La legge della giungla
A una mezz’ora di tuk-tuk da Siem Reap, nel folto della boscaglia di dipterocarpus, shorea e kapok, una delle meraviglie del mondo attira in Cambogia due milioni di visitatori l’anno: il più vasto complesso religioso mai realizzato. Grandi recinti di laterite – una rozza pietra marrone e nera dall’aspetto spugnoso, più porosa del nostro tufo – proteggono altre mura dello stesso materiale, ed ancora, come in una matrioska, fino a cinque cinture per i siti più importanti. All’interno, un paio di biblioteche per i testi sacri, poi gli stupa – reliquiari in mattoni a forma di campana – e la cella al centro, talvolta ancora occupata da una statua alla quale si può offrire un bastoncino d’incenso o un bocciolo di loto. Nel modernissimo museo di Siem Reap, le statue di Shiva e di Vishnù più antiche datano al VI secolo e denunciano l’origine indù della cultura khmer, formatasi in piccoli stati perennemente in contesa tra loro. L’unificazione realizzata da Jayavarman II all’inizio dell’800 d.C. permise al neonato regno la progressiva conquista di gran parte della penisola indocinese. Queste grandiose rovine testimoniano i tre secoli di quell’impero dalla poi ineguagliata prosperità, permessa da un ingegnoso sistema di arginamento e distribuzione dell’acqua che favorì ricchi raccolti. Qui il termometro non va mai sotto i 20 °C, il clima è tropicale e la pioggia viene solo col monsone di agosto e settembre. Per sfruttare queste terre riarse è essenziale trattenere l’acqua. E il riso richiede molta acqua. Ecco allora l’erezione di poderose dighe per enormi laghi artificiali, accanto ai quali si concentrò un formicaio umano mai visto prima: più di un milione di persone abitarono una città di legno e paglia di cui non rimane nulla se non le pietre degli edifici del potere. I precedenti micromonarchi avevano giustificato il proprio potere assoluto con l’idea di casta, importata dall’India. Jayavarman portò questa concezione all’estremo autoproclamandosi Devaraja, cioè re-dio: degno membro, a leggere la sua storia, di quella bella cricca che abbiamo visto occupata al tiro alla fune o, per essere più precisi, alla “zangolatura dell’oceano di latte”.
I templi di Angkor – la loro geografia, gli stili e i periodi di costruzione – rivelano una fitta storia di brutali lotte intestine per il potere, di oscillazioni della religione di stato tra buddismo e induismo e di periodi di vera e propria guerra civile. Considerando la storia recente, si potrebbe pensare che sia il territorio ad avere un proprio karma, e che gli uomini che lo abitano, quasi burattini manovrati da un destino impersonale, siano costretti a rappresentarlo, sempre lo stesso, d’epoca in epoca. Il totalitarismo e le manie di grandezza dei principi khmer sono testimoniate in decine di templi, costruiti preferibilmente in cima ad una collina, alti, più alti, più alti ancora, come Angkor Wat, le cui tre torri emergono dalla giungla e, viste da Phnom Bakheng, ricordano i templi maya dello Yucatan. Esempio estremo ne è la piccola ma vertiginosa piramide di Baksei Chamkrong. O vasti, ancor più vasti, labirintici addirittura, come il Bayon, che richiede almeno due ore di visita. Alle ambizioni architettoniche dei Khmer non corrispondeva però una perizia ingegneristica adeguata: non conoscevano l’arco, e per le coperture dei gopura (le porte monumentali), dei passaggi e delle celle incorbellavano le pietre, facendo cioè sporgere ogni strato più del sottostante, fino a toccarsi e premere l’uno contro l’altro i due ultimi alla sommità. Il risultato è che tanti dei templi di Angkor sono delle pietraie: i piccoli cortili e gli stretti passaggi sono ingombri di enormi pietre squadrate, come dopo un rovinoso terremoto. Ma erano bravi scalpellini: i bassorilievi di Angkor Wat – una vera Iliade in pietra, incalzante e altrettanto avvincente – e del Bayon – più composti e compiaciuti, come un Louvre en plein air – fanno arrossire la nostra Cappella Sistina, tanto fluido è l’intreccio delle scene, squisita l’esecuzione ed estesa l’opera, che a ragione è considerata una delle meraviglie del mondo. Il capolavoro di Michelangelo, a confronto, appare elementare e non poco legnoso: non ha nulla dell’afflato lirico e della tumultuosa umanità che ci incanta e ci coinvolge ad Angkor Wat, come una sterminata Cavalcata delle Valkirie. E’ la stessa differenza tra l’autoimportanza e la ponderosità d’un Brahms e la disinvoltura e l’immediatezza d’invenzione d’un Mozart. E se questa magnificenza è davvero patrimonio dell’umanità di cui faccio parte, sono felice di averne preso possesso, anche solo per un giorno. Ma l’emozione più grande la dà l’abbraccio mortale della giungla che fagocita i portali e le celle, che scalza le pietre e torreggia sulle mura, creando un’impressionante rete di tentacoli vegetali. Ta Prohm è stato tenuto intenzionalmente nello stato in cui è stato trovato dagli europei, ma Beng Mealea e Koh Ker sono ancor più straordinari. Queste situazioni estreme fanno di Angkor un’esperienza indimenticabile: la legge del più forte si rivela nel mezzo della giungla in una schiacciante ostentazione di imperio, di sfarzo e di disdegno, a cui il tempo ha imposto il silenzio e che la natura ha sigillato in una gabbia inestricabile.
Il Prasat Kravan, tra i pochi templi che non tradiscono la propria destinazione religiosa, presenta due favolosi bassorilievi interni carichi di simbolismo: Vishnù su Garuda e Vishnù in forma di nano che, attraversando l’oceano, s’impossessa del mondo. Quest’iconografia, inconsueta per gli occidentali, sintetizza miti indù e buddisti, ed è completa della damnatio memoriae di una religone sull’altra: in alcune formelle sono rimasti gli oranti e la figura principale è stata scheggiata via. Ma quando quei bulini, quelle raspe, quegli scalpelli lavoravano per creare, ne poteva risultare un gioiello come Banteay Srei, un complesso di arenaria rosa di limitate dimensioni, coperto da bassorilievi di mano così fine da essere dei pizzi. In genere, però, i templi sono torri o montagne di pietra, simboli del primigenio Monte Meru, e chi sale i loro ripidi gradini non può non sentirsi soggiogato mentre, dal fogliame tutt’attorno, lo circonda il frinire assordante delle cicale, come cento coltelli contro le ruote di cento arrotini. Spesso queste rovine sono difese all’ingresso da leoni, talvolta scortate agli angoli dei gradoni da elefanti e quasi sempre decorate da bassorilievi di ninfe danzanti dalle pose sinuose, le apsaras.
Il ballo non rientrava nella cruda filosofia della dittatura maoista che a metà degli anni ’70 ha azzerato la Cambogia. Colpevoli di servire le classi agiate, ballerini e ballerine, assieme ai musicisti e a tutti gli artisti, furono sterminati. Adesso, a Siem Reap diversi ristoranti offrono cena con spettacolo di marionette (siluette di cuoio contro uno schermo retroilluminato) e/o danza. Le ragazze cambogiane, truccate e col vestito da cerimonia, sono sorprendentemente belle – proprio come quelle che danzano sui muri di questi templi da mille anni. E’ un fugace momento di grazia: di solito le si incontra come commesse, dimesse, annoiate o insistenti – l’opposto delle altere e ieratiche apsara. Completavano il corredo dei templi le statue, ora nei musei – quelle che non sono state trafugate. Una galleria del Museo Nazionale di Phnom Penh è popolata da immobili presenze dagli alti copricapi cilindrici, quasi egizi. Stupendo, soprattutte, il grande Vishnù dalle otto braccia dal Phnom Da, vicino ad Angkor Borei, che mostra i suoi attributi: una ruota (mente pura), una mazza (potere), una palla (perfezione) e una conchiglia (gli elementi della vita). Che esperienza sarebbe stata vederlo nel suo tempio, in cima alla collina (“phnom” significa “collina”), le risaie del Vietnam in lontananza, un “masso volante” vicino, poggiato giusto su tre punti, a cui un’iscrizione sacra impedisce di cadere nella pianura sottostante… sarebbe stato come incontrare una persona nella sua casa, riconoscendole carattere e contesto, invece di incrociare un volto nella folla. Sempre da Phnom Da è un Krishna in arenaria, scolpito nel VI secolo e quindi pre-Angkoriano, nell’atto di sollevare il Monte Govardhana. Sorprendentemente, la fisionomia e i riccioli sono quelli dello stile arcaico delle statue greche, solo il sorriso è khmer. Lo stesso soggetto, sempre da Angkor Borei ma dal Wat Koh, ha un volto da damina del ’700 e una posa vezzosa tutta rococò. Il sorriso, il gesto delle mani, il movimento delle dita della deità basterebbero a dar vita e ragione ai templi che le ospitavano, che troppo spesso danno l’impressione di una scatola vuota. In un paio di occasioni – a Sambor Prei Kuk ad esempio, Durga, l’aspetto furioso di Lakshmi che uccide il bisonte-demonio – la statua originale è stata rimpiazzata da una copia. Non è lo stesso ma, vista la mancanza di sorveglianza e il pericolo che un originale lasciato in situ correrebbe, è meglio di niente. Sorveglianza in realtà c’è, ma non certo per preservare i tesori culturali, quanto per localizzare il turista che arriva e che di sicuro ha bisogno di una guida, d’una sciarpina, di una bottiglia d’acqua o di birra e forse anche di un libro. E’ la legge della giungla: la gente è povera, senza educazione, lo stato non offre alcuna assistenza e ognuno sopravvive come può. Tutto viene offerto a un dollaro, una cifra non indifferente per loro, e il contatto con il turista è un’occasione, appunto, d’oro. Lo stipendio di un insegnante, per dare un’idea, s’aggira sui 40 dollari mensili. Pochi, ma forse nemmeno pienamente meritati, visto che, per forma mentis, per cultura, qui non insegnano la disciplina, elemento essenziale per raggiungere qualsiasi obiettivo. E quindi una vera educazione non c’è. Fatti lavorare come animali dai loro imperatori, soggiogati poi per diversi secoli dai regni vicini, oggetto delle attenzioni colonialiste francesi e, per ultimo, vittime dell’efferato regime maoista di Pol Pot: cosa si può pretendere da questa gente? Sono mansueti, mancano di intenzioni recondite: il rapporto con loro è semplice e genuino. Come gli animali, vivono alla giornata, senza ambizioni, elemosinando a chi ha. L’unico luogo dove nessuno ci ha chiesto la carità è stato Cheung Kok, un villaggio nei dintorni di Kampong Cham, dove Amica, un’organizzazione francese, ha organizzato gli abitanti di modo che tutti abbiano un lavoro, vendano i prodotti del loro artigianato e mostrino ai turisti la vita rurale che conducono: anche l’ecoturismo può aiutare. All’educazione che manca sopperisce la fantasia, che ricorre ai più inaspettati stratagemmi, sempre a valenza intellettuale zero, per strappare quel famoso dollaro.
A Chong Kneas, uno dei villaggi galleggianti sul grande lago Tonlé Sap, i bambini, spostandosi in barchette o dentro grandi catini, si avviluppano addosso dei grossi serpenti per sollecitare la compassione dei turisti. Ci raccontava Bud Gibbons, un anziano veterano americano che ha messo radici qui, che tutti i cambogiani sono per qualche verso handicappati – non solo le tante vittime delle mine ora costrette a mendicare ad ogni corriera che si fermi, ad ogni mercato e ad ogni monumento. Pol Pot, volendo difendere il confine colla Tailandia e scoraggiare gli oppositori del regime colle mine antiuomo, ha creato un reggimento di mutilati. Al mercato serale di Siem Reap c’è un torso umano che invita i turisti a comprare libri da una cassetta che gli hanno messo accanto. Mi è sembrato che gli abbiano attaccato il piede sinistro all’anca destra, forse per farlo stare dritto ma, per più d’un motivo, non ci metterei la mano sul fuoco. Altri hanno imparato a suonare uno strumento e gruppi di musica tradizionale suonano vicino a taluni templi, rendendone più evocativa la visita. Ma è vero, a tutti i cambogiani manca qualcosa: se non una parte del corpo, l’educazione, la disciplina, la dignità, o i fondi per intraprendere un’attività e crearsi una fonte di guadagno. Alcuni invalidi hanno nascosto o venduto l’arto artificiale che era stato loro fornito perché li privava dell’unica risorsa che avevano: l’elemosina. S’è provato ad aiutarli facendo imparare loro un mestiere – ad esempio il meccanico per motociclette – ma nulla ha funzionato. Al contrario, c’era il rischio, a creare unità lavorative di soli handicappati, che i genitori mutilassero intenzionalmente i figli per assicurar loro l’accesso all’iniziativa. Alla fine il successo è venuto con la creazione di un laboratorio di tessitura della seta in cui abili e diversamente abili collaborano, ciascuno secondo le proprie possibilità. L’elemento nuovo per i cambogiani è il concetto di profitto collegato all’impegno: quanto più la lavoratrice produce, tanto più vende e conseguentemente tanto più guadagna. Questa banale catena consequenziale è aliena allo stile di vita khmer, ma è l’unico modo per uscire dalla miseria. Lo sanno le guide turistiche, che si impegnano quanto possono in alta stagione per compensare le magre entrate della bassa, ma il livello d’istruzione è talmente scarso e la forma mentis talmente diversa che è innegabile che attualmente il ruolo della Cambogia nel consesso delle nazioni sia quello di destinatario di aiuti internazionali – un paese per il volontariato. Le iniziative degli enti non governativi sono moltissime, e tutte invitano a impegnarsi di persona o a sovvenzionare le loro attività. Un bell’esempio è Les Chantiers Ecoles di Siem Reap, che ha un convitto modello dove i giovani più bisognosi imparano la tessitura, la pittura e la scultura. I soggetti sono quelli classici, proposti in tutti i mercatini della nazione, ma è giusto che dopo la distruzione culturale operata dalla dittatura i cambogiani ritrovino le proprie radici. E riscoprano la loro storia recente che, per essere troppo atroce, è stata loro occultata – anche esprimendola con lo spettacolo, come Phare Ponleu Selpak, una troupe di giovani acrobati di Battambang, con l’aiuto di un coreografo francese, sta facendo. La nazione si barcamena sull’orlo della sopravvivenza, e chi abita in campagna non paga imposte – con risorse come lo zucchero della palma, il riso del campo e le uova delle galline, come potrebbe? – ma questo non è il paese del bengodi che immaginiamo quando uno dei nostri politicanti abolisce, per demogogia, una tassa.
“Mandiamoli tutti a zappare la terra, questi mangiapane a tradimento”: alla vita rurale Pol Pot aveva instradato gli abitanti delle città, svuotando Phnom Penh, facendo saltare la banca centrale ed eliminando il denaro. Un po’ di questa medicina non farebbe male neanche a noi. L’estremizzazione era folle, ma la visione della vocazione contadina della penisola indocinese era lucida e realistica: dopo tutto, è la fertilità della terra che aveva permesso la comparsa dell’impero di Angkor. Le poche industrie presenti dipendono comunque dalle piantagioni: a Sihanoukville quella della birra e a Chup, vicino a Kampong Cham, quella della gomma. L’impianto, un vasto capannone protetto da un alto muro di cinta, ospita le vasche per la miscelazione e la decantazione della resina degli alberi della gomma, ciascuno dei quali può produrne fino a quasi mezzo litro al giorno. L’odore non è dei migliori, ma scopriamo che il giallo quasi traslucido dei nostri elastici è proprio il colore dei grandi pani di gomma pronti per l’esportazione, e che l’impianto dà lavoro fisso a una decina di persone e occasionale a una trentina d’altre. Istruttiva anche la visita a una piantagione di pepe, per cui Kampot è famosa nel mondo. Intorno a Battambang, invece, il percorso d’ordinanza comprende i grandi templi Wat Ek Phnom, Prasat Banan e Phnom Sampeau, quest’ultimo vicino alle tragiche caverne di sterminio usate da Pol Pot, simili alle foibe dell’Istria dove, durante la seconda guerra mondiale, gli jugoslavi gettavano gli italiani dalmati in un tentativo di pulizia razziale. L’anziana proprietaria di una casa signorile d’epoca del villaggio di Wat Kor, nata, come si vanta, sotto il protettorato francese, ci accoglie nella grande stanza del primo piano – le case sono costruite su palafitte e il livello a terra viene solitamente lasciato libero per approfittare dell’ombra e funziona da soggiorno, laboratorio e deposito – ci mostra con orgoglio, in francese, i cimeli disdegnati dai Khmer Rouge: uno strumento musicale e una scatola laccata, tradizionale dono scambiato dai genitori degli sposi promessi, in cui si conservano le erbe per profumare l’alito. Ma visite più curiose sono offerte da famiglie che coprono semplici necessità locali: chi produce carta di riso per gli involtini primavera, salata per quelli da friggere e più dolce per quelli da lessare, chi trafila spaghetti di riso, chi sorveglia un allevamento di coccodrilli… e poi si fa un giro sul treno di bambù. Le vecchie rotaie, storte, sconnesse e non più allo standard d’una vera ferrovia, sono usate dalla gente del posto per trasporto di persone, di merci e per il divertimento dei turisti. Due assali, uno provvisto di ruota dentata, un piccolo motore, una piattaforma di bambù: cinque dollari per arrivare, dopo una ventina di minuti, alla successiva “stazione”, la sosta per una birra, e si torna al tuk-tuk, il mezzo principe per gli spostamenti in Indocina. Qui il tuk-tuk è diverso da quello tailandese: si tratta in realtà di una moto con un rimorchio a due ruote che può ospitare fino a quattro occidentali – o il doppio di cambogiani. Conducenti di tuk-tuk, di motocicli, massaggiatrici, manicure e venditori d’ogni cosa assicurano ovunque che al turista non manchi proprio nulla, in nessun momento della giornata. Persino i pesci, per soli due dollari (dopo la distruzione economica del ’75-’79 la valuta locale, il riel, è stato agganciato al dollaro e si paga indifferentemente in dollari o in riel nella proporzione 1US$=4.000 riel) sono pronti a fare un “massaggio” ai piedi, asportando le cellule morte. Ci si siede ai bordi della vasca, si mettono i piedi in acqua e gli animali iniziano a mordicchiare.
A chi ama l’acqua, Sihanoukville offre diverse spiagge con cibo e alloggio per ogni tasca. Scenette indimenticabili: sessantenni dalle improponibili proporzioni passeggiano sul bagnasciuga mentre, al bar di hard rock, marpioni finto-esotici, davanti a una birra, restano in attesa che cresca loro un nuovo arto per disegnarci un altro tatuaggio. Sotto un ombrellone, ragazze discutono ignorando l’uomo senza mani che agita le braccia accanto a loro reclamando un obolo… Vicino, il Ream National Park offre trek nella giungla e una gita in barca costeggiando la foresta di mangrovie. Sulla piattaforma d’avvistamento, al livello della chioma degli alberi, si sente solo il leggero frusciare delle foglie e i peculiari richiami di uccelli esotici: un momento di perfetta armonia. Un altro momento magico ci ha colto un pomeriggio, saliti i trecento gradini che portano a Phnom Chisor. Le rovine del tempio non sono gran che, e i cani del monastero sono troppo insistenti. Dalla cima, il panorama dei campi coltivati mostra il verde innocente del riso giovane e l’ocra cinerina del riso già tagliato. Gli animali tornano alla stalla, e da lontano sale la triste salmodia buddista per un defunto. Anche il sole ha perso forza, e tutto rimane sospeso a mezz’aria, a mezza luce, fuori dal tempo.
Fuori dal tempo ci porta anche un’escursione alla stazione montana di Bokor, vicino a Kampot, che mette a dura prova la scarsa capacità organizzativa dei cambogiani, complice anche il ponte perennemente precario tra la loro lingua e l’inglese. Il trek nella foresta è uno dei momenti più piacevoli del viaggio: niente umidità, niente zanzare, tutto all’ombra degli alti alberi e impegnativo quanto basta. Il vecchio albergo francese sulla vetta essuda la sua storia travagliata, e forse verrà demolito: una strada è in costruzione (qui, come in tutta la Cambogia, si sta lavorando alle strade, e se in lontananza si vede un chiarore, non è un’apparizione, ma il nuvolone di polvere della vettura che ci ha preceduto). Qualcuno in alto vuole rilanciare il casinò della giungla, qualcuno a Phnom Penh. E anche Phom Penh è una giungla, ma d’altro genere. Analfabeta? Nessun problema: orientarsi nella giungla urbana è possibile, i segnaposto sono i monumenti che allietano il centro delle rotatorie. Il ronzare continuo dei tuk-tuk e di moto che intessono una treccia fittissima con automobili e pedoni è punteggiato dai clacson, dalla trombetta dei carretti per la raccolta del cartone e per la vendita delle noci di cocco e dai richiami dei venditori ambulanti. Il traffico scorre secondo l’indecifrabile logica khmer, tanto che a Siem Reap agli stranieri è stato vietato di affittare una moto a causa dei troppi incidenti, colpa della loro diversa reazione agli eventi della strada. Sui marciapiedi non si può camminare: in Cambogia si vive all’aperto, e sui marciapiedi tagliano i capelli i barbieri, sono sistemati i tavolini dei ristoranti, sono parcheggiate macchine e moto, vengono depositati i sacchetti della spazzatura, circolano cani randagi, uomini in uniforme e bambini che pisciano, si appilano sacchetti di cemento, si posizionano pubblicità. Occorre camminare sulla carreggiata – tenendo gli occhi bene aperti. E i wat moderni, qui come dappertutto, sono costituiti da un unico grande ambiente circondato da un colonnato. Alle gradevoli decorazioni dell’esterno fa da contraltare il kitch immancabile dell’interno, completamente istoriato con scene della vita di Buddha dai colori sgargianti e dallo stile popolare. Quasi sempre chiusi, i cani avvertono i monaci dell’arrivo del turista, e nella speranza di una mancia qualcuno compare ad aprire. Soprattutto, Phnom Pehn offre un incontro ravvicinato con il male, che nella sua cieca determinazione non risparmia nessuno, neanche i suoi. Il carcere S21 e il campo di sterminio di Choeung Ek mettono repentinamente allo scoperto la belva che sonnecchia in ciascuno di noi. I teschi, gli stracci recuperati dalle fosse comuni, l’albero contro il quale venivano sbattuti i bambini piccoli (“Non c’è guadagno a tenerli, senza contare che un domani potrebbero rivoltarcisi contro”, sosteneva Pol Pot) aprono nell’anima una ferita dimenticata ma mai completamente sanata, un dolore che ci sorprende scoprire anche nostro: un orrore anch’esso patrimonio dell’umanità. E questo è solo uno di 343 siti del genere, sparsi per tutto il paese, mentre la popolazione veniva fiaccata con la fame e la paura e ribellarsi equivaleva a morte certa. Le belve umane dell’Angkar, il partito onnipotente, hanno imposto la legge della giungla al paese più antico e glorioso dell’Indocina. Questo è quello che si legge in superficie. Sotto… lascio parlare Sidney Schanberg, il giornalista americano protagonista del film “Urla del silenzio”, girato nel 1984 sulla vittoria dei Khmer Rouges sul regime di Lon Nol: “Forse abbiamo sottostimato gli eccessi di follia che sette miliardi di dollari di bombe avrebbero prodotto”. Durante la guerra, infatti, gli americani hanno bombardato più la Cambogia che il Vietnam. Molti dei responsabili delle torture e della morte di forse due milioni di persone hanno concluso la propria esistenza a piede libero e, grazie alle connivenze dell’occidente, giustizia non è ancora stata fatta.
Sì, il recinto del Palazzo reale è immacolato, come anche il Museo Nazionale e il boulevard del monumento dell’Indipendenza. E Phsar Thmei, il mercato centrale d’epoca francese, è una costruzione déco veramente originale la cui maestosa volumetria interna favorisce una buona ventilazione. Sì, il Centro Commerciale Sorya è una stupefacente oasi di consumismo clonata direttamente da Bangkok o da Hong Kong, e la Pagoda d’Argento avrà pure il pavimenti di quel metallo, ma le poche mattonelle lasciate in mostra sono attaccate tra loro col nastro isolante da pacchi… “Phnom Penh, la perla dell’Indocina”, azzarda la pubblicità. Sì, ho visto la perla e ho visto il porcile. A Siem Reap può capitare che, al miagolare della musica tradizionale che accompagna gli eleganti movimenti delle attuali apsaras, si sovrappongano le vibrazioni del più volgare successo internazionale dell’anno dal bar sottostante. Può capitare, lungo la ripida salita in fuoristrada al Prasat Preah Vihear, dopo aver superato il cartello blu con la scritta bilingue “I have pride to be born as Khmer”, di dover lanciare pacchetti di sigarette ai militari che la piantonano. “Prasat Vihear is our temple”, insiste un altro cartello, sfidando quelli sull’altro cocuzzolo, al di là del vallone, dove sventola la bandiera tailandese, sbugiardando l’altra insegna che predica “Together for Peace, Stability and Prosperity in Asia”. Nel verde, rare capanne di sacchi di juta, legno e bambù, coperte da un foglio di corrugato, s’alternano alle palme. Gli stranieri invece s’affollano in Pub Street, una strada dove giorno e notte è festa, tra bar, caffè, ristoranti e souvenir. O sotto le tettoie degli spettacoli con buffet, riempiti dall’industria dei viaggi organizzati, dove ti stupisci che alla fine i turisti vengano lasciati andare invece di venir messi dentro alle ceste e impilati l’uno sull’altro sul bagagliaio delle moto come si fa con i maiali. Alla faccia dei buffet per le orde dei nuovi barbari, ad una scuola di cucina abbiamo imparato a fare gli involtini primavera e una pietanza khmer. Peccato i petali del fiore di banano per arrotolare il ripieno non siano disponibili da noi. Fiori… come da noi l’uggia dell’autunno è rotta dal sole di San Martino, nel mezzo della stagione secca in Cambogia c’è un giorno tradizionale di pioggia per il fiore del mango. Io lo so, io c’ero. Ma questa giungla ha dato il suo più bel fiore mille anni fa. Facendoci strada tra l’insistenza della miseria, il deserto dell’ignoranza e la legge del profitto, quel fiore di pietra ci può ancora riempire gli occhi con la bellezza e la fantasia con gli esotismi di una lontanissima età dell’oro.