Kosovo, il neonato d’Europa

Viaggio in Kosovo, la neonata tra le nazioni europee, tra cittadelle ottomane e monasteri serbo-ortodossi
Scritto da: mapko64
kosovo, il neonato d’europa
Partenza il: 30/06/2013
Ritorno il: 07/07/2013
Viaggiatori: uno
Spesa: 1000 €
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Negli ultimi anni la varietà di popoli e culture presente nei Balcani ha stimolato sempre di più il mio spirito di conoscenza. La storia recente purtroppo ha visto queste terre protagoniste delle ultime guerre combattute sul suolo europeo, quando ormai tutti pensavamo che parole come genocidio e pulizia etnica fossero state bandite per sempre dal vecchio continente.

Il Kosovo in particolare, ultima nata tra le nazioni europea, racchiude molte contraddizioni dei Balcani: considerato dai serbi la culla della loro civiltà, ha una popolazione a grande maggioranza albanese la cui aspirazione è riunirsi alla madre patria Albania. Milosevic, nella sua follia nazionalista, voleva riportare l’orologio della storia indietro nel tempo, prima della battaglia di Kosovo Polje (Campo dei Merli) che, secondo la mitologia serba, nel 1389 segnò l’inizio della secolare dominazione turca. Tutte le disgrazie della ex Jugoslavia ebbero inizio proprio quando a Kosovo Polje, per calmare una folla di serbi, Milosevic proclamò “Nessuno ha il diritto di picchiarvi … Nessuno vi picchierà mai più!”, guadagnandosi il titolo di paladino della nazione e aprendosi la strada per la successiva elezione a presidente della Serbia.

Oggi la situazione si è capovolta: le strade delle città portano i nomi di Clinton e dei generali della NATO, la bandiera albanese sventola ovunque e le truppe della forza di pace sono impegnate a proteggere la minoranza serba. Dopo i tumulti anti-serbi del 2004, la situazione tuttavia appare molto più tranquilla e gli accordi siglati da pochi mesi tra Serbia e Kosovo rappresentano un elemento di speranza. Grazie ai finanziamenti internazionali, il paese è tutto un brulicare di lavori in corso e attività commerciali, mentre la storia passata ritorna nei meravigliosi monasteri serbo-ortodossi e nei bazar ottomani. La città di Prizren con i suoi templi cristiani, ortodossi e cattolici, e le sue moschee, oltre a rappresentare un affascinante meta per il visitatore, dimostra come una convivenza pacifica tra popoli e religioni sia possibile, come si è già verificato in passato.

Passando in Macedonia sono tornato nel mondo slavo, anche se la comunità albanese rappresenta una corposa minoranza. L’incerta identità nazionale sembra essere stata il tema principale sin dall’Ottocento, quando il paese era sotto la dominazione turca. Serbi e bulgari considerano i macedoni come parte del proprio popolo, mentre i greci contestano il nome della nazione, affermando che la Macedonia è una regione della Grecia. Per evitare polemiche, i monumenti dedicati a Alessandro Magno e Filippo II, da poco inaugurati a Skopje, hanno ricevuto nomi anonimi. Il museo delle Lotta Macedone testimonia tuttavia un secolo di lotte per raggiungere l’autonomia: una serie di vicende, spesso tragiche, di cui in Occidente si è perso la memoria.

Il centro della capitale è oggetto di un intenso piano di ristrutturazione: gli spazi lasciati vuoti, dopo il tremendo terremoto del 1963, sono riempiti con monumentali edifici, mentre le statue spuntano ovunque come funghi. Il progetto “Skopje 2014” ha suscitato molte polemiche per i suoi costi e perché a molti è parso trasformare la città in un parco a tema, stile Las Vegas. Tutti invece sono d’accordo sull’apprezzamento all’antico quartiere turco, che ha mantenuto intatto il fascino passato come è accaduto a Sarajevo, ma purtroppo non a Pristina in Kosovo.

E ora il diario di viaggio.

Domenica 30 giugno: Roma – Skopje – Pristina

Durante il volo per Skopje faccio un po’ di conversazione con Silvia, una giovane macedone nata in Italia, dove vive con tutta la famiglia a Orvieto. Il padre si è trasferito 24 anni fa, ma ora ha perso il lavoro. Lei fa la badante da un’anziana signora, ormai da cinque anni. Sta tornando in Macedonia per un mese, dal fidanzato e dai nonni. I capelli bruni e qualche parente a Tetovo, di cui mi parla, mi fanno pensare che sia albanese, ma non ho il coraggio di farle la domanda diretta. Per il futuro la sua aspirazione sarebbe trasferirsi in Svizzera.

A Skopje, dall’aeroporto Alessandro Magno, per raggiungere la stazione l’unica soluzione è un taxi che mi costa ben 25 euro. La stazione dei bus si trova sotto quella ferroviaria; non è certo una struttura moderna, ma l’organizzazione è efficiente e il personale parla inglese. Acquisto quindi senza problemi il biglietto per Pristina.

Il bus parte puntuale alle due, quasi vuoto. Lasciamo Skopje e la sua piana, molto sfruttata dall’uomo, infilandoci in una stretta valle circondata da basse colline, ma la giornata grigia intristisce il paesaggio. Dopo mezzora abbiamo già raggiunto il confine. Le operazioni doganali filano abbastanza veloci; sul lato kosovaro sventola anche la bandiera albanese. Nel frattempo inizia a piovere. Appena superato il confine incombe la mole della “Sharrcemen”, grande fabbrica per la produzione di cemento. Accanto alla strada corre la ferrovia; nell’Ottocento la linea Salonicco – Skopje – Pristina rappresentò un grande progresso, ma oggi il binario unico appare a scartamento veramente ridotto. La gola si è fatta molto più stretta, percorsa da un ruscello pietroso. La strada corre alta consentendo una visione panoramica sui monti boscosi. Appare Kacanik: tra i tetti spioventi delle case spiccano i minareti delle moschee, insolita combinazione. Ormai viaggiamo in una larga piana ondulata. A Ferizaj la ferrovia passa in mezzo alla città che appare squallida. Una bianca moschea con due minareti e una chiesa ortodossa sono una a fianco dell’altra. La strada è peggiorata e procediamo lentamente. Il pallido sole non aiuta a rallegrare la successione di attività commerciali e prati incolti. Verso le quattro sbuchiamo su una superstrada a due carreggiate. La serie di stabilimenti sembrerebbe indicare che il lavoro non manchi. Sarà vero? Abbondano i concessionari di auto. Poco dopo ecco Pristina annunciata da alti condomini, alcuni appena costruiti.

Dalla stazione dei bus raggiungo l’hotel Begolli in taxi, in Kosovo molto economici. Mi assegnano una grande camera con salottino e vasca idromassaggio a due posti. L’albergo si trova subito a nord del bazar e con una breve passeggiata raggiungo la moschea Carshia (moschea del mercato). Il trafficato incrocio subito davanti racchiude un po’ tutta la storia della città: proprio qui aveva inizio il bazar turco, finché in nome della modernità durante il comunismo fu raso al suolo. Nel quartiere sono sopravvissuti solo edifici isolati ma l’atmosfera è andata perduta, anche per l’intenso traffico di auto. La moschea è avvolta dalle impalcature per il restauro in corso. Subito dietro una deliziosa fontana ottagonale per le abluzioni è decorata con bassorilievi di grandi fiori. Poco oltre incombe il grande edificio giallo del Museo del Kosovo. Nel parco archeologico, che non riuscirò mai a visitare perché sempre chiuso, dal cancello posso per lo meno ammirare una stele con varie figure in bassorilievo: donne dalle larghe gonne, uomini che portano un defunto in una bara (rappresentato come fosse visto dall’alto). Sull’altro lato del viale, di fronte alla moschea, il monumento alla fratellanza delle tre nazioni, serba, montenegrina e albanese, ha la forme di un alto tripode in cemento, ma il piazzale cade a pezzi, come scoprirò accadere a tutti i monumenti dell’era jugoslava. In attesa di decidere cosa farne, sono lasciati alla totale incuria.

Rimandando a domani la visita di quanto resta della città antica, raggiungo un altro polo cittadino, il Boulevard Nune Tereza. Il grande viale perdonale ha un aspetto moderno. Al suo inizio, su una grande piazza affacciano alcuni interessanti edifici: il teatro nazionale, il piacevole palazzo dell’Unione in stile eclettico (1927) e sull’altro lato il moderno grattacielo a vetri del governo; davanti una grande statua di Skandeberg, l’eroe nazionale albanese rappresentato a cavallo secondo la classica iconografia con elmetto piumato, spadone ricurvo e speroni ai calzari. Percorrendo tutto il Boulevard raggiungo sul lato opposto un’altra grande piazza, caratterizzata dalla mole del Grand Hotel. Davanti a un palazzone, una statua ritrae Zahir Pajaziti (1962-1997), combattente dell’UCK caduto sul campo, che imbraccia un mitra. Dalla piazza raggiungo il palazzo dello sport, simbolo dell’era comunista. In base allo spirito della fratellanza slavo-albanese, era dedicato a Boro e Ramiz, due partigiani, uno serbo e uno albanese. Il grande edificio, punto di riferimento nel panorama cittadino, presenta un tetto a due spioventi con una curiosa forma a capanna e “camini” verticali. Oggi l’edificio è ridotto male, circondato da un piazzale pieno di vetri rotti. Sulla facciata un poster ritrae il barbuto Adem Jashari, comandante dell’UCK, una sorta di Che Guevara locale, ucciso nel 1998 insieme ad altre cinquanta persone, compresa quasi tutta la sua famiglia. Lo stadio di fianco non è in condizioni migliori: la copertura della tribuna è sfondata, mancano molti sedili. Di fronte al palazzo dello sport, lettere altre tre metri compongono la scritta “NEWBORN”, per celebrare l’indipendenza raggiunta nel febbraio del 2008. Le lettere sono dipinte con i colori delle bandiere delle nazioni, autografate da migliaia di persone.

Lunedì 1 luglio 2013: Pristina

Inizio la giornata con una puntata al Green Market, a due passi dall’albergo; dietro ai banchi ci sono solo uomini. Nel quartiere dell’antico bazar sono sopravvissuti alcuni monumenti del passato. La ottocentesca torre dell’orologio è una costruzione esagonale in pietra con piccole finestre, che culmina in una parte di mattoni con orologio e campane. La casa subito dietro, dalle belle architetture ottomane, ha le candide pareti bianche coperte da un tetto di tegole; oggi ospita l’Associazione dei Prigionieri Politici. La moschea Fatih (1461) invece è la più grande della città, un cubo di pietra, dominato dall’alto minareto e dalla cupola. Il portico presenta tre alte arcate con dipinti blu, ma la piazzetta davanti è inaccessibile per i restauri. Di fronte alla moschea, è in corso anche il restauro integrale del Grande Hammam, risalente al XV secolo. Gli operai mi invitano ad entrare; cammino su un pavimento di assi di legno. Gli ambienti, ingombrati dai ponteggi, presentano cupole bianche piene di fori circolari e stelle. Il grande salone è stato rifatto: la struttura della vasca con gradini è pronta, come anche il soffitto di legno.

Tornando verso il museo del Kosovo, raggiungo l’affascinante casa Kocadishi. Oggi sede dell’Istituto per la Protezione dei Monumenti, riporta alle atmosfere dell’era ottomana. La storia della ricca famiglia Kocadishi è emblematica di ciò che accadde nel dopoguerra. I suoi componenti erano considerati “turchi” perché parlavano turco e albanese. Per questo erano malvisti dal regime comunista e negli anni cinquanta la Jugoslavia si accordò con la Turchia per il loro “rimpatrio”. Nel tranquillo giardinetto, dietro un magnifico gelso carico di more, sorge l’abitazione principale. Dalle mura imbiancate a calce sporge una veranda di legno scuro, una sorta di salottino con bassi sedili attorno a un tavolino dove godersi il fresco. Nell’ambiente centrale al primo piano, dal magnifico soffitto di legno istoriato, pende una specie di melone tagliato a fette con il disegno dei semi.

Proseguendo l’excursus sul mondo ottomano raggiungo il museo etnografico, anch’esso ospitato in un’antica casa. Il complesso recintato Emin Gijku presenta vari edifici; i due principali destinati alla famiglia e agli ospiti, hanno verande di legno e stanze dai soffitti finemente intarsiati. La guida che mi accompagna nella visita mi spiega in inglese il significato degli oggetti esposti. Un salotto è tutto circondato da finestre sotto le quali sono collocati i divani; un altro riproduce un salotto di campagna, con tappeti sui quali sedersi per terra al posto dei divani. Non mancano gli oggetti per i bambini: culle di legno, un tavolino circondato da basse sedioline, una specie di girello di legno. Un piccolo ambiente ricorda il rito preislamico di vegliare il defunto, che veniva vestito elegantemente e collocato su un tappeto insieme ai suoi oggetti personali, mentre i congiunti sedevano tutto intorno.

Cambiando genere vorrei visitare il museo del Kosovo, ospitato in un grande edificio tinteggiato di giallo che nella sua storia ha cambiato più volte destinazione. Purtroppo l’esposizione principale è chiusa per l’allestimento di una mostra. Mi dispiace molto non poter ammirare la Dea sul Trono, una statuetta di terracotta antica di 6000 anni, che fu rapita dai serbi e portata a Belgrado insieme a molti altri reperti. Nel 2002 a seguito delle pressioni internazionali è stata restituita, ma non gli altri pezzi trafugati. Posso consolarmi solo con la grande foto all’ingresso del palazzo: la figura della divinità sorge sopra una specie di tavolino circolare, rappresentata dalla vita in su con le mani sui fianchi, la testa con il mento a punta e due grandi occhi. Non mi resta che gettare un’occhiata all’esposizione dedicata alla storia recente del paese, ospitata al secondo piano. In un manifesto la foto di Milosevic, accanto a quella di Hitler, sottolinea che non è stato lui a inventare la pulizia etnica ma ha avuto un buon maestro. Una cartina riporta le tombe di massa scoperte in tutto il paese. Una foto ritrae i protagonisti dell’intervento militare che salvò il paese (Clinton, Blair); nonostante l’assenza di spiegazioni in inglese, traspare evidente il senso di gratitudine verso la Nato.

In taxi raggiungo il villaggio serbo di Gracanica, a una decina di chilometri da Pristina. Il filo spinato sopra il muro che circonda il famoso monastero ricorda le recenti tensioni e gli atti vandalici contro i simboli della minoranza serba. Oggi però tutto è quiete e solo il canto degli uccelli accompagna il mio giro sul prato intorno alla chiesa, una selva di cupole con le parete formate dall’alternarsi di pietre chiare e file di mattoni. Il nartece, aggiunto in un secondo momento, appare più rozzo. Le cupole si stagliano alte per qualche influsso gotico. Un paio di monache vestite di nero mi fanno cenno di non superare l’ingresso posteriore del complesso, sul lato degli edifici del monastero.

La visita delle chiese serbe ortodosse del Kosovo dovrebbe essere preceduta dalla lettura dal libro “Black Lamb and Grey Falcon” di Rebecca West, che viaggiò attraverso tutta la Jugoslavia prima della seconda guerra mondiale. La scrittrice inglese, innamorata dell’arte e della cultura slava, così descrive il ciclo di affreschi custodito all’interno.

Dalla maestosa altezza delle cupole la luce discende su tre navate divise da colonne straordinariamente massicce, e vi giunge soffusa di mille colori, tinta dagli affreschi che coprono ogni centimetro delle pareti. Vi è qui un senso di potenza colossale, di vigore animale, di un appetito così famelico che si tuffa nei piaceri dell’animo come in quelli dei sensi, che vuole il cremisi sugli occhi ma anche il vino sulla lingua, che aspira a un dio ma anche a un’amante. Rebecca West – Black Lamb and Grey Falcon (1941).

Superato il nartece esterno, si accede a un altro nartece che reca già magnifici affreschi. Nel Giudizio Universale a sinistra, sulla parete esterna gli angeli pesano le anime, mentre su quella interna sono raffigurati pesci e animali di ogni tipo, insieme a mostri e angeli che suonano la tromba. Un patriarca sfoggia una lunga barba bianca, tenendo in mano una croce; una santa ha il volto racchiuso da un fazzoletto nero come una suora ortodossa. Sull’arco di ingresso verso la chiesa, sono raffigurati da un lato Milutin (1253-1321) ormai vecchio con una lunga barba e il modellino della chiesa piena di cupole, e dall’altro Simonide dolcissima con i capelli raccolte in due crocchie. La principessa bizantina andò sposa al re, quando aveva solo cinque anni e lui quarantasei. Il paragone di Rebecca West tra Milutin ed Enrico VIII appare molto appropriato, visto che il re serbo ebbe ben quattro mogli. Sopra ciascuno dei reali un angelo offre la corona, trapezoidale per la regina e cilindrica per il re. A destra invece è rappresentato l’albero di Jesse della famiglia reale Nemanijic. La chiesa vera e propria, a pianta greca, ha una cupola piccola sopra altissimi pilastri, tanto che il Pantocratore appare come fosse in cielo. L’ambiente è buio e gli affreschi più rovinati. Sopra l’arco si riconosce la Dormitio Verginis con le mani dell’ebreo che rimangono attaccate al catafalco. Gli affreschi, che tanto impressionarono Rebecca West, si trovano nella piccola cappella che termina con l’abside destra; sono i più belli e meglio conservati. Sopra la lunghissima iscrizione sulla porta, Elia pensoso poggia la testa su una mano, davanti a una grotta che lo avvolge come fosse un nimbo. Nell’Annunciazione l’angelo sembra impartire un ordine militare; Maria afflitta piega la testa come se già avvertisse il peso del suo destino. Lo sfondo di architetture contribuisce a richiamare lo stile dei primitivi italiani. Nella rappresentazione di Gesù e degli apostoli su una barca a vela in mezzo alla tempesta, i volti sono classici. L’affresco preferito dalla West, ritrae Gesù mentre appare nudo a un vescovo con le vesti coperte di croci, e a San Pietro di Alessandria, il vecchio che si prostra per terra coprendosi il volto con le mani. Anche questa volta lo sfondo è costituito da classiche architetture.

Tornato in bus a Pristina, dalla stazione decido tornare in centro a piedi percorrendo il grande boulevard intitolato a Bill Clinton. Una statua su un alto podio raffigura il presidente americano con un braccio alzato in segno di saluto, mentre regge nell’altra un foglio con la sua firma sotto la data 24-3-1999, inizio dei bombardamenti NATO contro la Serbia. Di fronte una targa ricorda il suo discorso durante la visita a Pristina del 1-11-2000: “All I want for you is a good future and I will do everything I can to support it for the rest of my life”. Poi lo avrà fatto veramente?

In fondo al viale, sorge la grande cattedrale cattolica. Da lontano appare veramente imponente, con l’alto campanile che caratterizza il panorama cittadino, ma da vicino fa una pessima figura con i pilastri di cemento e i mattoni nudi in bella vista. Naturalmente non si può visitare per i lavori in corso. La grande area verde, dall’altro lato della strada, ospita i campus dell’università cittadina. Tra i vari edifici colpisce la Biblioteca Nazionale, un curioso edificio con 99 cupole in vetro bianco, tutto ricoperto da una “rete da pesca” metallica, opera dell’architetto croato Andrija Mutnjakovic. Secondo alcuni si tratta di uno tra i dieci edifici più brutti al mondo; una leggenda metropolitana racconta che all’inaugurazione il capo del partito comunista chiese perché non fossero state ancora tolte le impalcature! Gran parte del patrimonio letterario albanese, un tempo posseduto dalla biblioteca, è andato perso grazie a Milosevic. Nella stessa area verde la chiesa serbo ortodossa doveva essere la più grande del Kosovo, secondo i piani di Milosevic, ma non è mai stata completata. Oggi recintata e abbandonata pone una serie di interrogativi sul suo destino.

Proseguendo la mia passeggiata raggiungo boulevard Nune Tereza e sono di nuovo in centro. In una posizione abbastanza nascosta questa volta non mi sfugge la statua della suora, raffigurata insieme a un povero bambino, carne e ossa.

Nei pressi dello stadio, il piccolo museo dell’Indipendenza è costituito da due sole stanze. Una statuetta neolitica ritrae una figura con le mani sui fianchi, naso a punta e grandi occhi. Un filmato racconta la vita di Rugova: studioso e scrittore difensore della causa albanese, è stato il primo presidente del Kosovo, soprannominato il Ghandi dei Balcani per la sua politica della non violenza, spesso in rotta di collisione con l’UCK. Una serie di foto racconta la storia recente: Milosevic che pronuncia il celebre discorso da un palco con dietro la scritta 1389/1989, in occasione del seicentesimo anniversario della battaglia di Kosovo Polje. Altre ritraggono i campi con gli sfollati, Clinton insieme a Rugova, i carri armati della Nato salutati dalla gente.

A quest’ora la moschea Fatih è aperta. L’interno è un unico grande ambiente quadrato, sormontato dalla cupola da cui pende un gigantesco lampadario. Altri lunghi fili hanno perso i propri lampadari. Il mihrab e il minbar sono di marmo, mentre le pareti bianche sono allietate da decorazioni azzurre. A nord del bazar, la moschea Pirinaz presenta invece un semplice interno con tappeto verde per terra e soffitto di legno. Il mihrab è decorato con maioliche colorate, il minbar di legno è dipinto di verde. Le immagini e l’ora segnata da un orologio richiamano La Mecca.

Una lunga scarpinata in salita mi porta fino alla collina dei martiri, superato il quartiere residenziale di Velan dalle basse case. In cima, in mezzo a un’area a prato, sorge la bianca tomba di Rugova. Il semplice sarcofago di marmo non concede alcuna decorazione, solo il nome con le date 1944-2006. Una siepe subito dietro è stata tagliata per formare il nome dell’ex presidente pacifista del Kosovo. Una donna prega all’ombra di un alberello verso La Mecca, un gruppo di vecchi seduti su una panchina chiacchiera, mentre i bambini giocano a palla. Intorno il traffico della città. Due bandiere sventolano a fianco della tomba: quella del Kosovo con la mappa del paese gialla su fondo blu, quella albanese con l’aquila bicefala. Un recinto chiude la vista verso la città, ma non riesce a nascondere del tutto il monumento comunista ai martiri della lotta partigiana. Lo sbarramento appare senza senso, poiché si aggira con pochi passi entrando in un’altra area verde per raggiungere il memoriale. Protetta da strutture a circolo in cemento, si trova una specie di fiamma di acciaio tinta di rosso. L’atmosfera di abbandono sembra attrarre solo qualche gruppo di ragazzi. Poco oltre, in mezzo al prato, le tombe dei caduti dell’UCK sono vegliate da bandiere albanesi. Alcune sono in marmo bianco, con lo stemma dell’UCK che reca l’aquila albanese, altre semplici lapidi di legno davanti a tumuli di terra. Chissà cosa penserebbero questi caduti del Kosovo di oggi. Alcuni sarebbero più giovani di me, ma molti sono anche i nati negli anni cinquanta. Un generale è sepolto nel prato ma si distingue per la bandiera albanese e i numerosi mazzi di fiori. La lunga scalinata che risale tutta la collina, dalla città fino al monumento ai partigiani, non c’è più, sostituita da una profonda trincea. Non c’è traccia di lavori per ripristinarla. Il sole frontale impedisce di distinguere i dettagli del panorama su Pristina: si scorgono solo alcune ciminiere con il loro fumo bianco. Ridisceso in città, dopo tanto camminare, mi riposo nel City Garden, risistemato con i finanziamenti del governo italiano. Si è alzato un certo venticello e dopo il caldo della giornata all’ombra fa fresco.

Martedì 2 luglio 2013: Pristina – Decani – Peja – Pristina

Alla stazione dei bus ho un colpo di fortuna inatteso: il mezzo per Peja prosegue fino al paese di Decani, dove si trova un celebre monastero che intendo visitare. Partiamo alle otto e mezza, percorrendo un’ottima strada a doppia carreggiata. L’autista passa disinvoltamente tutto il tempo al cellulare, navigando nei menù, finché si decide ad usare addirittura due telefoni contemporaneamente! Lungo la strada le case appaiono dignitose, la campagna piacevolmente coltivata. Qualche anziano indossa il tradizionale fez bianco albanese.

Al bivio per Tirana lasciamo la superstrada. Proseguendo, lungo la strada noto molte tombe di combattenti dell’UCK; su di esse sventola la bandiera albanese ma mancano simboli religiosi. Anche le mosche sono rare. Sullo sfondo appaiono alte montagne con le cime spruzzate di neve. Dopo un’ora di viaggio, scendiamo verso una piana chiusa dai monti che segnano il confine con Albania e Montenegro. Quando le abbiamo quasi raggiunte siamo a Peja, annunciata dalla grande fabbrica dell’omonima birra, compagna di tutte le mie cene in Kosovo. E’ una giornata luminosa e i paesaggi boscosi che circondano la città formano un bello scenario. Superata la città, pieghiamo verso sud, avendo sulla destra la mole dei monti e sulla sinistra la fertile pianura.

Alle dieci e mezza siamo a Decani. Scendo dal bus alla rotatoria centrale. Subito mi appaiono due statue di combattenti dell’UCK: Salih Cekaj (1956-1999) ritratto con il binocolo al collo e la radio in mano, Luan Haradinaj (1973-1997) con il fucile e i lineamenti spigolosi. Davanti all’unica parete sopravissuta di una kulla, è stato collocato un memoriale dell’UCK, una specie di grande trifoglio in marmo da cui sporgono le canne di quattro fucili. Vi sono riportati i nomi di cinque combattenti caduti nel 1998. Sulla parete della kulla una lapide riporta anche le loro foto con berretto militare e tuta mimetica; in alto sventola la bandiera albanese. Sulla stessa strada, l’antico mulino di pietra è stato risistemato grazie a fondi italiani: oggi ospita un negozio che vende abiti tradizionali realizzati dalle donne del posto. Acquisto un paio di gilet, per mia moglie e Fabio il mio bambino di tre anni e mezzo.

Dalla rotatoria parte la strada che porta fino al monastero di Decani, dichiarato dall’Unesco patrimonio dell’umanità. Dopo una passeggiata di qualche chilometro verso le montagne raggiungo un posto di blocco, sorvegliato da militari italiani. Un blindato reca la scritta AKFOR e la bandierina tricolore. Le mucche pascolano sui prati con lo sfondo delle montagne boscose, sorvegliate da un pastore che si poggia su un bastone. Finalmente appare il monastero, immerso nel verde, una visione fiabesca. Il silenzio è rotto solo dal canto degli uccelli e dal frusciare del vento. La candida massa della chiesa, sormontata dalla cupola, si leva sopra le altre costruzioni più basse in pietra, coperte da tetti di tegole. Subito dietro le boscose montagne esaltano il contrasto cromatico.

Prima di entrare devo consegnare il passaporto, per ricevere un pass da un soldato. Attraversato il grande arco del portale d’accesso, si apre una visione sorprendente: una chiesa di marmo, non di volgare pietra, si erge su un prato verde circondata dagli edifici del monastero. La commistione di stili è evidente: sembra che una basilica romanica sia stata trasportata in Oriente. La pianta non è più centrale, ma la cupola ha mantenuto le forme bizantine. Nelle pareti, tra i filari alternati di marmo rosa e grigio, si aprono bifore leggiadre, mentre sotto il tetto le arcatelle costituiscono un ulteriore elemento decorativo. Monaci vestiti di nero sfoggiano lunghe barbe, aggirandosi per il complesso. La struttura a cinque navate emerge nelle altrettanti absidi che sporgono nella parete posteriore. Nel portale sud, sopra un’iscrizione in slavo antico, è raffigurato il battesimo nel Giordano: San Giovanni Battista bagna la testa di Gesù versando l’acqua da una ciotola, mentre il fiume è schematizzato da due onde che sembrano serpenti. Nel portale della facciata, i leoni sopra le colonne sono molto consumati. Nella lunetta della leggiadra trifora superiore, San Giorgio uccide il drago, mentre nelle bifore laterali, due specie di chimere si fronteggiano con il muso una di fronte all’altra.

Entrando nel nartece si è subito abbagliati dagli affreschi. L’ambiente è luminoso e le grandi rappresentazioni facilmente leggibili; quattro alte colonne, sormontate da capitelli scolpiti, lo dividono in tre navate. Ogni spazio è affrescato. Sopra il portale di accesso alla chiesa veglia il Pantocratore; i quattro leoni di marmo questa volta sono perfetti. A destra l’albero di Jesse della famiglia reale, a sinistra la scena del martirio di Santa Barbara che tanto colpì Rebecca West: il carnefice indossa un grande cappello giallo dall’aspetto curioso, impugna uno spadone e si torce come se stesse danzando; la santa ha il volto afflitto, mentre da una tribuna un pubblico di santi assiste come a uno spettacolo.

Varcato il portale, sono nella chiesa a cinque navate; molto più buia, appare subito altissima, forse per qualche influsso gotico. Dalla cupola pende un lampadario insolito per il nostro gusto occidentale: un ottagono larghissimo che occupa tutto lo spazio centrale, con le corde sostituite da fibbie decorate. In queste chiese ammirare gli affreschi è come compiere un’esplorazione. Nella parete di ingresso un re e una regina con corona e aureola tengono insieme una croce; riconosco la Fuga in Egitto, la Dormitio Verginis nella quale Maria distesa nel letto è vegliata dagli apostoli a capo chino. Un altro albero di Jesse scaturisce da un vecchio addormentato in basso; una regina accompagna due bambini, tutti magnificamenti vestiti e dai dolci sorrisi. Le due navate laterali sono chiuse da magnifiche iconostasi istoriate. A fianco di quella a destra, sulla parete di fondo è ritratto un immenso Pantocratore a corpo intero, con un libro aperto in una mano e l’altra benedicente. Il grande sarcofago coperto da un panno rosso ospita le spoglie delle sfortunato Stefano Decanski (1285-1331); un affresco lo ritrae con il modellino della chiesa in mano, la barba divisa in due punte, i capelli lunghi, mentre Cristo piccolo è confinato in un angolo. La vita di questo re fu schiacciata tra quella di padre e figlio. Il padre Milutin ordinò che fosse accecato: l’operazione non riuscì ma Stefano Decanski si finse cieco per anni. Ottenuto il perdono e salito al trono, fu il figlio Stefano Dusan (1308-1355), il più grande monarca serbo, a tradirlo facendolo prima imprigionare e poi strangolare. Gli affreschi sono ovunque, anche sui pilastri dove ritraggono scene della vita di Gesù tra le quali riconosco le Nozze di Canaa e la Resurrezione di Lazzaro.

Terminata la visita, mi rinfresco con l’acqua della fontana e mi avvio per la strada del ritorno. A Decani, consumato un rapido pasto a base di kebab, riesco a prendere al volo un bus per Peja, scendendo dopo pochi chilometri al bivio per Isniq. Nel paese sono segnalate un paio di interessanti kulla, le tradizionali case-torre dell’Albania settentrionale. Per raggiungerle devo affrontare una lunga scarpinata al sole, lungo la strada. A Isniq le kulla si trovano vicino alla bianca moschea, dominata dal siluro dell’alto minareto e preceduta da un memoriale ai caduti dell’UCK con la solita bandiera albanese. Entrambe sono abitate dalle famiglie che le posseggono da generazioni. La kulla della famiglia Osdautaj è un massiccio edificio-torre con qualche finestrella sulle pareti e sotto il tetto. Le scale esterne di legno portano al primo piano, dove ancora oggi abita la famiglia. Tre ragazze mi accompagnano all’ultimo piano destinato agli uomini e diviso in due ambienti: un’anticamera con finestrelle di legno e una camera principale con tappeti tutto intorno, sui quali sedersi a fumare, una parete di fondo con camino centrale e belle ante in legno. Terminata la visita, la più piccola mi chiede con la sua vocina cinque euro. Poco dopo, le incontrerò tutte e tre che mangiano un gelato. La kulla della famiglia Kukleci si presenta più bassa e massiccia, con l’ultimo piano che forma una sorta di veranda di legno dalle caratteristiche finestrelle. Questa volta ad accogliermi è la padrona di casa. All’ultimo piano uomini e bambini dormono nella stanza principale e non è il caso di disturbarli. L’anticamera presenta la bella veranda di legno con finestrelle che ho ammirato da fuori. Sembra veramente solida, a prova di proiettile, come anche il tetto. La casa è stata adattata alle esigenze della vita moderna e la signora mi accompagna in un giro, come si fa da noi quando si riceve un ospite al quale si desidera mostrare la propria abitazione. Nell’unico ambiente al piano terra è stata collocata la parete cucina dei nostri giorni. Prima di lasciare Isniq, nel giardinetto del paese getto un’occhiata alla statua di Isa Boletini con il caratteristico fez albanese e il gilet aperto, vegliato dalla bandiera albanese.

Non mi è rimasto molto tempo per visitare Peja, così dalla stazione dei bus mi faccio portare subito in taxi al patriarcato. Il complesso sorge in uno splendido scenario naturale appena fuori dalla città, lungo la gola scavata dal fiume Bistrica. La sua storia è molto importante per i serbi, poiché per molti secoli è stato la sede del patriarca della chiesa nazionale. Questa volta il sito è sotto la giurisdizione dell’esercito olandese. Consegnato il passaporto e ricevuto il pass, il mio arrivo viene annunciato alle monache con una telefonata. Un viottolo acciottolato prosegue verso la valle, circondata da alte montagne boscose. Finalmente appare il monastero, oltre il quale la gola sembra chiudersi.

Nel complesso manca un punto di riferimento centrale; lo sguardo cerca la chiesa ma incontra invece una serie di basse rovine, un’alta torre e tutta una serie di edifici. La chiesa, anzi le chiese sorgono in un angolo. Quella che oggi appare come un’unica costruzione è il frutto dell’unione di tre chiese, costruite in epoche diverse e unite con un nartece. L’esterno, tinteggiato color ruggine, presenta bianche finestre “traforate”, mentre sotto le cupole una banda colorata da un tocco di vivacità. La visione più bella è quella posteriore con le absidi delle tre chiese e la cappella di San Nicola. Manca invece completamente una facciata, a causa dell’aggiunta più tarda del nartece. Mi accorgo come l’aspetto esterno sia ancora diverso da quello dei monasteri di Decani e Gracanica. Entrando si accede al nartece, diviso in due lunghe navate “orizzontali” coperte da volte a botte. Una di esse presenta quattro scene simmetriche, ciascuna con un re vestito di un mantello rosso nel mezzo, circondato da due santi o vescovi per lato. La chiesa centrale, dedicata ai Santi Apostoli, è la più antica (1230-40). L’edificio trasuda antichità: la lunga navata a botte, completamente buia, ha pareti di pietra grezza, dall’alta cupola pende un lampadario ottagonale, mentre Cristo in un nimbo retto da angeli appare meno ieratico e indossa una veste dorata. La chiesa di sinistra, San Demetrio, risale al 1321-4; è tutta affrescata e molto luminosa. Nell’abside Maria con le braccia spalancate mostra, dentro un tondo sul petto, Gesù bambino con l’aspetto di un adulto, mentre di fianco due angeli si chinano in segno di riverenza. Nella cupola Cristo con una toga giallo oro appare entro un nimbo retto da una fila di angeli che sembrano volare leggeri. Tra i tanti affreschi scopro un re seduto su un trono (Stefano Dusan?). La chiesa di destra, Santa Vergine Hodegetria (1330), forse è la meno bella, alcune pareti sembrano ridipinte. Non mancano comunque gli affreschi interessanti. Nell’Annunciazione l’angelo sembra sparare a Maria, puntando il braccio verso di lei. Due donne fanno il bagnetto a Gesù, mentre San Giuseppe siede pensoso. Tenerissima l’immagine di Maria e Giuseppe accovacciati attorno al bambino; in una scena Gesù appare tutto fasciato nella culla. Sopra la porta di ingresso, Maria con le braccia larghe tiene Gesù nella veste ripiegata sul petto, come in un marsupio. Più che un bambino sembra un adolescente dalla bella chioma; due santi dalle candide vesti coperte di croci si inchinano davanti alla grande figura.

Uscito dalla chiese, prendo a vagare nella corte, tra le tombe delle monache e un bel gelso dal tronco nodoso carico di more. Una fontana è formata da pannelli riutilizzati, tra cui uno che reca un personaggio con una specie di lancia; la sua acqua era stata descritta come miracolosa alla West. Un canaletto è scavalcato da un ponticello.

Il Patriarcato si trova all’estremità occidentale della città, mentre la stazione dei bus è sul lato opposto. La lunga passeggiata per raggiungerla mi consente quindi di ammirare i principali monumenti di Peja. Sono segnalate alcune case tradizionali, ma non sempre è facile individuarle. La piazza centrale si apre sul fiume Bistrica, dominata dalla mole del prestigioso Hotel Dukagjini, recentemente rinnovato. Poco oltre, nell’angolo di un’altra piazza dall’aspetto moderno, sorge il museo etnografico regionale. È chiuso, per cui posso solo ammirare dall’esterno la tipica casa ottomana nella quale è ospitato. Al centro della piazza si trova la statua di Haxhi Zeka (1832-1902), religioso islamico e attivo nazionalista, fondatore della lega di Peja. La casa fortezza della sua famiglia si trova poco lontano: si tratta di una tipica konak, grande casa di città, ricca di finestra e dall’aspetto più gentile delle kulla di campagna. Ancora oggi è abitata dalla famiglia Zeka ed è stata restaurata dopo l’incendio appiccato nel 1999.

Superato un hammam e una moschea, raggiungo il quartiere dell’antico bazar. La moschea Bajrakli è una bianca costruzione, restaurata con fondi italiani. Dal palo della luce, di fronte all’alto minareto, si dipana una groviglio di fili. Il portico ha tre cupolette e altrettante arcate chiuse da incongrue vetrate. Nel piccolo cimitero molte tombe con iscrizioni arabe sono sormontate da un turbante. Davanti alla moschea, una fontana reca scolpite due coppie con i simboli della luna e di una stella. Ancora oggi tutto intorno si estende un animato mercato, ma il fascino passato è andato purtroppo perduto da quando le case tradizionali e i piccoli negozi sono stati distrutti nel 1999, incendiati e saccheggiati dalle truppe serbe.

La sera, a Pristina il Boulevard Madre Teresa è il luogo deputato per la passeggiata. Giovani, famiglie con bambini, si godono il fresco dopo il calore della giornata, sedendo ai tavoli dei caffè oppure semplicemente sulle panchine. Il monumento a Skandeberg non è illuminato, una siluette nera nel buio della notte, mentre tutti sono attratti dai getti d’acqua che scaturiscono dalla pavimentazione davanti al teatro. Illuminati da luci colorate, spruzzano a intervalli, consentendo ai bambini il divertimento di camminarci in mezzo. Lungo il viale spicca la mole del lussuoso hotel Illiria, tutto illuminato.

Mercoledì 3 luglio 2013: Pristina – Prizren – Pristina

Il minibus per Prizren, prosegue fino a Scutari in Albania e Ulcinj in Montenegro, proprio le città della “Grande Albania” che ancora non ho visitato. Prizren, infatti, è la porta dell’Albania, storicamente legata a questa nazione molto più che alla Serbia. Partiamo alle otto; ancora una volta lungo la superstrada rimango stupito dalla successione di attività commerciali e capannoni industriali. Considerando anche i numerosi cantieri nella capitale, il Kosovo non sembrerebbe “messo male” dal punto di vista occupazionale. Attraversiamo un’altra volta la pianura cuore del paese, circondata da montagne su tutti i lati. Un tassista mi ha raccontato che il clima è talmente continentale che si passa dai meno trenta gradi invernali ai quaranta estivi, ma forse ha un po’ esagerato. I campi sono coltivati a grano e mais, formando vaste macchie verdi e gialle.

Lasciata la superstrada, anche la statale si presenta in buone condizioni; il traffico scarso e il percorso rettilineo ci consentono di procedere spediti. Superata Shitre, con la sua moschea nuova di zecca, pieghiamo verso sud. La strada tortuosa s’infila in un paesaggio di bassi monti boscosi. Arrivati al passo (ma siamo ben al di sotto dei mille metri), la vista si apre su una conca e iniziamo la discesa fino a Suhareke, da dove proseguiamo di nuovo in piano. Alle nove e mezzo siamo già arrivati a destinazione a Prizren.

Le attrattive iniziano subito: nel giardino di fronte alla stazione si trova la piccolissima moschea Namazhah. Fu costruita dagli ottomani durante la conquista della città ed è stata da poco restaurata grazie a fondi turchi. Senza un tetto, come dice il nome turco, non è altro che una piattaforma rialzata all’aperto, con la nicchia del minbar e un piccolo minareto, accessibile tramite una scaletta e sormontato dalla mezzaluna. Una breve passeggiata mi porta fino al Lumbardhi, il fiume che attraversa tutta la città. In un edificio fatiscente è segnalato un antico mulino; sulla porta gli orari di visita sono indicati in gessetto, ma l’ingresso è sbarrato. Il fiume, non privo di spazzatura, è scavalcato da un bel ponte di pietra; sull’altra sponda la moschea Suza Celebise presenta un portico di legno con tetto di tegole e un alto minareto, ma anch’essa è chiusa. Rimanendo quindi su questo lato, raggiungo la casa di Adem Aga, un bianco edificio con finestre incorniciate di legno scuro e tetto sporgente di tegole. La chiesa della Nostra Signora di Ljevis si presenta magnifica, per l’alternarsi di mattoni e arenaria, il campanile tutto aperto, la cupola principale e le tante cupolette. Le sue origini molto antiche precedono l’arrivo degli slavi, ma la chiesa purtroppo è stata gravemente danneggiata durante le sommosse del 2004. A nulla le è valso il fatto di essere un sito protetto dall’Unesco. Dall’esterno si riconosce la struttura a tre navate, la centrale più alta e ricca di finestre. La facciata, dominata da un campanile che sembra una torre, ha una struttura squadrata con archi ciechi; davanti staziona la polizia. L’interno non si può visitare; speriamo che gli affreschi danneggiati possano essere recuperati. Nelle vicinanze raggiungo il piccolo museo archeologico, ospitato negli affascinanti ambienti di un hammam. Espone armi e utensili antichi, reperti del periodo romano, una grande mappa archeologica del Kosovo. Sulla struttura incombe la Sahat Kulla, la bianca torre dell’orologio dall’aspetto moderno.

Tornando sui miei passi raggiungo di nuovo il fiume, passando sulla sponda meridionale. Dal ponte si scorge la fortezza che domina la città, in cima a una collina. La moschea Ali Efendi sembra un luogo piacevole, circondata da un giardinetto ombreggiato e allietato dal cinguettio degli uccelli, ma ancora una volta l’ingresso mi è precluso. Subito dietro, testimonianza della passata tolleranza religiosa, sorge la cattedrale cattolica. L’edificio nella semplice facciata in pietra, parzialmente nascosta dalle impalcature dei lavori in corso, ripete la struttura interna a tre navate. Dietro svetta lo slanciato campanile a punta con orologio e croce. Un cartello precisa che il restauro è effettuato con materiali italiani. Sopra la porta moderna è indicata una data, MDCCCLXX. Mi infilo all’interno, i banchi sono ricoperti di polvere. La navata centrale ha una volta a botte, le colonne sono sostituite da travi di legno con un armatura di acciaio. Ancora pochi passi e si passa alla fede ortodossa. La cappella di San Nicola è un piccolo gioiello dalle tipiche architetture orientali, oggi stretto tra due negozi. La costruzione in mattoni e arenaria è sormontata da una cupoletta ottagonale con alto tamburo. Sull’altro lato della strada la cattedrale serbo ortodossa di San Giorgio (1887) è un grande edificio dalla bianca facciata, non molto aggraziato, preceduto da un portico che sembra una tettoia poggiata su basse e tozze colonne. L’interno dovrebbe essere molto ricco ma è stato gravemente danneggiato nel 2004. Il poliziotto di guardia mi consente di fare un giro intorno, ma non di entrare. Le foto sulla porta sono impressionanti: nella chiesa senza tetto si erano salvate solo le pareti esterne annerite dal fumo.

Finalmente sbuco nella piazza principale di Prizren, Shadervan, allietata dai tavolini dei locali. Su un lato si erge la mole della moschea Sinan Pasha, al centro una fontana, dall’altro lato il fiume scavalcato dal ponte pedonale di pietra, simbolo della città. Leggermente a schiena d’asino supera le acque con un grande arco e uno più piccolo. La vicinanza dei luoghi di culto delle varie religioni rende ancora più assurdo il pensiero dei recenti avvenimenti. Oggi la situazione è tranquilla; speriamo sia tornata per sempre la tolleranza del passato. Mi siedo sul lungofiume; quest’angolo è veramente incantevole: le acque argentate del fiume con il ponte, la verde collina con la fortezza e la grande moschea Sinan Pasha che incombe sopra tutti. Preceduta da un portico a tre arcate, sormontata da una grande cupola e dal minareto, appare ancora più imponente perché in posizione rialzata. L’interno è magnifico per le decorazioni pittoriche: la cupola presenta calligrafie arabe e motivi astratti, ma nell’abside spicca la rappresentazione di una grande moschea dal tetto blu con quattro minareti (la Moschea Blu di Istanbul?), insieme a vasi di fiori e tavolini davanti a una balconata. Questi richiami al mondo reale sono insoliti per l’islam, ma non in Kosovo. Anche nelle nicchie sono presenti affreschi con tendaggi che si aprono su finestre nelle quali sono collocati vasi di fiori. L’effetto è molto bello. Gli spazi lasciati bianchi sono pochi, contrariamente a quanto di solito accade nell’architettura islamica. Con l’arrivo dei serbi nel Novecento, era stato deciso di smantellare la moschea, il portico fu rimosso, ma le proteste popolari bloccarono per fortuna ulteriori distruzioni.

Nonostante l’ora calda, decido a questo punto di visitare la fortezza Kalaja, scalando la collina sopra la quale sorge. A metà salita sorge la chiesa di Cristo Salvatore, anche questa danneggiata nel 2004, insieme alla case del quartiere popolato da serbi. In realtà l’edificio più esterno è senza tetto perché non è mai stato completato; al suo interno si trova la cappella più antica. M’infilo nel cancello semiaperto per dare un’occhiata, insieme a qualche visitatore locale (a Prizren sto incontrando i primi turisti!). La cappella ripete la tipica struttura ortodossa in arenaria e mattoni, con tamburo e cupola. Ripresa la salita raggiungo la fortezza Kalaja. La visione dall’alto è magnifica. La città si estende nella piana con le sue bianche case coperte da tetti di tegole; il fiume la attraversa argentato, la moschea e San Giorgio si distinguono subito sotto, come anche il campanile della chiesa cattolica più indietro. I brutti palazzoni dell’era comunista sono rari; Prizren anche dall’alto si conferma un vero gioiello. Se troverà la pace e sarà possibile visitare le sue innumerevoli chiese e moschee, allora potrà diventare una vera attrazione turistica. È l’una, dai minareti della città in basso giunge il richiamo dei muezzin. All’interno della fortezza invece non rimane molto, anche se sono in corso dei restauri (o forse è meglio dire ricostruzioni); gli operai sono al lavoro sotto il sole. Sul lato opposto alla città, la vista si apre su una bella gola chiusa da montagne.

Tornato in piazza, è venuto il momento di passare dai piaceri dello spirito a quelli della gola. Mi siedo a un tavolino all’aperto del “Besimi Beska”, godendomi l’ombra e il venticello dopo la faticaccia della fortezza. Ordino un piatto serbo, la pleshavica; il cameriere non appare convinto e mi indica la pagina dei grill, ma io tengo duro. Mi arriva un grande hamburger speziato. Per dolce non posso che scegliere il baklava, a Prizren segnalato particolarmente buono. Infatti è squisito; con una Fanta e un espresso alla fine spendo solo sei euro!

Riprendo l’esplorazione della città scavalcando il fiume. A fianco del mostruoso hotel Tirana in cemento, si leva l’alto minareto Arasta in pietra, rimasto isolato per la demolizione della moschea. Negli anni sessanta furono solo le proteste popolari a salvarlo dalla distruzione. Poco oltre il Mehmet Pasha Hammam, rimasto in funzione fino alla seconda guerra mondiale, è stato restaurato per ospitare una galleria d’arte. Esternamente si presenta come un edificio in pietra e mattoni, con cupole ottagonali di varie dimensioni che formano un bel colpo d’occhio. Subito dietro la bianca moschea Emin Pasha risale all’Ottocento. È aperta, ne approfitto; l’interno ripete lo schema di decorazioni della moschea Sinan Pasha, ma in maniera molto più rozza. Anche questa volta, al centro dell’abside è rappresentata una moschea con quattro minareti e un tetto blu. Nella moderna fontana per le abluzioni c’è persino una lavatrice. Tornando verso il fiume, la piccola moschea Kukli Begut ha un interno semplicissimo, tutto intonacato di bianco; l’esterno invece è in pietra. Nello stesso isolato, da quella che un tempo era la strada dei fabbri, si accede alla Halveti Tekke, sede di un ordine di dervisci. Dalle finestre riesco a sbirciare i grandi sarcofagi coperti da panni verdi e lenzuola bianche. L’edificio giallo ha un aspetto moderno, con un piacevole giardino dotato di veranda di legno; una fontanella reca due serpenti scolpiti attorcigliati attorno a bastoni, sormontati da spade incrociate. Lo scorrere dell’acqua e il cinguettio di un uccello creano un atmosfera di grande pace. Subito dietro l’antica casa Theranda non è certo in buone condizioni. Un’antenna parabolica fa bella mostra di se a fianco della veranda di legno con inferriata, dall’aspetto traballante, usata come deposito.

Proseguendo la passeggiata, raggiungo la grande moschea Gazi Mehmet Pasha, circondata da un profondo portico di legno e vegliata da un altissimo minareto. Attorno bassi sedili sono collocati davanti alle cannelle per le abluzioni. La moschea è chiusa ma posso sbirciare l’interno dalle finestre. L’ambiente quadrato, senza abside, appare meno decorato e predomina il bianco delle pareti, anche se non riesco a vedere la cupola; in mezzo pende un lampadario a gocce. Dal retro della moschea si accede al complesso della Lega di Prizren. Gli edifici, collocati attorno a una corte, sono stati ricostruiti dopo essere stati distrutti dai serbi nel 1999. Il più piccolo, verso il fiume, al primo piano espone una cartina della Grande Albania che comprende anche Tivar e Ulqini in Montenegro, Prizren in Kosovo, Korfù in Grecia. La Lega fu fondata nel 1878 per rivendicare maggiore autonomia per tutta la nazione albanese, nell’ambito dell’impero ottomano. Una foto in bianco e nero ritrae i suoi componenti (Fasheri, Pizreni e altri); di cattivo gusto la foto delle scheletro riesumato di Pizreni. In una bacheca sono esposti i documenti autografati, contenenti le richieste inviate al congresso di Berlino. Sull’altro lato della corte, in un grande edificio sono esposti costumi tradizionali albanesi con il caratteristico fez bianco; al primo piano i busti dei componenti della Lega, un dipinto con Pizreni che pronuncia un discorso alla folla affacciato alla casetta della Lega.

Scavalcando il fiume, all’estremità orientale della città, passo sull’altra sponda e raggiungo un’area ricca di ricordi. Naturalmente non manca una moschea, ma lo sguardo è subito attratto da un imponente albero di Marash (platanus orientalis): risale al XIV-XV secolo e il suo tronco è immenso. Dietro un busto dedicato a Shehzad (1870-1945) vittima del comunismo, un poster riproduce l’edificio della tekke, distrutto durante il comunismo. In realtà gli edifici erano due, uno più grande per la preghiera e uno più piccolo che è sopravissuto e funge da mausoleo (turbe). Appena mi affaccio alla porta, mi accoglie un tizio con il quale faccio una lunga chiacchierata. Parla un ottimo inglese e mi racconta la sua idea sul futuro della Grande Albania. Mi ripete più volte che in Vaticano ci sono le prove storiche che il Kosovo è parte integrante della nazione albanese e prima o poi dovrà riunirsi con la madre patria. È consapevole dell’effetto destabilizzante che oggi ciò potrebbe provocare, ma in futuro, quando tutti avranno preso visione della realtà storica, potrà accadere.

Per un ultimo saluto a Prizren torno sul ponte di pietra. Il colpo d’occhio della case che risalgono la verde collina dominata dalla fortezza, insieme alla mole imponente della moschea, è magnifico.

Durante il viaggio di ritorno verso Pristina, le campagne risplendono illuminate dalla luce della sera, in particolare i vigneti color smeraldo. Il bus procede lento con continue fermate. I video musicali propongono ragazze seminude che si dimenano. Per l’ultima serata in Kosovo, non posso che sedermi su una panchina in Boulevard Madre Teresa, a guardare la gente. In giro si vedono tantissimi giovani, il settanta per cento della popolazione del Kosovo infatti ha meno di 27 anni. Il paese non sembra messo poi così male: a Pristina i locali sono pieni di gente, le attività commerciali non mancano e la gente sembra avere voglia di divertirsi lasciandosi alle spalle le tragedie passate. Sarà solo il frutto dei finanziamenti esteri? Le auto in circolazione sono moderne, il traffico intenso; i capannoni industriali sono ovunque, le campagne coltivate. Mentre penso a tutto ciò, passa una mamma che porta in braccio un bimbo e calza scarpe con dieci centimetri di tacchi a spillo.

Prosegue nella sezione dedicata alla Macedonia, nel racconto dal titolo “Skopje, ottomana e moderna”.

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Prizren, ponte ottomano

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