In taxi sulle strade dell’Africa occidentale
Kpalimé (Togo), 12 agosto La pioggia, torrenziale, continua a battere senza sosta, ormai da più di un’ora, sul tetto di lamiera ondulata che protegge i sei tavolini dell’unico spazio comune, all’aperto, dell’albergo. Il fracasso è infernale, con la lamiera che amplifica a dismisura il battere continuo e violento delle gocce di pioggia. Aspettiamo che smetta, per raggiungere le nostre stanze, che si trovano in un bungalow sul retro della costruzione principale. Desi e Kossi, la “guida” e l’autista, sono accasciati a pochi metri da noi ad un tavolo, mentre Silvia, sempre più a disagio in un paese che sembra non riuscire a capire, tenta di attirare la mia attenzione distratta sulle lamentele del giorno. Lamentele che riguardano il pranzo; che, come al solito, è stato a base di ananas. Infatti, in questi primi giorni, un po’ per obiettiva difficoltà a trovare soluzioni soddisfacenti, un po’ per pigrizia, un po’ perché qui gli ananas non hanno nulla a che vedere con i frutti callosi che si trovano nei nostri supermercati, abbiamo di fatto iniziato una dieta a base di questi frutti succosi, che hanno la buccia di un bel colore giallo ocra e che, maturi, sono talmente dolci che fanno venire il sospetto che siano stati cosparsi di zucchero da qualche mano spiritosa.
Effettivamente, oggi i nostri ananas quotidiani li abbiamo consumati sul retro di una baracca nel mercato di Kpalimé, tra il fumo dei fuochi accesi sotto le pentole delle salse ed il rumore delle donne che, ritmicamente, pestavano l’igname in grandi contenitori concavi di legno fino a farlo diventare quella pasta omogenea – il fufu – simile ad una polenta, che rappresenta il piatto base dell’alimentazione nelle zone rurali del centro del paese.
E’ un peccato che Silvia non riesca a sottrarsi alla sua costante condizione di chiusura emotiva, perché, pranzo a parte, la giornata è stata splendida. Il piccolo centro in cui abbiamo passato la notte è adagiato su una serie di colline dall’andamento dolce di un mare appena mosso dal vento, a circa 130 chilometri a nord-ovest della capitale. La strada ben asfaltata che ci ha portati fin qui ha attraversato i palmeti e le lagune costiere, poi i campi di verdure, cereali e legumi dell’entroterra, punteggiati da qualche raro baobab, fino ad arrivare alle piantagioni di cacao, caffè e banane che delimitano le foreste che contornano Kpalimé.
Il verde, intenso, è ovunque; nemmeno la luce bianca del cielo carico di pioggia riesce ad attenuarlo. Anche adesso mi basta alzare appena lo sguardo dalle pagine bianche per trovare quel muro verde che, per chilometri e chilometri, circonda i pochi centri abitati di questa regione. Un muro che sembra essere composto da tante tonalità di verde quante sono le piante del creato. Un muro che nemmeno le pesanti ed evidenti mutilazioni, inflitte dai tagli continui dell’uomo, sembrano poter scalfire. Banani, palme, piante di cacao, piante di caffè si inseguono, si mescolano, si intrecciano ovunque. Per non dire, poi, degli alberi giganteschi, il cui nome per lo più ci è sconosciuto, che sembrano ridicolizzare, con le loro dimensioni, qualsiasi altra forma di vita. O delle piccole, ma invadenti, felci color smeraldo. O di quelle piantine tappezzanti, che qui chiamano mimose – e che, a ben vedere, sono probabilmente della stessa famiglia dei nostri alberi omonimi – che hanno l’aspetto di felci in miniatura e le cui foglie, al solo tocco di una mano, si ritraggono e si chiudono. Tutto sembra eccessivo. Ed il cielo, saturo di nuvole basse, che si annodano e si spezzano, incuneandosi tra le colline, non fa che aumentare la magia dei luoghi, come sospesi in una dimensione spazio-temporale tutta loro.
Usciti da Kpalimé in direzione della frontiera con il Ghana, che dista solo pochi chilometri, la strada, inizialmente ben asfaltata, viene invasa ben presto da una sequela sempre più fitta di buche, per poi trasformarsi in un contorto nastro rosso di terra umida, stillante acqua. Dopo una curva, immersa nel verde, compare una donna con una calebasse sulla testa. Dopo un’altra, due bambini armati di machete più grandi di loro, che ridono e si inseguono. Ancora un po’ e un ragazzo di una ventina d’anni, a cavallo del tronco gigantesco di una pianta di iroko appena abbattuta, si dà da fare per privare l’albero di tutti i rami. Il legno è durissimo; la pianta, viste le dimensioni, doveva essere piuttosto vecchia. Il machete quasi rimbalza, intaccando a malapena il legno pregiato.
Alla fine della strada, comunque, ci si trova di fronte alla sorpresa più grande, la frontiera di Kamé. Superato un posto di polizia, in cui, per la verità, non ci hanno degnati nemmeno di uno sguardo, la strada si allarga in una piccola valletta, rossa tra il verde profondo della foresta circostante. E’ Kamé, appunto, un piccolo villaggio, letteralmente appoggiato sulla linea di confine che separa il Togo dal Ghana. Solo un fiumiciattolo, gonfio e gorgogliante di acqua nonostante questa sia considerata una stagione secca, ed un piccolo ponte di ferro lo separano dalla bianca casupola della polizia di frontiera del Ghana, appena al di là di un cancello sgangherato.
Ma non è la frontiera a catturare la nostra attenzione. In un silenzio irreale, circondati dal solo rumore della foresta e del fiume, abbiamo cominciato ad avanzare attraverso il piccolo mercatino che costeggia la strada. Nessuno ha mostrato sorpresa o meraviglia nel vederci. E tanto meno fastidio. Persino la vista della macchina fotografica non ha provocato reazioni. La calma e la pace di quel piccolo villaggio sperduto e dei suoi abitanti sono sembrati immutabili e quasi innaturali. Solo un gruppetto di bambini, intenti a far finta di lavare i panni nel fiume, ha deciso di interessarsi al nostro arrivo. L’agitazione è cresciuta, anche se solo di poco. Hanno cominciato a ridere, a tuffarsi nell’acqua gelida, a schizzarsi. Subito si sono messi in posa per farsi fare delle foto. L’aria, immobile e fresca dell’umidità circostante. La luce priva di ombre di una giornata senza sole.
A malincuore, dopo una breve sosta, abbiamo cominciato a tornare sui nostri passi, attraversando di nuovo il piccolo villaggio in direzione della macchina. Una mamma, con appeso alla schiena un bimbo di pochi mesi, è intenta e cucire un vestito con una macchina a pedali, di quelle nere di una volta; una macchina da cucire che farebbe felice qualsiasi appassionato di mercati delle pulci. Ha alzato appena gli occhi dal proprio lavoro, mentre il bambino ha continuato a dormire tranquillo. Un timido sorriso le ha rischiarato il viso. Poi, ha continuato il suo lavoro. Altre due donne, grandi calebasse sulla testa ripiene di frutta, hanno continuato a parlare; animatamente, ma quasi sottovoce. Nessuno, vedendoci allontanare, ci ha salutato.
Alle nostre spalle abbiamo lasciato solo una scia di caramelle alla frutta – sempre troppo poche – nelle mani, non tese o invadenti ma, quasi sempre, addirittura timide, di quei bambini sorridenti.
Ouidah (Benin), 16 agosto Bella, non può dirsi che sia bella. E non è nemmeno un luogo che riesce a suscitare forti emozioni, nonostante sia stata teatro di una smisurata tragedia umana. Però, devo ammettere che Ouidah un suo fascino ce l’ha. Non ha quell’atmosfera, quasi ovattata, da villaggio un po’ cresciuto ma che rimane sempre villaggio, che si respira lungo le strade di Abomey. E’ – più che ovvio – sporca. Cadente. Gli zemijan, i moto-taxi che qui imperversano per ogni dove, sfiorano i passanti, carichi di passeggeri, appestando l’aria con le loro marmitte arrugginite. E la gente, seppure sempre cordiale ed aperta, non ha la bella e semplice innocenza che si incontra nell’interno del paese.
Ma un suo fascino ce l’ha.
Ha un bel forte coloniale, costruito a difesa degli interessi commerciali dai portoghesi, che lo hanno abbandonato solo nel 1967, quando, costretti ad andare via, hanno avuto l’elegante idea di darlo alle fiamme, per impedire al governo del Benin di utilizzarlo. E’ stato restaurato in un bel colore bianco coloniale ed ora ospita un interessante museo, piccolo ma curato, che rinnova i ricordi della tragedia della tratta degli schiavi con garbo ed equilibrio. De Souza – il De Souza del “Viceré di Ouidah” di Chatwin – assiste muto al via vai dei pochi turisti da una fotografia appesa all’interno del forte, non degnato nemmeno di una parola da parte della gentile guida locale, che, viceversa, si dilunga con chiarezza ed abbondanza di particolari, illustrando tutte le altre fotografie della collezione.
C’è la Casa do Brasil, vecchio alloggio del governatore portoghese, ora in restauro, che, con intelligenza, rispolvera il vudù attraverso vecchie fotografie e nuove opere di artisti locali contemporanei.
E c’è la strada degli schiavi. Un percorso di circa quattro chilometri, che è lo stesso che portava le lunghe file degli schiavi catturati nell’entroterra dalla città al mare, dove, in attesa, trovavano le navi che li avrebbero portati oltre oceano. Direi una sciocchezza o peccherei di eccesso di retorica se dicessi che si avverte un’aura particolare. Però, sì, il percorso è molto bello. E se è stata l’ultima immagine della propria terra che quei poveretti, condannati alla deportazione o, peggio, alla morte hanno avuto negli occhi, per lo meno è stata un’immagine piena di dolcezza.
Si passa attraverso un primo palmeto, poi la strada, rossa come la sabbia che scricchiola sotto le scarpe, ne attraversa un altro. Le palme, alte e piegate dal vento dell’oceano ormai vicino, compongono una colonna sonora che cambia continuamente. Infine, un ponticello attraversa una piccola laguna che fa da anticamera al mare, da cui è separata da una sottile, ultima striscia di terra. Nella laguna, in cui i canneti si alternano a sottili nastri d’acqua, radi isolotti isolati sono punteggiati da piccole capanne di terra. Lentamente, silenziosamente si muovono un pugno di piroghe, mosse dal costante movimento di piccole pagaie, in una scena di sapore indocinese. Al tramonto. Quando la luce, il vento ed il calore della terra sembrano scivolare dolcemente in un molle stato di quiete. Una quiete che introduce all’arco del non ritorno, eretto sulla spiaggia, davanti all’oceano, in memoria delle sofferenze di un intero popolo.
Sì, non può dirsi bella Ouidah. Ma ha un sapore rilassato, calmo. Tropicale, verrebbe da dire, utilizzando un banale luogo comune. Si passeggia lungo le sue strade polverose e ci si perde nei propri pensieri, tanto l’atmosfera e la discrezione della gente aiutano. Forse le mie sono solo semplici riflessioni da turista di passaggio, che non ha né tempo né modo di approfondire la conoscenza dei luoghi, ma qui, in questa cittadina famosa per essere uno dei principali centri vudù della regione, non si avvertono ombre sinistre aleggiare. L’aria è tranquilla e regna una pace assoluta. E nemmeno il ricordo del passato, della tratta degli schiavi, sembra condizionare il presente. E’ lì, ma è, appunto, passato, semplice memoria. Un po’ come potrebbero essere, da noi, dei ruderi romani.
Niente riti sanguinosi, niente mistero, tutto è semplice e tranquillo ad Ouidah. Tranquillo, come una passeggiata pomeridiana sotto un cielo carico di pioggia attraverso le sue strade malridotte. Tranquillo, come la sua sonnolenta gare routiere. Tranquillo, come il nostro albergo, di cui siamo gli unici clienti.
Tranquillo, è il ricordo che ci porteremo dietro lasciando Ouidah. E non è male, anche se forse un po’ sorprende, per un luogo che, nella sua storia, ha vissuto così tanto dolore.
Gran Popo (Benin), 17 agosto “La città lacustre dell’Africa occidentale”. “La Venezia del Benin”. Il primo slogan lo si legge nell’unico manifesto turistico beninese in cui, dall’affollata dogana di Hilla Condi, all’albergo di Abomey, alla bottega di generi alimentari del mercato di Ouidah, di tanto in tanto capita di imbattersi. Il secondo, dopo averlo letto, in chiave inevitabilmente ironica, in tutti gli scritti che mi è capitato di trovare sul Benin prima di partire, lo abbiamo incontrato di nuovo, più serio, sulla bocca di Gerard, il barcaiolo che, con la sua piroga a remi, ci ha portati in giro sulle acque salmastre del lago Nokué, già solo dieci minuti dopo aver lasciato il lungo molo di legno di Abomey-Calavi.
Date queste premesse, ed anche l’incredibilmente scarso numero di fotografie – peraltro anche di pessima qualità – trovato su internet, si capisce come le nostre aspettative fossero quanto mai incerte al riguardo. Come sarà il più grande villaggio su palafitte del globo (altro slogan), il luogo in cui più di ventisettemila persone – o quindicimila? o trentamila? le fonti, al riguardo sono molto fantasiose – trascorrono la propria vita a qualche spanna dalla superficie di un lago salmastro che corre lungo le coste del Benin? Ovviamente, questa era la domanda che mi facevo, mentre Gerard era intento a fissare a due esili bastoni, mangiati dal sale ed in precario equilibrio reciproco, la piccola vela quadra che avrebbe aiutato la nostra andatura nel tratto a favore di vento. Più che una vela, in realtà una stoffa colorata, di quelle che le donne qui indossano tutti i giorni, cosparsa di buchi e bordata da un’ampia fascia rossa. Il vento lieve, proveniente dalle nostre spalle, come per magia ha cominciato a gonfiare la stoffa sfilacciata e la piroga ha preso a filare veloce e silenziosa. La costa si è allontanata sempre più in fretta ed al brusio delle voci che affollano i villaggi e i mercati sparpagliati sulle rive della laguna si è sostituito il rumore dell’acqua e del vento. Sorprende, la piroga, che sembra scavata in un unico tronco ed ha il fondo cosparso di pece nera. Fila veloce, senza scarti, seguendo una linea netta e precisa verso un canneto verde e rigoglioso, che sembra indicare il centro del lago. Un cormorano, scuro davanti al bianco del cielo che, come al solito, è carico di nuvole, ha iniziato a planare sopra le nostre teste. Da una piroga, ferma accanto ad una macchia verde di piante palustri, un bambino ha lanciato in acqua una piccola rete tondeggiante. Incrociandoci, tre donne su una piroga carica di calebasse piene di pesce e di granchi destinati ai mercati della terraferma, al vedere la mia macchina fotografica, hanno subito iniziato a protestare, strillando nel loro dialetto incomprensibile. Per qualche breve momento l’idillio si è interrotto, al passaggio di una piroga a motore piena di persone. Poi, il silenzio è tornato. Ancora solo il rumore del vento e dell’acqua. Si è sentito, debole ed intermittente, l’eco gioioso di una risata lontana, proveniente da chissà dove. Quindi, un richiamo. Un canto? Siamo arrivati ad una specie di rado recinto di foglie di palma, che, come i molti altri che costellano la superficie del lago, viene periodicamente infoltito da parte dei pescatori, con lo scopo di attirare i pesci. L’abbiamo costeggiato fino a superarlo. L’orizzonte si è aperto allo sguardo e così abbiamo potuto finalmente vedere le case. Le capanne. Lungo tutto l’orizzonte davanti ai nostri occhi. Lo spettacolo di Ganvié.
Abbiamo chiesto a Gerard qualche spiegazione e lui, in un francese fluido e comprensibile, ci ha raccontato con precisione origini e curiosità di un villaggio che, ormai da lungo tempo, continua a vivere ed a sopravvivere a qualche centimetro dalla superficie dell’acqua. Un villaggio che, come quelli, numerosi e più piccoli, che lo circondano, è formato per lo più da capanne, da palafitte, che sono praticamente identiche a quelle che si studiavano a scuola da piccoli. Pali verticali, che – ci ha spiegato Gerard – vengono sostituiti un po’ alla volta, all’incirca ogni sei mesi. Il pavimento e le pareti di legno. Il tetto di paglia.
Ma l’emozione più grande è stata entrare a Ganvié. Scivolare lentamente, spinti solo dalle piccole pagaie di legno maneggiate con abilità da Gerard e dal suo “secondo”, sulle sue vie di acqua; un’acqua limacciosa, scura ed opaca. Costeggiarne le casupole. Assaporarne i suoni senza tempo. In un silenzio rotto, al nostro passaggio, dai richiami intermittenti dei bambini, che cercano di attirare la nostra attenzione gridando “iovo, iovo”. Bianco, bianco. Madri con figli di pochi mesi legati alla schiena, pagaia alla mano, conducono lentamente le strette e filanti imbarcazioni di legno, che sembrano antiche quanto il genere umano. E non si sa bene dove voltarsi, chi seguire con lo sguardo, chi salutare con la mano. Da dietro ad un angolo sbuca una piroga condotta da un ragazzetto. Solo. Avrà quindici, sedici anni. Indossa una polo blu a righe orizzontali bianche. Punta dritto verso di noi. Incrociandoci, alza gli occhi, sorride e, in perfetto francese, ci saluta educatamente. Poi, passa oltre. Barattiamo caramelle con fotografie, continuando, in modo sicuramente più innocuo, una storia di scambi tra le genti del posto e gli “iovo”, che ben poco onore ha fatto a questi ultimi e ben pochi vantaggi ha portato ai primi. Ma, lì per lì, gli occhi sono così pieni di immagini, le orecchie così piene di suoni che non c’è quasi tempo per queste considerazioni, né per un po’ di vergogna.
Il tempo fila veloce, come la nostra piroga. Mentre vorremmo non venire da un mondo che ha fatto proprio del tempo la base della propria cultura. Vorremmo essere un po’ più… africani e poter dilatare il tempo a nostro piacimento. Per rimanere ancora qui, in questo posto che non sembra appartenere a nessun luogo ed a nessun tempo. Gerard, invece, nonostante l’aspetto decisamente africano, nelle vene deve avere sangue europeo. Anzi, mitteleuropeo, per la precisione. Infatti, dopo una puntata alla boutique locale – eh sì, anche Ganvié ha il suo negozio di souvenirs – ed un’altra breve sosta da “Chez M”, l’albergo incredibilmente grazioso ed ordinato, lasciamo Ganvié rispettando esattamente i tempi promessi dalla nostra guida.
Ci ritroviamo, storditi e confusi, sul molo di Abomey-Calavi. Laggiù, in lontananza, sotto il cielo grigio, c’è un villaggio dove migliaia di persone continuano a vivere e a morire, a soffrire e a gioire. A giocare, a litigare, a lavorare, ad odiare e ad amare. Laggiù, oltre l’orizzonte. Lontano. Nello spazio e nel tempo.
Gran Popo (Benin), 19 agosto L’oceano oggi è quasi calmo. Tira solo una lievissima brezza dal mare, mentre scrivo queste poche righe, seduto ad un tavolo del ristorante dell’albergo, che è sostanzialmente una piattaforma di legno rettangolare, sormontata da un bel tetto di paglia, a pochi metri dall’acqua. Questa mattina siamo stati svegliati da un violento acquazzone tropicale, con la camera da letto letteralmente attraversata da un vento fresco ed umido, dal quale le finestre prive di vetri forniscono solo un debole riparo. L’aria ed il cielo, ancora adesso, sono carichi di pioggia.
Abbiamo appena fatto colazione e ci godiamo, tranquilli e rilassati, lo spettacolo di un mare che sfoggia tutte le sfumature del verde e del blu, in una sequenza talmente ordinata da sembrare decisa a tavolino. Aspettiamo Goupil, un cortese e tranquillo abitante del posto, che ieri ci ha fatto da guida nella visita dei dintorni e che ha promesso di accompagnarci, oggi, “a far spese”. Spese… In realtà, ieri, in un villaggio, poco distante dall’albergo, che abbiamo visitato nel pomeriggio, abbiamo promesso alla moltitudine di bambini urlanti, che ci ha circondato tra risate, salti e balli, che gli avremmo comprato un nuovo pallone da calcio, in sostituzione di quello vecchio, ormai ridotto ad uno sgonfio ed informe involucro di plastica bianca e nera. Ma una cosa è promettere ed un’altra mantenere. Vallo a trovare, qui, un buon pallone da calcio. Fortunatamente, Goupil si è offerto di aiutarci a trovarlo, in appendice al giro in piroga sul Mono, il fiume che separa Togo e Benin e che scorre qui vicino, che avevamo già programmato per il pomeriggio.
Ma, tornando al pomeriggio di ieri… Siamo partiti verso le tre a bordo di uno “zemj”, abbreviazione di zemijan, i taxi locali. Che altro non sono se non dei ciclomotori scassati sui quali, lungo le strade del Benin, trovano posto due, tre e persino quattro persone, se tra i passeggeri vi sono anche dei bambini. Quindi, siamo partiti sullo “zemj” – il guidatore, Silvia ed io, compressi sul sellino del piccolo motorino di 50 cc. Di cilindrata – alla volta di Houndjohoundji. Dopo una decina di minuti passati tra urti e sobbalzi, con la colonna sonora della voce di Silvia, impegnata con costante determinazione a ricordare al guidatore di procedere con prudenza, siamo arrivati a destinazione. Ad attenderci abbiamo trovato l’intero villaggio. E, soprattutto, i bambini del villaggio. Infatti, questa è una zona del Benin in cui la popolazione ha qualche raro contatto con i turisti, quindi generalmente gli adulti, ad un primo approccio, appaiono diffidenti, scostanti, quasi timidi. Con un atteggiamento – mai ostile, per carità – che sembra quasi imbronciato. Ma i bambini no. I bambini, ovviamente, no. Siamo stati accolti da una selva di “iovo”, bianco, e da cento manine, che ci hanno sfiorati, toccati, tirati, accarezzati. Goupil ha subito preso gli ultimi accordi con gli anziani per la cerimonia cui avremmo dovuto assistere. L’uscita degli zangbetto, maschere dalla forma approssimativa di un pagliaio, che coprono interamente la persona, nascondendola dalla testa ai piedi. Composti da tanti minuscoli filamenti di una fibra che, da lontano, si direbbe paglia, sono dipinti con colori vivaci. Rosso, giallo, viola, blu, verde smeraldo. Talvolta i colori sfumano l’uno dentro l’altro. Il rosso nel giallo, il blu nel viola. Sono sormontati generalmente da piccoli camaleonti stilizzati, anch’essi dipinti con colori accesi. Si muovono, ruotano, corrono, vibrano. Sempre comandati a voce da alcuni tra gli uomini del villaggio.
Mentre Goupil parlava fittamente con la guida spirituale ed il capo del villaggio, il vero spettacolo ha iniziato a prendere vita intorno a noi. Lo spiazzo centrale del villaggio, un semicerchio polveroso di terra rossa, ombreggiato da un grosso mango centenario, ha cominciato a riempirsi di bambini. I ragazzi più grandi, seduti dietro i loro tamburi colorati, hanno cominciato a battere, componendo quella che, per le successive tre ore, sarebbe stata l’instancabile colonna sonora, tesa, ritmata e palpitante, dell’intero pomeriggio. Gli anziani, lentamente, si sono schierati lungo un lato dello spiazzo. Seduti in terra, spalle ad un muro grinzoso, gli occhi ed il fiato velati dall’alcool. Alcool che, purtroppo, il denaro offerto da noi ha sicuramente contribuito a comprare. Un triste e patetico contrasto con la gioia e la vita sfoggiate dalle generazioni più giovani.
Seduti su una panchetta sgangherata all’ombra del mango, quasi non abbiamo avuto il tempo di guardarci intorno. Nella testa il battito incessante dei tam tam, il suono secco dei campanacci, le grida allegre dei bambini. Negli occhi i sorrisi, gli sguardi, i gesti. E poi le mille teste da accarezzare, e le guance, grassocce, da pizzicare. Silvia si è subito immersa nel tentativo, peraltro riuscito, di insegnare qualche giochino ai più grandicelli. Questi, in risposta, hanno invano tentato di iniziarci ai misteri – per noi imbranati – delle danze locali. Ammetto la sconfitta: abbiamo fatto una figura degna di due “tronchi”. Siamo stati praticamente incapaci di abbozzare anche il pur minimo passo. Non solo. Siccome i balli, qui, si fanno muovendo secondo schemi fissi anche, e soprattutto, le braccia, la nostra mancanza di scioltezza si è mostrata in particolar modo proprio dalla vita in su. Un vero disastro. Purtroppo – per Silvia – immortalato anche dalla piccola telecamera che ci siamo portati dietro.
Dopo un’ora, forse più, di immersione in quel caos di teste e di braccia urlanti – e dopo aver, io che non bevo alcolici, assaggiato un sorso di alcool di palma, che ha avuto il solo effetto di provocarmi una dolorosa fitta allo stomaco per il resto del pomeriggio – hanno cominciato ad uscire gli zangbetto. Macchie di colore, rosse, blu, verdi, hanno cominciato a correre ed a roteare nel polverone che presto ha saturato l’aria. L’atmosfera non è solenne. E’ distesa e quasi spensierata. Un po’ alla volta, tutte le maschere escono da una capanna situata sul lato opposto dello spiazzo rispetto a dove siamo seduti noi. Iniziano a roteare. Poi, all’improvviso, si mettono a correre, per fermarsi bruscamente solo pochi metri dopo. Sempre sotto lo sguardo vigile degli aiutanti del feticheur, che le seguono e le guidano con brevi frasi o con semplici tocchi della mano. Uno degli zangbetto, poi, quello verde, ha un “potere” particolare. E’… disabitato. Di tanto in tanto, infatti, viene capovolto e apparentemente al suo interno non sembra esservi nessuno. Salvo, poi, mettersi a vibrare ed a correre di nuovo, una volta rimesso dritto. Oltre tutto, fa anche apparire le cose. La prima volta che lo hanno rovesciato, al centro, lì dove avremmo dovuto vedere dei piedi, faceva bella mostra di sé una piccola ciotola. La seconda volta, una piccola tartaruga. Poi, una bottiglia, un piccolo feticcio, uno zangbetto in miniatura. Per di più rotante a sua volta. Insomma, se non fossimo ormai abituati ai colpi di scena dei maghi che da sempre infestano i nostri apparecchi televisivi, l’effetto sarebbe assolutamente sorprendente.
Con l’andare del tempo, il rombo delle percussioni, il movimento continuo dei bambini, le danze e l’agitazione dell’intero abitato, lungi dal diminuire, invece sono andati crescendo.
Una volta scomparso anche l’ultimo zangbetto, ci alziamo, impolverati e disfatti a causa del caldo umido, e ci avviamo verso la strada, per ritornare in albergo. Solo le mani di pochi bambini ci seguono fino all’uscita del villaggio. Gli anziani, ormai quasi riversi in terra per la bevuta, non sembrano nemmeno in grado di reggersi in piedi; figuriamoci se possono salutarci. I giovani continuano a ridere ed a ballare, ad un ritmo che sembra essere uscito direttamente dal mare. Ondate successive di percussioni si susseguono, si rincorrono, si incalzano. Sono più di tre ore che continuano a percuotere furiosamente tamburi e campanacci e non sembrano nemmeno minimamente provati. Quanto ai bambini… i bambini sono ovunque. Si rincorrono, si strattonano, si rotolano nella polvere. Ridono, urlano, giocano. Sono come una massa fluida e stracciata, seminuda, strappata e sorridente che scorre lungo tutto il villaggio. Un po’ di quella massa ci rimane attaccata fino alla strada, dove gli zemijan stanno aspettando clienti. Sembrano non volerci più mandare via. E, forse più realisticamente e con un po’ meno di poesia, vorrebbero che gli avessimo portato un po’ più di regali.
Ci guardano, mentre promettiamo di tornare l’indomani con caramelle, penne, quaderni e, soprattutto, il pallone da calcio nuovo. Ci guardano con speranza e molto, molto scetticismo.
Ma domani torneremo.
Oggi torniamo.
E l’ultima immagine che mi rimane di Houndjohoundji è quella di un gruppo di bambini urlanti di felicità che si allontana di corsa, brandendo un pallone di cuoio nuovo di zecca, con i rombi gialli e rossi.