ci sono luci lungo la via e, incredibilmente, il nostro tassista spegne i fari dell’auto, guidando a tutta velocità nell’oscurità, mentre ai lati della strada appaiono, all’ultimo momento, pericolosamente, le sagome nere di bambini, adulti, anziani a piedi o in bicicletta, tutti in cammino…qui, come nei villaggi del nord, la vita si svolge sulla strada, soprattutto di sera. Finalmente, tirando un respiro di sollievo, arriviamo al nostro hotel, dove ci attende Bruno, un locale organizzatore di viaggi che abbiamo contattato telefonicamente: ci accordiamo con lui per un’escursione, nei prossimi giorni, a Nosy Komba e Nosy Tanikely; domani andremo invece a Nosy Iranja: ci affideremo ad un ragazzo che abbiamo incontrato sulla spiaggia dell’Andilana, che ci ha promesso una gita sulla sua barca a motore, acquistata da poco. Ceniamo presso il nostro albergo, al ristorante “Le Grill Del Sol”su una terrazza sul mare; dall’oscurità del giardino volteggiano intorno alle luci della terrazza, schermate da guaine fogliari di palma, piccoli e veloci pipistrelli, mentre da dietro le stesse luci fanno capolino, curiosando, graziosi gechi colorati (Phelsuma lineata). Il cuoco francese ravviva con un tocco esotico la sua squisita e raffinata cucina e ci offre portate che ci deliziano la vista e il palato…mentre la brezza e le luci soffuse rendono ancora più suggestiva l’atmosfera della serata.
16 luglio
MADIROKELY/NOSY IRANJA
Prima di fare colazione al “Parfum de Vanille”, l’altro ristorante del nostro hotel, posto su una terrazza tutta legno di tek e palissandro, facciamo un giro per il lussureggiante giardino tropicale: bouganvilles, euforbie, cespugli di ibiscus… formano grandi macchie di colore sotto l’ombra di un’incredibile varietà di palme. E poi vialetti, lastricati con pietre o con sezioni di tronchi, fiancheggiati da sanseverie grigio-azzurre, piscine a sfioro disposte a scalinata digradante verso il mare, sotto alberi di frangipane e palme del viaggiatore, giardinieri occupati nella pulizia del giardino o intenti sulla spiaggia a caricare su un carretto, trainato da uno zebù, le alghe che le onde hanno depositato la notte… La puntualità sembra essere proprio una delle caratteristiche positive degli abitanti di Nosy Be: dopo solo pochi minuti di attesa sulla strada, ecco arrivare il pullmino che ci porterà all’imbarco per Nosy Iranja. Patrizio, un giovane malgascio piuttosto simpatico, sarà la guida del nostro gruppo che, oltre noi, comprende altri 10 italiani; di fronte alla spiaggia di Madirokely, una bella baia con una lunga spiaggia, punto di partenza per le escursioni alle vicine isolette, ci attende la barca a motore che ci condurrà alla nostra meta. Dopo aver indossato i salvagente partiamo verso il largo; la barca è nuova e veloce, attrezzata con un potente motore; in pochi minuti ci allontaniamo da Nosy Be verso sud, nel Canale del Mozambico. Durante la traversata incontriamo diverse imbarcazioni di pescatori, con le tipiche vele latine o quadrate, spesso lacere o rattoppate; passiamo poi vicino ad un isolotto, poco più di un grande scoglio, a forma di zuccotto: Patrizio ci avverte che qui è molto frequente la presenza di squali. La nostra guida è estroversa e molto loquace: racconta volentieri le sue esperienze, è interessato ed ascolta con piacere ciascuno di noi. Assisto, mio malgrado, ad un episodio che mi mette a disagio: una bambina sta giocando col suo Nintendo e Patrizio è particolarmente attratto da questo “marchingegno”; la madre si prodiga in informazioni sui requisiti e i pregi della consolle e, quando Patrizio (Patrick), con gli occhi accesi dall’interesse e dalla curiosità le chiede il prezzo, lei, senza imbarazzo, risponde: – Oh, costa poco, solo 200 €! – Solo 200 euro…(il reddito medio annuo si aggira intorno ai 270 euro), chissà che cosa penseranno di noi e del nostro modo di vivere questi ragazzi; forse siamo un modello cui tendere… Loro, che camminano spesso scalzi, si vestono con semplicità, possiedono l’essenziale, ammirano le nostre calzature ipertecnologiche, le nostre magliette firmate, tutto il nostro carissimo superfluo e probabilmente si lasciano sedurre ed incantare da tutti i nostri miseri, ma costosi oggetti; noi, al contrario, che guardiamo con gli occhi del benessere, siamo stregati dai loro sorrisi, siamo conquistati dalla semplicità e dalla genuinità del loro vivere, che riesce ad addolcire le nostre insoddisfazioni. La società dell’avere incontra la società dell’essere; questo confrontarsi produce a volte, in entrambe le parti, miglioramenti del vivere e trasformazioni positive, altre volte ingannevoli lusinghe e falsi bisogni, spesso frustrazioni e scontento ed il piatto della bilancia troppo spesso si abbassa da una sola parte… L’acqua del mare, durante la traversata, assume tutte le tonalità del blu, dall’inquietante e severo blu scuro al rasserenante, libero e arioso celeste, attraverso tutte le gradazioni dell’azzurro: ceruleo, cobalto, indaco, oltremare, turchese, zaffiro… Ed ecco, dopo circa un’ora e mezza, all’orizzonte appare una striscia di un bianco abbagliante, che sembra lì sospesa per dividere due azzurri, quello sfumato e impalpabile del cielo e quello più tangibile e palpitante di schegge luminose del mare: è Nosy Iranja, “l’Isola delle tartarughe”, il sogno, il paradiso terrestre. Nosy Iranja è in realtà composta da due piccole isole: Iranja Kely, la minore e Iranja Be, la più grande, unite da una sottilissima e bianchissima striscia di sabbia. Scendiamo dalla barca e ci tuffiamo nell’intensità della luce che dilaga e inonda ogni cosa; il nastro di borotalco, lungo circa un chilometro, che emerge grazie alla bassa marea sembra irreale, indescrivibile; ci affrettiamo a riporre gli zaini all’ombra delle palme di Iranja Be, per non perdere neanche un minuto di questa esperienza unica. Subito ci vengono incontro i bambini dell’isola: qui si trova un villaggio di pescatori, la cui presenza è rivelata sulla riva, oltre che dalle barche e dalle piroghe tirate in secca, anche dai tralicci di legno sui quali sono messi a seccare pesci.Camminiamo sulla lunga striscia di rena bianca, prima che l’alta marea faccia sparire il ponte naturale fra le due isole e le acque del mare si ricongiungano. Da entrambi i lati un mare splendido, trasparente e appena increspato da piccole onde che sfiorano il bagnasciuga, regalandogli sfumature rosate. Bagnarsi in queste acque calde e limpide, sdraiarsi sui banchi di sabbia a pelo d’acqua, che via via appaiono e spariscono, lasciare le proprie impronte sull’arenile immacolato e intatto e passare sul lato opposto, dove la bassa marea lascia conchiglie, pezzi di corallo rosso che attirano aironi grigi indifferenti alla nostra presenza, sono esperienze che custodiremo preziosamente, come attimi di perfezione assoluta. Arriviamo a Iranja Kely, dove si trova un resort molto esclusivo e, immediatamente, un sorvegliante si avvicina a noi vietandoci il transito; torniamo indietro, anche perché la lingua di sabbia si sta pian piano assottigliando. All’ombra delle palme di Iranja Be ci accomodiamo intorno ad un tavolo improvvisato ed assaporiamo un pranzo davvero strepitoso preparato sul posto: un enorme carangide alla piastra, aragoste squisite, granchi, spiedini di carne di zebù… Dividiamo l’abbondante cibo con i bambini e le donne che, lì vicino, mettono in mostra su strofinacci e magliette bellissime conchiglie (cypraee, lambis lambis, charonia tritonis…), mandibole di squali complete di denti affilati… Passeggiamo poi lungo il litorale e attraversiamo il villaggio, formato da capanne di legno e foglie di palma costruite sulla sabbia su palafitte di circa 30/40 cm; la vita qui è molto semplice e scorre tranquilla e sempre uguale. Incontriamo alcuni ragazzi che cantano accompagnati da una rudimentale chitarra costruita con pezzi di legno e fili da pesca, ma soprattutto donne e bambini, intenti a svolgere varie incombenze, come pestare con un lungo bastone la manioca in un grande mortaio. Raggiungiamo il versante opposto dell’isola: anche qui una bellissima spiaggia bianca, frequentata solo dai bambini del villaggio, che oggi però giocano con bambini europei, arrivati qui in barca con le loro famiglie. Una breve salita ora ci attende; saliamo a fatica, a causa del caldo, sulla collina che domina tutta l’isola; qui, in un’ampia radura, sorgono le costruzioni più recenti e meglio curate: il faro, appena verniciato, e la scuola, un edificio in muratura abbastanza ben tenuto e spazioso. E’ ora di andare, di salutare i compagni per un giorno di questa piacevole esperienza, di lasciare questo luogo che resterà a lungo nella nostra memoria come un miraggio per una volta raggiunto.
17 luglio NOSY SAKATIA
Notte orrenda passata in bagno: il foie gras di ieri sera, mangiato contro voglia, mi è stato fatale (e ben mi sta!). Questa mattina dovremmo andare con il ragazzo che ci ha organizzato la prima escursione a Nosy Sakatia, l’”Isola delle Orchidee”, ma non so se sia il caso. Decidiamo di recarci all’appuntamento comunque, poi si vedrà… Sulla spiaggia un ragazzo sta raccogliendo le alghe che stanotte il mare ha portato a riva; uno zebù attende pazientemente che il carretto al quale è legato venga caricato. Il tempo passa, ma del nostro accompagnatore nessuna notizia; passeggiamo lungo la spiaggia di Ambaro e chiacchieriamo con alcune donne che mettono in mostra sulla sabbia i loro prodotti artigianali. Siamo avvicinati da due ragazzi che ci chiamano per nome: sono due amici di Gedeon (Valeur), il ragazzo conosciuto su Facebook che avevo invano cercato alla spiaggia dell’Andilana. Gedeon è impegnato in un tour e ci ha inviato i suoi amici nel caso volessimo organizzare con loro qualche escursione. Ringraziamo, spiegando che, purtroppo, abbiamo programmato le gite con altri beach boys e pregandoli di salutarci Gedeon. Ma del ragazzo con cui ci eravamo precedentemente accordati nemmeno l’ombra, ha ormai un’ora di ritardo: probabilmente ci ha dato buca. Per fortuna ci avvicina un ragazzo, Marcello (Martial), che ci propone di portarci a Nosy Sakatia con la sua barca a motore. Accettiamo e iniziamo la traversata del breve tratto di mare che ci separa dall’isola. Dopo pochi minuti ci avviciniamo ad una tranquilla piccola spiaggia, orlata da palmizi, incrociando piroghe a bilanciere esili e slanciate, scavate in un solo tronco, che scivolano sull’acqua. Sbarchiamo presso il piccolo villaggio di Antanabe, abitato da circa 300 persone dedite alla pesca, e ci dirigiamo ad est, dove, superato il grazioso Hotel Sakatia Lodge, si trova una collina, ricoperta dalla foresta tropicale, che digrada in alcune spiaggette incontaminate. Siamo soli nella quiete più assoluta, in una spiaggia piena di conchiglie e resti di madrepore; Defoe pensava di sicuro ad uno scenario simile quando descriveva l’isola in cui fece naufragare Robinson Crusoe. Non sto bene e rimango all’ombra delle mangrovie, mentre Mauro si avventura in acqua: purtroppo oggi la bassa marea contribuisce a rendere non proprio attraente bagnarsi in queste calette, il mare non è trasparente e il fondo è disseminato di rocce taglienti. Più tardi torniamo verso il litorale sabbioso; ci sono alcuni sentieri che si addentrano nella foresta che ricopre l’isola e noi ci inoltriamo con la nostra guida nell’interno. Marcello ci mostra alcune delle piante tipiche dell’isola: il Ficus bengalensis, dalle radici aeree che scendono fino a toccare il suolo, per dar vita così a nuove ramificazioni che, aggrovigliandosi con quelle già presenti, formano un’ imponente chioma…e poi le piante del caffè, l’altissimo albero del Kapok (Ceiba pentandra), il cui tronco diritto viene utilizzato per la costruzione di piroghe, le palme da cocco, la palma da rafia (Raphia farinifera o Raphia ruffia), dalle cui foglie si produce la fibra per creare coloratissimi oggetti intrecciati, piante di ananas… Incontriamo una bambina che sta lavando ad una pompa d’acqua pentole e panni; la sua capanna, solitaria in mezzo alla vegetazione, ha una piccola veranda e una tendina ricamata alla finestra, ma è inclinata da un lato, forse a causa di qualche ciclone tropicale. Marcello ci mostra poi un “alembic”, una piccola distilleria familiare di ylang-ylang: i fiori profumati vengono inseriti in una caldaia posta su un focolare; un tubicino trasferisce poi il vapore in un serbatoio dal quale uscirà il prezioso olio essenziale. Arriviamo in una radura dove, su una sorta di traliccio-stenditoio, sono appesi pesci ad essiccare, tenuti aperti da piccoli pezzi di ramoscelli; qui sorge anche il lungo fabbricato “dell’école de Sakatia”, la scuola costruita con il concorso di associazioni internazionali di cooperazione allo sviluppo. Torniamo sulla spiaggia nella quale siamo arrivati stamane; la bassa marea è al suo massimo livello, fa caldo e ci riposiamo all’ombra, accanto al piccolo “arsenale” nel quale si riparano le piroghe e le barche dei pescatori. Le piroghe dei pescatori malgasci sono molto spartane, ma efficienti. Lo scafo e’ ricavato da un unico tronco, due bracci e un bilanciere sporgono sul lato destro, al centro un palo, dove viene issata una rudimentale vela, realizzata con alcuni sacchi per il riso cuciti insieme. Due sono i tipi di vele utilizzate dai pescatori: quella quadrata, di origine polinesiana, residuo dell’antica colonizzazione proveniente dall’indo-pacifico, e quella triangolare “latina”, portata dagli arabi provenienti da Zanzibar; nell’arcipelago di Nosy Be le due culture si incontrano e si sovrappongono. Torniamo a Nosy Be, ma, avvicinandoci alla spiaggia di Ambaro, abbiamo una sorpresa: il mare si è ritirato di circa un Km! Salutiamo e ringraziamo Marcello, scendiamo dalla barca e torniamo a piedi al Vanila hotel: abbiamo un appuntamento nel tardo pomeriggio con Patrizio, il giovane malgascio che ci ha portato ieri a Nosy Iranja e decidiamo di rilassarci prima nelle piscine dell’albergo. Un bagno rigenerante nelle tre piscine digradanti verso il mare e velate dall’ombra di palme del viaggiatore e profumati frangipane riesce finalmente a cancellare del tutto i postumi della notte scorsa. Più tardi incontriamo Patrizio, appena tornato da un’altra gita a Nosy Iranja; ci spiega che il ragazzo che doveva portarci stamattina a Nosy Sakatia ha avuto la sera scorsa problemi con la moglie e ha passato la notte fuori casa, con tutte le conseguenze immaginabili… Dopo la cena, come sempre ottima (a parte il foie gras), entriamo nello spazio espositivo dell’albergo: qui deliziamo i nostri occhi con le belle pietre di un gioielliere francese specialista in zaffiri stellati, “Le Tamarin” di Madirokely.
18 luglio
NOSY KOMBA/NOSY TANIKELY
E’ il nostro ultimo giorno in Madagascar. Puntualissimo Bruno passa a prenderci con la sua spartana Renault 4 gialla e ci conduce alla spiaggia di Madirokely, presso il villaggio di Ambatoloaka, dove troviamo i nostri compagni di escursione, una coppia di italiani e due amiche francesi con le loro figlie. Dopo circa un’ora arriviamo a Nosy Komba, l’isola dei lemuri, chiamata anche “Nosy Ambariovato”, cioè “Isola circondata dalle rocce”, a causa degli affioramenti di roccia vulcanica nel mare di fronte. L’isola ci appare come una grande cupola verde che esce dall’acqua, essa è infatti quasi completamente ricoperta dalla foresta; poi la barca si avvicina e scorgiamo un piccolo villaggio di capanne che si affaccia su una bella spiaggia giallo-rosa; sulla riva numerose barche di pescatori in arrivo o in partenza. Ma la nostra attenzione è attirata soprattutto da una sventolante sequenza di teli bianchi: sono le tipiche tovaglie intagliate e ricamate che, sciorinate al sole su fili stesi fra pali, sembrano salutare il nostro arrivo. Sullo sfondo di questi drappi candidi e preziosi si stagliano immagini ordinarie di vita quotidiana: una donna accovacciata che pulisce le verdure, un’altra che lava i panni in una vasca, anatre che cercano avanzi di cibo tra la sabbia, un bambino che trasporta sulle spalle una pesante cesta di rafia, altri bambini che giocano con la sabbia fra gli scafi snelli delle piroghe, un ragazzo che lava pentole e stoviglie in una conca, alcuni giovani che si riparano dal sole sotto le palme, commentando l’arrivo dei nuovi visitatori … Il villaggio è composto dalle solite capanne-palafitta che sembrano sostenersi a vicenda, sulla cui soglia sono spesso sedute donne che ricamano; le uniche costruzioni in muratura sono la scuola, oggi chiusa e la chiesa, da cui proviene un coinvolgente coro gospel. Fra una casa e l’altra, ai lati delle stradine, bancarelle che espongono collane fatte con i semi delle piante, piccole ceramiche, oggetti intagliati nel legno…prodotti dagli stessi abitanti dell’isola. Appena fuori del villaggio incontriamo i primi lemuri: tre maschi dalla pelliccia nera ci osservano dall’alto di un albero ma, appena sentono il richiamo dei ragazzini che ci accompagnano: “Maki, Maki, Maki!”, scendono velocemente da un ramo all’altro e saltano d’improvviso sulle nostre spalle, tenendosi in equilibrio con la lunga e folta coda. Offriamo loro dei pezzetti di banana e i graziosi lemuri, con le loro “manine” scure, prendono dalle nostre dita il cibo. Il loro pelo è morbido, sembrano simpatici peluches dai curiosi occhietti arancioni. Risaliamo un sentiero di terra battuta, accompagnati dai canti e dai sorrisi di un gruppo di bambini, fino adfarrivare in un piccolo parco nel quale si trovano, liberi o in piccoli recinti, alcuni animali tipici dell’isola. Un altro gruppo di lemuri dal dorso bruno-rossiccio e dal musetto affilato incorniciato da un lungo e soffice pelo bianco, si accorge del nostro arrivo. Sono tre femmine di lemure makako, con agilità sorprendente scendono dai rami più alti, si avvicinano senza timore e saltano sulle nostre spalle, premendo delicatamente con i polpastrelli morbidi delle loro lunghe dita prensili. Una di loro mi apre gentilmente una mano per cercare il suo pezzo di banana e si lascia accarezzare senza alcuna diffidenza; da un ramo basso un’altra creaturina salta sulla mia testa, senza farmi alcun male. Continuiamo la passeggiata accompagnati dalle bestiole che ci seguono, saltando da un albero all’altro, e arriviamo ad un recinto di cemento dove sonnecchiano alcuni boa arboricoli (Boa manditra o Acrantophis dumerilii); lì vicino troviamo l’area dedicata alle piccole testuggini raggiate (Geochelone radiata) e a una tartaruga gigante (Geochelone gigantea), controllati a vista dagli occhi roteanti e del tutto indipendenti di un camaleonte verde, seminascosto tra le foglie di una pianta. Tornando al villaggio assisto ad un breve scontro tra due galli combattenti, aizzati l’uno contro l’altro da due ragazzi; siamo accaldati e ci immergiamo nelle calde e limpide acque dell’isola, nuotando fra le barche dei pescatori, insieme ad alcuni ragazzi malgasci che ci osservano divertiti. Le tovaglie sulla riva, di un bianco abbagliante, proiettano sulla sabbia bellissime ombre traforate e si agitano al vento; saliamo sulla nostra barca e riprendiamo la traversata. La nostra meta è ora Nosy Tanikely, la “Piccola isola”, che ci appare ad un tratto in mezzo al blu del mare. Nosy Tanikely è poco più di un verde isolotto disabitato, poco elevato e circondato da una bella spiaggia bianca; l’acqua è limpida e cristallina e, avvicinandoci alla riva, ammiriamo il fondale ricco di pesci e formazioni coralline: un altro angolo di paradiso. Nosy Tanikely è da poco diventato Parco Nazionale marino per proteggere la barriera corallina dai deleteri effetti di una sempre più dissennata pesca al traino; ci è stato detto che qui si possono vedere anche le tartarughe marine: non resistiamo e, con maschera e boccaglio, ci tuffiamo nelle acque trasparenti. Dopo poche bracciate si offre ai nostri occhi un meraviglioso mondo sommerso, che noi iniziamo ad esplorare con impazienza, ma, subito, siamo tormentati da piccole punture in tutto il corpo che, dopo alcuni minuti, diventano insopportabili; usciamo dall’acqua e ci ritroviamo con l’intero corpo ricoperto da bolle rosse… Françoise, la signora francese che è con noi, ci spiega che il bruciore è causato dal contatto con filamenti pressoché invisibili lasciati da minuscole meduse…non ci resta che attendere che l’irritazione passi. Ma la tentazione è troppo forte e,dopo circa mezz’ora, decidiamo di rischiare di nuovo; nuotiamo intorno ad alcuni scogli affioranti e scopriamo ancora una volta, a poca distanza dalla superficie, un bellissimo fondale: formazioni coralline, ricci dalle spine lunghissime, madrepore, anemoni di mare dai colori più diversi, pesci a righe verticali, a righe orizzontali, pesci-chirurgo, pesci-pappagallo, pesci-pagliaccio, pesci-angelo, pesci-trombetta, pesci-farfalla, pesci argentei, gialli, azzurri… Un caleidoscopio di colori e di forme variegate e cangianti. Il tempo passa velocemente, è ora di tornare a riva, dove, all’ombra degli alberi, i nostri accompagnatori ci hanno preparato un pranzo a base di pesce arrostito, riso e spiedini vari. All’improvviso ospiti inattesi si avvicinano alla nostra tavola: due lemuri solitari si avvicinano a noi per ottenere cibo, producendo suoni gutturali. Le impudenti, ma simpatiche bestiole hanno le code un po’ spelacchiate: probabilmente l’aver preferito procacciarsi il cibo facilmente, avvicinandosi troppo frequentemente all’uomo, ne ha modificato l’odore, cosicché i due sono respinti dalla colonia dei loro simili, che vivono selvaggi all’interno della foresta. Prima di lasciare l’isola decido di fare una passeggiata sulla sabbia fine e compatta, fino a raggiungere alcune rocce, dalle quali mi appresto a fotografare la spiaggia baciata dal mare: scivolo sulle rocce taglienti come rasoi, mi procuro alcune profonde ferite alle gambe e…dulcis in fundo, lascio cadere in acqua la mia fotocamera digitale. Sono infuriata per la mia sbadataggine e imprudenza, ma la mia irritazione svanisce dopo poco: non si può rovinare una giornata come questa. Durante il viaggio di ritorno approfondisco la conoscenza con Françoise; lei conosce molto bene il Madagascar: per alcuni mesi all’anno vive qui per motivi di lavoro. Ascolto con piacere ciò che Françoise racconta di questo paese, in un ottimo italiano con un delizioso accento straniero: ci scambiamo gli indirizzi promettendo di scriverci una volta tornati a casa.Mentre torniamo al Vanila Hotel, cerchiamo di assaporare e di imprimere nella memoria le immagini che corrono davanti ai nostri occhi; poi la Renalt 4 di Bruno si ferma e noi lo aiutiamo a ripartire dandogli una spinta: così è il Madagascar, arrivederci, “valòma”!
19 luglio
E’ ora di ripartire, naturalmente “mora mora”, piano piano…. Lungo la strada resta poco spazio per le parole; qui, come sempre, il tempo è sospeso… ma non abbiamo fretta, perché, almeno per qualche giorno, abbiamo fatto nostra questa scheggia di sapienza malgascia, indispensabile per sciogliere, con lentezza, i segreti dolci e selvaggi dell’isola africana. La fotocamera si è guastata, non scatto più foto, ma non importa: “Quello che l’occhio ha visto, il cuore non dimentica” dice un proverbio locale…
– La Nostra Isola –
Quando sarete sulla nostra isola non scuotete i nostri bambu’, non spaventate i nostri coccodrilli, non sparpagliate i nostri ciottoli.
Quando sarete sulla nostra isola non andate piu’ lontano delle nuvole, prendete qualche conchiglia per i bambini delle vostre citta’.
Partite, ritornate verso il mare con le vostre macchine e le vostre strade e le vostre navi in ferro.
Partite
Lasciate danzare il vento, lasciate cantare il silenzio, lasciate sognare l’Oceano.
Quando sarete nella nostra isola non invadete i nostri villaggi, non insegnate il vostro Vangelo e lasciate i nostri saggi alla loro filosofia.
Quando sarete nella nostra isola lasciate i nostri mari, i nostri fiori e i nostri pesci alla loro esistenza tranquilla come ai vecchi tempi di Robinson.
Partite
Lasciate danzare il vento, lasciate cantare il silenzio, lasciate sognare l’Oceano.
(Roger Kha)
Milena, luglio 2010