Io Giorgio e l’Amercia

IO, GIORGIO E L’AMERICA A Rino ed Antonella (loro sanno perché) ------------ Riflessioni: In generale gli americani che incontriamo sono subito accoglienti. Basta avere una cartina in mano perché qualcuno si fermi e proponga il proprio aiuto, basta fermare la macchina sul ciglio della strada perché qualcuno si offra di dare una...
Scritto da: MIchelaBi
io giorgio e l'amercia
Partenza il: 08/08/2009
Ritorno il: 24/08/2009
Viaggiatori: in coppia
IO, GIORGIO E L’AMERICA A Rino ed Antonella (loro sanno perché) ———— Riflessioni: In generale gli americani che incontriamo sono subito accoglienti. Basta avere una cartina in mano perché qualcuno si fermi e proponga il proprio aiuto, basta fermare la macchina sul ciglio della strada perché qualcuno si offra di dare una mano. Appena sanno che veniamo dall’Italia iniziano a cercare immancabilmente di parlare italiano, se va bene, o, in alternativa, spagnolo, portoghese e francese. A volte anche tutte queste lingue assieme. Finita la sequenza di “buonna serrra”, “como sta”, “spagheddi” e “buono il capuccino” si passa alla sezione “vacanze” con l’enumerazione di tutte le località visitate in una vita. Solo dopo questa trafila si inizia a parlare come le persone normali in modo più comprensibile. Per loro. Per noi molto spesso quello che ci dicono rimane un mistero. Altra cosa che mi ha colpito degli americani, soprattutto a San Francisco, è la difficoltà nel riconoscere l’età delle persone, sia per gli uomini che per le donne. Più volte mi sono ritrovata a chiedermi se la persona che avevo davanti avesse trent’anni e alle spalle un’adolescenza passata tra droghe e alcool, oppure ne avesse 80 ed il miglior chirurgo estetico del mondo. Altra cosa che mi ha colpito dell’America è stato l’orizzonte: sconfinato, a perdita d’occhio. E’ un paese dove basta uscire dalle città per essere immersi in una natura dove tutto è grande, maestoso, dove anche un semplice temporale può avere effetti devastanti. Abituati come siamo alla dolcezza del Mediterraneo, facciamo fatica ad immaginare quanto pericolose possano essere le forze della natura, come il sole ti possa letteralmente cuocere nel deserto, o come una semplice onda (la fatidica flash flood) possa travolgere persone e cose in pochi istanti. Eppure è così, ed è bello anche per questo. Sinteticamente possiamo dire: è un paese fatto come tutti gli altri di alberi, mare, montagne… solo tutto più grande… anzi, MOLTO PIU’ GRANDE. NOTE GENERALI: Nel preparare l’itinerario abbiamo fondamentalmente tenuto conto di una cosa: visto che i chilometri da percorrere in macchina sono veramente tanti, abbiamo cercato di renderli meno monotoni e meno pesanti possibile spezzandoli con visite a posti meno conosciuti ma che si sono rivelati a volte delle vere sorprese, come la Goblin Valley, oppure cercando di percorrere, laddove possibile, delle scenic byway, come la UT 12 e UT24, che hanno reso le soste molto più di un semplice sgranchirsi le gambe. E’ inoltre di fondamentale importanza tener sempre presente che non siamo sulle nostre autostrade dove ogni 500 metri ci aspetta un accogliente autogrill: in questa parte di America le aree di ristoro sono veramente poche, lontanissime una dall’altra, e se si vuole avere un viaggio confortevole, bisogna approfittare di ogni occasione per fare scorta di acqua, viveri e benzina. Altra scelta che si è rivelata vincente è stata l’alternare la visita alle città (San Francisco, Las Vegas, Los Angeles) ai grandi parchi; innanzi tutto la varietà è garantita, e dopo giorni trascorsi in motel senza pretese vi assicuro che un letto king size ed una doccia che vi fa uno scrub al primo getto vi sembreranno coccole da centro benessere. Azzeccata è stata anche la scelta degli orari; sicuramente non è stato un viaggio riposante, ma il fatto di non poltrire la mattina è stato ampiamente ripagato da quello che abbiamo visto, per cui, anche a posteriori, confermo la scelta di partire sempre verso le 8.00, 8.30, in modo da poter visitare i parchi nel pomeriggio e soprattutto nelle ore più belle, dalle 16.00 in poi, quando una luce dorata rende più morbida questa natura che sembra creata per stupire. Consiglio, infine, di tenersi almeno un paio di giorni, al rientro, per recuperare. Non tanto per il jet lag, che almeno nel mio caso, non ha alcun effetto (dormo pochissimo a letto, ma fuori casa potrei dormire in mezzo a una guerra), quanto piuttosto per il calo di adrenalina: fin che eravamo in viaggio, infatti, ci sentivamo in piena forma, ma al ritorno, passata l’euforia, ci sembrava di essere reduci da un’influenza. Dormire in America è facile: i motel sono accoglienti e in genere abbastanza puliti. Esiste poi la possibilità di staccare e compilare dei coupons dai giornaletti distribuiti gratuitamente nei supermercati, che, se presentati nei motels, danno diritto a degli sconti. In genere, però, vale la regola non scritta che più tardi arrivi, più paghi. Discorso diverso a Las Vegas, dove si possono cogliere offerte veramente vantaggiose durante la settimana, ad esclusione del venerdì e del sabato. Se però, come noi, andate negli States nel mese di agosto, fate molta attenzione: trovare posto all’ultimo momento potrebbe davvero essere difficoltoso, ed in un paio di occasioni abbiamo davvero rischiato di dormire in macchina. Un viaggio come questo, che prevede così tanti spostamenti e tanti chilometri, deve essere per forza di cose organizzato nelle sue tappe, al fine di vedere quante più cose possibile e di ridurre le perdite di tempo. Tuttavia, mi sento di dire che il detto “il viaggio comincia quando si sbaglia la prima strada” non potrebbe in questo caso essere più azzeccato. A volte proprio l’imprevisto regala momenti esilaranti ed incontri inaspettati, compensando largamente il tempo perso. Venezia-San Francisco (stop a Philadelphia) Partenza ore 11.35 – volo US AIR Dopo tanto pianificare, aggiungere/togliere/riaggiungere, il fatidico momento della partenza è giunto. Incredibilmente, una volta saliti sull’aereo, tutte le forze del destino che fino all’ultimo sembravano non volerci far partire neanche morti sembrano placarsi e tutto funziona come dovrebbe. Gli aerei sono puntuali, i posti sono decenti e tutto sembra andare come dovrebbe, in un’armonia celestiale. Insomma… una meraviglia! 9-10 AGOSTO 2009 • SAN FRANCISCO Ripresici dal volo e dal jet lag, quale modo migliore di cominciare il nostro american dream con la più “liberal” delle città americane? Ed eccoci quindi a conoscere San Francisco! Se dovessi definire San Francisco in poche parole, direi che è una “città a gobbe”; sono infatti circa una cinquantina le colline su cui sorge e questo fa sì che il mio senso di orientamento, già scarso di suo devo dire, poggiato su principi elementari quali ai-piedi-della-collina-si-trova-il-mare, viene messo a dura prova da questa giostra naturale più vicina al progetto di un otto volante che all’idea di una città. Questi continui saliscendi (da preparazione olimpica i sali, più piacevoli i scendi) regalano continui e sorprendenti scorci da cartolina di questa che è veramente la più europea delle città americane. E’ come dire tante città in una, data la diversità dei suoi quartieri. Bellissima la zona di CHINATOWN, sede di una delle più grosse comunità cinesi. Per chi ama le statistiche: 1 cittadino su 4 è cinese. La costruzione della ferrovia ha richiamato infatti moltitudini di asiatici che alla fine hanno scelto di rimanere. Le dimensioni del quartiere (o forse sarebbe meglio dire città…?) consentono quindi una totale immersione nella civiltà orientale, tanto che ci si dimentica di essere nel cuore della West Coast. Qui parole come integrazione, progresso, fusione, sembrano del tutto prive di significato. Interessante: la scritta “made in China”, da noi molto spesso sinonimo di prodotti a basso prezzo, qui viene apposta con orgoglio, come imparo a mie spese quando la indico sorridendo a mio marito nientemeno che sui LEONI DAVANTI AL TEMPIO e vengo subito guardata con occhi di fuoco da un passante. Quando si dice italiani all’estero, eh? Bellissima anche la zona di ALAMO SQUARE, dove si trovano le PAINTED LADIES, case vittoriane da milioni di dollari, da vedere possibilmente al tramonto. CASTRO è forse il quartiere che ci è piaciuto di più. Cuore della vita gay, è un po’ la Pigalle di S.F. Per i suoi negozi di “toys” per adulti e completini sado-maso dernier cri. Da visitare il tardo pomeriggio o la sera, perché è pieno di vita, di gallerie d’arte e di ristoranti in cui si mangia davvero molto bene. Ambienti molto curati, camerieri gentili e prezzi accessibili a tutti. Promossi a pieni voti. Qui assistiamo per la prima volta allo spreco che, spiace dirlo, caratterizza un po’ questo popolo. Al tavolo accanto a noi siede una coppia di ragazzi, sui vent’anni circa: dopo aver divorato pane a volontà, coprendolo ben bene di burro sennò gli restava la fame, ordinano un piatto di spaghetti al ragù che ovviamente toccano appena (e vorrei vedere, con il chilo di pane che hanno sullo stomaco); poi ci ripensano e cosa ti ordinano? Due belle pizze con sopra, credo, la spesa di una settimana del ristorante. Il tutto si conclude con una bella fettona di torta 15x20x25 ed un bel pacchetto di avanzi da portar via. Evidentemente ordinare quello che si è in grado di mangiare non è un’opzione prevista. In conclusione:10+ a THE SAUSAGES FACTORY: ottima la pizza. FISHERMAN WHARF è il vecchio quartiere di fabbriche e pescatori. Ristoranti dove i granchi sono il piatto forte, giostre e mini acquario, negozi di tutti i generi ed anche una colonia di leoni marini che dimora e rumoreggia sui pontoni del molo: la zona del porto è tutto questo. Pacchiana, caotica, fredda e ventosa, trova il suo acme nel suo molo più famoso, il PIER 39, turisticissimo e sopra le righe al punto tale che il mega granchio coperto di erba verde (inimmaginabile perché di troppo anche nel giardino di Michael Jackson), sembra lì del tutto naturale e perfettamente in linea con il resto del posto. Se sopravviverete ai granchi, al gelato, alla cioccolata, alle bibitone ghiacciate che aiutate da questo vento gelido fanno gridare vendetta al vostro intestino, potrete godere degli artisti di strada che si trovano ad ogni angolo: potrete incontrare Batman in carne ed ossa di tutte le età e dimensioni (soprattutto della pancia), mimi perfetti nella loro immobilità (o forse trattasi dei primi segni dell’assideramento), o di moderni menestrelli come quello che abbiamo incontrato noi che suonava “Like a rolling stone” con tamburi, tamburelli, la chitarra, una spinetta e contemporaneamente ci provava con una bionda e fascinosa turista. Se il PIER 39 è il molo più famoso, non è certo l’unico. Ve ne sono infatti altri, come il PIER 45, dove hanno trovato riparo un veliero dell’800, un sommergibile sopravvissuto a Pearl Harbour (l’USS PAMPANITO) ed una nave da guerra, la JEREMIAH O’BRIEN; questi ultimi erano operativi nella seconda guerra mondiale e sono attualmente visitabili a circa 9$ l’uno. LOMBARD STREET è la strada più tortuosa del mondo, con 8 tornanti consecutivi. Si trova nel quartiere di Russian Hill, tra Hyde e Leavenworth. Presi dall’entusiasmo, noi decidiamo di arrivarci dal basso: dopo aver reso l’anima a Dio almeno 3 volte, dopo aver espiato con questa salita tutte le colpe passate, presenti e future, ed esserci, a voler essere spirituali, guadagnati una fetta di Paradiso (la salita, in effetti, ricorda molto l’ascesa al cielo), veniamo ripagati dallo spettacolo dei verdi tornanti e della ripidissima discesa al mare. Mentre ci fermiamo a riprendere fiato, godendo meschinamente della vista dei turisti che ancora si affannano nella salita, il passaggio di un centauro su una Harley Davidson crea un fremito tra i presenti. Il suo grido di “uh-uh” scatena un applauso al quale ci uniamo anche noi. Ancora non sappiamo che la vista di questi centauri sarebbe diventata uno spettacolo comune di lì a poco. GOLDEN GATE… che dire? E’ semplicemente me-ra-vi-glio-so. Collega S.F. Alla Bay area, dove si trova la cittadina di Sausalito (città natale di Carlos Santana e dove risiede attualmente Isabel Allende). Decidiamo di attraversarlo a piedi (è lungo circa 2,5 km) per fermarci ad ammirare le barche ed i kitesurfers sotto il ponte. Nebbia permettendo, è il punto ideale per fare foto del centro della città con i suoi grattacieli ed i suoi saliscendi. Mentre io adotto un look da omino michelin indossando uno sopra l’altro TUTTO quello che mi sono portata dall’Italia, mi sfrecciano accanto joggers in canottiera e shorts, con tanto di fascetta assorbi sudore; confusa e umiliata, non posso fare altro che rassegnarmi questo strano clima, dove la nebbia da Bassa Padana non viene, per qualche inspiegabile motivo, spazzata via dalle sferzate di un vento che pure riesce a strapparti i capelli. Da visitare assolutamente anche la base del ponte, ai piedi dei piloni, dove è stata girata la scena più famosa de LA DONNA CHE VISSE DUE VOLTE di Hitchcock. All’estremità del ponte si trova IL PRESIDIO, ex zona militare dove è stato, tra l’altro, girato l’omonimo film con Sean Connery e Meg Ryan pre lifting. Bellissimo parco con costruzioni bianche e giardinetti zen, ospita attualmente, tra gli altri, il LETTERMAN DIGITAL ARTS CENTER di George Lucas; la statua di Yoda ci accoglie davanti all’entrata del centro, fondato nel 2005, che contiene varie sezioni dedicate a Guerre Stellari. Si trova tra Chestnut e Lion Street, nella sezione B, ed è interamente visitabile nel normale orario d’ufficio. Noi naturalmente ci andiamo di domenica, quando il centro è chiuso, ma riusciamo comunque a scattare delle bellissime foto attraverso le enormi vetrate, riprendendo, tra gli altri, Boba Fett (io neanche so chi sia, ma il mio cinefilo maritino è quasi caduto in ginocchio.) NORTH BEACH è il quartiere italiano, residenza adottiva di Kerouac e Ginzberg. Qui è nato il movimento della beat generation e vi si respirava nebbia ed ingegno; oggi le tradizioni sono un po’ cambiate, e per quello che abbiamo visto i locali con le ballerine nude hanno sostituito le librerie. SORPRESE: l’avevo letto ed un po’ ero preparata… ma la sorpresa c’è stata comunque: A SAN FRANCISCO, D’ESTATE, FA FREDDO!!!! Ma un freddo intenso, che ti penetra nelle ossa, fatto di vento e di umidità e dove il sole, che incredibilmente ti scotta il viso, non riesce però a scaldarti. Sapeva il fatto suo Mark Twain quando disse “l’inverno più freddo che ho vissuto è stata l’estate a San Francisco”. DA NON PERDERE: il tramonto sulle panchine di fronte al Golden Gate, lungo i sentieri che dalle fermate del bus portano verso il lungo baia; un giro in cable car, (d’obbligo la linea Powell-Hide, la più spettacolare, che attraversa le strade più ripide e da dove si possono vedere la baia ed il penitenziario di Alcatraz, per poi scendere fino al Fisherman Wharf); mangiare i granchi nei baracchini davanti ai ristoranti. RIMPIANTI: Non essere andati all’ Asia SF, al 201 della nona strada, un vivace ristorante con i camerieri travestiti che fra una portata e l’altra cantano in playback sul bancone del bar. Per chi ha tempo: TWIN PEAKS (sì, proprio quella di Laura Palmer); bisogna fare un bel po’ di strada, ma la panoramica merita il viaggio. NOTE TECNICHE: è consigliabile dormire nella zona del porto oppure nella zona di Union Square. Noi abbiamo optato per quest’ultima, centralissima, comoda, piena di vita di giorno e di notte. Buona ma non ottima la scelta dell’Hotel Diva: è un po’ del genere vorrei ma non posso. Per la visita all’isola di Alcatraz (che noi non abbiamo fatto per motivi di tempo), è possibile consultare il sito www.blueandgoldfleet.com, unica compagnia autorizzata ad effettuare visite all’interno del carcere. I biglietti si possono (e si devono) prenotare via Internet, pena attese interminabili per accedere all’unica corsa disponibile con biglietti in vendita al momento. Per tutte le altre corse occorre invece aver acquistato i biglietti in precedenza. E’ possibile girare la città con i tipici cable car (tram a cremagliera) e muni (autobus cittadini). Il Muni Passport vale 3 giorni, costa 18 dollari e permette di muoversi su tutti i mezzi pubblici, cable cars e F-Line compresi. Per attrazioni/musei: il City Pass permette l’accesso al S.F. Museum of Modern Art, l’Exploratorium, cioè la città della scienza, dove si possono fare esperimenti di simulazione, la California Academy of Sciences, l’Asian Art Museum, l’Acquario, oltre ad una gita in battello sulla baia. 11 AGOSTO 2009 OBIETTIVO: VISITA DELLO YOSEMITE PARK Nel dettaglio: San Francisco-Mariposa 270 km (3 ore) e poi visita al parco. Dormire a Bishop, in modo da avvicinarsi alla Death Valley 250 km (3 ore). Totale km/giorno previsti: 520 NELLA REALTA’: San Francisco – Mariposa – Mammoth Lake Lasciamo l’Hotel Diva (senza infamia e senza lode) e dopo la consueta colazione da Starbuck’s, andiamo alla Hertz per ritirare la nostra auto prenotata dall’Italia. Considerando la prenotazione già fatta, la strada, davvero poca, dall’hotel al noleggio, il tempo previsto per l’operazione è di 15 minuti d’orologio. In realtà, l’operazione si rivela molto più complicata del previsto e ci impieghiamo circa 3 ore. Vuoi per la fila lunga ed interminabile, vuoi per la mancanza di auto (occorre aspettare che qualcuno la riporti e che sia fatto un lavaggio seppur sommario), vuoi per l’impiegata meno comprensibile del mondo, fatto sta che mentre io barcollo all’esterno come una canna sferzata dal vento, socializzando con altri italiani disgraziati come me, mio marito è costretto a fornire nuovamente tutte le informazioni all’interno, come se la prenotazione non fosse mai avvenuta. In realtà, quella che inizialmente appariva come un difetto di pronuncia dell’impiegata, si è rivelato alla fine una micidiale strategia di marketing: stanco di chiedere di ripetere e di parlare più lentamente, il mio maritino, (il Giorgio del titolo) ha finito per dire sì a qualsiasi cosa gli venisse chiesta pur di uscire da quell’ufficio, lasciandoci non poco preoccupati per la nostra carta di credito. Alla fine, comunque, la nostra pazienza viene premiata ed entriamo nella nostra Hunday Sonata e dopo esserci persi un po’ per S.F. Partiamo per il resto del nostro viaggio. N.B.: Tutte le indicazioni stradali in America si basano su indicazioni elementari come i punti cardinali, per cui diventa imprescindibile conoscere in ogni momento la direzione che si intende prendere. Detto questo, può davvero essere di aiuto sapere prima che le lettere che appaiono sullo specchietto retrovisore, come ad esempio N, NE, SW indicano la direzione rispettivamente nord, nordest e sudovest e che mai, in nessun caso, sono la marca del fabbricante. OOOPS!! Dopo circa 3 ore di viaggio raggiungiamo YOSEMITE PARK, dove veniamo accolti, all’entrata, da uno zelante ranger con tanto di cappello e di bermuda da boy scout; difficile rimanere seri, ma dopo un po’ ci facciamo l’abitudine. Qui facciamo l’EAGLE PASS, sorta di abbonamento che ci permetterà di entrare in tutti i parchi nazionali, che nel nostro itinerario sono davvero tanti. Il parco non ci colpisce molto e lo vediamo un po’ di corsa. Sono paesaggi che già conosciamo, anche se in misura ridotta e francamente, le nostre montagne non hanno proprio nulla da invidiare. Dato che per mancanza di tempo non riusciremo a vedere il parco delle sequoie, decidiamo di spingerci fino a MARIPOSA GROOVE, sempre all’interno di Yosemite, per farci almeno un’idea. Immancabili le foto sotto a questi giganti, nel vano tentativo di abbracciarli. Non sarà originale, ma fino a che non ti metti ai piedi di questi esseri secolari non ti rendi conto delle dimensioni. Nel complesso troviamo che il parco sia un po’ sporco, poco curato, sicuramente a causa delle enormi dimensioni. Nonostante non siamo particolarmente impressionati, ci attardiamo senza accorgercene e ci perdiamo come Pollicino nel bosco, senza neanche l’aiuto dei sassolini. La cartina fornitaci all’entrata dal ranger non ci è di grande sostegno o più che altro siamo noi che non vogliamo rassegnarci a credere di essere ancora così lontani dalla nostra meta successiva. Alla fine ci dobbiamo arrendere e chiedere informazioni ad un passante e finiamo per arrivare piuttosto tardi a Mammoth Lake, la zona dei laghi. Crolliamo stanchi ma felici al SIERRA NEVADA RODEWAY INN, dove al prezzo di 107,00$ abbiamo una camera in perfetto stile Val Brembana con colazione. Cena nel MacDonald più triste del mondo, unico posto ancora aperto alle 9 di sera, dove una cameriera, penso muta, riesce a servire noi ed altri italiani sventurati come noi senza pronunciare mezza parola. La mattina ci alziamo abbastanza presto, decisi a non perdere tempo come il giorno prima. Capiamo infatti che quando si devono percorrere lunghe distanze come nel nostro caso, diventa fondamentale evitare lungaggini inutili. Considerato lo stile del posto, con una bella testa d’alce sopra il camino grande come la parete del mio salotto, mi aspetterei che il signore che supervisiona la colazione avesse almeno il cappello di Davy Crockett… o che ci offrisse almeno un cestino a portar via di polenta taragna con salsiccia e gorgonzola per il viaggio… stupisce non poco, invece, che sui tavolini di plastica (tocco di classe) trovi posto una bottiglia apparentemente di lacca per capelli, in lucido alluminio, che solo dopo un sospettoso ed attento esame si rivela essere il contenitore del burro fuso. Qui abbiamo il primo impatto di quella che sarà la colazione tipica negli hotel, naturalmente dove prevista, e che impariamo presto ad evitare: caffè, anzi no, acqua sporca, formaggio di plastica, prosciutto fosforescente, succo e via andare. Facciamo un giro veloce per Mammoth Lake, fotografiamo l’enorme mammouth che ne caratterizza la piazza, facciamo scorta di junk food e partiamo finalmente alla volta della vera America, desiderosi di orizzonti infiniti, di strade solitarie e finalmente… di CALDO!!!!

12 AGOSTO 2009 Programma del giorno: visitare la Death Valley ed arrivare la sera a Las Vegas per godersi la visione dal deserto di questa città dalle mille luci Nel dettaglio: Bishop (sostituito da Mammoth Lake) – Furnace Creek 250 km (3 ore) Furnace Creek – Las Vegas 210 km (2.5 ore) Totale km/giorno: 460 Dopo aver dato un’occhiata veloce a Bishop, ci fermiamo a mangiare a Lone Pine, caratteristica quanto minuscola cittadina in perfetto stile far west. Decidiamo di fermarci da FACTORY PIZZA, e la scelta si rivela davvero vincente. Le pareti del locale sono coperte di foto di attori famosi, a partire da The Duke (Jhon Wayne) e Gregory Peck ci riempiamo gli occhi di questi pezzetti di storia cinematografica. Le pizzaiole sono tutte donne e roteano per aria pizze davvero giganti dando spettacolo senza averne l’intenzione. Mentre esito davanti alla cassa indecisa sulla dimensione della pizza da ordinare, una cassiera con il sorriso sornione di chi sa il fatto suo soppesa per un momento i miei 50 chili sorridendo e poi se ne esce con un “italian?” e senza attendere risposta parte a razzo con una small. Che non siamo riusciti a finire. In due. Impariamo subito una lezione che ci sarà di grande aiuto anche in seguito: in America non solo la natura è grande, ma anche le porzioni. Se anche voi, come me, non siete usi mangiarvi un bue ad ogni pasto, e non amate nutrirvi di avanzi, vi consiglio di non azzardare più di una porzione medium di ogni cosa: la large potrebbe causarvi serie difficoltà di digestione. Con la pancia piena arriviamo a Furnace Creek, che è si una delle porte della Death Valley, ma che è anche e soprattutto la città natale di Amber, inciuciosissima moglie di Rick Forrester, figlio di Brooke Logan nell’infinita serie Beautiful. Diciamo che se volevamo il caldo, qui lo troviamo. E troviamo anche il sole. Ma non quello a cui siamo abituati noi, che ti scalda e ti rosola sulle nostre spiagge… noooo, qui il sole sembra essere più grande, più vicino e sembra guardarti con l’aria di dire “crepa bastardo!” In realtà la visita alla valle consiste nello spostarsi in macchina da un point of view all’altro, scendere per qualche minuto e poi rientrare di corsa in macchina. Nonostante ciò e nonostante fossimo già abbronzati da mesi di mare, alla sera ci ritroviamo cotti e con le spalle arrossate. Lo sforzo è comunque ampiamente ripagato. Spettacolare la vista da DANTE’S VIEW: da lontano il borace (attualmente usato come detersivo dalle industrie di vetro) sembra quasi un torrente in piena. Incredibili le temperature, davvero soffocanti, a BEDWATER BASIN, il punto più basso, 85 metri sotto il livello del mare, dove l’effetto del sole viene potenziato dal bianco del borace. Surreali le dolci linee di ZABRINSKIE POINT, dove davvero si fa fatica a credere di essere ancora sulla terra e non sulla luna. Ci arriviamo verso le 16.30, con una luce davvero magnifica e decidere di ripartire è davvero arduo. Ma Las Vegas ci aspetta e non possiamo indugiare oltre.. Soprattutto pensando alle comodità del New York New York…. Letto king size, una stanza grande quanto il mio appartamento, un bagno con una doccia da scorticamento cutaneo ed una vista spettacolare dal 21esimo piano… Vorrei vivere qui. 13 AGOSTO 2009 • LAS VEGAS Se penso a Las Vegas, la prima cosa che mi viene in mente è il rumore delle pale degli elicotteri che sorvolano quasi ininterrottamente la città, anche a 5 – 7 contemporaneamente, trasportando turisti a tutte le ore del giorno e della notte. Ma Las Vegas è soprattutto casinò, gioco d’azzardo e, immagino, divertimento. Un’idea ce l’avevamo fatta mano a mano che ci avvicinavamo alla città: tutti i cartelli pubblicitari invitano a giocare in questo o in quell’altra sala, nei supermercati vi sono banconi con slot machines a disposizione dei clienti. In realtà, tutta questa allegria e divertimento io l’ho trovata un po’ forzata: i casinò sono frequentati da vecchie cariatidi rifatte del tipo dietro liceo davanti museo, oppure da turisti sbracatissimi che incarnano perfettamente la definizione di casual americano coniata da Beppe Severgnini: se per gli italiani vestire casual vuol dire vestire sportivo, per gli americani significa cospargersi di colla, buttarsi a pesce nell’armadio e quello che rimane attaccato è quello che sarà indossato, senza alcun senso del colore, della pesantezza o dell’occasione. Ho visto molte persone sole immusonite, giocare addirittura inserendo non soldi ma direttamente la carta di credito nelle slot machines, ho visto persone sovrappeso farsi portare con una sedia a rotelle elettrica (!) da un tavolo di gioco all’altro. Ho visto cameriere “diversamente giovani” (spiace chiamarle vecchie) costrette in improbabili minigonne barcollare su tacchi servendo tavoli occupati da altri disperati… e tutto attorno a questi mega alberghi/casinò altri disgraziati offrono sesso a basso prezzo. Si, perché la tradizione della “strip” continua; il lungo viale ha infatti preso il nome dal caratteristico rumore di questi biglietti con nudi di ragazze che vengono battuti sulla mano da questi “p.r.”, che ne distribuiscono quantità industriali, tanto che ne collezioniamo a pacchetti ad ogni giro. I casinò sono tutti belli e in genere abbastanza ben tenuti. Fine settimana esclusi, offrono inoltre delle offerte veramente incredibili. Ne visitiamo alcuni, i più famosi, pacchiani e roboanti come giostre a tema. Secondo gli architetti avrebbero presumibilmente dovuto rispecchiare i vari paesi (la Francia il Paris, l’Italia il Bellagio e così via), ma in realtà quello che è stato realizzato è solo l’idea che gli americani hanno dei vari paesi. Questa sensazione è ancora più evidente al Venician, per ovvi motivi, dove sorridiamo di fronte alle improbabili acque cristalline di una laguna purtroppo di ben altro colore nella realtà, e ci pieghiamo addirittura in due dal ridere davanti ad un gondoliere asiatico, che si improvvisa anche tenore. Oltre alle ovvie vetrine extra lusso e qui i grandi nomi si sprecano (chanel/prada/versace/gucci/manolo, etc.), ci sono in vendita anche alcune “mise” che per quantità di lustrini-paillettes-volants-svolazzi e risvolti vari trovano un mercato solo a Vegas, o, tutt’al più possono trovare spazio nel guardaroba di Barbie Sontuosità Stellare per essere indossati in occasioni speciali… l’investitura del Sultano del Brunei, forse? O alla festa di compleanno di Renato Zero, magari. Di grande effetto lo spettacolo delle fontane al Bellagio, mentre si può tranquillamente perdere quello dei pirati davanti al Tresor Island. Ci divertiamo molto al museo delle cere, dove trascorriamo un’ora e mezza a fotografarci come bambini con George Cloney, Jennifer Lopez, gli immancabili Tom Jones ed Elvis Presley, insieme a molti altri. Bellissima la vista dalla STRATOSPHERE TOWER: ci si arriva con la circolare (10$ a testa, un vero furto), oppure in taxi (30$, una rapina, vista la distanza). Si sale sulla vetta con un ascensore comprensivo di omino, credo ultra centenario, che per soli 15$ (tanto per proseguire con il taglieggiamento) oltre a spingere il bottone “UP” ti intrattiene con fondamentali informazioni tipo l’altezza della torre, il tempo della salita, etc. I più temerari possono godere delle giostre, davvero da panico, che si trovano sulla sommità. Si può scegliere tra una specie di Blu Vertigo all’ennesima potenza, una sorta di braccio meccanico che ti fa apprezzare di più la vita quando rischi di perderla penzolando nel vuoto ed altre amenità dello stesso genere. Nonostante questo, però, se dovessi per forza citare qualcosa che non mi è piaciuto del nostro viaggio, direi senz’altro Las Vegas. Non ho apprezzato il clima (un phon costantemente puntato addosso, sia di giorno che di notte), contrapposto all’aria condizionata dei casinò, perennemente regolata sotto le zero, in modo da essere sicuri di far fuori qualcuno o almeno di causargli dei seri danni permanenti. Ma non mi è piaciuto soprattutto il senso di tristezza e di squallore che pervade un po’ tutto, dai giocatori alle ballerine nei locali, un po’ come un luna park un po’ scrostato in un giorno di pioggia. 14 AGOSTO 2009 Programma del giorno: * ZION National PARK * BRYCE National park Ovvero, nel dettaglio: Las Vegas – Zion (Springdale) 273 km (3 ore) Springdale – Tropic o Kanab (Bryce C.) 145 km (2 ore) Totale km/giorno: 418 Lasciamo Las Vegas senza rimpianti, anche perché vi faremo ritorno tra qualche giorno. Partiamo invece carichi di entusiasmo alla volta dello Zion National Park, uno dei 5 parchi nazionali dello Utah (visitabile con il park pass, tessera annuale a 80 dollari a veicolo). Vi si arriva lungo una strada di bitume rosso che permette di attraversarlo ma non di visitarlo. Per attraversarlo bisogna infatti utilizzare i loro autobus. Qui abbiamo il nostro primo impatto con il tipico parco americano, fatto di roccia e non di alberi, com’è invece nel nostro immaginario e rimaniamo letteralmente senza fiato, sovrastati da queste tettoie di massi, rapiti da questi sassoni enormi che sembrano posizionati apposta per essere fotografati. Qui la natura si sbizzarrisce davvero e si diverte a creare queste collinette fin troppo simili a colate di purè. Il colore spazia dall’arancione al giallo, fino a sfumature incredibili di mattone. E la cosa più bella, a cui non faremo comunque mai l’abitudine, è che nulla viene recintato, per cui, anche se a proprio rischio e pericolo, è possibile accedere ad ogni anfratto e ad ogni singolo spuntone. Lasciando lo Zion percorrendo la Hwy-9 meglio conosciuta come Zion- Mount Carmel Higway, si può viaggiare su una strada panoramica che regala scorci di paesaggio sulla zona e culmina con un tunnel interrotto da 5 finestre che offrono vedute da cartolina. Sempre beandoci di questa natura e praticamente senza neanche accorgercene, percorriamo le 60 miglia che ci separano dal Bryce Canyon (anch’esso visitabile con l’eagle pass); se crediamo che la nostra giornata abbia già dato il meglio, ci dobbiamo immediatamente ricredere: veniamo infatti immediatamente rapiti dalla vista degli hoodoos, i famosi pinnacoli creati dall’escursione termica ed anche qui i colori, un mix di arancione, rosso e rosa la fanno veramente da padroni. Per percorrerlo c’è un’unica strada, lunga circa 30 km, che va dal visitor center al RAINBOW POINT; lungo il percorso vi sono tante piazzole per fermarsi e fotografare, e credetemi,VI FERMERETE E FOTOGRAFERETE. In ognuna di esse, ogni volta convinti che non vi possa essere nulla di più bello e di più spettacolare. Unica cosa da tener presente è che il parco si ammira dall’alto, ad un’altitudine che varia dai 2018 ai 2748 metri, (d’inverno nevica anche) per cui in alcuni punti può tirare un po’ di vento, che però, non è nemmeno un lontano parente del vento bastardo di San Francisco. Comunque, che dire: una giornata a bocca aperta ed occhi sgranati. 15 AGOSTO 2009 • UT 12 Scenic Byway (70 miglia circa tra Escalante e Torrey) • UT 24 Scenic Byway (perché nella prima parte attraversa Capitol Reef; inizia da Torrey, dove bisogna svoltare verso est) • CAPITOL REEF attraverso la scenic byway interna (9 miglia circa) • GOBLIN VALLEY State Park (a 20 miglia da Hanksville, deviando verso nord/est) • ARCHES National park (arrivando al tramonto) tra Escalante e Torrey Nel dettaglio: Tropic o Kanab – Arches (Moab) 510 km (5-6 ore) Questa è una di quelle giornate di “trasferimento”, vale a dire, uno di quei momenti in cui si deve per forza percorrere un milione di chilometri per raggiungere una meta, nel nostro caso l’Arches National Park. Partendo da questa necessità, abbiamo tentato allora di rendere il viaggio meno monotono percorrendo queste strade panoramiche, che panoramiche lo sono davvero, tanto che si fatica a tenere gli occhi sulla strada quel tanto che basta per non spalmarsi su qualche pezzo di roccia. Percorriamo così chilometri e chilometri, quasi in perfetta solitudine, passando da spazi verdi tipo casa nella prateria, con tanto di cerbiatto che ci viene ad annusare i piedi a zone con insediamenti pseudo indiani dove con pochi dollari puoi trascorrere la notte in tipici tepee. Riusciamo anche a mangiare qualcosa fermandoci in un posto dove fra souvenirs di ogni genere e provenienza permettono di utilizzare il microonde per scaldare (scongelare?!) degli ignobili hot dogs e alla fine, in quest’atmosfera irreale, con la sensazione di vivere una nuova versione di Shreck, dove tutti i mondi di fiaba coesistono e si alternano a scenari da telefilm visti mille volte in tv, percorriamo la panoramica interna al Capitol Reef National Park. E qui veniamo un’altra volta sorpresi: sorpresi dalla forma di queste rocce che ricordano forse più un cremoso budino alla crema che un monte, sorpresi da questo terreno brullo e deserto che in alcuni punti e solo in quelli, vai a capire perché, lascia spazio a degli alberelli che sembrano sfidare anche la forza di gravità. Ed ancora una volta, come ogni volta, questi colori caldi ed incredibili ci costringono ad un milione di foto, entrambi convinti che non potremo mai e poi mai vedere nulla di più bello. Ma si sa, la vita riserva sempre delle sorprese e… voilà! Eccoci alla Goblin Valley State Park. Si tratta di un parco piuttosto piccolo e poco conosciuto e per questo interessante. Appena arriviamo, siamo infatti soltanto in 2, io e mio marito, e questo crea una magia tutta particolare. Si è letteralmente circondati da questi massi dalle forme più inconsuete (si passa dal coniglio gigante ai tre personaggi che ti accolgono all’ingresso, per proseguire con delle figure che sembrano sedute attorno ad un tavolo), da quelli piccoli (a grandezza d’uomo) a quelli enormi. E tutto sembra messo lì apposta, come fosse opera di un estroso artista, per creare il miglior effetto scenico possibile. Sarà stato il sole, sarà anche stato il caldo, ma complice il fatto che l’unico rumore udibile era il vento, (cosa che nella nostra vita di tutti i giorni è praticamente impossibile) in alcuni momenti ho quasi avuto l’impressione di essere in un altro pianeta ed in un’altra dimensione. Perdigiorno come siamo, ci divertiamo come bambini a farci le foto in mezzo a questi pupazzoni di roccia e non ci accorgiamo del tempo che passa. Questo fa sfumare la nostra idea di vedere il tramonto sull’Arches ed arriviamo a Moab troppo tardi. Troviamo posto in un Motel 6, dignitoso anche se rumoroso perché la nostra camera è come dire… troppo vicina: troppo vicina all’ascensore che va e viene di continuo, troppo vicina al distributore delle bibite, troppo vicina all’ingresso nel pianerottolo… appunto, troppo vicina. Le pecche vengono comunque compensate con il cartello esposto alla reception e chiaramente rivolto ai ciclisti, tipici frequentatori della zona: “si prega di non utilizzare gli asciugamani del bagno in camera per pulire le vostre biciclette”. Però, gran signori questi sportivi! Moab ci viene descritta come la Rimini dello Utah, tanto movimentata da costringere alcuni tranquilli cittadini a scendere in piazza per chiedere la chiusura anticipata dei locali. In effetti, dopo diversi giorni di cena forzata alle 7.30 p.m. Ci emoziona non poco apprendere che un ristorante chiude alle 10.00. Qui mangiamo la nostra prima vera steak; di chiamarla bistecca non mi riesce. Avrebbe un che di conosciuto, di familiare, mentre invece quello che mi arriva nel piatto appartiene a qualche altro mondo. A quello che si credeva ormai estinto dei dinosauri forse? Intendiamoci, niente da dire: buonissima la carne. E la salsa. Tutte le 6 salse. E i condimenti. MA IL PIACERE DI ASSAPORARE IL GUSTO DELLA SOLA CARNE, MAI??? Il mio curioso, coraggioso e anche incosciente marito decide di provare una spezia dall’invitante colore rosso/arancio; niente di estremo, per carità: giusto una “pepata” per provare l’ebbrezza di un condimento american style… peccato che nel giro di pochi istanti la sua reazione faccia pensare ad uno shock anafilattico fulminante… solo quando l’attacco simil-asma sembra scongiurato e mooolto lentamente il suo colore torna alla normalità, ci accorgiamo delle facce compiaciute, bonariamente indulgenti che ci circondano, come a dire “eh, eh i soliti italiani…”. A dirla tutta, giurerei che tra di loro ci fosse anche qualche connazionale che probabilmente aveva fatto la stessa esperienza in precedenza. Comunque, dopo una gustosa mangiata ed una bella passeggiata nel centro di Moab, ce ne andiamo finalmente a nanna. 16 AGOSTO 2009 • ARCHES NATIONAL PARK • CANYONLANDS (tempo permettendo) • MONUMENT VALLEY via MULEY POINT NEL DETTAGLIO: Moab – Kayenta 338 km (3 – 4 ore) Anche se non riusciamo a vederlo al tramonto, come progettato inizialmente, l’Arches National Park riesce comunque a soddisfarci pienamente. Per quanto siano ormai alcuni giorni che ci beiamo di queste rocce, di questi colori caldi e di questa maestosità, devo dire che anche una patita del mare come me non rimpiange per nulla spiaggia e lettino. Ogni parco è diverso dall’altro ed ogni scorcio, ogni angolo sembrano davvero offrire punti di vista ed emozioni sempre nuove. Non ne avrei mai abbastanza. Anche qui non fa caldo e non abbandoniamo mai le felpe. Scattiamo naturalmente un milione di foto e senza accorgercene diamo fondo a tutte le nostre energie: il paesaggio ci distrae, ma a fine giornata le nostre gambe ci ricorderanno tutta la strada percorsa, perlopiù in salita. Un trascurabile guasto alla macchina ci costringe ad un cambiamento di programma: dal momento che bisognerebbe percorrere qualche chilometro di sterrato preferiamo prudentemente rinunciare, seppur a malincuore, sia a Muley Point che a Canyonlands. Se ci penso mi viene ancora il magone, perché so che sarebbero stati spettacolari, ma il rischio di andare incontro a guai più grossi che avrebbero potuto compromettere il resto del viaggio era troppo elevato e, ancora adesso penso che abbiamo fatto bene a rinunciare. La giornata continua comunque ad essere piena di insidie: causa la vicinanza con la Monument Valley non riusciamo infatti a trovare una camera per dormire. Normalmente le uniche possibilità si trovano a Kayenta, (triste, sporca e cara) che viene considerata la “porta” della valle, e che si trova comunque a 45 miglia dalla Monument Valley. Valutiamo la possibilità di dormire a Bluff, circa un’ora da Kayenta, attraversando Mexican Hut; è un po’ distante, ma la strada è spettacolare. Naturalmente, non c’è un buco. Devo dire comunque che l’offerta è scandalosa sia per quantità che per qualità: entriamo in un canile con l’insegna del motel dove il disordine è tale da dare l’impressione che siano appena passati i ladri; in un altro, una signora ci offre il letto dove segni inequivocabili ci fanno capire che vi ha dormito fino ad un attimo prima e al mio sdegnato rifiuto si offende anche. Alla fine, davanti alla prospettiva di dormire in macchina, siamo costretti ad abbassare le nostre aspettative e ad accettare quello che troviamo; avete presente il capanno degli attrezzi? Ecco, quello, però a file di quattro, come brutte imitazioni di casette a schiera. Qualche pezzo di legno, una pseudo serratura e privacy inesistente. Nelle casette confinanti, harleysti dall’aria minacciosa ci convincono a barricarci dentro bloccando la porta con le valigie. Buttiamo i bagagli sul letto (???!!) e scappiamo a vedere la Monument Valley al tramonto. Alla sera ci consoliamo con una mega bistecca al Mexican Hat Lodge, dove avremmo tanto voluto pernottare se solo vi fosse stato uno sgabuzzino libero, e devo dire che la serata ci ha consolato degli inconvenienti della giornata. Il cuoco, che immagino essere anche il proprietario, con cappellaccio nero e stivali con gli speroni cucina ottime bistecche su una mega griglia che a me sembra tanto, devo dirlo, una rete metallica da letto fatta dondolare tutto il tempo. Impariamo qui che esistono 3 tipi di cottura per la carne: al sangue (ma a me sembra che possa alzarsi dal piatto e scappare via in qualsiasi momento), media (cioè ancora al sangue) e “suola da scarpe” (cioè al sangue, ma un po’ meno). Opto per quest’ultima, sotto lo sguardo disgustato della proprietaria e devo dire che sarà il mesquite su cui si cucina, saranno forse più banalmente la fame, l’atmosfera o anche le birre che ci scoliamo nell’attesa (lunga), fatto sta che bistecca e fagioli ci danno una grande soddisfazione. Sazi e felici facciamo ritorno nel nostro magazzino delle scope, dove trascorriamo una notte insonne dormendo vestiti, svegliati continuamente dalle voci provenienti dalle stanzette confinanti e dai rumori della strada. Appena comincia ad albeggiare scappiamo via da quel posto infame, tentando almeno di sfruttare il tempo per vedere la Monument Valley alla luce del primo mattino. Non rimaniamo certo delusi e anzi, ce la godiamo un sacco quando ci troviamo al punto, inconfondibile, in cui un barbuto Forrest Gamp si ferma e pronuncia la fatidica frase “sono un po’ stanchino”. Per chi volesse vivere l’esperienza, la strada è la I-163, arrivando alla Valley da Nord. Immortalata la strada dalla caratteristica svolta, apparentemente motivata da nulla, perché veramente l’unica cosa che qui non manca è lo spazio, ripartiamo alla volta della Monument. Tre cose ci colpiscono: la prima è che potremmo camminare a piedi, in mezzo alla strada ad occhi chiusi, tanto non c’è anima viva per chilometri e chilometri. La seconda è l’orizzonte sconfinato. Ad ogni momento sembra di essere arrivati tanto la visione della valle è nitida, non disturbata da abitazioni e torrette della telefonia ed invece percorriamo ancora miglia e miglia. Addirittura vediamo la valle frustata dalla pioggia, tanto che temiamo di dover rinunciare alla visita, ma neanche il tempo di arrivare ed è tornato il sole. La terza cosa che ci ha colpiti, e lo dico davvero a malincuore, è la sporcizia. Ovunque, in questo paradiso in terra, si trovano bottiglie di birra e sacchi neri della spazzatura abbandonati ovunque e semiaperti. In un luogo in cui è proibito bere, inoltre, stupisce non poco come all’interno dei supermercati vi siano interi scaffali dedicati a birra e alcolici di tutti i tipi (e soprattutto misure) mentre l’acqua venga relegata in zone seminascoste dei frigoriferi. Nel mio profondo ha sempre albergato una grande simpatia per gli indiani. Cresciuta con i film sul generale Custer, ho sempre parteggiato per questo popolo di cacciatori e di combattenti, che è stato sì inglobato e convertito in nome del progresso, ma soprattutto decimato e infine relegato al ruolo di ospite in casa propria. Quello che ho visto, tuttavia, mi ha fatto un po’ ricredere: roulotte e baracche ovunque, anche se affiancati ad un fiacco tentativo di lavorare nel commercio e nel turismo. La Monument Valley , infatti, è gestita direttamente dalla tribù Navajo; l’eagle pass non è valido, ed il biglietto d’entrata è di circa 5 dollari a persona da pagare in un baracchino al centro della strada. Se ci si vuole addentrare nella valle anziché vederla dalla terrazza, bisogna ricorrere ai loro fuoristrada. Peccato che i prezzi siano veramente folli (70 dollari a testa) e del tutto ingiustificati, a meno che non sia incluso nel biglietto anche un pezzettino in multiproprietà delle terre che sono state loro tolte. Stesso discorso vale per l’oggettistica ed i souvernirs in vendita: basso il valore, esoso il prezzo, tanto che me ne vado vagamente delusa senza comprare nulla. In compenso, quello che vediamo è meraviglioso. Per 3-4 ore ci troviamo immersi nel più classico dei film western, riconoscendo senza sforzo “Le tre sorelle” ed il mitico “John Ford Point”, ovvero la roccia della pubblicità della Marlboro Country. Chi, come me, è nato prima della battaglia contro il fumo, quindi più o meno nell’era mesozoica, sa di cosa parlo. 17 AGOSTO 2009 • ANTELOPE CANYON • HORSESHOE BEND • GRAND CANYON (tramonto) NEL DETTAGLIO: Kayenta – Page 160 km (2 ore) Page – Tusayan 209 km (2 ore circa) Oggi il programma è davvero ricco. Visita dell’Antelope Canyon in tarda mattinata, visita all’Horsebendshoe verso le 3 del pomeriggio e arrivo sul Grand Canyon al tramonto. Come dire, la giornata delle emozioni. Ovvero: se piove m’ammazzo! Ci fermiamo a Page per una breve sosta. La vicinanza con il Lake Powell deve aver convinto i nativi di essere al mare, perché in questa vivace cittadina è davvero possibile fare proprio vita da spiaggia, noleggiando tutto quello che sull’acqua può stare, dal motoscafo, alle moto d’acqua e alle banane di varie dimensioni. Per chi va ad agosto, è meglio quindi prenotare prima, soprattutto se si intende pernottare qui per il fine settimana. Presi come siamo dalla trepidazione di vedere tutto quello che ci riserva la giornata (si può dire che nel mio immaginario questa è la giornata clou del viaggio) entriamo nel primo posto che incontriamo, decisi a buttar giù qualcosa di veloce e correre verso ben più importanti emozioni. Gravissimo errore: entriamo in un anonimo fast food dove un hamburger dall’aria falsamente innocente si trasforma in una micidiale macchina da guerra nello stomaco del povero Giorgio, che notoriamente digerisce in un lampo anche le chiavi dell’auto. Mortale invece la mia insalata GIA’ condita con aglio e peperoncino. Ma alla fine, a noi che importa? Siamo a Page, cavolo, e finalmente possiamo visitare l’Antelope Canyon!!!! Devo dire che le nostre aspettative non vengono affatto deluse. La biglietteria è abbastanza distante dall’entrata dello slot canyon (cioè a “fessura”) e vi si accede unicamente con i mezzi degli indiani. Praticamente ci si mette in fila per prenotare, si paga, e poi si rimane in attesa che qualcuno urli il tuo nome, o qualcosa che gli assomigli, augurandosi di avere un cognome semplice. Si consiglia di dare un nome falso se il proprio cognome è composto da più di 2 sillabe, onde evitare di non riconoscerlo quando viene pronunciato (o storpiato, per meglio dire) e rischiare così di rimanere a piedi. Da morir dal ridere il tragitto fino all’entrata. Una volta saliti sul retro, il nostro autista ci ha chiesto di toglierci gli occhiali e di tenere ben stretti borse e zaini, dopodiché, senza neanche darci il tempo di farlo, è partito a razzo, ingaggiando una lotta all’ultimo sangue con gli altri veicoli, con noi dietro a ballonzolare da tutte le parti ma gridando come ossessi perché corresse di più. Lividi a parte, è stato divertentissimo, soprattutto alla fine, quando abbiamo dovuto scendere perché usciva un denso e preoccupante fumo nero dalla parte sottostante del veicolo: addio coppa dell’olio. Molto suggestiva la visita, da fare assolutamente tra le 11.30 e mezzogiorno, quando i fasci di luce che entrano dalle fessure danno l’illusione di essere circondati da foulard di tutti i colori anziché da rocce. Il costo dell’ingresso è lo stesso, sia prenotando i biglietti nelle agenzie di Page che acquistandoli direttamente all’entrata del parco; l’unica differenza è che prenotando in agenzia c’è un bus che dal centro ti porta all’Antelope. L’unica cosa è sperare che il tempo tenga, perché basta un temporale per trasformare in pochissimo tempo questo paradiso in una trappola mortale, come è già successo qualche anno fa. Altra cosa cui fare attenzione, sono le vedove nere che si nascondono tra la sabbia. Meglio indossare scarpe chiuse. La visita dura circa un’ora e c’è tutto il tempo per scattare le foto; purtroppo, per chi va ad agosto, il numero delle persone toglie un po’ di fascino al luogo, che resta comunque uno dei più belli che io abbia mai visto. Ancora con questa sensazione di meraviglia negli occhi, percorriamo i pochi chilometri che ci separano dall’altra chicca che ancora in pochi conoscono: HORSEBEND SHOE, vero angolo di paradiso che si trova poco fuori Page andando verso sud lungo la Hwy-89, 1/8 miglio dopo il mile marker 545. Di indicazioni non ce ne sono e la cosa migliore per orientarsi è il piccolo spiazzo lungo la strada con qualche bancarella di indiani navajo. Lasciata la macchina al parcheggio (che in realtà è un piazzale polveroso) si deve seguire un sentiero che per circa 1 km alterna tratti in salita e discesa e lungo il quale non vedrete molto altro che uno scenario spoglio. Quando non vedrete più nulla davanti a voi ed un sole cocente vi indurrà a chiedervi perché non siete andati alla pensione “La Piccola Venezia” di Isolabella, vorrà dire che siete sulla strada giusta. Vi troverete improvvisamente sul bordo di un baratro di 100 metri che si affaccia sul Colorado River e la cosa che istintivamente farete, se l’orario è quello giusto, cioè verso le 15.00, è quella di togliervi gli occhiali da sole perché non potrete credere al colore blu del fiume che state vedendo. Ed invece è proprio quello! Descriverlo è veramente difficile. E’ cupo ma allo stesso tempo brillante ed incredibilmente intenso. Qualcosa di unico. In questo panorama così insolito il Colorado River descrive dolcemente una curva ad u (a ferro di cavallo) e si rimane davvero incantati ad ammirare questi colori oltretutto avvolti dal silenzio più totale di un luogo fortunatamente ancora poco conosciuto. La vista spazia a 360° ed è davvero impossibile non sentirsi in pace con il mondo. Una volta tornati, sussultiamo quando per caso, vediamo questo posto nella scena finale del film JUMPER. Non vorremmo davvero lasciare questo posto, che ci rimarrà impresso nella memoria forse anche di più di altri magari più famosi, e ci rimettiamo in macchina solo perché spinti dal miraggio di vedere il tramonto sul Grand Canyon. Ancora scossi dall’esperienza della sera prima, cominciamo a cercare una stanza già dal primo pomeriggio. E la troviamo senza grosse difficoltà: stavolta chiediamo di vederla prima di accettare e la vista dei due letti king size e di un bagno con vasca e mega lavandino ci fa sentire dei nababbi. Presi dall’entusiasmo ci liberiamo dei bagagli e partiamo per Tusayan (cosidetta porta del Grand Canyon) ingenuamente fiduciosi nel prossimo; ancora non sapevamo che di lì a qualche ora il malfunzionamento del sifone della doccia ci avrebbe costretto a fantasiose contorsioni sotto il rubinetto della vasca nel difficoltoso tentativo di sciacquarci di dosso quella polvere rossa che tanto ci aveva elettrizzato durante il giorno. Il ricordo della poco cristiana litania di parolacce che arrivava ininterrottamente dal bagno mentre mio marito, alto 1.80, tentava di lavarsi sotto un rubinetto alto 20 cm, perdipiù senza acqua calda, mi fa ancora sorridere. Arriviamo finalmente sul Grand Canyon, e più esattamente nel margine sud. Precisiamo subito che, contrariamente all’immaginario comune, il Grand Canyon non è solo roccia, ma anche boschi verdi e vegetazione montana. Solo addentrandosi nei vari point of view si può avere una visione di questo strapiombo che toglie il fiato, maestoso sia per profondità che per dimensioni. Soltanto il sopraggiungere del buio riesce a distoglierci da questa visione incredibile e corriamo, con il poco tempo che ci rimane, a prenotarci IL GIRO IN ELICOTTERO PER IL GIORNO DOPO!!! Non ci credo. La vita è bella!!! 18 AGOSTO 2009 • GRAND CANYON • partenza per LAS VEGAS Visita al parco (con giro in elicottero) Pomeriggio partenza per Las Vegas: 434 km (5 ore) La mattina dopo ci alziamo di buon’ora, e non solo per l’impazienza di tornare sul Grand Canyon. Non sappiamo infatti più che ore sono. Teoricamente il mio telefonino dovrebbe adeguarsi automaticamente con l’orario del luogo, ma data la vicinanza del confine, al momento risulta essere un po’ confuso. Risultato, io e mio marito abbiamo due telefoni e due orologi con orari diversi, per cui, alla fine decidiamo di non rischiare di perdere la prenotazione e partiamo alla volta di Tusayan, che si trova appunto a 20 minuti dall’entrata del parco, ed è anche la sede dell’aereoporto. Troviamo il punto di decollo della Papillon, dove veniamo pesati per l’assegnazione dei posti, in modo che il carico venga distribuito in maniera omogenea nell’apparecchio. Compiliamo velocemente i moduli d’iscrizione, e capiamo subito che gli autori sono stati selezionati ad un concorso comico. Sicuramente non in una scuola di ingegneria. Alcuni consigli sono indiscutibilmente pragmatici, come “in caso di problemi al motore evitate di farvi prendere dal panico”. Basta dirlo,no?? E’ severamente vietato, inoltre, portare a bordo materiale esplosivo (si leggeva chiaramente la delusione sul volto dei passeggeri per non poter gettare almeno qualche candelotto di dinamite ed un paio di bombe carta proprio al centro del canyon… sai che festa!!); così come non si possono portare pesi importanti (perché, c’era qualcuno che si portava il set completo delle valigie???!!), o anche borse che “nel caso in cui l’elicottero precipitasse, potessero colpire le persone a bordo”. Ma nel caso in cui il velivolo precipitasse sul fondo del Grand Canyon, io VORREI che una borsa mi colpisse facendomi perdere i sensi!!! Tra gli altri divieti, quello di prendere il posto del pilota in caso di avaria: già me lo vedo l’intelligentone di turno dire “spostati da qua, peracottaro, che guido io..!!” Nel caso in cui l’abitacolo si riempisse di fumo, inoltre, non è che ti vietassero proprio, ma ti pregavano con estrema cortesia di non aprire il portellone di uscita e buttarti giù. Ma per andare dove, scusa? Per scendere velocemente dalla scaletta immaginaria ed essere accolti direttamente dalla morbida panciotta del magico coniglio che esiste solo nelle loro menti bruciate dai fumi dell’alcool? Ma la cosa veramente esilarante, comunque, era la traduzione in italiano; in un testo di per sé comico, errori e strafalcioni ci hanno fortemente tentato di sottrarre una copia e pubblicarla. Da piegarsi in due dal ridere. Finalmente sentiamo chiamare il nostro nome (alla facciaccia della privacy, in America se sei un minimo famoso oppure un ricercato, devi per forza essere anche un bugiardo e dare un nome falso) e dopo la foto di rito saliamo finalmente a bordo. Infiliamo le cinture, allacciamo le cuffie… anzi no, allacciamo le cinture, infiliamo le cuffie e cerchiamo di calmare il cuore che batte a mille. Ma l’emozione è davvero tanta. Sorvoliamo il bosco sottostante ascoltando nientepopodimeno che la Cavalcata delle Valchirie (che fa tanto Apocalipse Now) e poi Fragile di Sting. Il momento più emozionante (e da me più temuto, confesso) è sicuramente quello in cui finisce la terra sottostante e comincia il baratro vero e proprio. Sotto, ma tanto sotto, si vede il Colorado e tutto attorno rocce di colori diversi. Maestoso, questa è la parola che ci viene in mente, ed è l’unica che descrive veramente quello che ci circonda. Incredibile quello che un po’ d’acqua riesce a fare. Il tour dura circa venti minuti e costa 160 dollari a testa. Li vale tutti, dal primo all’ultimo. In effetti, i vari point of view non rendono giustizia all’immensità del luogo e la miriade di turisti toglie molto alla solennità del posto. Se mai dovessi tornare sul Grand Canyon, probabilmente lo rifarei. Ancora ubriachi di emozioni, partiamo alla volta di Las Vegas dove pernotteremo finalmente in un meraviglioso letto king size e ci rivedremo all’infinito le migliaia di foto che abbiamo scattato. 19 AGOSTO 2009 • LAS VEGAS Stavolta pernottiamo al Luxor. Camera enorme, letti (due) ancora di più, lenzuola in cotone egiziano, un box doccia enorme ed uno specchio a tutta parete. Ma quello che mi manda in solluchero è il cestino con i prodotti di cortesia… oli, profumi, saponette meravigliose che mi fanno sentire tanto Cleopatra… e se chiedessi la cittadinanza al Luxor? 20 AGOSTO 2009 • LAS VEGAS • LOS ANGELES – anche attraverso la Route 66 Percorso 435 km (5 ore) Barstow: Paperon de’ Paperoni a testa in giù nella sua piscina di dollari, un’ape nel miele, un diabetico nel paese di Willy Wonka… così ci si sente quando si arriva nel Centro Commerciale di Barstow e si possono comprare le cose più belle per pochi soldi, complice anche il cambio favorevole. Esempio: da Ralph Lauren (Ralph! Lauren!), dove vendono le skinny polo (e dico skinny e dico polo!!) per 15,00 €, o Tommy Hilfiger, o Guess o Calvin Klein… praticamente l’equivalente di un coma etilico per un alcolista. Devo dire che qui mi lascio travolgere, come molti miei connazionali, da una sorta di febbre da saldo… d’altra parte ho sempre considerato la Befana come l’archetipo della shopper compulsiva, con la gerla al posto della shopping bag… e chi sono io per contestare le tradizioni? E vado di carta di credito. N.B..: vale la pena ricordare, e lo dico con tristezza, che i supplementi bagaglio si pagano. Cari. Per cui è bene, prima di fare acquisti, tener presente anche l’eventuale supplemento da pagare in aereoporto. Ma torniamo a noi… Per il pranzo decidiamo di fermarci a Williams, giusto per un assaggio della madre di tutte le strade, la leggendaria Route 66… MI-TI-CO! Immediatamente ci troviamo immersi in un’atmosfera che riporta alla mente i primi dell’800, quando operai delle ferrovie, boscaioli e allevatori trovavano ristoro alle loro fatiche in questa cittadina fuori dal tempo. La linea ferroviaria che congiunge Williams al Grand Canyon è ancora attiva, ed avendo avuto più tempo, sarebbe sicuramente valsa la pena approfittarne, per una full immersion nel vecchio Far West. Non rimaniamo comunque delusi: una bella celebrazione paesana, con tanto di petardi sulla torta, negozi con pelle di mucca anche sulle confezioni del latte, ci lasciano la sensazione di non aver perso il nostro tempo. Mangiamo in un locale storico, dove purtroppo è stato rimosso il simpatico bufalo alto 2 metri che ne caratterizzava l’entrata. Il murales di James Dean compensa la delusione, ma la visita della toilette ci manda addirittura in visibilio: dedicata ad Elvis quella delle donne, costruita con targhe di automobili quella degli uomimi. Una camerierina cantante e saltellante viene e prendere le ordinazioni, e comincia la nostra battaglia. Dopo tanti giorni di viaggio, pagheremmo a peso d’oro una zuppa di verdure, e questo ci spinge a chiedere, in alternativa, una semplice bistecca. Ingenui. La nostra richiesta sembra gettare il cuoco nel panico, tanto che la camerierina salterina, dopo un po’, torna a chiederci, dubbiosa: “But… just a steack? No sauce?” No, porca miseria, voglio dare un po’ di riposo al mio stomaco e non voglio la salsa. Nessuna salsa. Solo una bistecca. Convinta che il mondo sia strano, la camerierina riprende i suoi balzelli e canticchiando comunica la notizia al cuoco. A questo punto, non capiamo cosa sia successo. Praticamente tutti mangiano, tranne noi. Ancora non è chiaro se si è trattato di una forma di rispetto verso i motociclisti presenti (cioè tutti, tranne noi), e che quindi sono stati serviti prima, o se invece il cuoco si è voluto prendere del tempo, alla fine, per affrontare questa prova difficile cui lo abbiamo costretto: cucinare una bistecca. Comunque sia, ci tornerei domani.

21-22 AGOSTO 2009 Debbo dire che Los Angeles è stata una piacevole sorpresa. Forse perché non nutrivo alcun tipo di aspettativa, forse perché l’impressione che se ne ricava è di gente che vive bene nella propria città, che si gode un clima da paradiso senza rischiare il colpo della strega ogni 3×2 con l’aria condizionata in modalità quant’è bello stare al polo nord, godendosi il sole quanto più possibile sulle spiagge, nelle cabrio (evidentemente qui le danno via con i buoni del supermercato, vista la quantità), nelle piscine, (presenti anch’esse in quasi tutti gli hotel), senza nascondersi e coprirsi come sarebbe invece prevedibile aspettarsi da un popolo che fa dell’esagerazione una delle sue caratteristiche più evidenti. Bellissimi i boulevard, da percorrere per provare una volta nella vita la sensazione di trovarsi in un film; a dire il vero, vari e diversi film, perché tanti e tali sono i diversi angoli immortalati da cinema e televisione che in ogni momento sembra di essere su un set. Invece è tutto vero e ancora una volta posso dire che, almeno per quello che si vede dall’esterno, gli americani non inventano nulla, gli stereotipi ci sono tutti. Così come nelle periferie è quasi impossibile non restare esterrefatti dal numero di bandiere a stelle e strisce, cartelli pro Obama, mega fuoristrada e mega mall sicuramente visibili anche dalla luna, così nelle città e Los Angeles in particolare, sono tutti belli/in forma/sorridenti/abbronzati e costantemente di corsa. Ma non come a New York, dove corrono con faccette appese da una zona all’altra della città spostandosi probabilmente nel tentativo di raggiungere il secondo/terzo lavoro per pagare l’affitto.. No, qui corrono proprio. Cioè fanno jogging a tutte le ore del giorno, da tutte le parti, con i-pod credo dato in dotazione durante il parto e con sorriso stampato a 32 denti. Che la forma fisica sia tra le loro priorità si capisce anche dai menù; è stato infatti l’unico posto in cui abbiamo trovato il numero delle calorie accanto al nome dei piatti. Poco importa che la loro insalata dietetica fosse a base di gorgonzola e bacon, servita con pane e burro… è comunque un passo epocale rispetto a Las Vegas dove i ristoranti pubblicizzano le dimensioni delle porzioni anziché la qualità.. cosa credo inimmaginabile in qualsiasi altra parte del mondo. Piena di atmosfera anche Santa Monica, con un pontile di legno visto mille volte in televisione e con una ruota panoramica, illuminata a giorno, proprio all’estremità vicino al mare. Le case più belle e particolari le ho viste a Malibu, dove le ville con cuochi e servitù di varia natura fanno sì che cose banali come supermercati, pizzerie etc. Siano del tutto superflue. Come abbiamo purtroppo appreso a nostre spese non esistono nella zona posti in cui mangiare. O perlomeno posti in cui accettino dollari o carte di credito. Pare infatti che l’unico modo per pagare sia quello di lasciare un rene o, in alternativa, sacrificare il primogenito maschio. Surfisti come se piovesse, la libertà di arrivare direttamente in spiaggia con la macchina senza la trafila di bagnino/ombrellone/lettino, cavalloni che a giocarci ci si ritrova bambini senza neanche rendersene conto, fanno comunque sì che queste spiagge e queste coste siano e rimangano fra i posti più belli al mondo. In poche parole, ci si spiega come quel gnocchettone di Zorro, che aveva casa a Monterey, si fosse dato tanto da fare contro i vicerè spagnoli fino all’annessione della California con gli Stati Uniti d’America. Non a caso, i personal computer, internet, l’aerobica e i kite surfer sono nati qui. MENZIONE D’ONORE: California Pizza Kitchen, Los Angeles, 8000 W.Sunset Blvd: vince il premio per la migliore faccia tosta nello spacciare per dietetica un’insalata a base di bacon e gorgonzola ma ottiene una menzione d’onore per aver offerto, a soli 28,64$ in due la possibilità di far parte anche se per la sola durata del pasto, di un mondo dove non esistono brutti, grassi e poveri, ma solo gnocchettoni da copertina e megaschermo in piazza. Ottima la scelta anche dell’Hotel: BEST WESTERN certo non economico, ammesso che ne esistano di economici a L.A., ma comunque accessibile; situato nel quartiere West Holliwood di Los Angeles, zona di teatri e locali, a 2 passi dallo storico Chateau Marmont e dalla mitica House of Blues. Avete presente il telefilm Melrose Place? Ecco, uguale, con tanto di piscina e mega lettini imbottiti. Il primo giorno lo dedichiamo agli UNIVERSAL STUDIOS. Dopo giornate di macchina, decidiamo di rilassarci affidandoci ad una visita organizzata che in autobus ci porti direttamente davanti agli Studios, anche per evitare di guidare ancora. Errore. Da dove siamo noi raggiungere il parco è davvero semplice, per cui non vale la spesa, ed inoltre l’autista si farà aspettare più di un’ora per venirci a prendere la sera. Gli Studios non vanno raccontati: vanno vissuti. Visitati anche, certo, ma se non provi l’immersione in questo mondo fantastico non puoi capire. Personalmente non amo i parchi a tema, e trovo che le giostre siano un passatempo da ragazzini. Ma quello che trovi agli Studios non ha niente a che vedere con i parchi che abbiamo noi: non so come dire, ma passi in mezzo ai dinosauri di Jurassic Park, vedi e vivi, soprattutto, i trucchi utilizzati nei disaster movie più famosi, vieni sorpreso dallo squalo di Spielberg, e ti vengono spiegati i trucchi più incredibili. Il tutto accompagnato da attori veri che ti fanno piegare in due dal ridere con battute e scherzi. Non voglio raccontare di più, perché rovinerei la sorpresa, ma mi permetto un suggerimento: tenete l’attrazione di Jurassic Park per ultima. A buon intenditore…. Il secondo giorno ci dedichiamo alla visita della città. Il concierge ci piazza in mano una dettagliatissima cartina fatta a mano che ci dovrebbe condurre nei luoghi più famosi, ma dopo circa un’ora di cammino in mezzo a meravigliose ville in perfetto stile Beverly Hills, senza arrivare però da nessuna parte, comincio a nutrire seri dubbi sull’attendibilità della cartina. Dopo un’altra mezz’ora non noto nemmeno più neppure i fustoni vestiti da jogger che mi circondano e sento solo il sole che mi sta cuocendo. Dopo altri 20 minuti mi concentro sul male ai piedi e la sete, mentre lentamente si fa strada dentro di me un’idea: mio marito vuole uccidermi. Inevitabile, a questo punto, la litigata, per arrivare dopo un po’ alla conclusione che chi ha disegnato la cartina non ha minimamente tenuto conto delle distanze, per cui un segno col pennarello di 2 cm potrebbe corrispondere indifferentemente a 100 metri come a 2 km. Una volta capito questo, e tornata la pace in famiglia, riusciamo finalmente a percorre la WALK OF FAME. E lì è tutto un “guarda, Robert De Niro! No, guarda qua… George Clooney!!” e via di questo passo. A due passi incontriamo il Kodak Theatre, visto mille volte in tv per la premiazione degli Oscar, ed il Chinese Theatre, famoso per lo stesso motivo. Tutt’attorno, sosia degli attori più famosi, e soprattutto di Marylin Monroe di tutte le età. Anche Jack Sparrow è molto gettonato. Nel pomeriggio ci concediamo una sosta in una tipica mall: The Grove. Tipica per loro: il parcheggio è a pagamento (tanto per restare in linea con il resto della città, dove vengono pubblicizzati parcheggi a “soli 18 dollari l’ora”) e le dimensioni ricordano più le nostre “tipiche” città italiane (Milano, Torino?) che i nostri centri commerciali. In un posto così non puoi dire “Oddio, mi sono dimenticata la besciamella…” perché per prenderla ci perdi due ore, solo per trovare il negozio. In compenso, ci puoi tranquillamente vivere dentro, svernando in uno dei mille negozi di abbigliamento sportivo e trascorrendo allegramente l’estate a bordo della mega fontana che vi troneggia all’interno. Tra i più frequentati dai nostri connazionali, sicuramente il primo premio lo vincono i negozi di elettronica. Nell’estate dell’i-phone, in un anno in cui l’i-pod è stato eletto regalo preferito dagli italiani, con il dollaro super conveniente, non poteva essere altro che così. E così è stato. Che poi gli italiani all’estero li riconosci da lontano: sui 40 anni, capelli un po’ brizzolati, pizzetto, un accenno di pancia, occhiali da sole anche di sera fissati a tal punto nel gel che si possono togliere solo con l’acetone… In vacanza, poi, si scoprono tutti fotografi. Usano Canon con un obiettivo che si può trasportare solo in due e scattano due biliardi di memorabili foto con le quali stresseranno parenti ed amici nei mesi a seguire. Hanno 2 cellulari solo perché non hanno 3 mani e li usano per fare foto. Ovviamente quelli che non hanno la Canon. Comunque… dopo essere stata a Los Angeles posso dire, senza timore di smentita, di comprendere appieno lo stato d’animo di Bernadetta nell’incontro a Lourdes che l’ha resa famosa. Se non posso dire di aver visto la Madonna, certo posso affermare, senza per questo apparire blasfema, di aver incontrato Gesù Bambino. Solo che vestiva (o svestiva??) Abercrombie, era nero, con un addominale che da solo parlava alle masse come neanche la Bibbia ed era in grado di convertire (all’acquisto) più proseliti di Mosè nei suoi momenti migliori, degli Evangelisti, della Chiesa Apostolica/Episcopale/Pentecostale/Presbiteriana, i Cardinali tutti ed il Conclave in grande spolvero… Non escluderei che potesse anche dividere le acque. Se ne stava lì, davanti all’entrata del negozio, a torso nudo, jeans slacciati, capelli neri e occhi color denim 12 once, ed era come dire…. Mooolto abercrombico. Sapete come si dice nella moda? “Less is more”; beh, credo che l’espressione sia stata coniata su di lui. Di mestiere credo facesse quello: starsene in mutande davanti alla porta, ad interpretare la “filosofia del punto vendita”. Complimenti. I suoi genitori ne saranno senz’altro orgogliosi. 23 AGOSTO 2009 • CA-1 (DA Morro Bay a Monterey) • BIG SUR • 17 MILES DRIVE NEL DETTAGLIO: Los Angeles – San Francisco 700 km (7-8 ORE) Ed eccoci qui, sulla strada del ritorno, mesti mesti. Decidiamo di percorrere la Big Sur per non sprecare neanche un momento di questo viaggio che ricorderemo per sempre. La vista dei Monti Santa Lucia che scendono a picco sul mare toglie un po’ di tristezza a questo addio ad un posto che già ci manca. L’atmosfera è quella di un nebbioso ottobre, ed il panorama ricorda un po’ la Costa Azzurra. Solo che qui ci sono gli scoiattoli ovunque, i leoni marini, a centinaia, e surfisti dappertutto. Mi vengono in mente i nomi legati a questo posto. Jack Kerouac che scrisse il libro chiamato Big Sur, appunto, i Beach Boys che scrissero la famosa canzone lo stesso nome, Elizabeth Taylor e Richard Burton che recitarono una scena di un film nella terrazza di un famoso ristorante della zona. Per non parlare di Clint Eastwood che è stato a lungo sindaco della cittadina di Carmel. James Dean stesso percorse mille volte la stessa strada, trovando poi la morte a poche centinaia di chilometri da dove ci troviamo noi. Lo spettacolo che ci si offre ad ogni metro è davvero da paura, ma ormai siamo con la mente all’altrove che ci aspetta, al viaggio di ritorno. Arriviamo a San Francisco, nell’albergo prenotato il più possibile vicino all’aereoporto, visto che la partenza sarà alle 4 di mattina. Incredibilmente, la serata è bella e non fa freddo. Il viaggio di ritorno si svolge senza intoppi, con la mente già al prossimo viaggio, alla prossima avventura. Di sicuro resterà il ricordo di questi giorni, del continuo vagabondare senza mai disfare la valigia per due settimane, e lo stupore che ci ha accompagnato fino alla fine. Senza contare la gioia che tutto sia andato come doveva andare, che tutto sia filato liscio senza incidenti di sorta. Perfino gli aerei sono arrivati in orario… Poi, alla fine, dopo 23 ore da quando abbiamo lasciato San Francisco, ecco l’intoppo: l’autobus del parcheggio Marco Polo che avrebbe dovuto passare a prelevarci ci fa attendere, causa incomprensione sul luogo dell’incontro. E così, dopo 17 giorni di viaggio, subiamo un ritardo di 15 minuti sulla tabella di marcia… AZZ!!!

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