Lambratesi in cambogia

12 agosto - Siem Reap Oggi lasciamo Bangkok alle nostre spalle in direzione Siem Reap, in Cambogia. A noi si è aggregato Danilo, un ragazzo romano che sta girando l'Indocina per disputare degli incontri di muay thai. Beh, di buon'ora, dopo un giro inutile per trovare l'autobus giusto, zaino in spalla tipo naja, partiamo con uno di quei pomposi...
Scritto da: shaobell
lambratesi in cambogia
Viaggiatori: fino a 6
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12 agosto – Siem Reap Oggi lasciamo Bangkok alle nostre spalle in direzione Siem Reap, in Cambogia. A noi si è aggregato Danilo, un ragazzo romano che sta girando l’Indocina per disputare degli incontri di muay thai. Beh, di buon’ora, dopo un giro inutile per trovare l’autobus giusto, zaino in spalla tipo naja, partiamo con uno di quei pomposi automezzi dagli interni tra il barocco ed un incubo kitsch; con noi altri gruppetti di europei ecc. Fuori lo scenario thai scorre lento, velocità media 60 orari anche se la strada è tipo la pista di un aeroporto vuota. Chiaramente, il tipo che ci organizza il viaggio ci ha assicurato che alle 17:00 arriveremo a Siem Reap. Non ha specificato però il giorno, furbo orientale. A quell’ora stiamo più o meno lasciando il confine con la Cambogia dopo la trafila del visto. Poipet è una città malconcia, casinò e miseria appena oltre frontiera. Da lì in poi, ci buttiamo coi bagagli su un pulmino che, già al nostro arrivo, manca di una ruota e perde vistosamente olio. La strada, in sostanza, è una mulattiera a tre corsie, con scarso traffico. La cosa che la caratterizza principalmente sono le buche, tante, e le zanzare. C’è da dire che vediamo tantissimi scorci di vita locale, la Cambogia è ancora abbastanza immune all’occidentalizzazione forzata, ed ha una popolazione in cui gli anziani praticamente non esistono visto i terribili avvenimenti degli anni scorsi. Ci chiediamo, mentre passiamo vicino ad una risaia paludosa al crepuscolo, “Ma secondo voi, questa è una zona a rischio malaria?”. Fra le risate generali ci facciamo una doccia di repellente per insetti. In realtà le zanzare non sono così tante, ma potrebbero essere quelle sbagliate, quindi meglio prendere precauzioni. C’è un gruppetto di francesi delle prime file con cui scambiamo qualche chiacchiera, ma più che altro siamo occupati a guardare fuori dal finestrino. Colline, il percorso attraversa grossi paesoni la cui vita è la strada stessa . In sostanza il viaggio diventa una divertente odissea, non oso immaginare se avesse piovuto, avremmo dovuto mettere i remi fuori dai finestrini. Pensandoci a posteriori, il mezzo più adatto è senz’altro una jeep. L’autista, poco più che un ragazzino, si ferma un paio di volte per collassare, si butta acqua in faccia, noi lo incoraggiamo, gli chiediamo se vuole che qualcuno gli dia il cambio, infine gli diamo un paio di redbull. Si fa presto buio. Salta l’impianto elettrico, che viene aggiustato a martellate. Ceniamo in una locanda, molto ospitale, il mangiare è gradevole ma il bagno necessita almeno di un esorcismo. I 160 chilometri più lunghi della mia vita, ma in fondo ci siamo divertiti un sacco. Arriviamo a Siem Reap che è circa mezzanotte. La città si presenta, almeno nel tragitto che facciamo noi, ordinata, alcuni grossi hotel dall’aspetto rassicurante, molti dei quali con annesso casinò. Si capisce che la città ha ottime potenzialità per attrarre visitatori, e le vuole sfruttare bene. Noi, ovviamente, andiamo all’hotel dello “zio” dell’autista, il Green Town, che non è male, camere doppie pulite a 5 dollari, un bel cortiletto con un bar. Domani entreremo ad Angkor.

13 agosto – Angkor Dopo una notte sudaticcia, affrontiamo Angkor con i tuk-tuk dei ragazzi della guesthouse. Naturalmente non ricordo i nomi di tutti i templi che vediamo; è un posto che trasuda millenni da tutto, dalle pietre, dalle piante immense che avvolgono con i loro tentacoli verdi e marroni gli edifici maestosi. Camminiamo per ore in questo scenario onirico, anche se il sole è a picco ci arrampichiamo sulle ripide scalinate degli edifici, passiamo attraverso le imponenti radici degli alberi. Ad Angkor Wat, ovviamente, il tempio principale si vede solo scostando tonnellate di turisti. Molto meglio andare in orari meno gettonati dalle orde in ciabatte, tipo l’alba. Passiamo la giornata girando quanto riusciamo nel sito, sulla cui spettacolarità credo ci sia poco da aggiungere. Indimenticabile, senz’altro. La serata, la passiamo in diversi locali nel centro; Siem Reap si rivela essere una meta notturna non priva di sorprese e divertimenti.

14 agosto – Tonlè Sap Ci svegliamo con calma, la giornata ieri è stata abbastanza faticosa, e decidiamo di dirigerci verso il lago, il Tonle Sap, il più grande del sudest asiatico. Nella stagione delle piogge aumenta immensamente di volume. Solita contrattazione con i ragazzi della guesthouse, molto disponibili. Passiamo attraverso la vecchia Siem Reap, dove abitano pescatori, poveri e miliziani, ovvero coloro che non si spartiscono la torta del turismo in città. Il viaggio in tuk-tuk è piacevole, ci fermiamo a vedere le case su palafitte. Il lago comincia quando ancora non lo vedi, la stessa piattezza del panorama e le case sui pali lo suggeriscono, pulsa a seconda delle stagioni. C’è un villaggio vagante, che mi affascina molto, a parte per la bellezza in sè, anche per il fatto che cambia nome a seconda di dove si trova. Segue i flussi del lago, ed è abitato da una minoranza vietnamita, che si riconosce dalle donne che si coprono il volto con una sciarpa di seta scura. Ci imbarchiamo su una specie di barca con un tossicchiante motore a vista. Uno dei ragazzi della guesthouse decide di venire con noi per farci da guida. Il bacino acquatico è pieno di coccodrilli, alcuni dei quali tenuti in gabbie, ci dicono per uso alimentare (li mangiano). Alcune barche lunghe e affusolate ci si affiancono, sono piccoli negozietti vaganti, e dei ragazzini giocano usando delle tinozze come barchette. Tutto è sull’acqua, i ristorantini, le abitazioni; c’è perfino un campo da pallacanestro galleggiante! Ci addentriamo nelle acque beige del lago, un immenso mare colorato come la terra chiara, piatto come fosse olio, cinto da canneti e arbusti. Arriviamo in quello che sembra l’estuario di un fiume, lo risaliamo, è una scena che ricorda vagamente Apocalipse Now. Ad un’ansa del fiume, c’è un villaggio su palafitte altissime, la gente che lo abita è povera ma dignitosa, centinaia di bambini che vagano e accettano qualche merendina in dono, maiali, lucertole, le donne che lavorano ai telai, alcuni uomini si occupano di sistemare delle imbarcazioni. Passeggiamo per un’oretta, c’è persino un piccolo templio. Poi, con una piroga a motore, andiamo a visitare una vicina foresta sommersa, surreale, le piante chiare emergono dall’acqua, dei ragni corrono sulla superficie e ci sono farfalle grosse come una mano. Ci accompagnano due signore con i loro figli e il ragazzo della guesthouse che è voluto venire con noi perchè qui non era mai stato. Il posto vale senz’altro la pena di essere visto, ci avventuriamo con calma nel silenzio, la maglietta in testa per i tratti assolati. . Durante la gita, una ragazzina cambogiana intraprendente che ha imparato un po’ di inglese, ci spiega che lavoro fa suo padre, come vivono, come sono le piene del lago, dove ci sono i coccodrilli eccetera.

Danilo, non ricordo in che contesto, ha coniato una frase che diventerà un’altro ritornello del viaggio: “I’m a little bit afraid, to be fucked again!”.

16 agosto – Phnom Penh Passiamo un paio di giorni nella capitale, la città sembra essersi lasciata alle spalle gli orrori del passato. Locali carini sulle sponde del lago, traffico, grandi stradoni invasi da motorini carichi di qualsiasi cosa si riesca a mettere su un motorino. Il record che abbiamo visto è stato cinque persone, polli attaccati dietro e cane nel cestino. La città merita il soprannome di perla d’Asia, l’architettura khmer si intreccia con quella coloniale e quella moderna dando vità ad uno scenario davvero unico; inoltre la gente è sempre molto cordiale, a patto che non si parli dei problemi del passato, un argomento abbastanza tabù. Spesso si incontrano dei mutilati, che chiedono con discrezione una piccola elemosina. Ad un bambino dò qualche dollaro per mangiare, lo rivedo dopo che mi sorride e si tocca la pancia soddisfatto, mi vuole abbracciare per ringraziarmi. Se uno cercasse un Paese per aiutare la gente col volontariato o anche con un’offerta a qualche ente serio, la Cambogia ha senz’altro bisogno di più di una mano. I mercati sono degni di una visita, soprattutto il russian market, in cui ci si perde fra aromi, vecchi cimeli, seta e teste di maiale; i venditori in coro: “Ken ai elp iù, Luk insaid”. Di notte, la città è gradevole, soprattutto sulle coste del fiume, ci sono dei locali e dei ristoranti non male (uno che consiglio vivamente è il Boat Noodle Restaurant, ad un blocco da Sothearos Blvd). Visitiamo il complesso del palazzo reale, il museo annesso, i cortili ed i templi all’interno del perimetro. E’ una città nella città. La Pagoda d’Argento (così chiamata per il materiale di cui è fatto il pavimento, in realtà un po’ ossidato e malridotto) è senz’altro affascinante, e protegge un buddha che secondo me vale da solo la visita della Cambogia, il più bello e inquietante che abbia mai visto. E’ a grandezza naturale, interamente d’oro, giada e tempestato da migliaia di pietre preziose, gli occhi sono due diamanti grossi come nocciole. La nostra sistemazione in città è il J-Hotel, pulito e conveniente, con un piccolo casinò annesso per chi voglia farsi spennare un po’. Per spostarci, viaggiamo spesso come passeggeri dei moto-taxi, un’esperienza tipo sport estremo. Una delle attrazioni dei dintorni sono i poligoni abusivi, dove si spara con kalashnikov, lanciarazzi ecc.. Surreale il menù in uno di questi posti, dove fra le bibite ci sono anche i prezzi di bombe a mano, M-16 e lanciagranate.

17 agosto – Phnom Penh Oggi andiamo a vedere Choeung Ek, uno dei campi di sterminio dei Khmer rossi. La guida ci accompagna all’ossario, dove ci sono migliaia di teschi accatastati. Camminando sul sentiero, vediamo che affiorano dalla terra ossa e brandelli di vestiti, molte fosse non sono ancora state scoperte. Su alcuni alberi, delle macchie scure indicano dove veniva spaccata la testa dei bambini. Insomma, un luogo dal silenzio impressionante e dal passato che grava ancora, non trova pace. Più tardi, non contenti di atrocità, andiamo al museo del genocidio Tuol Sleng, un ex edificio scolastico in cui i seguaci di Pol Pot perpetravano le torture più agghiaccianti. Delle foto alle pareti ritraggono le vittime, migliaia, e alcune delle aule sono state lasciate come vennero trovate, con i letti di ferro a cui venivano legati i prigionieri, le macchie scure sul pavimento, muri che trasudano urla e orrore. All’uscita, alcuni mutilati ci chiedono senza insistere qualcosa per mangiare, e anche noi facciamo un breve pranzo nel grazioso ristorante fuori.

Il pomeriggio lo passiamo allo stadio a vedere un paio di incontri di boxe cambogiana, il biglietto costa mezzo dollaro e vale la pena. Metà dello spettacolo è fatto dal pubblico, che urla e si dimena per incitare il proprio campione su cui ha scommesso, l’orchestrina suona musichette ipnotiche al ritmo delle quali avviene il combattimento. Essendo gli unici occidentali e alti in media una spanna in più, la gente ci guarda con molta curiosità. Ci sediamo in una specie di tribuna d’onore, davanti ad un qualche politico locale, ed infatti dopo un po’ ci chiedono gentilmente di spostarci. In serata, solita partitina a biliardo in qualche locale sul lungofiume; al ritorno, chiedo di poter guidare un tuk-tuk. Ma non sono proprio sobrio, e prendo in pieno un cordolo con la ruota sinistra, rischiando il ribaltamento del mezzo. L’autista mi guarda sconsolato e riprende il suo posto. Questo paese trasuda acqua da tutte le parti, dagli onnipresenti corsi d’acqua, dalle pareti delle case, dai volti scuri della gente. I sorrisi delle donne cambogiane sono a mio parere i più belli dell’Indocina, larghi, un po’ squadrati, e gli occhi hanno una luce diversa, ma forse è solo una mia impressione. E’ un popolo coraggioso, che vuole dimenticare il suo passato e ricominciare dalle sue nuove generazioni. Bambini che giocano nudi nella spazzatura. Un battello, lo vedo ora dalla mia terrazza, naviga lentamente controcorrente. In strada passa di tutto, motorini carichi di pollame, trattori chopperati, risciò, bonzi in tre su una moto. Phnom Penh é una città che non si dimentica.

Le fotografie ed il video “LAMBRATESI IN INDOCINA” sono disponibili sul mio sito Il viaggio in Indocina non finisce qui! Consulta anche “Lambratesi in Thailandia – in Laos – in Malesia”



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