La sottile linea rossa tra l’Asia vera e lo zio Ho

A prima vista arrivare in Vietnam parrebbe non richiedere uno sforzo titanico: undici ore di volo fino a Bangkok, in Thailandia, poi un’altra oretta di aereo e si sbarca ad Hanoi, la capitale del paese. Questo secondo il copione stabilito dall’agenzia viaggi, un copione che però nulla poteva contro l’efficacia spietata di uno sciopero...
la sottile linea rossa tra l'asia vera e lo zio ho
Partenza il: 22/02/2005
Ritorno il: 06/03/2005
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 2000 €
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A prima vista arrivare in Vietnam parrebbe non richiedere uno sforzo titanico: undici ore di volo fino a Bangkok, in Thailandia, poi un’altra oretta di aereo e si sbarca ad Hanoi, la capitale del paese. Questo secondo il copione stabilito dall’agenzia viaggi, un copione che però nulla poteva contro l’efficacia spietata di uno sciopero assassino e la forza bruta delle tempeste di neve che hanno fustigato l’Italia a fine febbraio. Neve e scioperi che hanno prolungato l’attesa oltre ogni logica, costringendoci a rimandare il nostro arrivo nel sud est asiatico di circa 30 ore. L’aeroporto di Hanoi, dove dalle divise che vi accolgono per il controllo dei visti non otterrete uno straccio di sorriso, offre uno spettacolo severo, spartano, per certi versi desolante. All’esterno ci attende una notte scura, avvolta in una cappa di umidità e nebbia. Per arrivare davvero in città però mancano ancora trenta minuti, almeno se andate in taxi. Una volta in centro, la notte smette imme-diatamente di essere scura: Hanoi infatti è una città che non dorme, che brulica di luci e di vita, dove i motorini, e soprattutto i clacson dei motorini, non smettono mai, mai, mai, di sbraitare, prepotenti e fastidiosi. Non abbiamo un albergo prenotato dall’Italia, visto che secondo i piani dovevamo arrivare di mattina e credevamo di poter cercare una sistemazione con calma. Ma in Vietnam nessuno resta in mezzo alla strada: ci pensa il tassista, che al secondo tentativo trova il posto per noi, l’hotel Hoi Linh. Niente di speciale, anzi un po’ decadente, ma la camera è pulita, il bagno pure, la colazione commestibile: il tutto per 15 dollari in due. La prima sera ad Hanoi finisce in fretta: una doccia e a letto, anche se il fuso orario, sei ore avanti, sballa le sensazioni e il ronzio dei motorini rende impossi-bile prendere sonno rapidamente. Il mattino dopo Hanoi ci svela il suo volto: è nuvoloso e umido, e così resterà per tre giorni. Non potrebbe essere altrimenti, visto che questa città non sa più, letteralmente, dove mettere l’acqua di cui dispone. Ci sono pozze, laghetti e laghi enormi ovunque, che in certi momenti pare d’essere al mare e invece la costa dista quasi 200 chilometri. Il jet-lag ci ha giocato un brutto tiro e ci siamo svegliati tardissimo, cioè alle 10: per le abitudini locali, scopriamo subito, è un peccato capitale. Corriamo lo stesso, senza neanche fare colazione, al mauso-leo di Ho Chi Minh, ma chiude alle 11, e non riusciamo ad entrare. Il nostro primo giorno ad Hanoi comincia male, ma non è un problema. Nei pressi del mausoleo siamo assaliti da orde di ragazzi che vogliono portarci a visitare la città. A caso scegliamo di affidarci a Banj, e al suo cyclò: lui pedala, noi stiamo seduti e ci facciamo scarrozzare in giro. Per circa sei ore ci porta a vedere tutto quello merita: il museo della guerra, le pagode più interessanti (ne approfitta per pregare un po’), e poi palazzi, prigioni, altri musei, pure i rottami di un B52 americano abbattuto che affiora da un lago, ed infine lo spettacolo delle marionette sull’acqua. Carino, insolito, solo un po’ troppo lungo. Banj, mentre pedala, racconta che sua madre è rimasta uccisa, nel 1971, quando lui aveva tre mesi, sotto i bombardamenti americani. Verso le cinque ci riporta in albergo, e impariamo una lezione nuova: in Vietnam, anche se si pattuisce una cifra per un servizio, poi quasi sempre ci sarà da discutere. Ci eravamo accordati subito, 15 dollari per tutto il giorno, ma una volta finito il giro ne voleva 50. Non li ha avuti, e ci siamo sistemati con 25, ma questo alzare la voce, questo insistere, questo spudorato mancare alla parola data mi aveva fatto innervosire. Poi ci ho ripensato, ho ripensato alla sua maglietta bucherellata, al suo cyclò sgangherato, al suo inglese appena accennato, ai gesti che ha fatto quando ci ha spiegato come sua madre era morta. Ho ripensato che anche Banj, come me, è nato nel 1971, ma di sicuro ne ha vista qualcuna in più. E ora penso che non avrei dovuto innervosirmi, che quei 10 dollari in più per lui fanno le differenza, mentre per noi non significano nulla. E ora ti penso con un sorriso, Banj. La sera, cena al ristorante Cyclò Bar: talmente buona, per 12 dollari, che decidiamo che torneremo a mangiare lì.

Il giorno dopo lo dedichiamo alla baia di Halong, dove migliaia di formazioni rocciose, strette ma altissime, emergono dalla superfi-cie del mare. Ci vogliono oltre tre ore di bus per arrivare, ma ne vale assolutamente la pena. C’è pure il sole, ad aspettarci, ed un mare liscio come l’olio. Sulla barca che ci porta al largo noi due, quattro greci simpatici, due giapponesi, due coreani, una ragazza australiana che viaggia sola e tantissimo pesce da mangiare. Halong Bay è un posto magico, romantico, affasci-nante, considerato dall’Unesco patrimonio dell’umanità: non è difficile capire il perché. Una volta tornati ad Hanoi, cotti a puntino, compriamo qualcosa in strada: per cenare bastano 30.000 dong, poco meno di due dollari.

Il mattino successivo ci alziamo presto che non vogliamo mancare l’ingresso al mausoleo di Ho Chi Minh. Arriviamo in tempo, stavol-ta, e dopo aver lasciato in custodia tutto, che dentro non si può portare niente, ci mettiamo in fila. Mezz’ora e tocca a noi: il corpo dello zio Ho è conservato benissi-mo, e saranno le luci, quel viso bello e magnetico, i militari impet-titi che lo vegliano, il silenzio religioso dei visitatori o non so cos’altro, ma si esce dal rapido passaggio davanti al feretro con l’impressione di aver vissuto un’esperienza diversa, inedita, quasi mistica. Il nostro tempo ad Hanoi sta per terminare: un ultimo pranzo al Cyclò Bar, molte foto alla svariata umanità che ha una casa ma ama vivere sui marciapiedi, poi nel pomeriggio ci facciamo portare all’aeroporto, perché siamo in partenza per Hue. Il portiere dell’albergo, uno che sembra in grado di fare tutto, ci ha acquistato i biglietti della Vietnam Airlines (60 dollari a testa) e pure procurato i visti per la Cambogia, che servi-ranno più avanti.

HUE, PARE D’AVERLA GIÀ VISTA Un’ora di volo ed atterriamo, nel bel mezzo di una specie di tempe-sta tropicale. A Hue, dice la guida, piove tutto l’anno, e infatti piove. Quello che la guida non dice è che non si vede proprio nulla, e sembra impossibile che l’aereo debba atterrare in mezzo a quel nulla fatto di nuvole dense e pioggia. Ma il pilota sa il fatto suo, e una volta appoggiato il carrello sulla pista si becca pure l’applauso di tutta la platea, usanza che pensavo caduta in prescrizione da anni. Non a Hue, dove piove sempre.

Piove anche la mattina dopo, quando alle otto in punto lasciamo il nostro albergo (9 dollari, bello, come si chiama non lo ricordo più. Se ci ripenso adesso i nomi degli alberghi mi sembrano tutti uguali) per andare a visitare le tombe imperiali lungo il Fiume dei Profumi. Come sempre pare che tutti vogliano portarci a vedere qualcosa: per una decina di dollari ci accordiamo con un tipo (anche questo nome è evaporato) che dispone di una barca lunga e spaziosa. Talmente spaziosa che ci vive, con la moglie e quattro dei suoi sei figli, mentre due sono grandi e hanno già preso il volo. Il giro dura circa quattro ore; comin-ciamo dalla pagoda di Thien Mu: è giorno di festa, e lo spettacolo di migliaia di buddisti che pregano è impressionante. Poi tocca alla tomba di Minh Mang, e a quella di Kahi Dinh. Mentre torniamo verso Hue, mi metto a guardare le figlie di quest’uomo di cui ho dimenti-cato il nome. Tre bambine minute, educate, che ci offrono thé verde, ma che per il resto ci evitano accuratamente. La più grande, che avrà dodici anni, ad un certo punto afferra il suo fratellino e lo porta a due metri da me: stende una stuoia e comincia a giocare con quella stupenda creatura dagli occhi come fessure e i capelli dritti. Lo abbraccia, lo bacia e lo coccola per mezz’ora, e io non posso fare a meno di scattare qualche foto. Ma lei fa finta di niente, mi ignora, si gira dall’altra parte. E non mi sorride, mai, facendomi sentire un perfetto estraneo, estraneo come non mi ero mai sentito. Che io mi sono comprato il diritto di essere lì, ma quella è casa sua, e in casa sua deve aver già visto troppi estranei, tanti da non vederne più nemmeno uno. Nemmeno me.

Al pomeriggio non piove più, e visitiamo la città. Simboli di Hue, una città piena di bellissimi vialetti alberati, sono la Cittadella, e il ricordo, solo quello ormai, della Città proibita, spazzata via dai bombardamenti americani del 1968, dopo l’offensiva del Tet. Mentre guardo Hue, mentre guardo queste macerie, lasciate lì perché non ci sono i soldi per restaurare un bel niente, e perché è meglio ricordarsi cosa è successo, non posso non pensare ai molti libri che ho letto, e ai molti film che ho visto. E non posso non pensare a Stanley Kubrick, a un capolavoro che si chiama «Full metal jacket», a quanto, in quella pellicola, una giovane vietnamita riesce a fare a tanti giovani americani, e a quello che i giovani americani fanno poi a quella giovane vietnamita. A Hue la guerra, quella guerra, mi è sem-brata più vicina, quasi la potessi toccare, anche se sono passati più di trent’anni.

PROSSIMA TAPPA, HOI AN Il mattino seguente facciamo la nostra conoscenza con gli autobus della Sinh Cafè, il mezzo con il quale gireremo per tutto il resto del Vietnam e arriveremo fino in Cambogia. Non sono niente male, questi bus, ma hanno un difetto: vanno piano, pianissimo. D’altronde non è colpa loro, o degli autisti. E’ che andare forte, in Vietnam, dove le strade sono un disastro e il codice della strada un mistero, sarebbe un suicidio. E allora si va pianissimo, che per arrivare ad Hoi An da Hue saranno neanche 200 km, ma noi ci mettia-mo più di sei ore. Ne vale la pena, comunque, perché questa città è molto carina. C’è addirittura l’isola pedonale, e sfuggire per qualche ora alla morsa dei motorini pare un sogno. A Hoi An ci sono un sacco di negozi, ci sono un sacco di turisti e c’è il fiume. Noi ci facciamo portare da un ragazza di 23 anni, che possiede una specie di giunca, un cappello a cono e una faccia gentile, a vedere come vive il popolo dei sanpan, le tipiche imbarcazioni vietnamite. Vive male, direi.

Il giorno dopo, altro autobus della Sinh Cafè: partiamo per Nha Trang. Un viaggio infinito, 530 km da percorrere in circa 13 ore, dalle sei del mattino alle sette di sera. Lento, ma puntuale, il nostro bus ce la fa. E giusto alle sette arriviamo in quella che viene definita come la Rimini del Vietnam. Esattamente come avremmo fatto con quella originale, evitiamo con cura di visitarla, e il mattino seguente, nonostante tutte le ore di bus del giorno precedente abbiano lasciato il segno, ne prendiamo un altro che ci porterà a Dalat, in montagna. Arriviamo nel primo pomeriggio, non prima di aver visitato una stupenda torre Cham. Siamo ormai nel sud del paese, e sta diventando decisamente caldo. Ma Dalat è in altura, è il posto dove i francesi occupanti andavano in villeggiatu-ra, e infatti c’è persino una enorme riproduzione, circa un terzo dell’originale, della torre Eiffel. E’ carina, Dalat, ma non è Vietnam, semplicemente.

SAIGON, ULTIMA CORSA Quando ci alziamo siamo pronti per un’altra scorpacciata di bus: prossima tappa Saigon, o meglio Ho Chi Minh City, come vorrebbe il regime comunista che detta legge laggiù. Solo lui, però, chiama così questa enorme, spropositata città di 8 milioni di abitanti, dove restiamo per tre giorni, odiandola ogni minuto di più. Non che non abbia un certo fascino, o cose interessanti da offrire (una su tutte, il museo degli orrori della guerra, dove non ci si può non commuovere), ma Saigon racchiude il peggio di una qualsiasi città orientale (il caos assoluto, lo smog, il traffico impazzito, la sporcizia, gli odori troppo forti) e il peggio di una qualsiasi città occidentale (le macchine potenti, i cellulari, le pubblicità delle macchine potenti e dei cellulari, la necessità, anzi la brama smodata di soldi, di fare affari, di vendere, di fregarti). E’ un casino, Saigon, e diventa invivibile, dopo poco. Per fortuna il secondo giorno ce ne andiamo al Cao Dai di Tay Ninh, dove una curiosa setta, in un tempio talmente strambo e kitsch che sembra di stare a Las Vegas, adora contemporaneamente Buddha, Cristo, Maometto, Confucio, Giovanna d’Arco e, incredibile ma vero, anche Lenin. I fedeli sono tutti vestiti di bianco, i monaci con tuniche colorate che vanno dal rosso al blu passando per il giallo. Tornando indietro verso Saigon ci fermiamo a vedere i tunnel di Cu Chi, il complicato sistema di gallerie sotterranee ideate dai vietcong per sfuggire agli americani. In certi buchi, angusti e soffocanti oltre logica, di tutto il gruppo di turisti, l’unico che aveva il fisico adatto per entrare ero io. E ci sono entrato, per poi uscirne dopo pochi secondi: un po’ angosciato, un po’ fotografato.

Una volta riemersi dai tunnel siamo tornati a Saigon. Stavamo per salutare il Vietnam: il mattino dopo ci aspettava un altro autobus. Destinazione Cambogia. Massimiliano Baravelli



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