La Birmania nel cuore

Una coppia, una vecchia auto e tanta voglia di viaggiare
Scritto da: fabianacan
la birmania nel cuore
Partenza il: 22/08/2011
Ritorno il: 02/09/2011
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
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Agosto, periodo delle pioggie. Yangon, ex capitale della Birmania ci accoglie con uomini in sarong e una pioggia leggera, ma incessante. Incontriamo la nostra guida in aereoporto, ci accoglie con un sorriso che non lo abbandonerà per tutto il resto del viaggio. Myo è un ragazzo di Yangon che ha studiato l’italiano, ha venticinque anni e tanta voglia di viaggiare e conoscere il mondo. Sarà il nostro angelo custode, la nostra guida attenta e preparata, il nostro amico, la nostra finestra sulla dura realtà birmana, in cui la dittatura si respira nell’aria, nella mancanza di contatti con il resto del mondo, nell’inesistenza di mezzi di comunicazione indipendenti, nella paura dei birmani di parlare ad alta voce di tutto quello che riguarda la politica di questo paese.

SCENE DI VITA RURALE

Dopo una notte trascorsa in un anonimo albergo di Yangon raggiungiamo lo stato Shan, lo stato più grande della Birmania, abitato da ventitrè minoranze etniche. Come spiegare le emozioni di chi percorrendo una strada ha la sensazione di attraversare in un solo attimo anni di storia? Rabbia per un popolo sottomesso che non ha ancora avuto la possibilità di riscattare la sua dignità? Meraviglia per antiche tradizioni che nel mondo occidentale sono state soffocate dall’ alienazione del lavoro? Doveva essere così l’Italia dei nostri bisnonni, dei nostri trisavoli? Affacciati ai finestrini di una vecchia auto con guida a destra, in un paese in cui si guida a sinistra, guardiamo increduli le scene di vita quotidiana che si presentano ai nostri occhi: intere vallate coltivate, mamme che, con i loro bambini di qualche mese legati in un foulard colorato, sono chine a piantare le prime piantine di riso, camion arrugginiti carichi di cipolle e cavolfiori, un bambino e un papà a spasso sul dorso di un bufalo, campi arati da buoi, trattori carichi di merci e uomini in apparente equilibrio precario, strade allagate, mezzi di locomozione che sfidano la più fervida immaginazione, l’andirivieni di contadini che con i loro cappelli a punta assomigliano a grandi matite colorate, le spighe lasciate ad asciugare sui tralicci di bambù. Ovunque un’esplosione di colori in cui predominano il verde della campagna e il giallo del grano. La coltivazione e la raccolta del riso avvengono ancora a mano con un processo lento e faticoso che solo la pazienza di questi uomini sa portare a termine. Le mondine sono velocissime, setacciano il riso, battono le spighe sui tralicci di legno con un ritmo incessante, gettano in aria il riso in modo che il vento porti via la pula. E’ una danza dal sapore antico e dal ritmo affascinante. Quanto riso hanno raccolto quelle mani rugose e quei visi cotti dal sole e scavati dal vento? Sulle colline è già inziata la semina, più tardi occorrerà tagliare le spighe più grandi e sane per farle germinare in acque pulite e quando le piantine avranno raggiunto le dimensioni necessarie saranno piantate nelle risaie già sommerse.

LA MAGIA DEL LAGO INLE

Arriviamo al lago Inle nel tardo pomeriggio. C’e una canoa a motore ad attenderci. Inle, il lago che non dorme mai. E’ l’alba, gli Intha (i figli del lago) sono indaffarati sulle loro lance di legno che spingono con una gamba soltanto. Non portano il longy come tutti i birmani, ma larghi pantaloni di cotone che hanno ereditato dai vicini cinesi. Le acque di questo fiume vivono e danno la vita. Vivono delle tradizioni, delle consuetudini e dell’ingegno di questa etnia che del lago ha fatto la sua fortuna. Le barche sono cariche di alghe, raccolte dal fondale, che serviranno a creare gli orti galleggianti su cui coltivare i pomodori. I pescatori utilizzano ancora strumenti rudimentali e con lunghi bastoni di bambù spaventano i pesci per condurli nelle reti. La serenità e la dignità di queste genti. Mamme che portano i bambini a scuola e hanno il sorriso di chi è ancora poco abituato all’invadenza del turista, bambini che giocano nelle acque fangose del lago, le stesse acque dove donne giovani e anziane lavano i piatti o fanno il bucato. Le case sono palafitte di bambù intrecciato, a volte con motivi geometrici, povere ma dignitose. Ogni villaggio ha la sua caratteristica e ha dato vita a una piccola bottega di artigianato: i sigari, i tessuti ricavati dai fiori di loto, l’argento. Kakku, vicino alla capitale Taunggy, un sito magico controllato da occhi vigili di soldati Pa-O armati di vecchi fucili. Il suono delle campanelle delle pagode che tintinnano al vento. Il ricordo dei mille stupa di Indein che appaiono come un’incredibile foresta di pinnacoli, immersi nella vegetazione e dimenticati dalla storia. I giorni trascorono velocemente e lasciamo questo posto con un pò di malinconia. Dopo la pioggia di ieri notte le strade sono allagate e la gente si affretta a portare il riso al sicuro nei monasteri o improvvisa un piccolo mercato con il pesce catturato dal vicino allevamento, distrutto dal maltempo.

VOLTI, COLORI E ODORI DEI MERCATI BIRMANI

Il mercato galleggiante dei cinque giorni di Ywama sul lago Inle, il mercato del pesce di Nyaungshwe, il mercato dei bufali di Kakku o quello di Nyaung a Bagan, le mille bancarelle del festival dei Nats a Mandalay, sono un tripudio di odori e colori difficili da dimenticare. Ogni villaggio, ogni città in Birmania prende vita attorno ad un mercato, luogo di socializzazione e di scambio. Le donne Pa-O con i turbanti a quadri colorati annodati a ricordare la forma di un drago, le donne Shan con il longy a fiori annodato sul fianco e la caratteristica borsa di cotone, il pesce secco, i biglietti sgualciti di una fantomatica lotteria, i venditori di pece, il peperoncino, le noci di betel, le nuvolette di riso, i venditori di benzina al mercato nero, la verdura in bella mostra sulle stuoie, le foglie di banano usate per impacchettare le merci, il sapore genuino della frutta, il fango che imprigiona le nostre scarpe, l’odore forte tipico di tutti i mercati asiatici, antiche bilance, le ceste di bambù, l’atmosfera di festa, donne che fumano sigari di granturco enormi. Ogni volto ha una storia diversa da raccontare.

MAMME: LAVORATRICI A TEMPO PIENO

Sono le mamme birmane, che non possono ammalarsi o rimanere a casa con i loro bambini. Presenti ovunque, nei mercati a contrattare, chine sul raccolto, sudate mentre prendono l’acqua al pozzo, sfinite quando, per ricostruire e asfaltare le strade, spaccano le pietre con le mani, senza mascherine, vittime di un governo avaro che le preferisce agli uomini. Capelli neri, lucidi e lunghissimi raccolti attorno ad un pettine o decorati con fiori di gelsomino. La pelle del viso gialla di tanaka, la polvere ricavata dal legno di sandalo, che utilizzano per proteggersi dal sole, unico strumento di vanità. Le rughe, come i solchi profondi tracciati sul terreno, fanno da ossimoro ad occhi neri vivissimi. Alcune hanno i denti rossi di betel. Toccano meravigliate la mia pelle da occidentale, per loro bianca e morbida. Donne di etnia Padaung prigioniere di luccicanti spirali di ottone attorno al collo e di un turismo poco etico, ingiustamente chiamate donne “giraffa”.

TA-TA’: IL SALUTO DEI BAMBINI

Bambini di una scuola elementare e di un asilo. Sono tutti in fila indiana, ordinati come tanti piccoli soldati dalle divise bianche e verdi, aspettano le penne che abbiamo portato dall’Italia e i loro occhi ci ringraziano come se avessero ricevuto il più desiderato dei giocattoli. Bambini soli sul ciglio della strada, a dorso di un bufalo, bambini che hanno imparato a giocare con l’aria, hanno le mani sporche di carbone, i piedi scalzi. Bambini che si improvvisano piccoli commercianti di disegni, cartoline, collane di giada, ventagli. Bambini che giocano fra le pagode, che ci rincorrono con le bici nella speranza di ricevere una caramella o qualche moneta, che si sporcano le mani quando il nostro carretto rimane incastrato nel fango. Bambine sorridenti mentre mi spalmano il viso di tanaka e ridono divertite nel vedere il risultato.

UN MONDO IN PERFETTO EQUILIBRIO

Come prìncipi e principesse decadute di un regno andato perduto, camminano con regale eleganza portando sul capo le fatiche della giornata. Donne, uomini, monaci e bambini creano strani equilibrismi con fascine di legno, sacchi di farina, brocche d’acqua, fasci d’erba, pentole, cibo.

A PIEDI NUDI

Birmania, il paese in cui convivono il culto animista dei Nats e il Buddismo più radicale e puro, quello Theravada. Birmania, il paese in cui ogni uomo, almeno due volte nella vita deve entrare in monastero e seguire la vita monastica. Birmania, il paese in cui l’85% della popolazione è buddista. Monastero Maha Gandayon, Mandalay. In fila piccoli monaci con le tuniche bianche e monaci giovani e anziani con le tuniche rosso porpora, collage di 33 brandelli di stoffa come i 33 livelli per raggiungere il Nirvana. Camminano a piedi nudi in segno di umiltà e in ricordo di Buddha, portando con se una ciotola nera, di bambù o color argento e aspettano in silenzio che venga loro offerto del cibo. Tutti i Birmani dividono il cibo in cinque porzioni e ce n’è sempre una da donare ai monaci. Una vita scandita da regole severe: svegliarsi all’alba, meditare, elemosinare il pasto del giorno, digiunare dopo mezzogiorno, ancora studiare e meditare Giovani donne con le teste completamente rasate e le tuniche rosa. Camminano per il quartiere dei marmisti di Mandalay, chiedono offerte per il monastero. Monaci ovunque: per strada, nei bar, sui motorini. A Indein come a Yangon, a Mandalay come a Mingun. Monaci bambini affacciati alle finestre ovali del monastero di tek Shwe Yaunghwe Kyaung, vicino al lago Inle. Piccoli monaci che si lavano o lavano le tuniche in una vasca all’aperto. Monaci che ripetono ad alta voce gli insegnamenti di Buddha. Qui Budda ha mille volti. D’oro, come nelle grotte di Pindaya o Yangon, di pietra, come nelle pagode di Indeinn, di gesso, circondati da luci intermittenti. In piedi (simbolo dell’insegnamento), in cammino (predicazione), seduto (in meditazione) o reclinato con la testa rivolta a nord per simboleggiare lo stato di nirvana o illuminazione. Seduto con mano destra appoggiata sul ginocchio e con le dita che toccano la terra, e con mano sinistra in grembo col palmo rivolto verso il cielo per simboleggiare il Buddha che chiama la Madre Terra a testimone della raggiunta illuminazione.

MANDALAY E LE CITTA’ IMPERIALI

Abbandonata la campagna e la quiete dello stato Shan, la povertà di Mandaly colpisce le corde nascoste del nostro egoismo e per un momento vorremmo essere altrove. La città è sporca, i palazzi fatiscenti hanno preso il posto dei campi coltivati, a causa delle pioggie di questi giorni molta gente è costretta a vivere sul ciglio della strada, in capanni aperti agli occhi dei passanti. Sugli argini dell’Ayeryawady il quartiere dei lavandai: vestiti e lembi di stoffa ormai usurati sono lasciati sull’asfalto ad asciugare in queste interminabili lavanderie all’aperto. Un uomo si sta lavando i denti con l’acqua fangosa del fiume. Altri trasportano sacchi di carbone e fusti di benzina. Eppure Mandalay è la seconda città della Birmania e l’ultima capitale del regno Khmer. Ma c’è un’atmosfera allegra nell’aria, è il giorno della festa degli Spiriti e tutte le donne hanno decorato i loro capelli con fiori di gelsomino. Guardiamo il tramonto dalla collina. Alcuni pellegrini birmani ci chiedono di fare una foto insieme a loro. Visitiamo il palazzo reale, che non ci piace, il monastero Shwenandaw, la pagoda Kuthodaw, tutta in marmo bianco, che rappresenta il libro più grande del mondo, la pagoda Maha Muni, il quartiere dei marmisti e infine il laboratorio delle foglie d’oro, lamine sottilissime usate per ricoprire le statue di Buddha in segno di devozione. Dedichiamo il secondo giorno alla visita delle città imperiali nei dintorni di Mandalay. Amarapura, città in cui il 65% della popolazione è costituito da monaci. Monasteri ovunque. Andiamo a fare una passeggiata sull’U Bein bridge, si dice sia il ponte di tek più lungo del mondo. La luce del tramonto crea delle strane ombre sul lago e il ponte sembra sospeso tra le nuvole. Incontriamo un ragazzo birmano che ci fa da guida. Ci sono tante famiglie, gente che pesca, ragazzi in bicicletta, monaci che si incontrano per trascorrere il pomeriggio e ti chiedono di scambiare qualche parola in inglese. Inwa: giro tra le campagne circostanti con un carretto trainato da un cavallo. Tra risate e urla di terrore arriviamo a Bagaya Kyaung, un monastero di tek, stupendo con le sue porte intarsiate e le colonne rovinate dal tempo, dove facciamo la conoscenza di un vecchio monaco che vive all’interno del monastero e insegna ai bambini. Mingun, un piccolo villaggio dove vediamo la pagoda incompiuta e la campana più grande del mondo (dopo quella di Mosca). Arriviamo in barca, dopo aver attraversato con paura 4 pontili traballanti. Due ragazzine ci inseguono per venderci i ventagli fatti con legno di sandalo. Infine Sagaing, la Kaunghmudaw Paya e l’Umin Thounzeh un semicerchio con quarantacinque statue di Buddha. Dalla cima della collina il panorama della campagna coperta di pagode e stupa di tutte le dimensioni

BAGAN: IL REGNO DELLE DUEMILA PAGODE

Un sito che ti toglie il fiato e che vale da solo il viaggio in questa terra speciale. Giriamo le campagne in bicicletta, circondati dall’odore della Storia, da oltre duemila stupa sopravvissuti al terremoto del 1975. Ore 18.00: arriva il tramonto e ne respiriamo la magia sul tempio di Ananda e sulla pagoda Shwezigon. Come sempre i turisti sono pochissimi. Un pastore con il suo gregge. Un villaggio dove le ruote vengono costruite a mano e il cotone filato come si faceva una volta. Bagan: una corsa contro il tempo, prima che il governo rovini la storia con colate di gesso bianco, nell’ignoranza dell’arte e dell’architettura, nella stupida convinzione che vecchio e antico siano sinonimi.

YANGON

L’ultimo giorno in Birmania lo passiamo a Yangon. La ShweDagon paya brilla di tutto il suo splendore. Davanti a noi un immenso stupa ricoperto da 8700 lastre d’oro, in cima il grande ombrello reale con un enorme smeraldo e 3000 campanelle decorate con quasi 5500 diamanti e pietre preziose. Il pavimento in marmo bianco. Tutt’intorno altri 64 stupa dorati e poi ancora templi e statue di Buddha. La gente porta le offerte alla statua dell’animale che simboleggia il giorno della settimana in cui è nata. Sacro e profano. Bambini che corrono, giovani che si incontrano, famiglie che fanno festa, monaci in meditazione. Presto il ritorno in Italia ci farà dimenticare i nomi dei luoghi visitati, dei monasteri, delle pagode, ma non il calore, la spontaneità e la genuinità di un popolo meraviglioso.

ALCUNE INFO PRATICHE

Viaggio fai da te organizzato interamente grazie al sito e ai racconti di TPC e ad una guida speciale.

– Volo Roma-Bangkok a/r acquistato a gennaio con Air Quatar costo circa 600 euro a persona

– Volo Bangkok-Yangon con Air Asia compagnia low cost, ma affidabile

– Voli interni con Air Bagan

– Prezzo della guida, auto con benzina per due persone, alberghi con colazione, ingresso ai siti etc… 800 euro a persona

– Prezzo medio dei ristoranti 5/6 euro a persona

Per ogni info non esitate a contattarmi

Fabiana



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