La sposa del Messico

Il viaggio è il momento in cui ognuno di noi lascia la realtà quotidiana e parte alla ricerca del proprio io nascosto. Lo ritroverà negli occhi delle persone, nei colori della natura, nei profumi dell’aria. Il viaggio in Messico è tutto questo: un percorso nello spazio, attraverso l’oceano e nel tempo, finalmente svelato ai nostri occhi...
Scritto da: Sormaestro
la sposa del messico
Partenza il: 12/08/2005
Ritorno il: 24/08/2005
Viaggiatori: in gruppo
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Il viaggio è il momento in cui ognuno di noi lascia la realtà quotidiana e parte alla ricerca del proprio io nascosto. Lo ritroverà negli occhi delle persone, nei colori della natura, nei profumi dell’aria. Il viaggio in Messico è tutto questo: un percorso nello spazio, attraverso l’oceano e nel tempo, finalmente svelato ai nostri occhi dalle magnifiche vestigia precolombiane rinvenute alla luce. Arriviamo di sabato e Città del Messico il sabato si anima di suoni, luci e immagini del meso america: siamo a San Ángel quartiere a sud del centro storico. Un tempo questo paesino ospitava le “case de campo” degli spagnoli: ville in stile coloniale riccamente decorate, massicci portoni in legno intagliato, grate in ferro battuto e strade pavimentate di ciotoli. Intorno, giardini e aiuole fanno da cornice al mercatino degli artisti della città: pittori, scultori, antiquari, rigattieri, catturano lo sguardo dei passanti con la magìa dell’arte. A pochi passi dalla piazza centrale, la Chiesa di San Jacinto. Si sta celebrando una caratteristica cerimonia, tipica per le bambine che compiono i 15 anni di età: in abito bianco, circondate dall’affetto dei propri cari e da composizioni di fiori profumati, ricevono la benedizione della Chiesa in segno di prosperità e salute. Seduti al tavolo della cantina della piazza, gustiamo una fresca marguarita insieme a tacos e tortillas. Si avvicina a me un avventore con il suo baldacchino. Dalla piccola gabbia un canarino fuoriesce, becca dalla scatola ed estrae un biglietto colorato. Ecco il mio futuro, lo prendo per una moneta di pochi pesos, recita che perderò tutto al gioco… La domenica successiva, di buon ora, saliamo al nord: ci aspetta Nuestra Señora de Guadalupe e non potrebbe essere altrimenti vista la ricorrenza di Santa Maria Assunta. Arrivati, mi colpisce la commistione del sacro rito cristiano, tipico anche del nostro paese, con le danze, i costumi e la musica quasi primordiale che lo accompagnano, segno della credenza indigena ancora molto radicata e sentita. Mi colpisce ancora di più la pendenza della basilica: la grande navata centrale e le due laterali, sono sorrette da un colonnato irregolare per forma ed inclinazione. Violenti smottamenti dovuti al terreno melmoso, minacciano continuamente la stabilità della struttura che, miracolosamente, rimane ancora in piedi dal XVI° secolo e preserva l’immagine della vergine venerata in tutto il paese. Saliamo ancora più a nord, alla ricerca delle possenti piramidi dell’antica città di Teotihuacán. Scelgo di salire su quella della Luna; le scale sono lastre di roccia incastrate una sull’altra, ripide e strette, a malapena danno appoggio ai piedi. Arrivo in cima con il fiatone. Il panorama suggestivo mi ripaga della faticosa scalata; una natura rigogliosa circonda tutto il sito, testimone della grandiosità di questa città sorta fra il IV° ed il VI° secolo d.C., ma improvvisamente decaduta e letteralmente scomparsa intorno all’VIII° secolo d.C.. Da qui guardando a sud ovest, dietro le montagne, immagino di scorgere il grande lago che ospita Città del Messico. Torniamo allo Zócalo della capitale quando il sole è ancora alto. La piazza è ravvivata dalla festa per la ricorrenza dell’Assunta: uomini in abiti succinti di pelle con copricapo di piume danzano al suono di tamburi e pifferi; uno sciamano cosparge di fumi odorosi il corpo di alcune donne. La storia del Messico si fa leggenda nel Palacio Nacional, decorato al suo interno dagli splendidi dipinti di Diego Rivera. Dalla scalinata centrale si sale alle gallerie del primo piano affacciato sul patio. Il murales che si trova al centro della scala è il più ricco ed il più bello di tutto il palazzo: ripercorre la storia del Messico, dalla fondazione dell’antica Città di Tenochtitlán (1325), passando per l’indipendenza (1810), per arrivare alla rivoluzione del 1910. I personaggi storici del paese sono i protagonisti di questo bellissimo murales: sulla parte sinistra Rivera pone al centro della scena la lotta di classe fra l’aristocrazia benestante ed il popolo operaio capeggiato da un battagliero Lenin in tuta da lavoro; al centro la Chiesa corrotta e blasfema. Non lontano dalla piazza principale si riuniscono i mariachis: intonano Cielito lindo e la nostra serata si conclude con un bicchiere di tequila.

Il giorno seguente viaggiamo sulla strada per Puebla. Alle porte della città veniamo fermati da un corteo di protesta degli operai: siamo nella patria del maggiolino. Poco più avanti lo stadio che ospitò i nostri azzurri nel mondiale del ’70. In città, molti i negozi dei dolci tipici ai quali non manchiamo di fare visita. Accanto, vetrine di candidi vestiti per la festa del 15° anno. La visita della Iglesia di Santo Domingo ci svela uno dei capolavori del Messico: la Capilla del Rosario. Realizzata nel XVII° secolo, si trova alla sinistra dell’altare principale; colpisce per la ricchezza dei personaggi raffigurati (Santo Domingo de Guzmán il fondatore dell’ordine dominicano, la Virgen del Rosario, la colomba dello Spirito Santo, le Grazie) e per la preziosità degli intarsi dorati. Fuori nel mercatino una bambina vende fette di torta. Siamo di nuovo in strada, siamo di nuovo in viaggio. Lungo il percorso i paesaggi cambiano continuamente: un saliscendi veloce in mezzo alla Sierra Madre Occidentale. Un tipico cactus a candelabro fa da sfondo ad una foto di gruppo. Arriviamo ad Oaxaca all’imbrunire. La città ha il centro storico caratterizzato da una pianta regolare a quadri. Al mercato assaggiamo le cavallette, ma poi ci consoliamo con le caramelle di cacao. In salita, verso la collina che domina la città, la Chiesa di Santo Domingo: è qui che Marco ha celebrato il suo matrimonio. Sulla via del ritorno gocce di pioggia bagnano i vetri del pulmino. In sottofondo la musica di Bennato: “…Ogni favola è un gioco ed è vera soltanto a metà…”.

Siamo in Messico da qualche giorno ormai, eppure non riusciamo ad orientarci: il nostro nord sono le montagne, il freddo; il nostro sud il mare, il caldo. Lo stato di Oaxaca è il centro sud del paese, ma una fitta pioggia ci accoglie alle pendici del Monte Albán ed il clima non si direbbe prettamente estivo. Invochiamo lo sciamano del gruppo, Marco, affinché ci liberi dalla perturbazione maligna. Il sito accoglie i resti dell’antica capitale zapoteca. L’altitudine di 1600 metri rende la vista spettacolare e la posizione della città molto sicura e protetta. L’ampia zona cerimoniale della Gran Plaza è caratterizzata dal rinvenimento di bassorilievi raffiguranti figure umane chiamate Los Danzantes, per la curiosa posizione delle mani e dei piedi. Una gustosa scenetta ci riconcilia dopo l’acquazzone della mattina: nel villaggio di El Tule si trova un enorme Cipresso di Montezuma (circa 50 metri di circonferenza…). Due simpaticissime bambine ci accompagnano a scoprire le figure animali che la fantasia ci fa immaginare scolpite dalla corteccia e dai rami dell’albero di 3000 anni; in coro, ci invitano a seguirle e ad ammirare le figure con curiosi ritornelli in un italiano perfetto. A Mitla, nel pomeriggio, torna il sole. I blocchi che compongono il sito risalgono al IX°-X° secolo d.C.. Una serie di decorazioni a mosaico e forme geometriche caratterizza gli edifici. Il sole sta per tramontare. Nella piazza del mercato ormai deserta, riesco a sentire una voce in lontananza: è Luigia che telefona a casa. E’ di nuovo giorno e questa volta scavalchiamo le montagne con l’ausilio di un volo aereo. Siamo nello stato del Chiapas. Al nostro arrivo troviamo un caldo torrido. Ci aspetta la discesa del Canyon de Sumidero. A bordo di piccole lance affrontiamo il fiume per una piacevole gita in barca. Ma la stagione delle piogge ci riserba ancora spiacevoli sorprese. Appena partiti si scatena un violento temporale con pioggia battente ed insistente. Le alte pareti del canyon si prestano per alcuni minuti ad un fortunoso riparo. Decidiamo di affrontare il maltempo coperti da un grosso telo di plastica rosso. Lungo le sponde del fiume va in scena lo spettacolo della natura: piante di ogni genere si adattano al clima umido mentre cormorani, aironi e molti altri volatili ci accompagnano durante la navigazione. Ad un tratto, nei pressi di una piccola spiaggia, riusciamo a scorgere alcuni coccodrilli sommersi completamente dall’acqua e perfettamente mimetizzati con l’ambiente circostante. Una visione emozionante e terrificante allo stesso tempo. Sugli alberi piccole scimmie volteggiano tra le liane. La pioggia torna a disturbare gli scatti delle macchine fotografiche. Ad un tratto un pericoloso vortice attira la piccola imbarcazione in uno spaventoso gorgo. La poppa dell’imbarcazione viene sopraffatta dalla forza delle acque e gli occupanti delle panchette posteriori sono costretti ad un bagno inaspettato. Il pericolo di un capovolgimento fa venire in mente a tutti la presenza dei pericolosi coccodrilli e le urla di paura coprono il rumore del motore della barca che faticosamente tenta di tirarsi fuori. Sono attimi che durano per un eternità fino a che la barca torna in posizione orizzontale ed il viaggio riprende normalmente. Arrivati a terra Luigia si inginocchia e bacia la terra in segno di ringraziamento per lo scampato pericolo.

Il Chiapas è forse la regione più caratteristica del Messico. La sua conformazione geografica è tipica delle regioni di montagna, a queste latitudini però la vegetazione si trasforma in una jungla impenetrabile, vinta dall’uomo con fatica e destinata alla coltivazione del prezioso mais. La presenza di numerose comunità indigene con i loro usi e costumi tipici, rende la regione ancora più misteriosa. Iniziamo da San Juan Chamula, un villaggio di poche anime di origine Tzotzil. Le donne che popolano la piazzetta sono abbigliate tutte allo stesso modo, quasi una divisa per distinguersi: gonne scure, soprabiti di tela viola e rosa, capelli scurissimi raccolti. Una di loro, Juanita, ci riceve nella propria casa. Mentre prepara per noi alcune tortillas, ci offre un liquore estratto dalle piante di agave e improvvisa una piccola cerimonia di fidanzamento: traveste Luigia ed altri di noi con gli abiti tipici della comunità indigena, poi a turno ognuno dei personaggi offre a noi ospiti le tortillas e le bevande. L’ospitalità e la gentilezza di Juanita contrastano con la cultura riservata e segreta degli indigeni del posto. Si dice che questo suo modo di ricevere gli stranieri in visita le venga dalla nonna, anche lei molto aperta e cordiale. Più tardi, troveremo una foto di Juanita su una pubblicazione in lingua americana molto diffusa. La chiesetta di San Juan di Chamula ci offre altre caratteristiche curiose della cultura indigena: entrando notiamo subito la presenza di una trave ricolma di frutta e di prodotti della terra, come a voler simboleggiare il legame inscindibile della credenza cristiana con i riti propiziatori indigeni per la buona riuscita del raccolto; sul pavimento aghi di pino ed erba ricreano l’ambiente naturale esterno. All’interno invece, alle statue dei Santi appoggiate sui piccoli altari, è contrapposta quella del giaguaro, considerato la prima divinità dagli indigeni. Usciamo ed il vento fa svolazzare le mille bandierine colorate appese sul piazzale antistante la piccola chiesa. Pochi chilometri più avanti, si trova un’altra comunità indigena: quella di Zinacantan. Mario ci ha accompagnato sin qui quasi per mano ed abbiamo apprezzato tutti il suo calore e la sua partecipazione alla riuscita del nostro viaggio. Arrivati in paese prende la testa del nostro piccolo gruppo; subito decine di bambini si fanno incontro a lui salutandolo calorosamente; lui risponde accarezzandone qualcuno; li chiama tutti per nome, le sue predilette sono due bambine che sono molto attente e seguono gli studi con passione. E’ l’uomo della provvidenza. Negli occhi di Mario si accende una luce particolare di soddisfazione ed orgoglio: riuscire a togliere i bambini di queste comunità dall’isolamento completo deve rappresentare per lui un traguardo importante. La visita della chiesa di San Lorenzo risulterà uno dei punti più alti del nostro viaggio. Si fa avanti il curandero e ci invita ad entrare, non prima di averci imposto il divieto di filmare o fotografare qualsiasi cosa. In effetti lo spettacolo, per così dire, è unico al mondo. Come per San Juan, all’ingresso travi ricolme di frutta e verdura; sul pavimento un tappeto di aghi di pino ed erba. Quello che più ci stupisce però, è l’atmosfera magica e surreale che danno le centinaia di candele accese sul pavimento; accanto ci sono uomini e donne inginocchiati in preghiera; ripetono una nenia e mimano la genuflessione in modo insistente. In tutta la chiesa si ascoltano queste persone che pregano, alla loro maniera. Il fumo che si alza dalle candele rende il tutto ancora più mistico. Ai lati teche di legno coperte da vetro, celano pallide statue di santi vestiti a festa con tonache fiorite di colore intenso; al collo ogni santo indossa uno specchio rettangolare. Più avanti vicino l’altare, una donna vestita nei panni della comunità indigena, bandisce un pollo ancora vivo. Questo rituale così mistico e irreale ci ha lasciato tutti allibiti. La sera a San Cristobal de las Casas ne parliamo ancora mentre a piedi camminiamo sui marciapiedi in direzione dello Zócalo. E’ buio e una leggera pioggerellina ci bagna; il freddo umido della montagna si fa sentire sui nostri vestiti. Ad un tratto Stefano si stacca dal nostro gruppetto e attraversata la strada si dirige verso un parcheggio di auto. Lo osservo mentre si china, lui altissimo, e tende la mano verso qualcosa. Mi fermo anch’io e, incuriosito, cerco di raggiungerlo. Dietro la macchina, appoggiato per terra, un bambino di una decina d’anni piange accanto al suo piccolo baldacchino di dolciumi: ha perso tutti i pesos incassati nella lunga giornata di mercato; colpa delle tasche dei pantaloni. Da lontano riesco a scorgere Stefano mentre porge al bambino una manciata di monete che teneva nelle tasche. La sua fama di Super Pippo non deve essere nata per caso.

Per uscire dal Chiapas dobbiamo affrontare ancora le impervie montagne del mais. Stavolta la nostra destinazione è la mitica Palenque. Per raggiungerla però, ci aspettano ancora molte ore di viaggio e, soprattutto, ci aspettano i territori dominati dagli zapatisti del sub-comandante Marcos. In effetti lungo i tornanti che salgono sulle montagne, incontriamo gruppi di ribelli che ci chiedono il pagamento di un piccolo pedaggio per poter passare. La loro è una storia affascinante fatta di soprusi ed oppressione, culminata con la rivolta di una decina di anni fa e con l’autodeterminazione a comunità indipendente del Chiapas sotto la guida dell’uomo più rappresentativo: Il sub-comandante Marcos appunto. Scopriamo tra l’altro che il nome deriva dall’abbreviazione del nome di alcuni villaggi del Chiapas dai quali è scaturita la rivolta. I racconti di Mario sulle azioni dei zapatisti cui lui stesso è stato testimone, attirano la nostra attenzione per buona parte del viaggio, mentre sfilano davanti a noi i vari villaggi occupati, le case dipinte con le immagini della rivolta, le scritte inneggianti alla rivoluzione. Arriviamo a valle all’ora di pranzo. Il clima si è veramente tropicale: non c’è il sole ma un caldo torrido ci accompagna lungo il fiume per ammirare le cascate di Agua Azul. In effetti, dopo le piogge di questi giorni, l’acqua non è proprio azzurra. Ma il fragore e gli spruzzi delle cascate ci mettono comunque di buon umore. Arriviamo a Palenque all’imbrunire. Non c’è luce per visitare il sito archeologico. Riusciamo ugualmente a scorgere dei bellissimi pappagalli colorati, rossi, blu, gialli e dei tucani dal becco lunghissimo.

Il sito di Palenque è completamente immerso nella jungla. Ci arriviamo al mattino. Non c’è il sole, coperto dalle nuvole, ma il clima è molto umido e fastidioso. Il rumore dei tagliaerba copre la voce di Mario che tenta di attirare la nostra attenzione con la storia dell’antica città maya. In lontananza urla sovrumane ci ricordano che siamo in un territorio popolato dalle scimmie e ci dobbiamo guardare bene dall’invadere il loro spazio. Il tempio davanti a noi conserva le spoglie del re Pakal ed è stato edificato dal figlio a sua immagine e memoria; risale al VII° secolo ed è molto ben conservato. Alla vista dei giardinieri armati di machete, penso subito alle cerimonie dei sacrifici umani a cui i maya facevano ricorso per imbonirsi le divinità nella vittoria delle battaglie. Oltre la fama di popolo guerriero, avevano anche quella di ottimi astronomi: riuscirono a decifrare così bene il mondo celeste tanto da comporre già un calendario di 18 mesi da 20 giorni ciascuno.

La pioggia ha preso il sopravvento nei nostri spostamenti e ci accompagna costantemente durante le visite ai siti maya. Ad Uxmal è quasi impossibile richiudere l’ombrello per ammirare la piramide dell’Indovino. All’interno del Quadrangolo delle Monache riusciamo a ripararci sotto i porticati ed a scattare qualche fotografia. Più avanti il Campo de Juego de la Pelota con i due inconfondibili anelli; e poi ancora la Casa de las Tortugas. Mentre alcuni di noi salgono i gradoni della Gran Piramide, mi soffermo con Mario il quale mi racconta un aneddoto sulla grande scultura fallica capovolta che gli americani chiamano “fallow me”. Sui ruderi del palazzo di fronte riesco a scorgere alcune iguana, quasi immobili in attesa della preda. Nel pomeriggio arriviamo a Mérida. E’ domenica e gli abitanti si riversano nella piazza dello Zócalo per trascorrere serenamente il giorno di festa. In effetti i tavoli dei bar che danno sull’ampia piazza, sono tutti pieni; nei giardini antistanti fra i venditori di dolciumi, spuntano le bancarelle dei venditori di giocattoli in legno. Ne prendo uno per regalarlo al nostro Super Pippo: cinque o sei tavolette di balsa tenute insieme da nastrini colorati; muovendole ed incastrandole compongono figure geometriche ed animali; riesco a mimare la bocca del coccodrillo che si apre e si chiude provocando l’ilarità di tutto il gruppo e così scacciamo definitivamente i brutti ricordi della gita in barca sul Sumidero. Un avventore si avvicina a Max per offrirgli un’amaca di fibra di agave, tipica della zona; per misurarne la resistenza ci mostra la foto di Pavarotti, che abbia fatto lui da collaudatore? Nella chiesa di fronte, all’interno, un crocifisso di proporzioni gigantesche ci ricorda la devozione del popolo messicano alla figura del Cristo crocifisso. Per la sera Mario ci ha riservato una sorpresa: ci fa venire a prendere da alcune carrozzelle addobbate festosamente e trainate da cavalli; ci conducono poco distante dove è situato uno dei più famosi ristoranti italiani della città. Siamo nel quartiere più esclusivo, delle bellissime ville coloniali costeggiano un viale alberato di alcune centinaia di metri. Mario ci confessa che abiterebbe volentieri in una casa così; come dargli torto? La cena è ottima ed alla fine fumiamo anche il sigaro: il giusto commiato dall’uomo della provvidenza che tanto ha fatto affinché si realizzasse un buon viaggio per tutti.

Il sito maya di Chichén Itzà è l’ultimo che visitiamo. Stavolta è il sole a farla da padrone. Sotto il sole in effetti ogni monumento prende delle sembianza diverse ed ancora più affascinanti: la piramide del Castello, molto suggestiva con i suoi 365 scalini, tanti quanti sono i giorni dell’anno, le teste del Quetzalcóatl, il dio sepente, che lo adornano; all’interno conserva un altro tempio di dimensioni minori con la statua del Chaac Mool, la divinità del sacrificio. Ad est, il gruppo delle Mille colonne, con le immagini dei guerrieri scolpiti. A nord la via che conduce al Cenote sacro: un pozzo naturale di raccolta dell’acqua piovana; qui venivano gettati in segno di sacrificio, oggetti in ceramica, monili ed anche resti umani dopo le cerimonie. Tutti siamo rimasti molto colpiti dalla descrizione del gioco della pelota: il gioco si teneva un paio di volte l’anno in concomitanza con il cambio delle stagioni e quindi con l’intento di arrecare buoni auspici. Il campo è molto grande ed è caratterizzato da due muraglie molto alte e spesse sui lati più lunghi, alle cui estremità erano posti due cerchi di pietra in posizione verticale; i giocatori erano vestiti in abiti da cerimonia ed avevano delle protezioni sulle spalle, sui gomiti, sulle ginocchia. Il gioco consisteva nel riuscire a gettare una palla di caucciù, pianta tipica della zona, all’interno del cerchio; chi riusciva nell’intento era il vincitore della contesa. Il premio consisteva nel sacrificio agli dei: proprio così! Tutta l’area è circondata da figure scolpite nella roccia che rappresentano i guerrieri nella contesa, le armature, i copricapo, e la loro decapitazione al termine dell’incontro come premio per la vittoria della sfida; intorno teschi scolpiti sui muri a ricordare le tante contese succedutesi negli anni. Il gioco della Pelota a Chichén sarà uno dei ricordi più vividi del nostro viaggio. Usciti dal sito il sole era ormai alto e Mario ha pensato bene di farci un’altra sorpresa: poco distante infatti abbiamo raggiunto un gigantesco cenote di acqua dolce e la maggior parte di noi non ha resistito al tuffarsi nelle fresche e profonde acque della terra dello Yucatan; i raggi di sole che filtravano dalla volta illuminavano lo specchio d’acqua cristallina; piccoli getti d’acqua piovevano dall’alto ricreando una piacevole doccia naturale. Il calare della sera ha diviso i nostri destini. Dalle sponde del Mar dei Caraibi abbiamo lasciato il Messico. Sulle spiagge bianche che costeggiano Cancun abbiamo segnato i nostri ultimi passi in questa terra ricca di storia e di cultura. In lontananza una canzone “…Una vita intera non può bastare per dimenticare…”.



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