Jambo, buana!

Questo non è un diario di viaggio bensì una ricostruzione, visto che in Tanzania ci sono stata quasi due anni fa… un po’ per pigrizia, un po’ per gli immancabili cavoli vari, trovo solo ora tempo e fantasia per buttare giù le sensazioni e i ricordi, che purtroppo iniziano a sbiadire, di un viaggio nel cuore della culla dell’umanità....
Scritto da: Francesca Xxxx
jambo, buana!
Partenza il: 04/08/2002
Ritorno il: 18/08/2002
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 3500 €
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Questo non è un diario di viaggio bensì una ricostruzione, visto che in Tanzania ci sono stata quasi due anni fa… un po’ per pigrizia, un po’ per gli immancabili cavoli vari, trovo solo ora tempo e fantasia per buttare giù le sensazioni e i ricordi, che purtroppo iniziano a sbiadire, di un viaggio nel cuore della culla dell’umanità. Avevo un gran bisogno di rigenerarmi andando a vedere qualche posto con paesaggi a perdita d’occhio e rumori molesti zero, in più ero desiderosa di entrare in contatto con qualche particolare tribù indigena. Ho sfogliato il catalogo in cerca di un luogo che riassumesse queste caratteristiche in due settimane. Lo trovai subito: la Tanzania! Parchi naturali, grandi spazi, animali in libertà, mare, i masai, c’è addirittura la possibilità di campeggiare: praticamente perfetto! Riassumo il programma: partenza da Roma, arrivo a Nairobi e da lì trasferimento ad Arusha in pullman. Dopodiché si inizia il giro dei parchi con campeggio, poi si torna ad Arusha, ci si trasferisce a Dar Es Salam e da lì si va a Zanzibar in traghetto per starci alcuni giorni e rientrare in Italia. C’è anche la possibilità di restare a Zanzibar per un’altra settimana ma io non ho abbastanza giorni di ferie (sgrunt).

Fino al 3 agosto del 2002, alla tenera età di 27 anni, io non avevo mai campeggiato, mai viaggiato al di fuori dell’Europa, insomma era tutto nuovo per me! Cerco qualche guida e qualche manuale di campeggio: non vi dico la faccia della gente quando raccontavo che avrei dormito per 6 notti nei parchi africani. I miei amici dicevano che sarei tornata dimagrita grazie al leone che mi avrebbe staccato un braccio; qualcun’altro mi ha addirittura suggerito di ripiegare sulla pinetina di Ladispoli! Fatte le vaccinazioni contro la malaria, la febbre gialla (che è obbligatoria in Africa) e altre malattie mai sentite in vita mia (diftotetanoche?), rimediata in prestito la tenda un po’ sgarrupata, sacco a pelo, una torcia e poche altre cose per non appesantire il bagaglio, sono pronta! Incontro Francesco il capogruppo: abita davanti casa mia e chiaramente non l’ho mai visto prima. Ci facciamo una pizza e poi ci rechiamo all’aeroporto dove ci si vede col resto del gruppo: siamo in tutto 20 persone, tutti giovani e in prevalenza del nord. All’incontro c’è anche Robertino, un simpaticissimo personaggetto dell’agenzia che ci porta i biglietti e tutto l’occorrente per il campeggio: pentole, fornelli a gas e le casse contenenti i generi alimentari, tra cui spiccano due vasi di Nutella e alcune inquietanti scatole di prugne secche. Il piano voli è cambiato a nostro favore: anziché atterrare in Kenya e prendere un pullman per la Tanzania, facciamo uno scalo e poi atterriamo direttamente alle falde del Kilimangiaro: una notevole fortuna se penso che due anni prima ci ho messo 12 ore per arrivare in Irlanda con un piano voli a risparmio della stessa compagnia di viaggi! Il viaggio scorre tranquillo e tutto sommato confortevole: la partenza è a mezzanotte e quindi durante gran parte del volo dormo. Alla mattina una hostess mi lancia in faccia un asciugamano bollente intriso di una sostanza balsamica, questo è un “buon giorno”. Atterriamo verso le 9 ad Addis Abbeba, stiamo 3 ore in aeroporto ad aspettare il volo successivo che ci porterà in Tanzania. La sosta in Etiopia è noiosa, ma c’è un finestrone dal quale posso vedere il mio primo paesaggio africano: il cielo è coperto ma ci sono le acacie. Seduti insieme a noi ci sono molte persone indigene: sono felice di vederle e me le “studio” cercando di non essere indiscreta. Donne vestite con stoffe multicolori, uomini magrissimi con indosso le stesse stoffe colorate e un copricapo arabo. Mi stranisce il fatto di stare in Etiopia e vedere i cartelli pubblicitari di costosi profumi italiani. Distolgo lo sguardo e torno alla finestra. Ripartiamo: inizio a essere stufa di volare, però dall’alto si vedono i crateri dei vulcani. Un breve scalo ad Entebbe in Uganda e alle 16 finalmente siamo in Tanzania! L’aeroporto di Arusha è davvero essenziale, senza negozi, il tabellone dei voli in arrivo è una lavagna di quelle che si usano a scuola e i voli sono scritti col gesso. Ci sono acacie tutto intorno. Il cielo è coperto e minaccia pioggia, la temperatura un po’ più fresca di quanto mi aspettassi. La polizia locale controlla parte del bagaglio e ci fa un po’ di storie: pare non sia permesso introdurre viveri e vorrebbero confiscarceli. Francesco spiega loro che è stata una svista dell’ambasciata in Italia e si scusa, avrebbero dovuto mettere un timbro. Ci permettono di tenere con noi i viveri e proseguiamo. Ci trasferiamo su un pulmino che ci porterà in albergo ad Arusha. La strada non ha strisce né segnali, l’autista guida all’inglese e corre come un pazzo, ma è bello vedere lungo la strada tanti bambini vestiti con magliette malconce ed enormi per loro, mentre pascolano il bestiame ci salutano con la mano e con grandi sorrisi. Sono davvero bellissimi con i loro denti bianco latte sui visi più neri della cioccolata.

Arusha è una città fatta di edifici in cemento e moltissimi altri poco più che baracche in mattoni e tetti di lamiera, c’è tantissima gente in giro, chissà dove vanno. Tuttavia è una città importante: c’è un grosso mercato e la sua posizione geografica la rende strategica per chi vuole raggiungere i parchi e il bellissimo monte Kilimangiaro. Arriviamo all’ hotel e discutiamo insieme a Mr. Don, il corrispondente locale, dell’itinerario che seguiremo nei prossimi giorni. Scartiamo il Kilimangiaro per le condizioni metereologiche: è agosto, inverno a questa latitudine, quindi c’è molta nebbia. In effetti il clima è tutt’altro che “africano”: siamo a 2500 m e fa un freddo cane per noi venuti dai 30° e più della nostra torrida estate. In breve nascondiamo calzoni e maniche corte sotto felpe e calzettoni.

In albergo non c’è il telefono però c’è il collegamento ad internet e così mando una mail mia sorella per avvertire la famiglia che sono arrivata, sto bene e tutto il resto.

Ceniamo in albergo: cena ottima e abbondante con pollo e pesce su un letto di riso e verdure fresche, che vengono scartate per evitare il contatto con batteri antipatici. La cena ci permette di socializzare, vedo che nel gruppo ci sono parecchi svitati e ciò mi sembra un buon presagio. La cosa è importante, dal momento che ci aspetteranno alcuni giorni di convivenza che non sarà semplice visto che non lo sarà neanche il viaggio stesso.

Dalla finestra della mia stanza con bagno vedo una famiglia che cucina su un fuoco di sterpi in mezzo a uno spiazzo sterrato: i bambini mi vedono e mi chiamano. Gli lancio dei blocchetti e delle penne che mi sono portata proprio per regalarli. In effetti il regalo è molto gradito: i bambini impazziscono letteralmente per delle semplici biro, forse ne ho portate un po’ poche. Durante la notte la temperatura cala sensibilmente, sul letto c’è solo un lenzuolo leggero e così tiro fuori il sacco a pelo prima del previsto.

L’indomani mattina, cioè 5 agosto, colazione con bananine e frutto della passione: da provare! Oggi è giorno di preparativi per partenza: un’occhiata all’attrezzatura del campeggio fornitaci dalla compagnia e scopriamo subito che il fornello a gas perde da tutte le parti, quindi ne noleggiamo altri due che restituiremo al rientro dai giri nei parchi. Nel frattempo cambiamo i soldi in scellini tanzaniani, qualcuno provvede alle bombole di gas e qualcun altro compra i 250 l d’acqua Kilimangiaro che ci dovranno bastare per i prossimi 6 giorni. Il cambio è piuttosto semplice: 1 dollaro vale 980 scellini (o shilingi, in swahili), che arrotondiamo a 1000 per praticità.

Viaggeremo ripartiti su 4 jeep con autista che Mr. Don ci ha procurato. Gli autisti, che sono anche le nostre guide, si riveleranno presto fondamentali per un’ottima riuscita del viaggio. Prima di caricare i bagagli danno ad ognuno di noi un grosso sacco di plastica col quale proteggere le valigie che saranno esposte alle intemperie, stoccate al di sopra delle jeep. Alle 10 finalmente si parte per il parco del Tarangire: lasciamo la strada asfaltata di Arusha per iniziare il game-drive, più avanti la rimpiangeremo… Le jeep sono munite di radio con le quali gli autisti comunicano tra loro: si scambiano informazioni su dove andare a vedere gli animali, si tengono informati l’un l’altro sulle condizioni della strada, chiedono e prestano aiuto se ce n’è bisogno. In un posto come questo la radio è fondamentale per la riuscita del viaggio e per la propria sicurezza. Le strade sono delle piste sterrate e se c’è un guasto alla macchina è l’unico modo per comunicare.

Il cielo si è aperto è la temperatura è leggermente aumentata e il gruppo è simpatico: sto una favola e sono molto rilassata. Anzi sento che ho fatto proprio bene a scegliere questa mèta per la mia vacanza.

Appena fuori da Arusha ci sono delle piantagioni di caffè e banane. I banani sono davvero delle belle piante, hanno un enorme fiore viola e delle grandi foglie colore verde acceso. Il caffè invece visto di corsa dalla jeep sembra un arbusto come tanti altri, a malapena si riescono a distinguere le sue gustose bacche.

Lungo la strada incrociamo parecchi masai. Vestiti unicamente con una coperta rossa, calzano sandali ricavati da pneumatici e sono armati di lance, alcuni di loro viaggiano in bicicletta. E, più raramente, vediamo anche i loro bambini, all’incirca di 12 anni, col viso dipinto di bianco e i capelli stranamente lunghi, anche loro sono armati di lance. Alifa, il più anziano tra gli autisti e perciò il loro “capo”, ci spiega che questi ragazzi stanno affrontando le “prove virili”, devono cioè vivere per un mese o due lontani dal villaggio, riuscire a cavarsela da soli e infine uccidere una bestia feroce e portarla a casa come trofeo: solo dopo diventeranno “veri uomini”. I bambini masai si comportano in modo molto differente dagli altri: non ci salutano quando ci vedono passare ma ci guardano con aria di sfida e ci gridano dietro qualcosa. Anche per le nostre guide non è sempre facile capirli perché parlano un loro dialetto, differente dallo swahili. E comunque i masai sono un’etnia molto orgogliosa, non amano socializzare con gli altri, figuriamoci con i turisti.

Paghiamo l’ingresso (25 $ a persona) e ci inoltriamo nel parco del Tarangire National Park. Pare che qui in questo periodo la concentrazione di animali sia altissima poiché è una rotta di transito per i branchi in migrazione. Il paesaggio è tipicamente “africano”: la stagione è secca e perciò c’è pochissimo verde, i colori predominanti sono il giallo dell’erba e tutte le gradazioni del marrone. In effetti di animali ne vediamo parecchi: branchi di zebre e gnu si abbeverano a una pozza, antilopi, gazzelle, facoceri e uccelli. Più avanti incrociamo anche le nostre prime giraffe, dagli occhi molto dolci e il muso vagamente da cammello. Anche le zebre sono molto carine: sembrano proprio degli asini a strisce. Lo sapevate che le strisce delle zebre sono come le nostre impronte digitali? Io no, l’ho appena imparato. Su tutta la vegetazione della savana si impone la massiccia presenza dei baobab: delle vere e proprie torri vegetali! Ne vediamo alcuni bucati da parte a parte: sono stati adoperati dagli elefanti per limarsi le zanne.

Facciamo una sosta per il pranzo in un’area apposita all’interno del parco. Gli autisti, che parlano perfettamente l’inglese, ci spiegano che non è possibile scendere dalle jeep in aree non autorizzate: le leggi sono severissime e anche se nessun uomo è stato attaccato dagli animali da decenni, il divieto permane. In verità quest’area non è recintata, però pare che gli animali sappiano che l’uomo è armato perciò evitano di avvicinarsi in luoghi dove ne percepiscono la presenza. Mi fa una certa impressione sapere di essere un’”infiltrata”. Proseguendo ci portano ad ammirare uno dei primi spettacoli ai cui assisteremo durante il viaggio (ed è solo l’inizio!): una folta colonia di elefanti che si abbevera dentro il letto di un fiume in secca. Sono tanti: maschi, femmine e cuccioli, bellissimi, commoventi. Si muovono lenti e inesorabili in carovana; nonostante la loro mole hanno una certa eleganza mentre cercano l’acqua e strappano foglie verdi dai cespugli. Non si curano affatto di noi. Il paesaggio è meraviglioso: nel bel mezzo dell’asciutta savana africana il letto del fiume guizza come una lingua verde. Che peccato, ho già finito un rullino di pellicola e non ne ho un altro con me, questa cosa resterà per sempre soltanto nella mia memoria.

Più avanti zebre e gazzelle che, diversamente dai pachidermi, scappano o si allontanano quando ci avviciniamo con le jeep. E a completare il quadro, rossi termitai alti più di due metri sbucano dall’erba alta e dorata.

Dopo circa 3 ore ritorniamo al gate per recarci al nostro primo campeggio. Siamo tutti contenti del primo approccio e c’è molta allegria nel gruppo. Arriviamo a Mto Wa Mbu dalla signora Pia, la quale gestisce un campeggio di tutto rispetto con docce calde e bagni puliti, un bar e un’area attrezzata per cucinare. Francesco ci vede entusiasti e ci modera: “State attenti: i campeggi in cui andremo non saranno tutti così!”.

Al di fuori del campeggio ci sono i soliti edifici in muratura e lamiera che mi diventeranno presto familiari, la gente è piuttosto malmessa nel vestire, i bambini sono tutti impolverati ma sorridono sempre e tutti ci guardano come fossimo marziani. Per forza: noi italiani lì siamo proprio dei pesci fuor d’acqua. Con i miei vestiti estivi inadeguati alla temperatura locale, i repellenti per tenere lontani gli insetti, lo zaino sulla spalla, il marsupio attorno alla vita e la macchina fotografica appesa al collo, ho la disinvoltura di un palombaro che scende la scalinata di Trinità dei Monti. Prima di partire Francesco disse: “lì saremo noi quelli con l’orecchino al naso e la sveglia al collo”, aveva ragione! Sono discretamente impedita nel montaggio della tenda, per fortuna alcuni ragazzi del gruppo, gentilissimi, non appena finiscono di montare la loro aiutano me. Scende la sera e ascoltiamo incantati gli usignoli, una melodia mai sentita prima e impossibile da descrivere. L’Africa è veramente un posto magico, l’usignolo che canta sembra augurarci buone vacanze.

Maria Cristina si offre di cucinare per tutti: un’amatriciana da antologia la consacra al ruolo di cuoca per tutti i giorni di campeggio che seguiranno. Bontà sua (e fortuna nostra!). A cena finita riportiamo tutti i generi di conforto nelle jeep, in modo da tenere gli animali lontani dalle tende, ma questa è una norma essenziale da seguire in ogni posto del mondo, non solo in Africa. Un mio collega fu assalito dagli orsetti lavatori in Canada… L’indomani mattina (6 agosto) smontiamo le tende e ci prepariamo per la visita al vicino lake Manyara. L’attrazione principale del parco sono le scimmie e i babbuini, che vediamo nella foresta saltellare da un albero all’altro, e quando arriviamo al lago troviamo un convegno di pellicani e altri uccelli, una mandria di gnu in corsa e altri erbivori. Vediamo anche molti gruppetti di galline faraone, le quali scappano immediatamente non appena sentono le macchine avvicinarsi. Il loro piumaggio blu intenso a puntini bianchi sembra un cielo stellato e hanno una coroncina di penne dorate sul capo. E pensare che finora le avevo viste solo ripiene il giorno di Natale! Il lago è di acqua salata, come gran parte dei laghi in quella zona, poiché risente dell’attività vulcanica dell’area. Sarebbe bello avvicinarsi alla riva ma non è permesso, però possiamo scendere dalle jeep per sgranchirci un po’. Quando mi allontano per fare delle foto vengo subito riportata nel “branco” da Annael, il quale mi spiega che anche se poco distante c’è un gruppo di persone, io non mi devo isolare perché gli animali che si nascondono nel “bush” (cioè la vegetazione) studiano le prede migliori. Quindi io fuori dal gruppo potrei attirare delle visite indesiderate, e di sicuro con i leoni non c’è da scherzare: attaccano in modo fulmineo e non c’è neanche il tempo di rendersene conto. Proprio in questa occasione noto che ha un coltello legato alla cinta. Risaliamo sulle jeep e dopo poche centinaia di metri dobbiamo fermarci per cedere il passo a un piccolo gruppo di giovani elefanti che ci “tagliano” la strada. Saranno pure giovani, ma sono grossi quasi quanto una jeep! Questo incontro ravvicinato ci permette di fotografarli da vicino e io proprio non mi risparmio, non credo una caccia fotografica così grossa si potrà ripetere a breve. Hanno zanne lunghe e affilate e poi, scusate la franchezza, ma sono gli unici animali dotati della sesta gamba, non so se mi spiego! Gli autisti si raccomandano con noi di non fare rumore, non alzare la voce, non fare movimenti bruschi ma soprattutto di non tentare di toccarli né nutrirli in nessun modo. E noi ubbidienti ci limitiamo ad ammirali e immortalarli con le macchine fotografiche, mentre loro, lentamente e inesorabilmente, se ne vanno per la loro strada in fila indiana. Uno di loro, prima di andare, si imbelletta buttandosi addosso della terra. Mentre si allontanano e noi stiamo tutti in silenzio, posso sentire il rumore dei rami che spezzano al loro passaggio. Questo rafforza la raccomandazione della guida, e cioè che gli elefanti, anche giovani, è meglio non farli arrabbiare. Proseguiamo la visita transitando sotto un albero dove banchettano decine di babbuini che ci tirano i semi dei frutti addosso: a quanto mi dicono e vedo, i babbuini sono dei veri sfacciati e non hanno paura degli uomini, anzi addirittura se gli gira male possono attaccarli. Un classico è che i babbuini fregano tutto ciò che vedono nelle mani dell’uomo pensando siano cose da mangiare, per questo motivo le guide ci dicono di fare attenzione agli occhiali e alle macchine fotografiche. E poi a guardarli bene sono piuttosto grossi e hanno denti affilati, fortunatamente non avvicinano nessuno di noi e ce li possiamo godere in santa pace sotto l’albero mentre mangiano, stando solo attenti a schivare i semi. La strada si inoltra all’interno di una foresta: gli alberi sono dei veri e propri grattacieli vegetali, indescrivibile la loro maestosità, ci si può solo andare e vederla coi propri occhi. Qui ci sono tutti gli alberi che ho studiato all’università per il loro legname: cedro, ebano, hiroko, bambù. La foresta è popolata di scimmie, erbivori ed uccelli: questi ultimi fanno la felicità di uno dei miei compagni di viaggio, Stefano. Grande appassionato di questi animali, perciò da subito soprannominato Lipu. Torniamo al campeggio, pranziamo e ci prepariamo a trasferirci a Karatu. Le jeep fanno a gara l’una con l’altra per stare in testa alla fila, non tanto per vincere la corsa ma per mangiare meno polvere possibile. Lungo la strada facciamo alcune soste per comprare la frutta al mercato (banane di tutte le taglie) e acquistare qualche souvenir. Nelle botteghe si susseguono un intagliatore di legno alle prese con un rinoceronte, dei venditori di magliette iperturistiche a tema (le orme dei grandi felini, i masai in bicicletta e l’indispensabile bestiario swahili-inglese) e delle botteghe con esposto un po’ di tutto, dalla mobilia a strumenti musicali, proseguendo per collane e bigiotteria varia (masai e non), braccialetti rigorosamente in osso (l’avorio è fuori legge!), vasellame e oggettistica in pietra rosa locale e ultimi ma non ultimi i bellissimi quadri “tinga tinga” dipinti dagli artisti tanzaniani, raffiguranti scene bucoliche. I soggetti più spesso ritratti sono animali in varie pose, più raramente hanno uno sfondo (il Kilimangiaro, un lago, la savana). La pittura è pastosa e lucida come uno smalto coloratissimo; in ognuna delle opere è impiegato un numero limitato di toni. Lo stile è vagamente naif, molto spesso si tratta di composizioni poiché i fenicotteri sono in fila indiana, le giraffe sono nere su sfondo rosso, gli uccelli sembrano danzare tra i rami degli alberi e così via. Penso che l’acquisto di un quadro sia troppo impegnativo e ripiego sulle cartoline raffiguranti queste opere e una tazza decorata allo stesso modo. In queste opere c’è davvero riassunta tutta l’Africa che ho visto e vedrò nei prossimi giorni, ora che sono a casa mi pento profondamente di non averne acquistato nessuno. Compro anche una coperta e una collana masai, che sfoggio subito. Richard, l’autista più giovane, decide di chiamarmi d’ora in poi “masai lady”.

Il villaggio è un’insieme di abitazioni e negozi di un solo piano, costruiti in mattoni (forse terra cruda essiccata al sole) e hanno il tetto di lamiera ondulata. Gli uomini indossano vestiti consumati, poco dissimili a stracci, i bambini sono tutti impolverati. Le donne sono avvolte in stoffe coloratissime, alcune di loro trasportano pesi enormi sulla testa e magari hanno anche un bambino aggrappato addosso tra le pieghe del vestito. I servizi igienici nei bar sono prossimi al medioevo per noi abituati ai nostri bagni piastrellati come basiliche, e molto spesso non c’è acqua. Però si trova birra (Kilimangiaro), altre bevande gassate e molto spesso anche la coca cola. C’è l’ufficio postale, la copisteria, alcune guest houses, un falegname e ovunque, dico ovunque, il centro per collegarsi a internet. Dentro di me scuoto la testa e mi chiedo cosa se ne fanno di internet e copisterie, qui ci vorrebbe l’acqua! Assisto proprio a ciò che temevo di vedere, e cioè i danni della globalizzazione. Sono una no-global piuttosto convinta, poiché la globalizzazione come la intendo io non si fa iniziando da una certa tecnologia o bevande alla moda, bensì con reti fognarie e idriche, servizi igienici, pubblici, ospedali funzionanti, cibo e scuole per tutti. E invece qui vengo quasi assalita dai bambini che vedono il mazzo di penne che ho in mano e che sto regalando. Assisto anche a una confortante messa alla James Brown in “The Blues Brothers”: in uno spiazzo c’è un palco con microfono su cui un missionario bianco sta recitando un sermone evidentemente molto coinvolgente, sotto è pieno di fedeli che esultano e applaudono, la gioia dei neri è uguale in ogni parte del mondo.

Ripartiamo per Karatu. Il campeggio di stasera è un po’ più spartano, le docce sono fredde e per terra è pieno di sassi. Fa freddino e ci ritroviamo al bar del campeggio dove assaggiamo il Koniagy, un liquore locale prodotto dalla distillazione della canna da zucchero. Qualcuno ordina la birra locale, fatta di non so cosa ma molto diversa da quella classica, e viene accontentato con una bottiglia di “Kilimangiaro Beer”. Durante la notte stavolta patisco un po’ il freddo ma soprattutto l’umidità, ho qualche sasso sotto la schiena e così al mattino seguente sono tutta acciaccata.

7 Agosto: come da programma facciamo colazione, smontiamo le tende, carichiamo i bagagli e partiamo verso una delle destinazioni più belle e affascinanti del viaggio: il parco di Ngorongoro! Si tratta del cratere di un vulcano del diametro di 20 km, che è come un’oasi per gli animali che in effetti qui non migrano mai. Mancano solo le giraffe che non possono salire fin quassù, per il resto ci sono tutti. Questa cosa mi fa venire in mente la canzone dell’arca di Noè, ma me la risparmio… Arriviamo all’ingresso per pranzo, saliamo in cima al cratere e montiamo subito le tende mentre gli altri approntano un pasto veloce. Il campeggio stavolta è veramente spartano: ci sono solo bagni con le turche e docce fredde e manca l’illuminazione. In più siamo a 2600mt di altitudine! Per raggiungere il fondo del cratere dovremo scendere di 500-600m. Il costo dell’ingresso è di 30$ a persona, mentre paghiamo 20 £ per campeggiare. Il paesaggio è mozzafiato e da lontano possiamo distinguere i bordi del vulcano con il lago al centro e le mandrie di animali che si spostano. Man mano che scendiamo vediamo anche dei masai correre nella savana e ogni tanto scorgiamo le loro capanne, ma non posso fotografarli perché loro non vogliono e io non intendo mancare di rispetto. Il paesaggio è una enorme tavolozza con tutti i colori del cielo e della terra, mi sembra di essere di fronte a un magnifico gigantesco quadro. Persino le acacie, distinguibili da lontano, sembrano l’opera minuziosa di un’artista. Arrivati sul fondo troviamo gnu, zebre e babbuini in fila indiana e un facocero ci taglia la strada. In questo posto meraviglioso farò le foto più significative di tutta la vacanza, qui è tutto bello: bella la strada di terra rossa battuta che si perde in fondo al verde dei bordi del cratere e nel giallo della savana, bello il blu del lago che riflette il cielo, belle le strisce nere delle zebre buffissime, belli gli gnu al sole, bello tutto. Commovente e struggente, non c’è cosa qui che non meriti di essere immortalata. Il primo contatto con le iene non è meno toccante: ne vediamo due banchettare con una loro defunta simile, siamo controvento e ci arriva tutto l’odore del pasto…Argh! E poi sono brutte, ma brutte sul serio, dei mostri a 4 zampe e pure belle grosse! La loro bocca dentata incute terrore, anche se in teoria non dovrebbero attaccare l’uomo in quanto si nutrono di carcasse, un animale con tali denti e dimensioni è meglio tenerlo alla larga. Già, sempre che non sia lui stesso a farti l’improvvisata… Disturbate dai nostri schiamazzi e dal rumore dei motori trascinano via la carogna, e noi distogliamo sguardi e nasi. Proseguiamo il giro e incontriamo la prima leonessa, è un po’ distante e seminascosta dalla vegetazione: le guide ci spiegano che molto probabilmente è in compagnia dei cuccioli, nascosti nell’erba. Ci avviciniamo alla sponda del lago “tagliando” una mandria di gnu intenta a brucare e prendere il sole, qui le foto si sprecano perché il panorama e i colori sono davvero fantastici. Un striscia di terra bianca, gli gnu stesi al sole, poi la savana dorata, e ancora più in fondo altri gnu e infine il verde sui fianchi del cratere e l’azzurro del cielo. Trovatemi un pittore capace di tanto! No, dico, trovatemelo! La riva del lago ha una striscia bianca causata dai minerali contenuti nell’acqua, e possiamo ammirare uno grosso stormo di fenicotteri rosa, ibis e altri uccelli. I fenicotteri formano una lunga scia rosa starnazzante; fanno un baccano assordante e sono particolarissimi con quella livrea. Sostiamo un po’ e poi ci spostiamo verso un’altra pozza frequentata da ippopotami che fanno il bagnetto e oziano, beati loro! A vederli così mi butterei in acqua pure io, peccato che nelle immediate vicinanze ci sia un simpatico coccodrilletto e che gli ippopotami pare siano molto gelosi del proprio territorio. Ci avviciniamo all’uscita e vediamo un rinoceronte solo soletto in mezzo alla savana, molto lontano da noi, peccato perché ci tenevo a vederlo da vicino ma in quel punto proprio non ci si può avvicinare. O meglio non si può uscire dalle piste: pure essendo queste di sola terra battuta, delineano comunque un percorso sicuro mentre l’erba alta della savana potrebbe nascondere delle buche e altro. Si torna al campeggio e ci organizziamo per la cena. Siccome tira molto vento, prepariamo tutto cercando riparo tra tre tende montate vicine. Cristina si esibisce anche stasera con una bella minestra fumante che con questo freddo ci vuole proprio, però più tardi ci pentiremo di aver fatto questa mossa… Fa freddo e tira parecchio vento, qualcuno (anche io) comincia a rimpiangere certe comodità.

La serata prosegue chiacchierando attorno al fuoco acceso da due turiste inglesi, giocando a ruba bandiera, e ammirando la moltitudine di stelle. Ci troviamo sulla cima di una vetta, attorno a noi non ci sono città e altre fonti di illuminazione, siamo soli sotto un cielo più bianco che blu da quanto è stellato.

Oggi è stata davvero una giornata emozionante, ma il meglio (o il peggio) deve ancora venire… Durante la notte, una iena decide di venire a trovarci. Senza dubbio è stata attirata qui dall’odore della minestra consumata accanto alle tende. Non è bello sentire un bestione che ansima in cerca di cibo e che gira proprio a 20 cm dai tuoi piedi, e ti dividono da lui solo pochi strati di stoffa! Ci svegliamo tutti, un po’ per la paura e un po’ sperando che la iena se ne vada iniziamo a fare casino, ma otteniamo solo l’incazzatura dei ranger e degli altri ospiti del campeggio. Dopo un po’ la iena non si sente più, Francesco dice che l’ha vista allontanarsi verso le jeep e io e alcuni miei compagni decidiamo di alzarci per andare in bagno armati di torce, sperando che la luce possa spaventarla. Al rientro purtroppo anche la iena decide di proseguire il giro, e ricomincia a aggirarsi tra le tende, ansimando come una balena asmatica.

Stavolta sono teorizzata, anche perché le tende non offrono una grande difesa. Cerco di mantenere la calma per non allarmare il resto del gruppo o peggio ancora essere offerta come vittima sacrificale. Nel cuore della notte, in balia del vento e del freddo, col diavolo in persona che mi gira intorno e io non posso farci niente, i pensieri corrono veloci come saette: ”Ma chi me l’ha fatto fare di venire qui? Avevano ragione i miei, avevano ragione TUTTI quelli che me lo avevano sconsigliato! L’anno prossimo andrò in vacanza al paesello con bagno, zii e cugini all inclusive, Dio ti prego risparmiami i calcagni, lo giuro non dirò più parolacce, se sopravvivo faccio testamento a favore del collega di lavoro simpatico, a Settembre mi iscrivo a un corso di sopravvivenza.” Al sorgere del sole la iena decide che non le interessiamo e si ritira nella savana, io recito 10 pater noster e 10 ave Maria, bacio la terra, tento di baciarmi il sedere ma non ci arrivo e alle 7 ci danno la sveglia. Ma se non ho chiuso occhio tutta la notte! Si racconta alle guide l’accaduto. Queste ci spiegano che ci siamo spaventati un po’ troppo, tuttavia non saremmo dovuti uscire dalla tenda durante la notte, né cucinare vicino. Purtroppo l’accaduto genera malumore in alcuni di noi e non vorremmo ripetere l’esperienza, vista la varietà di predatori preferirei trascorrere le notti successive in un albergo o perlomeno in un campo recintato. Arrivati a Seronera subito ci si informa per dormire nel lodge all’interno del parco ma ahimè non ci sono posti. Francesco prova a placare gli animi e confida che stasera andrà meglio, per cominciare siamo scesi di oltre 1500m e quindi sicuramente patiremo meno freddo, in più il campeggio è sorvegliato da guardie armate e tutti abbiamo imparato la lezione di cucinare lontano dalle tende.

All’ingresso riesco finalmente a fotografare lo storno metallico, uno splendido esemplare ben diverso dai bombarderos che infestano il centro di Roma, questo ha un piumaggio azzurro metallizzato da capogiro.

Oggi ci aspetta una visita in un villaggio masai, le guide ci dicono che potremmo assistere a una caccia al capretto che poi mangeremo cucinato da loro, ma tutto il gruppo trova la cosa troppo turistica e scegliamo la sola visita al villaggio. Per 50$ possiamo assistere a una danza ed entrare nelle loro capanne, comprare collane, coperte e altri oggettini prodotti artigianalmente. La cosa è comunque turistica, poiché questi masai a differenza di tutti gli altri incontrati durante gli spostamenti, si fanno fotografare e a modo loro cercano di essere ospitali. Siamo tutti un po’ perplessi però se vogliamo vederli da vicino e entrare nelle loro case, è l’unico modo. Tira un vento pazzesco che solleva la polvere e mi porta alle narici l’odore delle loro abitazioni, bleah! Le capanne sono costruite con fango, rami secchi ed escrementi di animali. Il villaggio è a pianta circolare, l’esterno è costituito da una spessa cinta di rovi e arbusti spinosi che tengono lontani i grandi predatori. Una volta all’interno ci sono, disposti concentricamente, le capanne dei masai, quelle degli animali, e al centro uno spiazzo dove assistiamo alla danza a ai canti. È bello vederli saltare e cantare, le bambine in particolare sono carinissime con quei collanoni rigidi di perline bianche. Finita la danza possiamo girare nel villaggio come vogliamo, e veniamo “adescati” dalle donne che vogliono venderci i loro ninnoli, lance, coperte, e altro ancora. Merita una segnalazione il misterioso quanto inquietante “astuccio pelvico”, un contenitore per l’acqua ricavato da una zucca svuotata e rifinito con cuoio e perline. Le capanne sono molto basse, il che significa che i masai, ben più alti di noi, all’interno possono starvi solo seduti o sdraiati. Vorrei entrare in una delle capanne ma non ce la faccio, ci sono troppe mosche e troppo fumo e così mi limito a gironzolare all’esterno. Anche i masai sono ricoperti da una mistura di sangue e escrementi, per tenere lontani gli insetti e altri animali (e pure gli altri uomini!). Adesso mi tocca sfatare un mito, cioè quello della indiscutibile bellezza dei masai. O perlomeno di quelli che ho visto io. È vero, sono molto alti e flessuosi, hanno una linea e un portamento veramente fiero, vestiti come sono di una sola coperta sembrano insensibili al freddo e al vento, i capelli sono tinti di rosso e portano indosso gioielli fatti di perline. Nel complesso sono veramente affascinanti e incutono timore e rispetto, però non sono belli…Almeno alcuni di loro non lo sono per niente! Hanno denti e lineamenti tutt’altro che belli! Tirando le somme, sono come tutte le altre persone del mondo, cioè alcuni molto belli, altri carini, altri ancora diciamo simpatici. All’esterno del villaggio c’è una scuola (una capanna buia e polverosa) i bambini che vi sono dentro sono sporchissimi, diffidenti, mi fanno un pò tenerezza. Chissà che devono pensare di questi bianchi ciccioni con questi abiti strani, che vengono, gli sorridono, cercano di accarezzarli e dicono parole incomprensibili: mi sento un po’ idiota in mezzo a questa gente. Alcune persone del gruppo regalano alla scuola delle risme di carta e penne, e proseguiamo.

La prossima visita è dedicata alle gole di Olduvai dove sembra siano stati ritrovati dei resti di fossili animali e umani. Il posto è particolarissimo, un canion africano con tanto di vegetazione desertica. C’è anche un torrione naturale che si erge da terra e si possono vedere le stratificazioni della roccia in tutte le tonalità del rosso e del marrone, sembra una torta a strati. Mentre alcuni decidono di sostare all’ombra per riposarsi un po’, io e gli altri facciamo una passeggiata nel fondo del canion. È veramente un posto marziano, attorno a noi ci sono solo sassi e piante secche, cactus e agavi, la composizione del suolo è ricca di minerali infatti le rocce sono molto lucenti. La visita tuttavia è molto breve e poco dopo ripartiamo per Seronera, nel cuore del parco del Serengeti. Durante i trasferimenti da un posto all’altro, ascoltiamo musica reggae e musica locale, tra cui la famosa canzoncina “Jambo, buana!” che ci accompagna dall’ inizio del viaggio in tutte le salse, a seconda di dove ci troviamo. “Jambo” in swahili vuol dire “ciao”, la canzone parla di due persone che si incontrano e si domandano come va, e uno risponde all’altro: va tutto bene, in Tanzania non ci sono problemi (“Tanzanìa, akuna matata”). La canzone continua coi nomi delle varie località: Serengeti, Zanzibar e via discorrendo. La musica reggae, anche se non è originaria di questo posto, sentita qui mentre si ammirano questi panorami è molto significativa. In più mi piace sentire come i tanzaniani parlano, la loro emissione dei suoni è proprio diversa dalla nostra, più profonda e vagamente nasale è comunque affascinante. Molti ragazzi di qui amano il reggae, è un loro modo di rendere omaggio alla memoria degli schiavi deportati nelle Americhe nell’antichità. Ascoltiamo anche Mr Ebbo, un cantante hip-hop masai che è stato anche ospite in una puntata del Costanzo Show. La sua musica è piuttosto semplice e commerciale per la verità, però è gradevole e poi è bello sentir cantare in swahili.

Seronera è un’altra meraviglia, un’altra sensazione di essere niente in confronto a tutto il resto. La savana dà spettacolo di sé con la sua erba alta e dorata, sembra un mare e in effetti è proprio così che lo chiamano, “the sea grass”. Il nome è assolutamente azzeccato: l’erba alta che si muove accarezzata dal vento sembrano onde dorate a perdita d’occhio. Da questo oceano spuntano ogni tanto dei mucchietti (sembrano mucchietti, in realtà sono alti alcuni metri) di sassi e rocce levigate sui quali i leoni e gli altri animali oziano e osservano la campagna circostante. Sono delle vere e proprie isole in mezzo all’oceano, sembrano messe lì apposta tanto sono perfette. Facciamo il nostro primo incontro con uno struzzo (molto alto, nero, con la punta delle ali e della coda bianca) e una struzza (più piccola, dalla livrea mimetica intonata alla savana), e per l’ennesima volta le guide ci spiegano che gli struzzi sono molto aggressivi e perciò è meglio non tentare di avvicinarli. Babbuini, leoni, struzzi, zanzare: gli animali africani sono proprio scorbutici! Andiamo avanti e facciamo il nostro beato incontro con un gruppo di giovani leoni e leonesse intenti a oziare e prendere il sole sotto un albero, sono fantastici: così spaparanzati sembrano proprio dei gattoni. Uno di loro si fa le unghie contro l’albero. La tentazione sarebbe di scendere dalla jeep per sdraiarsi insieme a loro, dal momento che siamo vicinissimi e non ci filano per niente sembrano inoffensivi. Tuttavia resisto, la jeep non è poi così scomoda. Andando avanti tre leonesse ci tagliano la strada, forse sono a caccia di una gazzella che abbiamo visto saltellare in lontananza. Pare che le leonesse vadano sempre in tre a sbrigare le commissioni. Sono molto belle con il pelo chiaro e la punta delle orecchie e della coda nera, erano rese bene nel cartone animato “Kimba”. La giornata è ottima e gli animali abbondanti: siamo così fortunati da sorprendere anche un maestoso leopardo sdraiato su un albero. Purtroppo è molto lontano e ci dobbiamo aiutare col binocolo o con gli zoom delle macchine fotografiche per vederlo meglio. Anche così però si vede la sua maestosità e bellezza, ha un pelo magnifico ed è molto elegante. Credo che sia l’animale più bello della savana, almeno di quelli che ho potuto vedere io, visto che non sono riuscita a vedere i ghepardi, più rari e notturni. Quando sono le 18 dobbiamo rientrare al campeggio perché è vietato circolare nei parchi quando scende la sera. Siccome siamo tutti un po’ provati dalla notte precedente, abbiamo bisogno di una doccia ristoratrice e un buon sonno, ma il campeggio è davvero spartano. Le latrine sono puzzolenti, non ci sono recinti, l’acqua (fredda) c’è ma bisogna prenderla da un silos da 500lt e portarla alle docce per mezzo di tinozze e bottiglie. In questo modo per lavarsi ci facciamo dei gavettoni, tanto ormai ne abbiamo vissute di cotte e di crude tutti insieme, anche se più di qualcuno nel gruppo freme perché vorrebbe delle minime comodità. Per fare uso dei “servizi igienici”, che non sono più di un buco nel pavimento e due mattoni su cui mettere i piedi per accovacciarsi, ho brevettato questo sistema: mi annodo un fazzoletto attorno alla bocca nel quale ho ripiegato una salviettina rinfrescante, chiudo gli occhi e passa la paura. Necessità fa virtù e difatti funziona perfettamente! In più c’è da dire che nei dintorni c’è sempre un inserviente munito di spazzolone e detersivo che ripulisce il bagno non appena ne esce qualcuno. Non che serva a combattere gli odori però dimostra senz’altro buona volontà.

Attrezziamo i fornelli per cucinare a qualche metro dalle tende, così gli animali sono fregati, però la sindrome da incursione notturna ormai ci ha colti: non appena scende la sera tempestiamo le guide di domande su cosa fare e come difendersi. Loro molto pazientemente ci spiegano che se non abbiamo cibo con noi gli animali si limitano a gironzolare tra le tende, questo è normale perché è il loro territorio e così facendo ne mantengono il controllo. Quindi le raccomandazioni che ci fanno sono quelle di non fare chiasso, non portare cibo nelle tende (neanche crackers o caramelle) e restare nella tenda per tutta la notte, anche se ci scappa e non ne possiamo più. Infine, pare che da 132 anni nessun turista sia stato attaccato dagli animali. Io un po’ di fifa ce l’ho lo stesso, però è bello sentire i racconti delle guide attorno al fuoco, quando scende la sera. Al buio, riscaldati dal fuoco e illuminati da un’altra bella notte stellata, si parla con loro di tutto: dai discorsi di routine sugli animali e i parchi alla politica internazionale. Scopro che non sanno molto di noi italiani e del nostro paese, ci trovano simpatici e gli piace il nostro accento nel parlare l’inglese, in più siamo tra i visitatori più frequenti. Ci dicono che gli elefanti vanno letteralmente pazzi per le banane, e se un elefante ne sente l’odore, è capacissimo di scoperchiare una jeep per prenderle. Questo anche se accanto alle banane c’è seduto un uomo. Nella gran parte dei casi, l’elefante prenderebbe solo quello che vuole senza nuocere all’uomo, ma siccome l’uomo è fifone e strilla, l’elefante potrebbe risentirsi e diventare pericoloso. Per questo se si è soli nella savana con un casco di banane, è meglio mangiarsele. “Tanzanìa akuna matata” ci ripete Alifa alle nostre incessanti domande sui leoni e gli altri grandi predatori.

Al momento di andare a nanna, Francesco da buon capogruppo paterno mi offre di dormire nella sua tenda se ho paura a stare da sola. Io ci rifletto un po’ su e penso: Francesco è alto due volte me, per cui se proprio dovesse, il leone mangerebbe prima lui. Accetto l’invito e mi preparo psicologicamente ad affrontare la notte. Il training autogeno non dura molto perché sono stremata e piombo in un sonno pesante e ristoratore.

Durante la notte mi sveglio un paio di volte perché sento qualcosa o qualcuno gironzolare attorno alle tende, ma mi riaddormento immediatamente. Alla mattina presto mi sveglio di nuovo e sento distintamente i ruggiti dei leoni ma me ne frego, mi giro dall’altra parte e continuo a ronfare. Chi lo sa perché sono così tranquilla? Solo molto più tardi Francesco mi confesserà che i leoni erano proprio appena fuori del campeggio, e che lui ha pregato le guide di non dirci niente per evitare panico inutile. Al mattino, cioè 9 agosto, come al solito facciamo colazione, smontiamo tutto e ricarichiamo le jeep. Le scorte di viveri e acqua sono sensibilmente diminuite e perciò facciamo più in fretta. Siamo diretti verso il Lobo Lodge, visto che alcuni di noi hanno deciso di “staccare” dalla fatica e lo scomodo della vita di campeggio. Per la verità tra i disertori della vita all’aperto ci sono anch’io. La scelta di trascorrere la notte nel lodge si rivela un po’ dispendiosa visto che non avevamo prenotato dell’Italia. Dopo una lunga contrattazione si riesce a spuntare il pernottamento per la quasi totalità del gruppo, io come al solito all’ultimo minuto ritorno sui miei passi e decido di trascorrere anche questa notte in campeggio con altri 6 Crocodile Dundees. Solo che stavolta si tratta di un vero e proprio accampamento: lo spazio è a ridosso di una collinetta, non c’è acqua né illuminazione, ci sono solo delle latrine che io non avvicino neanche e una buca in cui buttare l’immondizia che poi verrà incendiata per evitare che i soliti animali vengano ecc ecc. Tutto ciò è molto igienico nonché ecocompatibile! Montiamo le tende e verso le 17 si riparte per il game drive. Vediamo due leoni maschi adulti con tanto di criniera cotonata, anzi gli altri vedono due leoni, io ne vedo solo uno, che se ne stanno sotto un albero a farsi i fatti propri. Poco distante una mandria di elefanti con mamme e cuccioli tentano di attraversare la strada. Come apripista c’è un’elefantessa che “sonda” il territorio con la lunga proboscide: ha avvertito l’odore dei leoni e perciò proseguono con cautela, in silenzio, guardinghi. Sono euforica, finalmente vedo coi miei occhi quelle cose che prima avevo visto solo nei documentari. È notevole l’intelligenza di questi animali che hanno la loro vedetta. Tuttavia ai leoni non importa proprio niente del transito elefantino, se ne stanno buoni buoni sotto il loro albero a sonnecchiare. Anche stavolta siamo molto vicini ai felini, e mi rendo conto di quanto è maestoso e terribile questo animale. A parte le notevoli dimensioni, ha occhi di brace che ti guardano fisso e con aria di sfida, e il manto è del colore dell’erba, tanto che si fa davvero una gran fatica a distinguere il corpo tra la vegetazione. Mentre gli altri animali, come zebre e giraffe per esempio, sono ben distinguibili a distanza ravvicinata, i leoni sono così mimetici che per distinguerli bisognerebbe inciamparci. Le guide ci spiegano che con i leoni non bisogna mai perdere il contatto visivo, visto che loro in questo modo capiscono se una preda è spaventata o meno. La regola è: mai voltare le spalle a un leone. Ad ogni modo, visto che attaccano sempre in tre, non abbassare lo sguardo credo serva a poco… Il panorama è bellissimo anche qui e offre molti spunti di riflessione. Verso le 17 rientriamo al lodge e con la scusa di andare a trovare gli amici che sono rimasti dentro, ci facciamo tutti una doccia con shampoo e ci godiamo un panorama favoloso dal finestrone del loro alloggio. Il lodge è veramente bello, curato, pulito, l’architettura in legno è integratissima con l’ambiente circostante, e per finire c’è anche la piscina. Però non mi pento della mia decisione di pernottare all’aperto e comunque ormai non posso tornare indietro. Ceniamo tutti insieme al buffet del lodge, ci sono anche delle insalate e pomodori freschi che io stavolta, sprezzante del pericolo, mangio con avidità. A parte le vaccinazioni, sono stufa di crackers e cibi asciutti. Al termine della cena dobbiamo sbrigarci a tornare al campeggio perché c’è il divieto assoluto di guidare nei parchi dopo le 22, quindi le nostre guide rischiano una bella multa facendoci da tassisti. La notte cala in un baleno: siamo appena sotto l’equatore e il tramonto dura pochi minuti, il sole cala a picco e ci ritroviamo nelle nostre tende in compagnia dei babbuini. Nella tenda accanto c’è un americano che russa e tiene sveglia tutta la foresta, con una sirena come questa stavolta non credo proprio che qualche animale vorrà avvicinarsi! Il 10 Agosto ci si sveglia e ci portano al lodge dove ci inseriamo nel resto del gruppo per la colazione. I ragazzi che hanno dormito in un letto e hanno fatto una buona doccia sembrano rilassatissimi e ci raccontano il loro bagno in piscina. Alle 7.30 siamo già pronti per andare al lake Natron ma dopo pochi minuti di strada facciamo una sosta per assistere alla colazione di 4 leoni maschi di grossa taglia: stanno sbranando un gnu! È veramente il massimo vedere questi enormi felini con le fauci insanguinate. Mi sento davvero la figlia di Piero Angela e anche tutti gli altri componenti del gruppo sono euforici. Dopo alcuni minuti i leoni si stufano di essere fotografati, uno di loro ci mostra i denti, azzanna la preda e se la porta via, nella savana. Proseguiamo verso il lago Natron, la strada è lunga e molto accidentata, durante la stagione delle piogge è addirittura impossibile percorrerla. In effetti anche durante i giorni scorsi abbiamo impiegato diverse ore per coprire distanze relativamente brevi, non solo a causa delle soste necessarie per vedere gli animali. La strada bianca piena di sassi ci shakera all’interno delle jeep come fossimo le olive in un cocktail, e mangiamo chili di polvere. L’Africa è anche questo, un posto dove il tempo scorre più lentamente che da noi: qui sarebbe impensabile tenere i nostri ritmi.

Anche perché lungo il tragitto una delle jeep ha un’avaria! Più precisamente si tratta delle pale del raffreddamento che si sono rotte, e così il radiatore va in ebollizione. A questo punto è necessaria una riparazione e quindi i passeggeri trasbordano i bagagli e loro stessi sulle altre 3 jeep, stringendosi un po’ stanno comodi tutti, e l’autista dell’auto guasta prosegue in direzione di un villaggio dove poterla riparare. In questa occasione facciamo l’incontro con un gruppo di masai intenti a pascolare il loro bestiame di vacche magrissime. Aiutati dalle nostre guide che si raccomandano di non fotografarli, tentiamo un approccio. Alcuni di noi provano ad offrire loro delle caramelle e delle prugne secche, che però non gradiscono affatto. Va un po’ meglio quando regaliamo loro della carta, penne e matite, e gli offriamo pane e biscotti. Io approfitto della sosta forzata per sgranchirmi un po’ e sdraiarmi in mezzo alla savana. La strada è piena di rocce e minerali lucenti, me ne porto via alcuni come ricordo. Ci rimettiamo in marcia e saltelliamo su queste strade piene di sassi. In breve le auto si riempiono di polvere e non si sa se è peggio abbassare i finestrini o lasciarli alzati. Ci ricongiungiamo alla jeep in avaria, la quale ha subito solo una “romanella” (cioè non è stata riparata, però così dovrebbe reggere…) e quindi siamo sempre in 20 persone divise su 3 jeep. Lungo la strada incrociamo un branco di licaoni: i cani della savana! Richard ferma la macchina e scende all’ improvviso, è sorpresissimo ed eccitato. Pare che i licaoni siano diventati rarissimi e noi li abbiamo visti: nessuno li vedeva da circa un anno, quindi siamo ben fortunati! Ci spiega che alla sera lui e le altre guide tengono un “diario” degli avvistamenti. Purtroppo non facciamo in tempo a fotografarli: scappano via nella savana spaventati dalle auto.

Nel pomeriggio inoltrato, dopo un percorso lungo, tortuoso e accidentato, siamo a destinazione: il camping Ol’Doinvo! Sono a pezzi, sono tutta ammaccata e nera dalla polvere. Appena scendo dalla jeep mi do da fare per montare la tenda (3 minuti netti! un record!) e sdraiarmi sul sacco a pelo, anche se sono stata sempre seduta in auto sono stanca morta. Mi guardo intorno con disinteresse, giusto il necessario per individuare la rete attorno al campeggio e le docce. Siamo poco distanti dalle cascate di acqua calda del fiume che alimenta il lago Natron. Io vorrei solo riposarmi, ma dopo neanche 10 minuti di siesta arriva Alifa che mi tira fuori dalla tenda, dice che proprio non posso perdermi questo spettacolo, che lui e gli altri non hanno guidato per ore in quel modo per vederci poltrire. A niente servono le mie scuse, alla fine riesce a convincermi. Armata di ciabatte e costume mi incammino con gli altri verso il mini trekking che ci porterà a vedere queste cascate. Per raggiungerle ci vuole circa mezz’ora e dobbiamo guadare il fiume, fare attenzione perché la corrente è piuttosto forte e difatti qualcuno ci rimette una ciabatta. E qui accadde il miracolo, e cioè che il solo contatto con l’acqua cancella in un attimo tutta la stanchezza accumulata durante il viaggio! Ancora adesso mi sembra incredibile, eppure mentre attraversavo il fiume (l’acqua mi arrivava allo stomaco) mi sono sentita improvvisamente ricaricata, come se avessi dormito e mi fossi riposata per un giorno intero. Che il fiume sia taumaturgico? Dopo uno zig zag tra le sponde e il corso d’acqua, vediamo lo spettacolo delle cascate che dall’alto precipitano nella gola dove siamo noi, le palme e le rocce levigate dalla corrente. Davvero un paradiso, valeva quello scomodo viaggio e quella stanchezza, che ora non avverto più. Ci accompagnano le nostre guide che come noi hanno bisogno di un bagno ristoratore; e altri ragazzi e ragazze che lavorano al camp che ci aiutano a superare i punti difficili del tragitto. Ci immergiamo nell’acqua con fatica per non essere trascinati via e per raggiungere la prima cascata, dove il fondo si alza un po’. È uno spettacolo, non ho mai fatto una doccia naturale come questa. Poco più avanti c’è una seconda cascata di acqua tiepida, le sorprese qui non finiscono mai: sembra di stare alle terme! E mentre lotto col reggiseno del costume che non resiste al richiamo della natura, mi godo la pioggia termale mentre i piedi sono a bagno nella fredda corrente del fiume. Ci rimaniamo per un bel po’, in balia della corrente, ma è tutto troppo bello. In più oggi ho mangiato tonnellate di polvere, almeno in questo modo sono certa di darmi una bella ripulita! Incredibile a dirsi, però, al rientro dalle cascate mi infilo sotto la doccia (la prima decente dopo giorni, anche se a difendermi dagli sguardi indiscreti c’è solo un telo strappato in più punti), e scopro con orrore che ho ancora i capelli pieni di sabbia. Forse la corrente del fiume non è bastata a ripulirmi? Oppure il fiume stesso portava con sé della terra? È necessario uno shampoo sommario, e così faccio. Alla sera ci godiamo la nostra ultima notte sotto le stelle attorniati da dolci colline e cullati dal rumore del fiume poco distante; mentre gustiamo una cena abbondante preparata da Cristina e gli altri. Stasera si celebra l’addio ai parchi e come saluto alla trionfante natura africana offriamo insalata di riso e pasta fredda che ci “sacrifichiamo” a mangiare. Tira un vento tiepido e leggermente umido, gradevolissimo, dopo giorni di freddo.

L’indomani mattina (11 Agosto) la sveglia è alle 5 per smontare le tende per l’ultima volta e visitare il lago. La strada è una giostra, entriamo e usciamo dal letto dei fiumi che alimentano il lago, ora in secca. Da lontano si distinguono le consuete strisce di sale a riva e stavolta possiamo farcela a piedi perché pare non ci siano troppi animali pericolosi, in più il terreno è fangoso e non è certo un buon “fondo” per le auto. La zona è altamente vulcanica e poco distante da noi si erge un elegante vulcano con tanto di pennacchio di fumo. Appena scesi dalle auto si forma attorno a noi un mini mercato masai, i quali hanno con loro collane, braccialetti e tutto quanto di più trasportabile realizzato con le loro esperte mani. Stavolta si fanno dei veri affari, non come nel villaggio (turistico) dei masai a Seronera. Malgrado anche questi masai siano “abituati” ai turisti nessuno di loro parla inglese e quindi le guide ci fanno da interprete. Una di loro decide di non venire con noi per tenere d’occhio le jeep coi bagagli, pare che dei masai non ci sia troppo da fidarsi. Ci facciamo la passeggiata cercando di inzaccherarci il meno possibile. Il paesaggio è inospitale e un po’ primitivo, selvatico, con tutti quei crateri e l’acqua salmastra, però è molto affascinante. Si riparte, altra strada tortuosa tutta dossi, polvere e sassi. Ormai ho le ossa mischiate, credo che se morissimi qui sarei un bell’enigma per futuri paleontologi. E proprio nell’attraversare uno dei torrenti in secca un’altra jeep viene danneggiata: si blocca il differenziale e una delle ruote arretra fino al parafango. Anche in questo caso gli autisti tentano una riparazione di fortuna che regga fino al prossimo paese. Mentre aspettiamo, ammiriamo la bellezza selvaggia di un cratere vulcanico ai piedi del quale ci siamo fermati, lo scenario naturale ci offre un’altra meravigliosa panoramica del vulcano con pennacchio di cui sopra. Dei bambini masai intenti a pascolare capre ci vedono e si avvicinano a noi, chiedendo alle nostre guide se siamo dei dottori dal momento che indossiamo le mascherine. Niente da fare per la jeep: il guasto non è uno scherzo e trasbordiamo noi stessi e parte dei bagagli sulle due auto ancora integre.

Siamo in 20 su due sole jeep con autista! La strada è quella che è: dossi, polvere e sassi, a poco serve cercare di stare in testa alla carovana. In più le auto sono notevolmente appesantite e anche la velocità ne risente. Il vento e le ruote sollevano tonnellate di polvere, tuttavia siamo costretti a viaggiare col tetto della jeep aperto per far entrare una molecola di ossigeno ogni tanto. Mica è facile farsi la strada per Arusha seduta su due elenchi del telefono e con le ginocchia di Lipu piantate dietro la schiena! Arrivati a Mto Wa Mbu scendiamo stravolti dalle auto: sembriamo tutti dei minatori, di bianco ci sono rimasti solo i denti e la parte attorno alle iridi! Gli autisti invece sembrano meticci e il colore dei loro capelli è mutato in biondo. Approfittiamo della sosta per riprenderci un po’ dagli sballottamenti del viaggio in macchina e toglierci qualche dito di polvere di dosso. Ho tutto il tempo di riflettere sulle condizioni della vita delle persone che abitano qui. Come nei villaggi incontrati nei giorni precedenti, anche qui le case sono poco più che baracche, la gente è vestita miseramente e qualcuno tenta di venderci o barattare qualcosa con le nostre magliette logore, manca l’acqua però c’è internet, bevande gassate e coca cola. Scatto una fotografia a una bella ragazza in turbante e gonna azzurro e camicetta chiara, lei non parla l’inglese ma vedo che tenta di dirmi qualcosa. Chiama un amico che parla inglese il quale mi scrive un indirizzo su un pezzo di carta: credo sia l’indirizzo di lei per avere una copia della fotografia. Dopo una lunga attesa intervallata dal pranzo e da una partita a biliardo finalmente raggiungiamo la jeep che si era guastata il giorno prima e possiamo ripartire, ormai vediamo Arusha come Eldorado. Quando arriviamo in albergo gli addetti alla reception ci guardano in modo strano: non abbiamo un aspetto molto florido per essere italiani in vacanza! Noi, le jeep e i nostri bagagli ormai abbiamo tutti lo stesso colore. Questo è l’ultima volta che vedremo le nostre guide, siamo tutti entusiasti del loro lavoro e di come ci hanno accuditi in questi 6 giorni tra auto guaste, polveroni e incursioni di iene. Le salutiamo però con tutto il calore e il rispetto che meritano, anche loro sembrano contenti di averci incontrati. Ci diamo tutti delle lavate esponenziali mentre il capo va ad acquistare i biglietti del bus per Dar es Salaam. Alla sera ceniamo in città, in un localino gestito da pakistani, e sperimentiamo la loro cucina speziata. Non male, solo troppo fritto per i miei gusti. Al termine della cena ci facciamo un giro per le strade tra edifici messi appena meglio di quelli visti fino a ora, e decidiamo di fermarci in un bar dove ordiniamo rum e coca o aranciata. Anatema! Molti tanzaniani sono musulmani e l’alcol non è gradito, in più al ragazzo del bar non è molto chiara l’idea del miscuglio rum + bevanda gassata. Ci serve una ragazza velata dalla testa ai piedi che ci versa l’alcool nel bicchiere con un misurino (hai visto mai questi immondi cristiani decidessero di strafare), e ci guarda perplessa mentre lo mescoliamo con l’altra bevanda. Alla fine della mescita, anche il barista decide di farci compagnia e si versa un rum e coca pure lui. Lo assapora con fare circospetto, ci pensa su, poi lo ingoia e dice: “Good!” Io e Monica terminiamo la serata in una discoteca con una delle nostre guide, e ci facciamo una partita a biliardo coi suoi amici. Sono degli ottimi giocatori e parlano perfettamente l’inglese, mai prima di allora mi sono sentita tanto in minoranza. Al ritorno in albergo la temperatura è calata sensibilmente e uno dei nostri letti in camera non ha più che un lenzuolo. Chiedo alla reception di avere una coperta e mi rispondono “Ok no problem” ma dopo un’ora non si vede nessuno allora li chiamo e glielo chiedo per telefono. La risposta è la stessa di prima: “no problem” al che capisco che non la porteranno mai e così mi tocca scavare nella valigia e recuperare il sacco a pelo che era finito in fondo perché ero sicura che non l’avrei più usato. A parte questo la notte scorre tranquilla, so che mi mancheranno i parchi e gli animali e il mondo a perdita d’occhio. Incredibile a dirsi ma so anche che mi mancherà la mia tenda malandata e dormire nel sacco a pelo coi sassi sotto la schiena, mi mancherà la lotta contro le zanzare e le formiche che riescono a passare attraverso i buchi nella zanzariera, mi mancherà leggere e scrivere alla luce della torcia, mi mancheranno i passi e i versi degli animali che mi gironzolavano intorno, mi mancheranno soprattutto quei 2 metri quadrati di assoluta solitudine e indipendenza. Mi risolleva l’emozione di pensare che ci stiamo avvicinando a Zanzibar dove potrò godermi un po’ di sole e relax, perché è certo che lì sono molto più attrezzati per ricevere turisti, e comunque dovrebbe esserci un grado più alto di urbanizzazione. L’unico interrogativo che mi pongo è se per caso il turismo di massa non possa aver snaturato anche questo angolo di paradiso. Lo vedrò coi miei occhi tra pochi giorni.

Al mattino seguente (12 Agosto) facciamo una ricca colazione e gustiamo il the e caffè locali (rispettivamente Kilimangiaro e Kilimangiaro), il primo molto forte, il secondo meno robusto del nostro ma molto più aromatico; nonché con le ormai familiari bananine e frutto della passione (intero o in succo). Oggi visiteremo il parco di Arusha, distante circa un’ora dalla città. Qui potremo fare una passeggiata di circa 3 ore scortati dai rangers. Il parco densamente popolato di bufali, che scopro essere gli animali più pericolosi della savana. Strano, avrei detto che erano i leoni, e invece pare di no, poiché i bufali sono assolutamente imprevedibili e subire la carica di questo animale potrebbe avere delle conseguenze molto gravi. Per questo motivo i rangers sono armati di fucili e si guardano attorno con circospezione, e fanno attenzione a dove andiamo noi. Nel parco ci sono anche molte giraffe, schive nonostante la loro mole. C’è anche una piccola cascata. Il paesaggio è bello e la passeggiata è gradevole, però per la verità ci pare un po’ spoglio rispetto a quanto visto nei giorni precedenti. Ad averlo saputo prima sarebbe stato meglio visitare prima il parco di Arusha e poi recarsi altrove. Anche lungo la strada del ritorno incrociamo altri animali: una iena maculata e un gruppo di scimmie, fenicotteri e ibis sulle rive di un lago. Al rientro ad Arusha ci dedichiamo tutti ad attività di svago varie ed eventuali prima di riunirci nuovamente per la cena.

13 Agosto: sveglia con le galline faraone perché alle 5 si parte per Dar es Salam. Durante lo spostamento vediamo il Kilimangiaro da lontano: uno spettacolo senza eguali, sembra un creme caramel gigante ed è tutto imbiancato in cima. Sospiriamo tutti perché lo abbiamo scartato pensando che il tempo sarebbe stato brutto e invece il cielo è sereno e azzurrissimo. Il panorama è sempre diverso: ora pianure coltivate a aloe, ora montagne, ora terra rossa e cespugli secchi. Un meraviglioso spettacolo che tento di immortalare come posso con la mia macchina fotografica dal bus in corsa e che resterà comunque sempre nei miei ricordi.

Per non parlare dello show che ci offrono le guereza, delle scimmie che sembrano volare mentre saltano da un albero all’altro. Sono nere e hanno il pelo lungo e la lunga coda bianca fa loro da “timone” negli spostamenti. Il viaggio è piuttosto lungo, ci vogliono circa 6-7 ore per raggiungere la capitale, per fortuna sul pullman c’è un televisore che trasmette documentari sulla riproduzione degli animali della savana con tanto di animazione a raggi X dell’atto dell’accoppiamento. Siamo voyeur dell’intimità di iene, scimmie, felini, persino rinoceronti. Durante il viaggio la hostess ci dà anche una bottiglia di fanta finta a testa. Al termine del lungo documentario la regia manda in onda il cult kitch anni 80 “Sheena, regina della giungla”. La protagonista è una Tarzan in bikini di leopardo, bellissima, depilatissima e pettinatissima nonostante la dura vita nella foresta, che parla agli animali e si sposta utilizzando liane o una zebra (cioèo meglio un cavallo bianco dipinto a strisce). La bella Tarzana fa perdere la testa a un rampante manager americano, stirato e incravattato persino mentre guada i fiumi. La domanda nasce spontanea: questi due notevoli esemplari di bipede alla fine si accoppieranno? Arriviamo a Dar es Salam nel tardo pomeriggio; Sheena e il rampante non si sono accoppiati. La città somiglia molto alla Calcutta del film “La città della gioia”: palazzi di molti piani costruiti su terra battuta, i tetti sono sempre in lamiera ondulata, ci sono asini e altri animali per strada, caos, carretti, gente e macchine ovunque. E anche invalidi e storpi, molti. Molti del gruppo storcono il naso e non posso dargli torto, non è certo un bel vedere e comunque la città non presenta grandi attrattive dal punto turistico né artistico. Ma l’Africa è anche questo, sarebbe stato giusto non vedere e “saltare” subito a Zanzibar? Noto che l’ambiente è piuttosto arabeggiante: qui gran parte della popolazione è di religione musulmana. Lo si vede dai vestiti di uomini e donne, e anche dai tratti somatici di molti di loro. Mi sento a disagio a causa dei miei vestiti che sarebbero normali in Italia, probabilmente qui sono indecenti e di cattivo gusto. Lungo la strada sento pure il muezzin che stanno recitando in una moschea. La sera decidiamo di passarla sul lungomare ma piove a dirotto e non possiamo gustarci la passeggiata. In compenso fuori dal ristorante c’è un quantità industriale di quadri tinga tinga di tutte le fogge, colori e dimensioni, e non c’è nessuno a cui chiedere se si possono comprare! Mi rifaccio gli occhi con questa piccola mostra, mentre qualcuno mi viene a riferire che stasera ricorre il compleanno dell’altro Stefano e gli stanno cercando un regalino. A termine della cena l’ignaro festeggiato dice che vorrebbe offrire un dolce o da bere, senza dirci perché (tanto già lo sapevamo) ma rimane sorpresissimo quando gli viene servita una torta al cioccolato con tanto di candeline! Il regalo è una maglietta con un ricamo e degli animali disegnati. Rimane colpito, ci ringrazia tutti con affetto.

Si va a nanna ma la mattina alle 5 ci sveglia il muezzin della moschea amplificato da altoparlanti esterni. La mattinata è libera e quindi decido di andare in giro con Francesco. Sarò esagerata ma non mi sento molto sicura ad andare in giro da sola sebbene finora ho riscontrato molto rispetto da tutte le persone incontrate. Solo che qui mi sembrano diversi dagli abitanti di Arusha: non si risparmiano commenti quando mi vedono passare (tanto non li capisco!). Il punto è che un bianco lo vedono a un chilometro di distanza, soprattutto per motivi commerciali. Una bianca in carne e con parti di pelle scoperta la vedono ad anni luce. Io e Francesco ci rechiamo prima in giro per il mercato dove incrociamo parte degli altri ragazzi, si tratta di un mercato di ortofrutta ma c’è anche un’area coperta dove si trovano utensili e artigianato locale. Compriamo dei dolci fritti per la strada che ci incartano col giornale, un po’ d’uva e tre ananas da dividere con gli altri. Tentiamo anche di entrare in una moschea ma non ce lo permettono. Non mi aspettavo che anche a Francesco avrebbero vietato il permesso di entrarci. La temperatura è cambiata parecchio: adesso si che mi sembra di essere in Africa! L’aria è calda e un po’ appiccicosa, il sole spacca le pietre. Per il pranzo ci infiliamo in un locale modesto dove non c’è nessun bianco, questa è una mia richiesta espressa perché non mi interessa il menù internazionale a 12 ore di aereo. Mangiamo carne di agnello speziata, verdure e frutta, ottimo il rapporto qualità/prezzo. Poco dopo ci dirigiamo verso il porto dove Francesco acquista i biglietti dell’aliscafo per Zanzibar. Alle 15 ci ritroviamo tutti in albergo e alle 16 partiamo finalmente per l’isola delle spezie! Lungo il tragitto sollazziamo tutti i passeggeri e buona parte dell’equipaggio intonando canti più o meno popolari in circa 10-12 toni diversi, roba da “la Corrida”.

Dopo un po’ ci appare Zanzibar all’orizzonte, c’è un bellissimo tramonto sul mare e una folla esultante al porto. La città di Stone Town è un vero e proprio scenario naturale per un film sui pirati, vedere per credere! Appena scendiamo dalla nave ci catapultiamo in pieno ambiente “Monkey Island”, semplicemente fiabesco. Quest’isola già mi piace a prima vista, peccato restarci solo 3 giorni. Va beh, ma del resto io non amo il mare…(disse la volpe all’uva). Gli alti palazzi sono in legno o muratura intonacati in bianco, i balconi hanno ringhiere in legno lavorato o ferro battuto, le porte hanno bellissime borchie e bulloni lavorati a sbalzo, molti vicoli della città sono lastricati in pietra, i tetti, beh…Sempre in lamiera ondulata. Purtroppo c’è parecchia sporcizia in giro però l’atmosfera è davvero piratesca, sembra di essere tornati indietro di qualche secolo. Per la verità noto anche più di qualche analogia con la nostra Venezia: la sporcizia in giro, l’aria un po’ abbandonata, le persiane mangiate dalla salsedine. Mi domando se per caso le città di mare non abbiano tutte questa “anima” in comune. L’albergo (Hotel International) è un’autentica meraviglia perfettamente in accordo con tutto il resto della città. Ci sono mobili e oggetti intagliati in legno dappertutto, tappeti, finestre arabescate, tappezzerie particolari, lampade in rafia e degli spettacolari letti a baldacchino a una piazza e mezza con tanto di zanzariera. In più dalla terrazza si gode un’ottima vista della città. Una favola, tranne per i 4 piani di gradini ripidissimi che mi devo fare col valigione. La sera tutti contenti andiamo a cena in un posto gestito da un italiano, il menu addomesticato non mi entusiasma però apprezzo i grossi gechi sulle pareti che mangiano le zanzare. Quando rientriamo in albergo salgo in camera a fare un po’ di foto perché è troppo bella per non essere immortalata. Patrizia, la mia compagna di stanza, mi racconta del suo viaggio in Sudafrica e a Creta, io del mio in Irlanda, e poi parliamo a lungo dei cavoli nostri. Mi gusto la nanna sotto la zanzariera, che qui è indispensabile perché ci sono molti più insetti che in qualsiasi altro posto visitato fin’ora.

Alle 5 di mattina di ferragosto però orrore! Di nuovo la sveglia col muezzin amplificato, mi sa che se desidero continuare a viaggiare in paesi musulmani dovrò portarmi i tappi alle orecchie. Stavolta poi mi ne sento due distinti, uno vicino e uno lontano. Ad ogni modo mi riaddormento e alle 10 ci vediamo tutti, rilassatissimi, per la colazione (bananine, frutto della passione, uova, caffè e the Kilimangiaro). Il servizio è molto lento, più che ad Arusha. “Pole pole” cioè piano piano: in Africa non serve spazientirsi. Gli africani hanno i loro tempi e siamo tenuti a rispettarli, del resto non abbiamo scelta. Non vedo l’ora di gustarmi il mio primissimo bagno tropicale in assoluto, mi sento molto fortunata a potere esser qui, adesso. Stamattina faremo il tour dei delfini a Kizimkazi, dove ci aspettano le barche e potremo noleggiare pinne e maschere col boccaglio e prenotare per il pranzo. Il mare non è come me lo aspettavo: è molto meglio e di più. Turchese e azzurro brillante, la spiaggia è di una bianco abbagliante e ci sono le palme da cocco, il simbolo dei mari del Sud! Il fondale invece è un pò deludente, praticamente non ci sono pesci e vediamo solo due delfini che pensano bene di defilarsi non appena capiscono di essere inseguiti da una barca. Quindi chiediamo agli accompagnatori di dirigersi verso qualche spiaggia tranquilla dove poter fare snorkelling. Fare il bagno nell’azzurro di quell’acqua è una vera favola. Ci riavviciniamo alla riva e la marea si è leggermente ritirata: si vede molto bene il corallo che costituisce tutto l’atollo zanzibarino, in più ora la spiaggia è coperta da una striscia di alghe e conchiglie. Quando rientriamo alla spiaggia, ci hanno preparato il buffet per il pranzo. Trascorriamo il pomeriggio a rilassarci sulla spiaggia bianchissima, io cerco delle conchiglie. Nei dintorni ci sono pescatori che sistemano le loro barche e molti bambini dai bellissimi visetti e vestiti coloratissimi che decidono di aiutarmi. Io provo a parlare con loro in inglese perchè non li capisco e loro non capiscono me, sanno solo che cerco conchiglie e così iniziano a raccoglierle e le mettono nella gonna che ho ripiegato all’uopo. Ne consegue che dopo un po’ nella gonna non c’è più spazio e non riesco a tenerle tutte, allora gli faccio capire che va bene così e mi defilo, non prima di aver fatto loro una foto. Al rientro a Stone Town decidiamo di sperimentare la cena alle bancarelle al porto, cioè dei banchetti dove cucinano il pesce lì per lì. Il tutto è molto pittoresco e romantico. Non sarà il massimo dell’igiene, ma credetemi il palato e lo stomaco vi ringrazieranno! Al buio del porto, illuminato solo da qualche lampada a olio, una fila di banchetti espongono spiedini e tranci di pesci e crostacei di tutti i tipi, pane, chapati (una gustosa piadina araba), verdure fresche. Per pochi dollari ci si fa un bel piatto di tutto un po’. Se ci penso ho ancora l’acquolina in bocca! Davanti ai banchetti di pesce ci sono degli artigiani che vendono di tutto, magliette, collanine, mobilio vero e proprio, si può contrattare e insistendo si riesce ad avere dei buoni prezzi. Tra i vari mercanti si aggira anche un ragazzo rasta che vorrebbe venderci dell’erba. Deve essersi fatto male a una gamba perché è leggermente claudicante. Dopo aver contrattato compro una sedia e un treppiede, torno in albergo stanca ma euforica, facendo lo slalom tra gli insetti che mi tagliano la strada. Altra notte sotto la zanzariera, altro muezzin alle 5 di mattina, altra colazione con calma, altro tour. Stavolta si tratta del tour delle isole, cioè di 3 isole disabitate nelle immediate vicinanze di Zanzibar. La prima è una lingua di sabbia bianchissima che spunta in mezzo all’oceano, un vero paradiso in miniatura dove ci rilassiamo per circa un’oretta. È affascinante vedere il mare che si “richiude” da due direzioni diverse su questa striscia bianca. La seconda isola è molto più grande e tutta via è disabitata. C’è molta vegetazione ed è comunque un atollo corallino anch’essa perché speroni di roccia spuntano dalla sabbia, e se ne vede molto di più nell’acqua. Ci sono scheletri di ricci di mare giganti, peccato siano così fragili perché sarebbero un bel “bottino”. Mi limito a comporli in maniera vagamente artistica e a fotografarli. Il sole è a picco, l’indomani avrò le gambe tutte bruciacchiate. Francesco si fa un bel taglio su una mano tentando di aprire una noce di cocco e deve tornare a Stone Town per farsi medicare. Noi restiamo lì a goderci la “nostra” isoletta tropicale disabitata. Però dopo un po’ mi rompo e quindi mi unisco a quanti visitano l’ultima isola del tour, e cioè l’isola delle tartarughe. Si tratta di un ricovero per tartarughe dalle rispettabili dimensioni che mangiano con gusto i calici dei fiori ma se non si pone attenzione sgranocchiano anche i lembi dei vestiti. Alle sera torniamo in albergo dove c’è Francesco con la mano fasciata, pare che il medico sia un italiano che si è trasferito lì, e poi andiamo a cena da Fisherman dove ci abbuffiamo di pesce a prezzi contenuti. Sperimento la mia prima (e credo anche ultima) mezza aragosta e una gustosa quanto mostruosa mezza cicala. Gironzoliamo un po’ per Stone Town a piedi, è una città poliedrica, ricca e povera insieme. Bella e trascurata, fiabesca e crudamente reale. Ad ogni modo è un posto dove tornerei, se non altro per conoscerla meglio. Purtroppo ci sono molti locali alla moda che la snaturano (gelaterie, bar, ristoranti), dove gli abitanti del luogo non andrebbero mai se non per lavorare, e per la verità neanche io.

17 Agosto: ultimo giorno in questo splendido atollo, oggi vedremo le piantagioni di spezie. Il pullman che dovrebbe portarci si fa attendere un po’ e io ne approfitto per gironzolare nei negozietti lì intorno. Evidentemente mi trattengo un po’ troppo perché quando torno di fronte all’agenzia non ci trovo più nessuno! Incredibile, i miei compagni mi hanno lasciata a piedi da sola per andare a vedere le piantagioni! Ma io non mi spavento: chiedo a uno degli altri autisti se può portarmi lui lungo la strada del tour dove sicuramente ci ricongiungeremo con l’altro pulmino. Così si parte, ma dopo poche centinaia di metri i miei compagni ci tagliano la strada: si sono accorti che mancavo all’appello e sono tornati a prendermi. Lascio un dollaro di mancia al mio autista personale e lo saluto mentre salgo sull’altro pullman. I miei compagni scherzando me ne dicono di tutti i colori, e io mi difendo “ Credevate di liberarmi di me, eh?”. Smaltita la brutta figura, sono proprio contenta di farmi una passeggiata sotto i palmeti. Le piantagioni non sono certo ordinate come nella nostra valle degli orti, anzi per la verità si fa una certa fatica a distinguere gli arbusti del caffè dal sottobosco più comune. Anche le altre piante sembrano venute su per caso e non sembrano essere state mai potate, senza le guide sarebbe molto difficile per noi capire qual è la pianta del pepe e quella dello zenzero. Il giro è davvero istruttivo e anche divertente, nelle piantagioni ci sono diversi ragazzi che parlano italiano e ci spiegano gli usi che si fanno dei vari frutti. La cosa comica è che tutti gli aromi (pepe, peperoncino, noce moscata, zenzero ecc.) oltre alle loro proprietà intrinseche più o meno conosciute, sono considerati degli ottimi afrodisiaci per uomo o per donna, a seconda! Per prima cosa ci portano a vedere una pianta che ha un frutto dai semi rosso acceso, ne apre uno e dipinge un puntino rosso sulla fronte di ognuno di noi. Ci spiega che molto spesso nella cucina zanzibarina si fa uso di coloranti naturali e che comunque gli usi sono molteplici (è buon pure come rossetto nonché come afrodisiaco). Il pepe? Stimolante e energetico, buono per l’uomo. Il peperoncino? Vasodilatatore, antisettico, energetico, buono per uomini e donne. Lo zenzero è una panacea contro tutti i mali e, tanto per cambiare, un potente afrodisiaco. E per finire lo stimolante tutto femminile: la noce moscata, che a sentire il “cicerone” dovrebbe essere molto potente (donne prendete nota). Eros a parte l’albero è piuttosto ornamentale: il tronco è liscio e la chioma tonda è verde intenso e rigogliosa. Davvero un gran “fusto”.

Ci offrono anche un delizioso spuntino a base di cocco che staccano e bucano davanti ai nostri occhi con una specie di piccolo machete, dopo essersi arrampicati sulle palme usando solo i piedi nudi e una cinta apposita che li lega al fusto dell’albero. I ragazzi sono anche molto abili nel creare oggetti vari intrecciando utilizzando le foglie del cocco o dell’ananas: cravatte, borsette, ventagli, cappelli, addirittura degli “occhiali da sole”! A un bambino piccolissimo, che incredibilmente capisce l’inglese, chiedo di farmi vedere l’arbusto del caffè. Lui sparisce in un baleno e dopo un po’ mi raggiunge con un rametto del mio cespuglio preferito. Nella piantagione ci sono anche le modeste abitazioni dei coltivatori, resto incantata ad ascoltare una giovane mamma sorridente che canta “Jambo buana” al figlio piccolo. Rientreremo a Stone Town solo nel tardo pomeriggio, dove avremo il tempo di gironzolare ancora un po’ prima di prepararci per la partenza (almeno una buona parte di noi). Invidio un po’ quelli che resteranno ancora per una settimana. Trovo il nastro di Mr Hebbo e lo compro, è un bel ricordo da portare in Italia, e la sera ci godiamo per l’ultima volta il lungomare di Zanzibar coi suoi lumini a olio, i venditori, i ragazzi rasta, i suoi vicoli non troppo puliti, la sua atmosfera gioiosa e malinconica insieme. L’ultima notte è davvero triste, non avrei mai pensato che questo posto potesse prendermi così tanto. Sono proprio scontenta di ripartire, Zanzibar e la Tanzania meritavano un soggiorno ben più lungo. Il 18 Agosto ci svegliamo di buon’ora, ma stavolta per ripartire e salutare per l’ultima volta questo continente meraviglioso. Aspettiamo a lungo i taxi che sarebbero dovuti venire a prenderci ma alle 5.30 capiamo che qualcosa non va e così Francesco fa una corsa all’agenzia dove si arrabbia (giustamente) con chi di dovere e ci chiamano altri taxi. Arriviamo giusto in tempo in aeroporto dove sbrighiamo tutte le formalità doganali, paghiamo 20 dollari di tassa per che cosa non si sa. Veniamo anche perquisiti: le donne vengono passate al setaccio da un donnone di due metri velato dalla testa ai piedi, la quale confonde Patrizia per un ragazzo e la manda dal collega uomo, il quale la rimanda indietro e quando la mia amica capisce che continuano a scambiarla per un ragazzo tuona un sonoro “ MA VAFF…” con accento milanese da far tremare tutto l’aeroporto. Diciamo loro che è una ragazza, passa la perquisizione e saliamo sull’aereo. Durante il tragitto abbiamo tempo e modo di ripercorrere le tappe di tutto questo viaggio e sono felice di vedere che l’entusiasmo non è solo il mio. Sono tutti soddisfatti, anche malgrado gli incidenti alle macchine, i campeggi spartani e l’incursione della iena.

Cosa mi ha lasciato questo viaggio? Il vero mal d’Africa, dal momento che da quando sono tornata non ho fatto altro che sperare di tornarci. Il ricordo del canto dell’usignolo, il ricordo dei miliardi di stelle che ci facevano compagnia la sera nei campeggi. Il ricordo della diversità delle genti africane, il loro orgoglio, la loro pelle, i loro sorrisi. La bellezza di vedere gli animali liberi nel loro habitat. La maestosità della natura. Ma anche il pensiero che a poche ore di volo da noi c’è una miriade di gente che muore per l’AIDS e la malnutrizione, vestita di stracci, che ha bisogno di penne e carta come noi di un telefono o una macchina. È incredibile come lo spirito africano, così cosciente della propria fragilità, riesca sempre a intonare canti come “Jambo buana”, in cui una persona dice all’altra “Tanzanìa, akuna matata”.

Poche dritte per chi voglia intraprendere lo stesso viaggio: innanzitutto ci vuole spirito di adattamento alle condizioni igieniche e di viaggio in generale che sono molto diverse dalle nostre. Chi non ama i viaggi scomodi e va in paranoia senza una stanza con bagno farebbe meglio a scegliere un’altra destinazione o quanto meno ripiegare sui lodge. Niente da dire sulle vaccinazioni: io ho fatto tutte quelle che alla USL mi hanno consigliato e non ho avuto problemi di sorta, solo un po’ di male alle braccia poche ore dopo le punture, tuttavia la vaccinazione contro la febbre gialla (che comunque è obbligatoria) e la profilassi antimalarica dovrebbero essere sufficienti. Questo ad ogni modo deve stabilirlo un dottore. Le raccomandazioni sono sempre le stesse e buone per ogni luogo: evitare di bere acqua non bollita e mangiare frutta e verdure fresca che sicuramente è stata lavata così. In più è fondamentale difendersi dalle punture degli insetti, perciò bisogna avere sempre con sé un buon repellente e indossare vestiti con maniche lunghe quando possibile. Portare con sé delle medicine per i casi di emergenza quali diarrea, gastrite, mal di testa, un disinfettante e una scatola di cerotti.

I parchi sono piuttosto in alto e perciò è bene mettere in valigia almeno una felpa e un paio di pantaloni lunghi, nonchè un k-way ripiegabile perché potrebbe piovere. L’abbigliamento ideale sono i pantaloni con parecchie zip che si possono accorciare e allungare con facilità.

Credo che sia indispensabile tenere a portata di mano del burro di cacao e una crema da mettere sul viso e le mani poiché la sabbia secca tantissimo la pelle, avere occhiali da sole e una buona crema con alto fattore di protezione da spalmare sul naso e le orecchie. Non sembra ma il sole picchia molto e con l’aria fredda non è facile accorgersene, i risultati si vedono alla mattina successiva…In più è un’ottima cosa avere con sé una bandana o meglio ancora una sciarpa piuttosto lunga da poter usare come “turbante”, il vento sulle jeep non dà scampo! Per il campeggio è bene avere una buona torcia o una di quelle luci che si indossano come una fascia per capelli (quelle del dentista, per intenderci), le mini torce alla X-files saranno scenografiche ma non servono proprio a niente. Non mettere mai del cibo di alcun genere nella tenda, solo in questo modo si eviteranno visite indesiderate. Inoltre è bene non lasciare mai macchine fotografiche e soldi nelle tende. Per la notte il sacco a pelo è sempre stato sufficiente a scaldarmi. La tenda coi picchetti pesa circa 3 kg quindi è il caso di mettere in valigia davvero solo quanto serve o poco più per non appesantire ulteriormente il bagaglio, che comunque viene fatto e disfatto spesso. Il campeggio non offre particolare “privacy” e perciò un telo di spugna o un accappatoio leggero sono indispensabili nel viavai tra la tenda e la doccia. Le salviettine igieniche e profumate sono molto utili in mancanza d’acqua (molto spesso) e per proteggersi dai cattivi odori delle latrine. Infine bisogna stare attenti alle macchine fotografiche che qui si riempiono letteralmente di polvere, meglio avere con sé una piccola spazzola per pulirle all’interno.

Per quello che riguarda furti o incidenti “diplomatici”, noi non ne abbiamo subiti. I tanzaniani sono molto rispettosi, basta non mostrare i soldi contanti e comunque indossare accessori che non limitino troppo i movimenti. Portare con sé delle penne e quaderni da regalare ai bambini è doveroso, ma è meglio regalarli in compagnia di una delle guide locali per tentare un approccio coi bambini e limitare gli “assalti”. Buono anche il rapporto che hanno con le donne bianche: sebbene mostrano di apprezzare, nessuna di noi è mai stata infastidita. È una buona regola comunque vestire in maniera “decente” soprattutto nelle città dove ci sono le moschee.

I prezzi degli articoli artigianali masai e non sono abbastanza contenuti nelle zone lontane dai circuiti del turismo e in città dove c’è più concorrenza, per esempio si fanno buonissimi affari contrattando coi masai incontrati per strada piuttosto che con quelli del villaggio a Seronera. È d’obbligo la contrattazione. Il prezzo medio di un ingresso in uno dei parchi è di 30$, lo stesso per pernottare nei campeggi, anche quelli più spartani. I lodge non costano molto di più, questa anomalia dei prezzi è giustificata dal “capriccio” del bianco che potrà raccontare, al suo rientro, di aver dormito nei parchi circondato dalle bestie feroci. È meglio avere con sé degli scellini piuttosto che dei dollari perché specialmente nell’entroterra non è facile per i locali cambiarli. A Zanzibar si accettano dollari americani senza problemi. Lasciare una mancia agli autisti e ai ragazzi delle piantagioni è gesto gradito.

Auguro buon viaggio (non senza una punta d’invidia) a tutte le persone che ci andranno o stanno per tornarci, vedrete che starete una favola…Tanzania Akuna Matata, Jambo!



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