Le mie notti con Tamerlano
Oh, è bella, bella, sì, vestita a festa per i turisti, ma spogliala, toccane i punti rilevanti e ti darà il meglio, ti sorprenderà per cosa è capace e ti mostrerà le sue grazie, nascoste dietro mura anonime. Questa terra desiderata da tutti, da tutti fatta propria, colla forza o per amore, fertile di frutta e d’ingegno, questa terra non conosce il mare perché non vi si parte ma ci si arriva. Questa terra esibisce con orgoglio le vestigia di mille battaglie ardite, di efferate crudeltà e di grandi amori, di potentati scomparsi e di commerci fiorenti. Sono queste le radici della solida onestà della gente, che risponde allo sguardo con occhi dall’indecifrabile colore, che sorride con volti europei, asiatici e orientali, che comunica inciampando in una cascata di consonanti e ride. Ride il bambinello sul treno veloce Samarcanda‑Tashkent che non parla ancora, ma fa notare al babbo una persona che entra in carrozza, lancia un gridolino e batte le mani con espressione compiaciuta quando accendono le luci ed è attento a tutto, come sapesse tutto, gli occhi tondi pieni di un’esperienza antica, la mimica eloquente come quella di un adulto. Ridono mostrando i denti d’oro le contadine in gita festiva, casacca nera della nonna fino alle caviglie e fazzolettone in testa. Ridono tutti perché anche se la corrente è andata via, gli spiedini continuano a cucinarsi sulla brace, cubetti di tenero montone che cogli anni faranno metter su a tutti chili pregiatissimi. Ridono gli uomini quando si incontrano, abbracciandosi a pudica distanza, e le donne che tessono un tappeto sedute vicine. Ridono i passanti dietro ai turisti che son così strani e non capiscono, non sanno come si vive, qui.
Qui è un paese che gode d’un felice periodo di ricostruzione dalla riacquistata indipendenza nel 1989, e indipendenza vuol dire volontà di riappropriarsi dell’antico credo musulmano, forzatamente soppresso durante l’occupazione sovietica; libertà di sostituire, nei nomi delle strade e nella mente delle persone, gli eroi russi con quelli nazionali e i caratteri cirillici con quelli latini; e possibilità di cambiare le alleanze minimizzando l’influenza sovietica per avvicinarsi all’Europa – anche se la seconda lingua rimane il russo. Pur delimitato dai confini speciosi imposti nel 1925, al momento della creazione dell’Unione Sovietica, a genti che hanno vissuto assieme da secoli in fluidità – gli Uzbeki stanziali, i Tajiki nomadi – l’Uzbekistan sorride scrivendo questa nuova pagina della sua plurimillenaria epopea restaurando e ricostruendo i siti per i quali i turisti continuano a far la spola tra Bukhara, Khiva e Samarcanda. Si ricostruiscono moschee e scuole coraniche come si è sempre fatto dopo che gli insulti del tempo e dei regimi le hanno rese impraticabili: la conservazione è un’idea occidentale del XX secolo. Le maestranze non sono sempre all’altezza, ma a giudicare dai minareti pendenti del Registan neanche i costruttori originali erano molto versati nel gettare le fondamenta e nell’uso del filo a piombo. Queste imperfezioni tecniche esaltano, piuttosto che umiliare, la frenesia decorativa che ha creato per Samarcanda la piazza più bella dell’Asia centrale, nucleo imprescindibile, attrazione irresistibile, gemma prediletta, visione celestiale. La definiscono tre madrasse – scuole coraniche per l’élite religiosa e politica – le cui facciate sono un tripudio di majoliche azzurre. La Tillya-Kari (la Ricoperta d’Oro) presenta motivi geometrici e vegetali incorniciati da un’epigrafe. Un cielo stellato stilizzato orna invece la Ulug Bek, l’università completata nel 1420 dove quel sovrano stesso insegnava matematica e astronomia. L’iscrizione in caratteri cufici recita: “L’altezza della facciata è due volte quella del cielo e il peso tale che la schiena della terra sta per cedere”. La Shir‑Dor sorprende con le figure di due tigri all’inseguimento di due cerbiatti. Dietro di loro, due soli raggianti dal volto umano glorificano forse il committente, il governatore Yalangtush, o, più probabilmente, rivelano la persistenza del simbolismo solare dello zoroastrismo nonostante il tabù riguardo l’arte figurativa dell’Islam, il credo che lo ha rimpiazzato. Recenti lavori di ripristino hanno restituito oggi la piazza com’era tre, quattro, cinque secoli fa, ora centro non più politico e commerciale ma di cultura e di storia. Le quattro possenti colonne che fiancheggiano le madrasse che si fronteggiano sembrano sorreggere il cielo. L’ambizione, la maestà e la meraviglia avranno impressionato tanto di più una volta, al tempo dei cavalli e dei carretti che la occupavano nelle foto d’epoca, nell’era dei pasciuti emiri in posa con emissari e ambasciatori di paesi lontani. Private delle funzioni educative, le madrasse accolgono il turista avido di bellezza e voglioso di portare con sé un memento di quest’esotica magniloquenza. Che si fa intima, cambiando registro ma non espressione, nel breve ma intenso percorso di Shah-i-Zinda, una favolosa necropoli dove riposano, nel fresco interno di splendidi mausolei, un cugino di Maometto ed importanti esponenti dell’aristocrazia timuride come il maestro del pronipote di Tamerlano, la tata di Tamerlano, la nipotina di Tamerlano, la vecchia zia di Tamerlano, la sorella di Tamerlano e il comandante capo dell’esercito di Tamerlano, oltre a due delle mogli di Tamerlano. Lui, naturalmente, ha un mausoleo formato cattedrale, il Gur Emir, in splendido isolamento, ed io ho scelto di dormire in una casa privata giusto dietro l’angolo, per fargli visita ogni notte. Peccato a quell’ora non ci si possa avvicinare al portale: il mio voto rimane disatteso, ma mi consolo pensando che siamo vicinissimi. Tamerlano, grande duce, spietato ma anche benevolo, distruttore ma costruttore là dove Gengis Khan aveva distrutto, icona assoluta della nazione uzbeka, riposa al di là di un cortile odoroso di fiori e di erbe attorno al quale si stringono, spalla a spalla, le case di due o tre famiglie che di notte guardano lo stesso pezzo di cielo.
Tamerlano, nomade signore di terre senza confine, ama ancora circondarsi del meglio: in una nazione di trenta milioni che m’apostrofano con l’incivile “Mister!”, il ragazzo della biglietteria è l’unico che mi si sia rivolto col corretto “Sir”. Tamerlano, nobile cavaliere, spadaccino, arciere, che appese come bersaglio vivente (vivente per poco) chi lo aveva sciancato (il nome con cui lo conosciamo è Timur the Lame, cioè Timur lo Zoppo), ha fatto, della città di mattoni crudi che aveva trovato, la Samarcanda gioiello per cui i superlativi non bastano. Fortunati siamo noi che vediamo Bibi Khanum, il mausoleo più bello, come il conquistatore dell’impero più esteso che il mondo abbia visto l’aveva progettato per la moglie prediletta: l’edificio aveva iniziato a crollare subito dopo il completamento, e nei secoli è stato depredato di materiale da cantiere, usato come stalla dagli invasori zaristi e come deposito di cotone. Cosa vedremmo, senza ricostruzioni? “Che chi dubita della nostra potenza e magnificenza venga a vedere i nostri palazzi”, poteva vantare il condottiero nel 1379, che a Samarcanda, dalle terre vinte, concentrava le ricchezze razziate e deportava gli artigiani migliori, affinché ne facessero una capitale degna della sua ambizione. Che fosse essenzialmente un’operazione di immagine è evidente considerando quanto più imponenti siano le facciate rispetto ai corpi degli edifici: l’impressione di una presenza incombente, quasi sovrumana, che comanda sottomissione, è ineludibile. E il pregio dei decori, spesso eseguiti a mosaico usando minuti frammenti sagomati di majoliche colorate, riporta ad un’era in cui la vita umana aveva un valore molto diverso da oggi, e poteva, con la stessa noncuranza, essere spesa per soddisfare le velleità propagandistiche di un dittatore o essere falciata da un’improvvisa invasione di barbari predoni. Era quello il tempo in cui in migliaia pagavano per i bollenti spiriti di uno: è stato calcolato che le conquiste di Tamerlano, che dalla Turchia si estendevano fino all’India, siano costate la vita a quindici milioni di persone. Rispetto ai conti, spesso meschini, che facciamo, era quella l’età degli eccessi e degli eccelsi, con scene di cui Samarcanda era già stata testimone quando si chiamava Maracanda, leggendario insediamento sulla collina di Afrosiab, protetta da dirupi e burroni, ora ai margini dell’abitato, al di là delle tombe di Shah-i-Zinda. Il passato sembra così vegliare discretamente sull’andirivieni delle superstrade e dei bazar senza imporre pesanti ipoteche sul tessuto urbano, come invece avviene nella coetanea Roma. Pezzo forte del piccolo museo di Afrosiab è un affresco, molto frammentario ma artisticamente sublime, dove animali vengono offerti in sacrificio, cavalieri cacciano tigri, ambasciatori portano doni e naviganti cinesi conversano. Concubine, cavalli e persino un elefante completano il ritratto d’una società ricca di sfarzo, tradizioni e cultura. Neanche la nuova città, sorta accanto alle rovine lasciate da Alessandro Magno, ha tradito questa vocazione intellettuale: poco lontano è stato scoperto, nel 1908, il grande arco di un enorme quadrante sotterraneo, unico superstite dell’osservatorio di Ulug Bek, nipote di Tamerlano, appassionato d’astronomia più che di politica. Tutto quel che i cinesi sapevano sui movimenti dei corpi celesti era venuto dalla colta Samarcanda, che aveva già illuminato il mondo con Khorezmi, Beruni e Avicenna, e a tutt’oggi non esiste calcolo più esatto dell’inclinazione dell’asse terrestre di quello degli studiosi riuniti da Ulug Bek. Aveva scritto che “La religione evapora come la nebbia, i reami periscono ma i frutti dell’intelligenza rimangono per l’eternità”, e quegli illustri risultati sono tanto integrati nel tessuto urbano che è proprio per la creatività culturale islamica, che in questo crocevia di popoli ha lasciato i suoi maggiori capolavori, che Samarcanda è patrimonio dell’umanità. Questa dimensione atemporale ha talvolta curiosi risvolti: Kussam-ibn-Abbas, cugino di Maometto, arrivato qui per convertire ad Allah i seguaci di Zoroastro, fu decapitato ma si dice che viva ancora e per sempre sotto una delle quattro cerchia di mura difensive col nome, appunto, di Shah-i-Zinda, cioè il Re Vivente. Anche per il profeta Daniele, patrono della città, la morte è uno stato relativo, tanto che continua a crescere e il sarcofago che lo contiene è stato allungato a più riprese fino agli attuali 18 metri. Persino le attività qui sfidano il tempo: l’Unesco ha resuscitato la millenaria tradizione cartiera e in un sereno scenario campestre si può osservare l’intero ciclo di fabbricazione della carta preferita di Tamerlano: i rametti di gelso vengono scorticati, sbucciati e la guaina filamentosa bollita e poi pestata da un meccanismo azionato da un ruscello. Uno strato della polpa, diluita in una vasca, viene raccolto con un colino rettangolare, pressato e messo ad asciugare. Il foglio che ne risulta è piacevolmente rozzo, ugualmente adatto per proclami e paralumi. Raffinati, al contrario, i tappeti tessuti nel laboratorio del simpaticissimo Abdullah Badghisi, ma anche qui il tempo è un concetto incerto: tanto o tantissimo che ne serva, dipende dal numero di nodi per centimetro e dalle dimensioni. Le fantasie tradizionali per i vari usi – da preghiera, da parete, come tenda, come copertura di tomba, come sella – sono allegoriche e sempre stupende: lui le chiama, a ragione, “musica per gli occhi”. Le radici di robbia, i gherigli di noce e le bucce di melagrana forniscono i colori tradizionali, terrosi: nel cortile i calderoni per la cottura riposano sotto un pergolato di vite. Gli uzbeki amano l’ombra della vite e là dove noi pianteremmo un glicine o una rosa rampicante, nel giardinetto davanti casa o nel cortile d’una moschea, loro preferiscono la vite. Il tempo, indolente, lascia altre persistenze inaspettate, come piccoli sacrari con la tomba d’un sant’uomo dietro l’angolo d’una casa, e dappertutto resti dell’epoca in cui la Via della Seta era trafficatissima: solo alcune emergenze sono state restaurate, tante altre attendono pazientemente il ritorno di tempi migliori, provvedendo per il momento ospitalità agli uccelli, che ne approfittano con rapacità.
Khiva era l’ultima fermata delle carovane prima di affrontare il deserto verso la Persia e, per l’eccezionale concentrazione di siti di rilievo entro le mura merlate del nucleo antico, la popolazione è stata evacuata, lasciando Itchon Kala, la Fortezza Interna, come museo integrale.
L’arrivo, dopo la traversata del deserto del Khorezm, è memorabile: al di là della trionfale Porta Occidentale torreggia il tozzo profilo del minareto Kalta, tutto trame di majoliche verdi e azzurre, fiancheggiato dal portale della madrassa di Mohamed Amin Khan e, sullo sfondo, lo slanciato minareto Islomhadja. Non rilevano i singoli monumenti, ma l’idea incomparabile di un insediamento bimillenario, edificato in forma di rettangolo e fortificato da mura alte fino a 10 metri secondo le tradizioni centroasiatiche, le cui 250 case antiche e 50 monumenti si offrono in un’esperienza coerente, organica. Le costruzioni del 19° e 20° secolo, infatti, sono armoniosamente integrate nella struttura urbana, impreziosita da gemme esemplari dell’architettura islamica medievale la cui autenticità testimonia le civiltà perdute del Khorezm, annientate dai Mongoli nel 13° secolo. Le stradine labirintiche contagiano una peculiare sensazione di intimità, come se la condivisione strabordasse dalle case e invadesse le aree pubbliche, annullando ogni estraneità in un’accoglienza senza riserve. Doppiamente interessante quindi alloggiare all’Orient Star, l’albergo più evocativo dell’Uzbekistan, ex-madrassa: nelle semplici hujas, le celle degli studenti, si torna a sentirsi giovani e compagni d’avventura, confermando la dicitura sul frontone: “Questo meraviglioso edificio resisterà al tempo rallegrando le generazioni a venire”. Appena fuori, ogni monumento non dista più di dieci minuti: è come trovarsi negli scenari d’una produzione cinematografica. E la notte, zigzagando tra entrate monumentali, mura silenziose, guardinghi minareti e le tombe infreddolite, vegliate da caritatevoli alberelli, che si ammassano dietro il mausoleo di Pakhlavan Makhmud, sembra di essere inavvertitamente scivolati in un passato dimenticato. Addossato alla muraglia perimetrale vicino alla Ata Darvaza, la Porta Occidentale, il Kunya-Ark, la fortezza del Khan, è un rompicapo di sale, torri, passaggi, terrazze e cortili: una città nella città, completa di arsenale, zecca, fabbrica di polvere da sparo, tesoreria, cancelleria, harem, cucine, stalle, caserma e moschea d’estate e d’inverno (l’Uzbekistan ha un clima seriamente continentale, con escursione da +40 a –40 °C). I muri dei cortili sono ricoperti di mattonelle azzurre, blu e bianche con poetiche iscrizioni, eleganti ghirlande, intricatissimi girali floreali, infinite geometrie e melograne stilizzate, emblema del paradiso. Nel cortile della sala del trono, un podio circolare serviva da base per una yurta dove il Khan riceveva gli ambasciatori delle potenze confinanti. Specularmente, vicino alla Palvan Darvaza, la Porta Orientale, il vastissimo palazzo Tash Khauli è un ghirigoro di infiniti ambienti pubblici e privati frequentato, oltre che da convogli di turisti, da giovani coppie a cui la penombra permette un’intimità impossibile altrove e che trasalgono all’arrivo di qualche importuno visitatore indipendente. Dev’essere il genius loci al lavoro, visto che la parte più bella del complesso è proprio il lungo cortile dell’harem su cui si aprivano le abitazioni del Khan e delle quattro mogli (il massimo permesso dall’Islam). L’Uzbekistan è una nazione giovane: il 34% della popolazione ha meno di 14 anni – bisogna capirli, siamo stati giovani anche noi. Altrettanto ombreggiata, ma senza amanti clandestini, è la peculiare sala ipostila della Moschea del Venerdì, l’equivalente della nostra cattedrale. E’ tanto vasta che, all’interno, a stento se ne vedono le mura perimetrali. Più di 200 colonne scolpite – antiche e moderne – sorreggono, senza archi o decorazioni, il soffitto piano, creando una foresta surreale, lontana dal viavai che continua fuori le belle porte di legno inciso. I pochi raggi che chiazzano da due lucernari inducono alla calma e, nonostante sembri di star sottoterra, elevano il pensiero grazie al suggestivo contrasto di oscurità e luce. Più santo ancora è il complesso commemorativo di Pakhlavan Makhmud, lottatore professionista, pellicciaio, poeta, filosofo, guaritore nonché santo patrono di Khiva. Oltre la soglia, il cortile invita al raccoglimento, per poi accedere alla silenziosa sala dove due Khan hanno voluto essere sepolti accanto a lui.
Tutto è ricoperto di ceramiche bianche, turchesi e blu e risento la mia laicità che mi impedisce di partecipare fino in fondo alla venerabilità di questi luoghi, io, infedele non solo alle loro, ma alle mie stesse tradizioni.
Domenica, sorpresa: l’area che sembrava di dominio straniero è letteralmente presa d’assalto dal turismo nazionale: babushke in gita parrocchiale si fanno fotografare cogli attempati mariti a cui hanno fatto indossare il colbacco di astrakan (a Khiva fa freddo!) sullo sfondo delle favolose madrasse, mentre una schiera di ragazzotti s’arrampica con foga sui bastioni delle mura di cinta come se vi stessero distribuendo mazzette di biglietti da mille sum: Khiva è diventata uno zoo. Mi rifugio nella madrassa Islam Khoja che ospita il Museo di Arti Applicate per apprezzare majoliche, tappeti, tessuti, intagli, incisioni, argenteria e costumi tradizionali. Il bazar, giusto fuori la porta orientale, con banchi di verdure da un lato, di derrate secche dall’altro e rivendite all’ingrosso di bibite e biscotti tutt’intorno, è meglio organizzato di altri, anche se, come in tanti altri paesi, i macellai non sono provvisti di celle frigorifere. L’esplorazione d’un bazar – quello che noi chiameremmo meno poeticamente mercato – si risolve più in un esame dell’intruso piuttosto che in una scoperta di prodotti esotici. In Uzbekistan il richiamo allo straniero è “Frans!”, posto che la maggioranza dei turisti è francese, ma guardano con simpatia anche noi italiani, accennando ad Al Bano, a Toto Cotugno e a qualche squadra di calcio. Questo è quello che arriva di noi in Uzbekistan: dovremmo prestare più attenzione alla nostra immagine internazionale. Sempre fuori le mura, a nord-ovest, la madrassa di Nurullah Bai è una piacevole evasione dall’onnipresente stile musulmano. La sala dei ricevimenti ha splendide decorazioni e candelieri zaristi, conservati grazie all’interesse sovietico che stabilì qui, nel 1920, il primo governo del popolo e inaugurò nel cortile la prima statua di Lenin in Asia Centrale, scomparsa al cambio di regime.
Se Samarcanda può essere tacciata d’essere commerciale (ma si può accusare il diavolo di avere le corna?) e Khiva artificiale (ma, ugualmente, si può biasimare Venezia per essere una città-museo?), Bukhara è certa di soddisfare tutti: c’è la città, ci sono i monumenti e c’è anche il minareto dalla cima del quale i condannati, legati dentro un sacco, venivano gettati. Ci arrivo all’alba, in un minibus pieno all’inverosimile: un velo di nebbia aleggia su Lyabi Hauz, il laghetto, ex-cisterna a cielo aperto, piacevole baricentro della città. La passeggiata che lo affianca è deserta, gli alberi ancora addormentati e le basse costruzioni ocra pallido un tutt’uno con il colore dominante di questa terra, mentre le moli delle madrasse che s’affacciano sulla grande piazza paiono curiosamente remote a quest’ora. Nel piccolo caravanserraglio dove ho scelto di dormire mi viene assegnata una stanzetta col soffitto basso che dà su un minuscolo cortile ottagonale con mattoni a vista – i miei cammelli sono le mie valigie. Il traffico automobilistico è essenzialmente confinato all’abitato nuovo e non ci sono né le distanze da coprire di Samarcanda né l’assembramento dei siti di Khiva. Bukhara non ostenta come Khiva e non assale come Samarcanda, ma si concede serena al piacere di essere scoperta. Le pietre non hanno dimenticato il passaggio degli Achemenidi, dei Persiani, dei Greci di Alessandro Magno, dei Seleucidi, dei Greco-Battri e dei Kushani, dei Cristiani Nestoriani e dei Manichei, degli Arabi e dei Mongoli di Gengis Khan, visita dalla quale ci vollero trecento anni a Bukhara per riaversi, e poi degli Shaybanidi, dei Safavidi e dei Bolscevichi. Grazie al disinteresse degli ultimi invasori, i sovietici, il centro storico è rimasto com’era, comodo come una vecchia scarpa. I caravanserragli restaurati che s’affacciano sul laghetto ospitano ora le rivendite dei miniaturisti, dei ricamatori, degli artigiani del ferro battuto, dei tessitori. C’è anche un interessante laboratorio di burattini di cartapesta dipinta, dove l’emiro, le belle dell’harem e i coraggiosi cavalieri, tutti in favolosi costumi, son pronti ad inscenare eroiche imprese ed amori fatali. Indifferente ai banchi di souvenir che occupano i tre bazar medievali a cupola – cambiavalute, cappellai e gioiellieri –, scompaio dietro una porta discretamente segnata “Hammam”. Venti minuti in una cella dove un misterioso bocchettone vomita vapore caldo mi riducono un colabrodo, pronto per una energica ripassata a cura d’un maschio gomito. Sono steso su grandi pietre semilevigate e, per una volta nella vita, lascio fare. “Seduto!”. Obbedisco, e come tutto ringraziamento mi becco un paio di secchiate d’acqua fresca sul capo. Una teiera di tè verde (in Uzbekistan è il tè, non il caffè, la bevanda nazionale), accompagnata da cristalli trasparenti di zucchero, completa l’esperienza. In Italia un hammam sarebbe un successone tra impiegati vessati, segretarie precarie e commessi depressi. Rinfrancato, mi rituffo nel bazar, ma nessuno mi riconoscerà: quel che ero è rimasto in un angolo assieme all’asciugamano. Ho prenotato la cena presso una casa privata. Il grande portone – ampio abbastanza per cavallo e carrozza – dà su un cortile parzialmente coperto da un portico sorretto da colonne, secondo l’impianto classico. Al centro già soffrigge il tradizionalissimo plov alla fiamma d’una bombola. Spezie, uvetta, carne, riso lavato e per ultimo una testa d’aglio ancora in camicia vengono aggiunti nel calderone, che si copre perché avvenga la magia: il contributo uzbeko alle delizie del palato è un piatto completo dai cento sapori. Ma la delizia maggiore di Bukhara è un cubo di mattoni. Nascosto dalla sabbia alla furia di Gengis Khan e dei secoli, il mausoleo di Ismail Samani è arrivato intatto sino a noi. I ricami in laterizio hanno dell’incredibile, come anche la doppia cupola che favorisce l’aerazione: bellezza e ingegnosità ne fanno un capolavoro. Il giardino e la vasca rituale che gli sono state ripristinate accanto ne accrescono la santità, eguagliata solo dalla piazza Poi Kalyon, su cui affacciano la vastissima Moschea del Venerdì e la madrassa Mir-i-Arab, su cui veglia l’alto minareto Kalyon, quello usato per le esecuzioni. Si dice che la decorazione di una delle fasce del Kalyon sia tanto piaciuta a Marco Polo che l’abbia portata a Venezia per il Palazzo Ducale. Anche Bukhara, tra le tante ortodosse, ha una facciata sacrilega: quella della madrassa di Nadir Divan Beghi, con due elegantissimi uccelli mitici, due cervi e un sole dal volto umano. Giusto quando, dopo la Fortezza (Ark), le tante madrasse e le moschee, pensavo Bukhara non avesse altro da presentare, scopro in un angolo il Museo d’Arte, con bei quadri impressionisti e due strepitosi ritratti, opera di pittori locali, mentre fuori città trovo la necropoli di Chor Bakr e il Mausoleo del maestro sufi Bakhauddin Naqshabandi, frequentatissimo sito di pellegrinaggio. C’è una singolare cupola a costoloni, la vasca, la fontana dell’acqua santa e un albero fossile che premia sette giri antiorari intorno a sé con una grazia. Non mi importa di far aspettare: ho un favore da chiedere anch’io. Inaspettato, il muezzin intona la chiamata alla preghiera. I fedeli s’arrestano, si fa silenzio, si alzano le mani in gesto supplice. La cantilena pare carezzare la storia che ognuno porta in sé, quel tesoretto di speranze e di dolori che non ci abbandona mai, nell’incanto d’un momento eterno. Le mani portano la benedizione al volto, si riaprono gli occhi e si torna all’istante animali da combattimento, come nulla fosse stato.
La declinazione dialettale dell’abbigliamento e del portamento distingue l’Uzbekistan degli uzbeki da quello dei turisti. Una breve escursione nella valle di Ferghana prova che a sostenere il paese è la spina dorsale delle contadine intente a zappare i campi come in un disegno di Millet tra filari di ciliegi e di albicocchi, dei vecchi che tornano sull’asinello o in bicicletta a fianco delle distese di cotone, degli artigiani che, in cortili silenziosi o in laboratori fuori mano, consacrano passione e vita alle occupazioni per le quali l’Uzbekistan è rinomato in tutto il mondo: ceramica, seta, intaglio del legno, tappeti, tessuti. La distanza tra queste attività millenarie e la spersonalizzazione del sol dell’avvenire si misura non solo nelle ore di guida che separano la valle di Ferghana dalla capitale, ma nelle ore a piedi che a Tashkent separano un punto d’interesse dall’altro. Le ampie arterie son fatte per trionfali parate e il piano della città è talmente esploso da dar l’impressione che, al di là delle facciate mute, dietro i portoni chiusi, ci siano solo spazi vuoti. Questa è la città eminentemente antisociale che il socialismo ha costruito sulle rovine di quella rasa al suolo dal terribile terremoto del 1966. Su alcuni palazzi, giganteschi murales, in majolica o affrescati, certo scoraggiano i vandali armati di bomboletta che invece da noi scrivono il loro diario sui muri delle vie e sui mezzi pubblici. Il Museo di Arti Applicate e i suoi deliziosi tesori sono le vestigia d’un’altra realtà, e la strada da quella all’attuale è ben documentata nel Museo della Storia dei Popoli dell’Uzbekistan, dove Kharimov, il primo e attuale presidente della repubblica, sembra percorrere, incontro ufficiale dopo incontro, libro dopo libro, sorriso dopo smagliante sorriso, la strada che porta a Tamerlano, sfruttando l’intramontabile categoria junghiana dell’eroe. Ma, se la lunga parata di zampilli della fontana di Piazza dell’Indipendenza, fiancheggiata da enormi edifici pubblici, impressiona e intimorisce, è anche questa un’operazione di facciata: innumerevoli lampadine delle stazioni della metropolitana sono fulminate, e i treni mezzi vuoti e frequentati da anime tristi, indifferenti alla varietà dei decori: la festosa Tinchlik con cerchi e ipotenuse anni ’20, gli astronauti che s’affacciano agli oblò di Kosmonatvlar, il palmeto verde un po’ egizio un po’ assiro di Gafur Gulyam con ceramiche un po’ cubiste un po’ costruttiviste… Gli architetti, prendendo a modello Mosca, hanno fatto della metro di Tashkent una vera opera d’arte. Epperò, pur se il motivo di un viaggio in Uzbekistan è l’architettura, i responsabili non vi paiono aver vita facile. Il minareto Kalta, simbolo quasi di Khiva, non era stato progettato come il silos che pare, ma destinato a essere il più alto dell’Asia Centrale, così da poter dominare tutto il circondario. Un architetto, che s’era rifiutato di obbedire all’ordine del Khan di lavorarvi gratis per due anni, vi fu murato vivo. I lavori si arrestarono nel 1855, quando il committente, Muhammad Amin Khan, fu inaspettatamente decapitato da un cavaliere assassino. L’architetto fuggì. Ma forse le cose andarono diversamente: si narra che l’emiro di Bukhara, venuto a conoscenza della formidabile costruzione, ne volesse una anche per la sua città, e stipulò un contratto col capomastro per iniziare a Bukhara non appena avesse finito a Khiva. Saputo del segreto accordo, il Khan di Khiva ordinò che l’architetto fosse giustiziato al completamento del minareto. Informato dell’incombente minaccia, il poveraccio pensò bene di far perdere le sue tracce, lasciando il lavoro incompiuto. Oppure – c’è una terza versione – il Khan di Khiva avrebbe fatto gettar giù dal minareto l’architetto doppiogiochista senza altri preamboli. Sempre a Khiva, considerando il progresso nel cantiere del palazzo Tash Khauli, ordinato da Allah Kuli Khan nel 1830, al quale lavoravano più di mille schiavi e che doveva avere più di 140 stanze e tre cortili, l’architetto ebbe la sfrontatezza di suggerire che la costruzione rischiava di non venir terminata entro i tre anni stipulati. Fu impalato. A posteriori, i suoi calcoli si dimostrarono esatti: ci vollero otto anni al successore per terminare i lavori. Di nuovo a Khiva, nel 1913, l’architetto della madrassa commissionata da Islam Koja fu sepolto vivo in quanto potenziale testimone dell’assassinio di quel Gran Visir.
A Samarcanda, il colpevole delle stupende tigri sopra l’arco della madrassa Shir‑Dor, sostiene la leggenda, morì a causa della sua eresia. E ancora a Samarcanda, mentre Tamerlano devastava l’India settentrionale, l’architetto a cui Bibi Khanum, la moglie favorita, aveva affidato la costruzione di una grande moschea, s’era innamorato di lei e rifiutò di portare a termine la costruzione se non gli avesse concesso un bacio. Il suo ardore lasciò un segno sulla gota di lei. Tamerlano la prese malissimo: la principessa finì gettata dall’alto d’un minareto mentre l’architetto, con uno squadrone alle calcagna, s’arrampicò in cima ad un altro e volò via verso la Mecca con le ali che la paura gli aveva fatto spuntare.
Al terribile Tamerlano sono stato vicino perfino a Tashkent, dove la sua statua equestre campeggia al centro dell’ampia piazza nel cuore della città, anche qui circondato da grandiosità: il mastodontico Hotel Uzbekistan, un boomerang in stile sovietico alto 17 piani dove si paga esclusivamente con carta di credito; il Forums Palace, stravaganza neobabilonese fuori scala d’un bianco accecante; le due torri dell’orologio, icone della città; e un nuovo museo dedicato tutto a lui e al suo tempo. Anche qui però ho dovuto accontentarmi della sola vicinanza: la stanza assegnatami guardava sul retro. Lo lascio con rimpianto, come il pane uzbeko, duro da masticare quanto la vita, la marmellata di ciliegie ancora col nocciolo, i consueti shashlik (spiedini) e una commovente popolazione che i miei bisavoli avrebbero riconosciuto come la loro, dall’abbigliamento ai modi. Che, son certo, non sono molto cambiati dal tempo di Tamerlano.