l’odore dell’india
Non ho mai visto tanta gente, tutta insieme, in vita mia. Il paese è tutto per strada, nella stessa strada dormitorio delle vacche sacre, dove passano indifferentemente persone, macchine, risciò, asini, cammelli, carretti, biciclette e, naturalmente, le vacche che hanno la precedenza su tutti e da tutti rispettate. Avevo letto prima di partire che chiunque volesse farsi un’idea di ciò che è veramente il fenomeno religioso doveva andare in India. Essenzialmente è vero ma temo di esserci stata troppo poco tempo per essermi fatta quest’idea. Anche per questo ci tornerei, subito! L’India è inesauribile, affascinante ma è anche assurda, ed emotivamente violenta: c’è ovunque immane miseria, sporcizia, pestilenziali fogne a cielo aperto, che scorrono tra il marciapiede e le case, friggitorie fumanti, cibi dai colori vivaci, minuscole botteghe traboccanti di qualsiasi tipo di merce, uomini accovacciati sui marciapiedi che improvvisano i più impensabili mestieri, c’è quello che ti pulisce le orecchie, quello che con una vecchia e approssimativa bilancia ti pesa, quello che ti vende medicine miracolose e quello che semplicemente ti fa la barba, con o senza il supporto di una bottega. Ovunque in India si avverte la presenza della morte con i suoi colori, la sua atmosfera e il suo odore, un odore di polvere, di spezie e di decomposizione.
E poi c’è l’indifferenza, che è certamente frequente in India. Gli indiani sono il popolo più indifferente di fronte alla sofferenza e alla morte che io abbia mai visto. Ma è un’indifferenza che non ha niente a che vedere con l’insensibilità, la freddezza o la rassegnazione, è serenità, è pace, è comunione.
Insomma, l’India vista con gli occhi di un turista superficiale può anche essere una grande delusione, ma non lo è stata per me.
Il nostro viaggio è iniziato il 13 agosto 2007 da Roma, abbiamo scelto l’India del Nord o forse è stata l’India del Nord a scegliere noi 8 ragazzi romani, da anni compagni di viaggio. Siamo arrivati a Delhi di notte: caldo, afa, zanzare, uomini che dormivano sul marciapiede sdraiati di lato con la testa poggiata su un braccio come se fossero naturalmente nel loro letto o forse erano nel loro letto. La notte a Delhi è stata calda, afosa, rumorosa, in un hotel decente ma non bello, insomma un buon impatto ma forse ci aspettavamo qualcosa di più, è pur vero che erano le 4 di notte ed era solo la nostra prima notte! Il giorno dopo (14 agosto) siamo partiti alla volta di Mandawa. Le strade erano piene di gente colorata e povera, macchine ovunque, camion spesso contro mano protagonisti di sorpassi impossibili, tuk-tuk colmi di indiani, carretti trainati da cammelli, donne che trasportavano mattoni sulla loro testa, bambini di ogni età dallo sguardo triste e il sorriso sulle labbra. Il castello di Mandawa è bellissimo. Quando siamo arrivati la luce era perfetta mancava poco al tramonto. Il castello è antico, quasi fatiscente ma incredibilmente affascinante, narra storie di vite passate, si respira una atmosfera antica anche nelle stanze sistemate per gli ospiti e negli abiti tradizionali dello staff che ti accoglie. Un posto da assaporare girando e rigirando tra le viette e le terrazze del castello alla ricerca di un angolo di pace, dove pensare, leggere un libro, meditare, respirare aria fresca, godersi al tramonto una brezza leggera al di sopra della città sporca, maleodorante, un po’ abbandonata di Mandawa. È comunque una cittadina che vale la pena vedere con i suoi antichi haveli, le botteghe d’artigianato ma con il pensiero che al tramonto si tornerà nel castello, in questo angolo di paradiso indiano. Dopo una buona cena ricordo che abbiamo chiacchierato al buio, sotto le stelle, c’era una musica in lontananza…Felici di essere in India. La mattina dopo (15 agosto) siamo ripartiti e, dopo una breve sosta al villaggio di Fatehpur, dove abbiamo avuto un primo reale contatto con la fame dei bambini indiani e il caos infernale di questo paese, siamo arrivati a Deshnok, al Karni Mata Temple, meglio conosciuto come il tempio dei topi sacri. Noi con i calzini e le buste ai piedi, loro scalzi e tranquilli, che pregavano e veneravano i topi che ormai abitano il tempio correndo da una parte all’altra. Non ci sono molte parole per spiegare questo posto, non possiamo pensare di comprenderlo razionalmente, soprattutto noi occidentali così attenti all’igiene. È stata senza dubbio un’esperienza forte, così come forte era l’odore nauseante o la vista di chi beveva dalla medesima ciotola dei topi, ma al tempo stesso un’esperienza unica ed irripetibile. Nel pomeriggio siamo arrivati a Bikaner, abbiamo visitato la fortezza e poi abbiamo alloggiato in un altro palazzo da Mille e una notte. Ci siamo regalati un fantastico massaggio ayurvedico, una cena in giardino a lume di candela e uno spettacolo tradizionale indiano. È stata decisamente una giornata dalle forti contraddizioni ma credo che l’India sia anche questo e non solo per noi turisti.
La mattina successiva siamo ripartiti, ancora tanti chilometri, tanta povertà, tanta sporcizia, zone desertiche che si alternavano a macchie di verde, e tutto questo fino ad arrivare al Tempio di Ramdeore. Una volta lì, scalzi, ci siamo messi in fila con gli indiani, tra le preghiere, i canti, le offerte, gli sguardi curiosi dei bambini e delle donne fino ad arrivare davanti alla divinità. È incredibile l’emozione e il sentimento che trapela dai gesti e dagli occhi della gente del posto una volta che sono davanti al loro Dio, per il quale portano offerte di ogni tipo e per il quale hanno percorso anche chilometri e chilometri. In giornata siamo arrivati a Jaisalmer, la città di sabbia dorata ed anche il nostro hotel sembrava un castello fatto di sabbia. Abbiamo visitato il Lago Gadisagar, quello pieno di enormi e disgustosi pesci gatto, naturalmente sacri, che mangiano tutto il giorno il pane lanciato loro dai fedeli. La luce era bellissima e l’atmosfera aveva qualcosa di surreale, c’erano persone che pregavano un po’ ovunque o impegnate in qualche rituale sacro in attesa del tramonto. La mattina successiva (17 agosto) l’abbiamo dedicata al Forte di Jaisalmer con i 99 bastioni e i suoi templi. Il Forte, bello e suggestivo dall’esterno è stata una piacevole sorpresa anche all’interno: è abitato, colorato, vissuto, un bazar all’aperto, forse un po’ turistico ma è un posto che vale la pena vedere. Il pomeriggio, invece, lo abbiamo dedicato al deserto, ancora colori e atmosfere magiche e la cammellata fino alle dune per poi aspettare il calare del sole. Il tanto atteso tramonto è stato un po’ deludente, quasi scolorito, come se qualcuno ad un tratto avesse deciso di spegnere il sole ma questo non ci ha impedito di godere comunque della magia del posto. Abbiamo cenato sotto le stelle, rigorosamente per terra su dei cuscini e rigorosamente cibo vegetariano, come è tipico nel villaggio Khuri. Al nostro risveglio (18 agosto) ci sono stati i primi malati, sarà stato il cibo del deserto…, ma questo non ci ha fermato e siamo ripartiti, destinazione Jodhpur. Lungo la strada abbiamo fatto una tappa a Osiyan per vedere un tempio Induista e uno Giainista: entrambi particolari per le decorazioni interne e sempre affascinanti per l’atmosfera intorno e il via vai di religiosi che arrivano e arrivano come se non dovessero far altro nella vita.
Siamo arrivati nella città blu, nel pomeriggio. Ancora un albergo fantastico il “Ranbanka” e ancora una cena nel giardino alla sola luce delle candele. Queste parentesi di vita quasi di lusso ci facevano riprendere da tutto ciò che è l’India ma, a me personalmente, facevano sentire anche un pò in colpa. Il giorno dopo (19 agosto) lo abbiamo dedicato interamente alla città blu di Jodhpur, visitando prima un monumento commemorativo, il Cenotafio Jaswant Thada, marmo bianco immerso in un verde perfetto e pulito, il tutto in una calma e in un silenzio raro. Poi è stata la volta del maestoso Forte di Meherangarh, talmente grande e con talmente tante cose da vedere che per questa volta abbiamo deciso di utilizzare le audio guide in supporto alla nostra mitica Lonley Planet. L’interno del Forte è bello, e suggestivo è immaginare come si svolgeva la vita dentro le mura. Anche solo la vista della città dall’alto, incredibilmente blu, vale il prezzo del biglietto. Nel pomeriggio siamo scesi nel cuore della città che vista da vicino perde il fascino del suo blu ma in compenso acquista tutto il fascino di una vera città indiana, anche con il suo caos infernale e l’aria resa irrespirabile dallo smog. Nelle stradine strette e sporche del mercato, vicino alla torre dell’orologio, la gente passava con ogni tipo di mezzo: bici, tuk-tuk, macchine, mucche! Anche tra gli odori più strani ed indecifrabili e nella totale confusione di un mercato indiano siamo riusciti a comprare qualcosa anche perché i prezzi erano molto interessanti.
Il 20 agosto, sotto una pioggerella sottile sottile, siamo ripartiti. Il viaggio per arrivare a Udaipur è stato lungo e difficile, però abbiamo fatto una sosta per vedere il Ranakpur Temple. Tempio incantevole con 1443 colonne dritte e una sola storta, da cercare. Ci siamo persi tra le colonne in una atmosfera di pace con la voglia di girare, girare e basta. Poi abbiamo ripreso il viaggio per raggiungere la nostra meta. Udaipur la città color ocra, è una delle più romantiche del Rajasthan, affacciata sul lago Pichola, ha palazzi dal sapore antico ed alberghi incantevoli. Non appena arrivati ci siamo tuffati subito nel cuore della città, con un tuk-tuk, alla ricerca di un centro ayurveda per un massaggio rigenerante. Dopo il meritato relax ci siamo goduti una romantica cena sul lago, illuminato da mille luci colorate, in un’atmosfera suggestiva ed affascinante. Il giorno dopo eravamo ancora ad Udaipur e, sotto una pioggia fastidiosa, abbiamo visitato la città con il suo tempio indo-ario di Jagdish dove un gruppo di donne anziane stava pregando e cantando. Ed infine immancabile c’è stata la visita all’imponente City Palace, il più grande di tutto il Rajasthan, un posto che non mi ha colpito particolarmente, molto museo, poca vita e nessuna anima. Dopo il Palazzo, ci siamo fatti convincere dal nostro autista a visitare gli artisti della pittura in miniatura e quelli dei tappeti, la cosa è stata di per sé turistica ma i loro oggetti hanno meritato tutta la nostra attenzione. Sempre su consiglio del nostro autista abbiamo cenato insieme a lui in un ristorante vegetariano, veramente indiano, poco o per nulla noto ai turisti e ben frequentato dai locali. La cena c’è stata servita in un unico piatto di acciaio con vari spazi riempiti da pietanze speziate, tipiche e tutte rigorosamente vegetariane. La cena, molto divertente, è finita con una foto di gruppo con tutti i camerieri del ristorante.
La mattina del 22 agosto abbiamo ripreso il nostro viaggio, parecchi chilometri ci separavano da Pushkar, nostra prossima tappa. Prima però abbiamo fatto una sosta al Sas Bahu Temple, un tempio abbandonato da anni, non vissuto ma immerso nella natura, nella pace e nel silenzio, non sempre scontato per un paese come l’India. Pushkar è una cittadina particolare, molto caotica, colorata, sporca, piena di turisti ma con un suo fascino, forse per la presenza del lago, dei ghat, dei tantissimi templi che si incontrano lungo la strada principale alternati ad altrettanti negozi e bazar. Il Brahma Temple colorato di un rosso vivo, era particolarmente sporco, mosche, api, escrementi per terra insomma l’impressione non è stata affatto positiva. Molto più suggestivo l’approccio con il lago sacro, i ghat, la gente che si bagnava o lavava i suoi panni, pregava, faceva offerte di fiori, il tutto nelle acque non troppo pulite del lago. Mi ricordo anche altre cose di Pushkar come l’incontro con le mucche sacre per eccellenza, quelle con la quinta zampa cresciuta loro sulla schiena, naturalmente ben sfruttate per racimolare qualche offerta dai turisti. Ricordo che la gente sembrava più malata e più sporca del solito, i bambini più insistenti nelle loro strazianti richieste e più poveri. Ricordo più finti santoni, più incenso, più fiori per le offerte, più negozietti… Forse per apprezzare meglio un posto come Pushkar era necessario rimanere qualche giorno in più per cercare di andare oltre una facciata troppo turistica.
Ma si riparte di nuovo e questa volta per Jaipur, la città rosa. A Jaipur abbiamo visitato un tempio apparentemente moderno, di marmo bianco, il Birla Lakshimi Narayan Temple e poi un posto incantevole a Galta, un pò in collina, una sorta di vecchio eremo semi abbandonato, abitato da soli 50 indiani e una numerosissima famiglia di scimmie. Siamo arrivati a Galta che il sole stava quasi per tramontare, luce perfetta per visitare un posto di un tale misticismo. Un gruppo di uomini dal capo pelato con un solo ciuffetto di capelli neri in testa e alcune donne si stavano bagnando e lavando nelle acque provenienti dal Gange, di una piccola piscina. Si sentivano canti lontani in sottofondo, e dei giovani ragazzi stavano svolgendo un qualche strano rito prima di incamminarsi tutti in fila su verso la cima della collina. Poco lontano da lì, invece, la città di Jaipur è estremamente caotica, sporca ed inquinata. Il giorno dopo (24 agosto), ancora a Jaipur, abbiamo visitato il Forte Amber a dorso degli elefanti. A parte l’aspetto turistico della cosa, il forte è un luogo incantevole, immerso nel verde, nella pace, sembrava davvero di vedere scene di vita quotidiana svolgersi al suo interno, con le concubine del maraja correre tra gli angusti corridoi e chiacchierare tra di loro e questi enormi elefanti fare su e giù fuori dalle mura del forte. Prima di affrontare l’ennesimo City Palace abbiamo deciso di rilassarci con un massaggio ayurveda al Kerala Ayurveda Kendra: molto olio, musica di sottofondo, luci soffuse, atmosfera quasi appannata per un ora di puro godimento. Riposati e felici abbiamo affrontato il City Palace e l’osservatorio con tutto un altro spirito. Ci siamo anche ritrovati coinvolti in un tamponamento fra tuk tuk, naturalmente il tuk tuk colpevole è scappato immediatamente dileguandosi nel caos cittadino. Poi un po’ di sano shopping nel vecchio bazar della città rosa ed infine abbiamo concluso la nostra giornata con una vergognosa ma sincera voglia di sapori italiani, abbiamo cercato, trovato e provato il ristorante “Mediterraneo”. L’ingresso, l’insegna al neon, le scale sporche, l’ascensore traballante non ci hanno scoraggiato e la nostra tenacia è stata premiata perché un ingresso a dir poco terrificante ci ha invece condotto in una terrazza semplice, accogliente, molto familiare; è stata una cena tutta italiana, decisamente buona, conclusasi con un caffè fatto con la moka, a lume di candela sui tetti di Jaipur, al suono affascinante di un muezzin in lontananza, insomma da provare. Il 25 agosto abbiamo lasciato la regione del Rajastan per entare nell’Uttar Pradesh, siamo partiti all’alba destinazione Agra. Lungo la strada ci siamo fermati alla città fantasma di Fathepur Sikri ma tutto c’è sembrato fuorché fantasma, con la solita baraonda di gente, bambini, venditori sotto un caldo afoso e appiccicoso. Abbiamo visitato la moschea, il tempio e la città rossa abbandonata e poi siamo ripartiti. Siamo arrivati ad Agra con la pioggia e, un po’ delusi dal tempo, ci siamo diretti verso il Taj Mahal. Ed invece il cielo è cambiato improvvisamente regalandoci un tramonto indimenticabile. Man, mano che il sole scendeva piano nel fiume sacro che bagna un fianco del Taj Mahal, il marmo da bianco cominciava a diventare sempre più rosa, fluttuante tra le nebbie rosse e violacee. Questa meraviglia del mondo è imponente, elegante, spettacolare, certo c’era molta gente ma l’effetto, l’emozione che regala è quella di un posto unico. Non riuscivo a staccare lo sguardo. Anche la vista del fiume sacro Yamona, al crepuscolo di una giornata afosa, è stata particolarmente suggestiva, tra le venature rosa e rosse del tramonto, il fiume scorreva lento come a scandire il tempo, mentre la notte scendeva e pian piano lo inghiottiva nell’oscurità. La sera siamo ritornati ad una cena rigorosamente indiana. La mattina seguente (26 agosto) siamo ripartiti e siamo scesi ancora un po’ più a sud nel sub continente indiano, siamo entrati nello stato del Madhya Pradesh per visitare la città di Gwalior e poi raggiungere la piccola città di Orchha. Gwalior merita una sosta anche solo per la sua rocca e i suoi palazzi decorati da deliziosi disegni blu, forse ci è sembrata anche più deserta e più abbandonata della città fantasma del giorno prima. Orchha è una tranquilla cittadina che nasce e si sviluppa lungo un fiume, dall’atmosfera particolare, forse un po’ antica, con vecchi templi, tanti artigiani, luci colorate che la rendono particolarmente romantica e a tratti malinconica, è anche la città dei grilli e delle cavallette. Abbiamo cenato da soli in un giardino e dormito all’Orchha Resort, alla fine del villaggio, lungo il fiume. Il giorno dopo (27 agosto) siamo scesi ancora un po’, sempre nella regione del Madhya Pradesh, per raggiungere la famosa città di Khajuraho, la città dei templi erotici e del kamasutra. I templi con le sculture e i bassorilievi erotici, incredibili per il tempo in cui sono stati realizzati, sono belli ed immersi in un giardino pulito, curato, tanto che per un’ora ti dimentichi quasi di essere in India e tanto che, dopo un’ora, noi non vedevamo l’ora di rituffarci nel caos dell’India vera.
La mattina del 28 agosto abbiamo iniziato la risalita, siamo rientrati nella regione dell’Uttar Pradesh per poi raggiungere con un volo interno Varanasi, ultima e più importante tappa del nostro viaggio alla ricerca e alla conoscenza del subcontinente indiano. Non sapevamo se eravamo pronti davvero per Benares ma era inevitabilmente giunto il momento di arrivare in quella città, di entrare totalmente in contatto con quel che vuol dire India, con la sua parte più sacra, più spirituale, più mistica.
Prima di Varanasi, però, abbiamo fatto un salto a Sarnath, una passeggiata tra la pace e la tranquillità dei monaci buddisti, nel verde di un bel parco tra monasteri in rovina, cervi, monaci vestiti di rosso ed arancione che giravano intorno allo stupa più grande, donne in preghiera in una atmosfera spirituale e colorata. Ma al tramonto ci aspettava il Gange, la grande madre Ganga che bagna i ghat della riva occidentale di Benares. Abbiamo attraversato il caos della città, il fiume di gente che si incammina per arrivare fin là, siamo entrati nelle stradine strette e fangose che arrivano ai ghat, siamo scesi sul fiume, abbiamo preso un barcone e da lì è iniziata un’esperienza incredibile. La luna piena rischiarava le acque dense del fiume, illuminate anche da tante piccole candele galleggianti, c’era musica e preghiere provenienti dalla cerimonia Ganga Aarti, c’era gente che si bagnava, che faceva offerte e infine siamo arrivati al ghat delle cremazioni. C’erano diversi fuochi accesi, fiamme alte, fumo ovunque, cenere, gente buttata per terra che era difficile capire se viva o morta. C’erano persone che si occupavano di sistemare i cadaveri prima di gettarli nel fuoco, di pesare la legna necessaria per la cremazione. Tutto sembrava davvero immerso in una atmosfera medioevale, di altri tempi. Ma a Varanasi, la città dove gli indiani vanno a morire per garantirsi di non dover nascere di nuovo, intorno alle pire funerarie, nessuno piangeva, nessuno era triste, nessuno soffriva, quei poveri morti bruciavano sui roghi senza dar fastidio a nessuno. E in nessun altro posto o momento del mio viaggio indiano, ho provato un così profondo ed intenso senso di spiritualità, di religiosità, di tranquillità e, quasi, di gioia. Benares è fuori dal mondo, è molto più di quel che mi aspettavo, è l’India, è l’India più autentica, sembra un film dalla scenografia perfetta.
Il giorno dopo, all’alba siamo di nuovo tornati sul Gange. La prospettiva era completamente diversa, il medioevo sembrava superato, non c’era più quella luce bianca che rifletteva sull’acqua e che mi aveva stregato appena arrivata sul gradino più alto del ghat ma c’era ugualmente un mondo indescrivibile. Un mondo che inizia la sua giornata all’alba, tra le acque “settiche” della grande Madre, c’era chi si lavava i denti, chi pregava immergendosi completamente, chi si insaponava i capelli, chi lavava i suoi vestiti, chi chiacchierava, chi faceva yoga, chi meditava, chi sorseggiava l’acqua del fiume per purificarsi, la stessa acqua nella quale poco dopo abbiamo visto galleggiare più di un cadavere, nella quale si riversano le cloache di Varanasi e liquami di ogni genere… Uno spettacolo forte, anche per gli odori intensi che a tratti ci invadevano, uno spettacolo che non avrei mai smesso di guardare, che mi ha catturato completamente, profondamente, che sono felice di aver visto e vissuto. Nel pomeriggio ancora un po’ frastornati abbiamo preso un treno per Delhi. La stazione era caotica come tutto il resto dell’India, le persone se ne stavano normalmente sedute per terra, tra sacchi, borse e buste. Una mucca aveva deciso di farsi una passeggiata tra le rotaie e nessuno si sarebbe permesso mai di dissuaderla! Abbiamo viaggiato di notte, nelle cuccette del treno, pulite, in compagnia di qualche cucaraccia. Abbiamo giocato a carte, parlato, cenato a base di banane e patatine e poi ci siamo addormentati e ci siamo risvegliati alle 7,30 già a Delhi. Certo dopo aver visto Varanasi e tanto altro, a New Delhi proprio non ci siamo sentiti in India, con i negozi moderni di Connaught Place, le strade grandi, Pizza Hut e Mc Donalds, l’atmosfera era completamente cambiata. Nei dintorni di Delhi abbiamo visto il complesso del Qutb Minar, molto bello, con una vecchia moschea e tante pietre colorate. Mentre abbiamo visto solo dall’esterno la tomba di Humayun perché entrare costava troppo.
Il 31 agosto ci siamo svegliati ancora a Delhi e, dopo una bella colazione, abbiamo iniziato il nostro tour nella città vecchia: abbiamo visitato la Moschea Jama Masjid, la più grande dell’India, vicino al bazar, alla fine di una via caotica e vissuta; nella moschea c’era una bellissima atmosfera, c’erano tanti teli bianchi stesi all’aria, tappeti per terra, una grande fontana centrale per le abluzioni, due minareti e tanta gente. Siamo passati per il Gran bazar e abbiamo raggiunto il Red Fort Lal Quila. A sud del Forte, sulla sponda del fiume Yamuna, abbiamo visitato il Raj Ghat, dove il Mahatma Gandhi fu cremato nel 1948. Ci aspettavamo la solita vista dei ghat ed invece siamo arrivati in un bel parco, pulito, ordinato, un luogo semplice in sé ma reso speciale da un gruppo di donne sedute per terra che hanno intonato per tutto il tempo una preghiera, un mantra, prima solo con la voce poi accompagnandosi con alcuni strumenti.
Abbiamo anche provato a cercare con l’aiuto dei tuk-tuk gli Empori statali per spendere le ultime rupie ma non sappiamo se li abbiamo trovati davvero perché i prezzi erano un po’ troppo alti. E così siamo arrivati alla fine del nostro viaggio, dopo la cena ci siamo diretti all’areoporto e alle 3:45, tempi indiani permettendo, abbiamo preso il volo che ci ha riportato a Roma. In queste tre settimane non ho mai sentito il bisogno di tornare a casa, sarei dovuta restare più a lungo in India, è un paese che mi è entrato dentro… Che nel suo caos, a tratti estremo, mi ha trasmesso una gran pace. Non ricordo se è stata una frase detta da Tiziano Terzani o da suo figlio Folco ma, oggi, “quando mi manca qualcosa, penso all’India. Lì a tutti manca qualcosa: a chi da mangiare, a chi una mano, a chi manca il naso. Quel che può mancare a me non è mai così terribile”. Alessia Carboni