Un nordico in Africa
03 MARZO 2007 FORLI’ – BOLOGNA – PARIGI – LOME’ Salutiamo Forlì alle cinque circa del mattino mentre fuori è ancora buio. Arriviamo in aeroporto a Bologna in perfetto orario, scarichiamo le pesanti valige ed effettuiamo senza problemi il check-in, ma poiché non c’è viaggio che si rispetti senza imprevisti, quando arriva il momento del bagaglio a mano vengo subito castigato. Il treppiedi per la telecamera infatti deve essere necessariamente stivato e nella concitazione della partenza decido di affrontare l’esorbitante spesa di 150 euro, quando con un po’ di accortezza avrei potuto lasciarlo in consegna ad alcuni componenti del gruppo che erano presenti in aeroporto per salutarci. Il volo per Parigi superato questo imprevisto si dipana senza problemi, ed una volto atterrati allo Charles De Gaulle abbiamo tutto il tempo necessario per pranzare nell’attesa di imbarcarci per Lomé. Giunto il momento saliamo a bordo del velivolo ed all’istante rimango meravigliato dalla spaziosità dei sedili e dai piccoli monitor posti in ogni schienale, una vera novità per chi come me fino a quel momento aveva viaggiato quasi esclusivamente con voli low-cost. L’avvenimento più entusiasmante del volo si rivela tuttavia il lasso di tempo in cui sorvolando l’Algeria vediamo comparire progressivamente il deserto, e sebbene i condizionatori alimentino il mio mal di testa risvegliando una sinusite sino a quel momento assopita, l’emozione è forte. L’atterraggio all’aeroporto Général Gnassingbé Eyadéma è una benedizione ed appena scesi dall’aereo constato sulla mia pelle quanto letto prima di partire; mi copro come se dovessi affrontare la scalata all’Everest, il pilota si diverte a schernirmi spiegandomi che le Dolomiti si trovano da tutt’altra parte e di fatto quando appoggio i piedi sul suolo togolese dopo meno di trenta secondi raffreddore e mal di testa sono solo un lontano ricordo! La calura della sera mista ad una umidità avvolgente ed all’inevitabile vampa dei reattori scatenano sul mio corpo un effetto simile alle foss del profondo nord. Il primo passo consiste nel togliermi giubbotto e berretta, il resto dei panni li leverò con calma, questo caldo per i più asfissiante è per me un toccasana che voglio gustarmi lentamente. Entriamo nell’edificio per le formalità di ingresso nel paese e per attendere i bagagli; quando il nastro comincia a distribuire le valige il gruppo ha formato un drappello compatto atto ad evitare che qualche malintenzionato o portantino troppo zelante alla ricerca di guadagno possa metterci le mani sopra. Con gli sguardi puntati sulle valige comincia l’attesa che si dilunga all’eccesso, finché grazie all’intervento della nostra responsabile riusciamo ad averla vinta. Usciamo dall’aeroporto e d’improvviso siamo catapultati nella realtà di Lomé in un caos generato da motorini e macchine che rende se possibile questa afa ancor più appiccicosa. Un pullman sgangherato di color blu è giunto a prenderci; non senza fatica si incunea nello stretto piazzale disseminato di motocicli ed una volta arrestata la sua marcia si procede al carico di passeggeri e bagagli. Questo mezzo faceva parte della vecchia azienda dei trasporti di Bologna, una carcassa per noi italiani, un regalo apprezzato per i togolesi. L’autista chiude a mano le portiere a soffietto e si parte. Con maestria effettua una retromarcia a prima vista infattibile, dopodichè finalmente ci immettiamo nel fermento del sabato sera di Lomé, tra le luci dei motorini che sfrecciano indifferentemente da destra e da sinistra. La città è praticamente priva di illuminazione pubblica e per ovviare in minima parte a questo problema, i gestori dei locali accendono ai bordi della strada candele e lampade. All’altezza dello stadio nazionale di calcio abbandoniamo la strada asfaltata per avventurarci in una delle vie minori, quelle che rappresentano la quasi totalità del paese e senza preavviso affrontiamo un tratto di rally in notturna. Sballottati dalle numerose buche, fortunatamente non impieghiamo molto tempo per arrivare al nostro alloggio, che nella mia immaginazione doveva essere un anonimo casermone grigio ed invece si mostra come un piccolo complesso di appartamenti dalle belle sembianze. Tre appartamenti dipinti di verde e rosa formano un ferro di cavallo a cui prospiciente si erige la sagoma di un nuovo edificio che, a detta di chi è informato, una volta ultimato ospiterà orfani e bambini abbandonati. L’accoglienza è calorosa, la cena ottima (con imprudenza ingurgito un peperoncino che mi farà passare un brutto quarto d’ora), il letto sufficientemente lungo. La grande camera con sei posti letto è mitigata da un ventilatore che lavora a pieno regime, mentre nel bagno capeggiamo due grandi bidoni di plastica, uno contenente acqua potabile destinata a lavarci e l’altro per scaricare il water, poiché gli impianti non sono stati ancora completati. Al fine di investire al meglio il tempo di permanenza nel paese, durante il pasto si pianificano i giorni a venire, quindi terminata la cena bighelloniamo nel patio dove è in corso una sorta di festa di benvenuto a base di musica e balli. Il buio, causa la vicinanza all’equatore, lo noteremo giungere con insolita velocità, ma il cielo questa sera riserva un’ulteriore sorpresa, infatti come già annunciato si verificherà un’eclisse di luna seppur non completa. I ragazzi che ci accolgono sono gentili ed immediatamente per loro divento Adebayor Sheyi, un calciatore locale alto, magro e con i capelli lunghi che ha fatto successo in Europa… come inizio non c’è di che lamentarsi!
04 MARZO 2007 LOME’ Il sole sorge presto, ma forse a causa della stanchezza accumulata nel viaggio sarà l’unica notte di vero riposo. Tuttavia sono appena le sei quando la gente comincia a prepararsi, chi perché non riesce più a stare nel letto, chi perché ha intenzione essendo domenica di andare a messa. Io proseguo ad oziare nel letto, del resto sebbene mi trovi in Togo per documentare l’operato di una Onlus al fine di produrre un filmato informativo da divulgare nel nostro paese, sono anche in vacanza e di conseguenza me la voglio godere. Resisto comunque poco, mi alzo e comincio a filmare lo svolgimento della vita nel cortile interno. Osservo le donne che lavano le stoviglie all’aperto e che cucinano il riso alimentando la fiamma con un’enorme ventaglio ricavato dall’assemblaggio di foglie di banano. Sotto i loro piedi terra rossa, la famosa sabbia polverosa che siamo soliti vedere in ogni servizio sull’Africa che si rispetti. Mi muovo con un po’ d’imbarazzo, non vorrei fare inconsapevolmente qualcosa di irrispettoso ora che tutti gli sguardi sono rivolti al lungo uomo bianco. Riprendo la costruzione da tutte le angolazioni, soffermandomi su grossi lucertoloni chiamati marguia che si muovono veloci sulle pareti; immaginatevi una via di mezzo tra le nostre lucertole ed i camaleonti, taluni hanno toni di un verde molto tenue, altri il corpo rosso e nero e si muovono con sorprendente rapidità. Avvisto inoltre alcuni gechi e grazie all’intervento di una delle infermiere che prendono parte alla missione, anche uno sparviero intento a volteggiare sulle nostre teste. Nel contempo mi ritrovo accerchiato da bambini incuriositi alla vista della videocamera, mentre gli adulti continuano a mostrare un maggiore riserbo. Cerco di rompere il ghiaccio scambiando qualche parola con Patrice, un ragazzo mio coetaneo, ma la lingua non aiuta ed in ogni modo siamo entrambi molto riservati. Rientrando in cucina trovo pronti ad attendermi baguette ed una batteria di marmellate locali, e sebbene non sia una persona golosa la confettura di cocomero esercita su di me un fascino magnetico. Notando le mie condizioni da profugo del Biafra, lo spirito umanitario prende il sopravvento nella nostra responsabile, cosicché nel tentativo di invogliarmi si arma di roncola, esce in cortile e rientra dopo breve con un pugno di lamelle di citronella con le quali mi prepara uno strepitoso tè. Verso le otto il gruppo rientra dalla funzione domenicale, mentre nel cavedio è un brulicare di anime in ripetuta processione. Un infermiere della spedizione notando il gran numero di bambini si procura un sacchetto di palline, disegna sulla sabbia un percorso e insegna loro a giocare a biglie. Alcuni ragazzi nel frattempo si stanno adoperando per ascoltare musica nel cortile alla maniera della sera precedente e grazie ad una serie di prolunghe allacciate alla meno peggio che serpeggiano attraverso la sabbia facendo impallidire un’intera stirpe di Franklin ed Edison, si riesce ad alimentare l’impianto stereo che comincia ad elargire musica a piene mani. La mattina scorre placida, iniziamo a conoscere gli autoctoni ed una ragazza che a Lomé fa di mestiere l’acconciatrice accenna sulla mia capigliatura un paio di trecce che conserverò fino al primo shampoo. Dopo pranzo usciamo per la prima volta dal nostro rifugio e percorriamo un po’ di strada per raggiungere un paio di taxi che ci accompagneranno in città. La strada di terra rossa avrebbe di per sé lo spazio sufficiente al passaggio contemporaneo di almeno sei veicoli, ma di fatto solo una stretta fetta centrale viene utilizzata perché esternamente la sabbia non ha compattezza ed ovunque sono disseminati rifiuti e calcinacci. Non è raro a questo punto assistere a veicoli che si puntano per evitarsi all’ultimo istante, mezzi che guidano all’occorrenza all’inglese o costretti per mantenere l’equilibrio a veri e propri numeri da circo. A tal proposito va detto che la Lonely Planet acquistata prima della partenza metteva in guardia dalla guida sportiva dei tassisti, e non a torto. Ad essa va aggiunta l’aggravante di veicoli con chilometraggi nei migliore dei casi ben oltre i duecentomila chilometri, privi di cinture di sicurezza, costruiti quando il concetto di airbag era ancora lungi dall’essere concepito e scalcinati quanto basta per mandare in estasi l’intero gruppo di meccanici della trasmissione Pimp My Ride! Il mio primo taxi rientra perfettamente nella descrizione succitata, con l’aggiunta di una molla arrugginita fuoriuscita dalla fodera del sedile, che per tutto il tempo del viaggio mi puntella l’avambraccio. Abbandoniamo la sabbia per l’asfalto, ed in un attimo siamo catapultati nel traffico della periferia di Lomé, un girone dantesco popolato da motorini e macchine che sfrecciano infischiandocene di qualunque norma stradale, il tutto in un tripudio di clacson. Mentre ci dirigiamo verso il centro osservo scorrere ai lati della strada negozi che risulta improprio definire tali; si tratta in realtà di quattro pali (uno per ogni angolo del riparo) e di una lamiera per tetto, la terra come pavimento. I bazar sostanzialmente sono minuscole officine per la riparazione dei ciclomotori, casupole per la vendita in ampolla di benzina ed oli motore, postazioni telefoniche ed acconciatrici. La situazione migliora leggermente nel centro cittadino, dove comunque le botteghe non differiscono molto da quelle viste in periferia, se non per la struttura che è in muratura. Quasi ovunque compagnie di cellulari pubblicizzano i loro prodotti… l’occidente che avanza. Agli incroci regolati col semaforo i venditori ambulanti si avvicinano ai veicoli nel tentativo di vendere qualunque cosa possa venirvi in mente. Per quanto possa risultare incredibile il traffico cittadino è ancor più caotico, ma la cosa che colpisce è che d’improvviso, quando il pilota scende dal proprio mezzo, i togolesi rallentano come fossero giunti alla conclusione di una gara. Giungiamo così in una clinica privata nel centro della città, dove l’indomani il gruppo di volontari presterà servizio. Parliamo con la responsabile della clinica, che ci illustra i campi d’azione della struttura e successivamente ci fa condurre alla visita dello stabile. Le stanze sono piccole, le attrezzature in certi casi attempate, ma nei prossimi giorni vedremo decisamente di peggio. Trovato l’accordo ripieghiamo in direzione dei taxi per rientrare nell’abitazione, ma prima di rincasare ci viene offerto un tour della Lomé benestante, quella dei grandi palazzi del potere dove banche ed enti osservano dall’alto della loro postazione i propri fratelli combattere contro miseria e degrado. Costeggiamo per un tratto il lungomare, preso letteralmente d’assalto da centinaia di ragazzi in questa assolata domenica, quindi nel percorso per rientrare all’abitazione, attraversiamo l’unica linea ferroviaria del paese, utilizzata unicamente per il trasporto delle merci e totalmente invasa ai bordi dai rifiuti. Rientrati al nostro alloggio bighelloniamo in attesa della Corale, un gruppo di cantori a sfondo religioso con cui abbiamo appuntamento. A piccole ondate si radunano tutti quanti, poi verso l’imbrunire comincia la loro performance. Un ragazzo avvia una lunga preghiera, al termine della quale il coro accompagnato da tastiera, tromba e percussioni, dà il via ad una danza collettiva, alla quale poco per volta si uniscono alcuni elementi del nostro gruppo. Una breve sosta durante la quale viene servita la cena nel patio permette a tutti quanti di riprendere fiato. Nel mentre Lomé viene privata della corrente elettrica, un problema all’ordine del giorno a detta dei locali, il paese versa in un grave dissesto finanziario e per risparmiare si taglia dove si può. La festa non risente comunque dell’evento e riprende senza esitazione. Stanco della confusione valuto a lungo se fare o meno la doccia, il buio è totale e la luce sembra non avere intenzione di tornare. Decido alla fine per farla, mi faccio prestare da Sara la sua pila tascabile e puntata questa sul bidone dell’acqua un po’ a tentoni mi lavo. I suoni della festa nel frattempo si esauriscono, la sera si avvia alla conclusione, domani aspetta al gruppo il primo giorno di lavoro.
05 MARZO 2007 LOME’ La sveglia è puntuale alle sei, ma i miei compagni di stanza sono già in fermento da diverso tempo. Il programma prevede di essere in clinica per le otto e mezza, ma dobbiamo tenere in considerazione che a prepararci siamo in dieci e dunque ci vuole del tempo. Dopo la consueta colazione a base di marmellate e tè alla citronella, comincia la vestizione durante la quale per conformarmi all’ambiente che sono in procinto di calcare indosso il camice da infermiere. Verso le otto ci riuniamo tutti quanti nel cortile interno per attendere l’arrivo del pulmino che ci accompagnerà fino alla clinica ed alla scoperta del territorio nei giorni seguenti. Per riempire il tempo dell’attesa, un componente del gruppo imita le donne locali portando in equilibrio sulla testa un grosso catino e sebbene necessiti di pratica riesce nel suo intento. Sopraggiunti in clinica comincia la spartizione dei ruoli e degli ambulatori, piccole stanze prive quasi completamente di aerazione che nella maggior parte dei casi sembrano celle punitive. Le visite cominciano regolarmente, nel frattempo torna l’elettricità (anche se sarà precaria per tutto il giorno) e ci si appresta a fare anche le prime ecografie. In qualità di collaboratore incaricato di effettuare le riprese mi sposto da una stanza all’altra cercando di carpire quanto più possibile in luoghi a volte sovraffollati, privi di luce, rischiando in numerose occasioni di risultare inopportuno o d’intralcio. I pazienti fortunatamente sembrano non essere infastiditi più di tanto dall’obiettivo, al contrario quando chiedo loro se sono disposti a farsi riprendere rispondono sorridenti di non preoccuparmi. Alterno riprese video e foto, in una mescolanza di on, off, batterie che si scaricano, pile da cambiare, impostazioni da modificare ogni volta. Fino all’ora di pranzo macino chilometri su e giù per le scale, mentre medici ed infermieri offrono il loro servizio tra problemi legate alla lingua (molti pazienti parlano solo l’ewe, la lingua locale e per comunicare con loro è necessario appoggiarsi ad infermiere locali che si prestano alla traduzione) ed al caldo che soprattutto al piano terra, totalmente privo di aerazione, sta mietendo vittime. Rientrando all’appartamento osservo con attenzione i motocicli ed il loro carico di anime. E’ raro vedere un ciclomotore condotto dal solo pilota poiché nella quasi totalità dei casi gli occupanti sono due, ma non è insolito vedere intere famiglie spostarsi su questi mezzi che inquinano da soli come una piccola fabbrica. Alla pari è spettacolare notare la caparbietà di chi a bordo di questi logori due ruote si ingegna per trasportare gli oggetti più disparati, quali biciclette, sedie, e su tutte una poltrona! E’ innegabile che se nell’occidente i mezzi servissero unicamente per il trasporto delle persone e non per ostentazione di benessere, ne trarremmo di sicuro dei benefici. Giunti a casa e dopo aver mangiato mi abbandono sul letto, sono quello che a conti fatti ha alle spalle la mattinata più tranquilla, eppure crollo dalla stanchezza. Verso le quindici riprendiamo da dove eravamo rimasti, ma di pazienti non v’è praticamente traccia, la notizia che un’equipe italiana è in città per svolgere visite gratuite non è stata divulgata, quindi prima che faccia buio torniamo a casa dopo un pomeriggio sostanzialmente inoperoso. Come sempre vaghiamo tra le quattro mura del nostro fabbricato, quindi dopo cena, tornata la luce, mi avventuro nel bagno e faccio la conoscenza con un piccolo scorpione che scopro avere alloggio tra alcune piastrelle non siliconate a regola d’arte. Come si accorge della mia presenza assume un atteggiamento bellicoso, ma raggiunto il suo pertugio vi scompare dentro. Chiedo informazioni al riguardo, ma sebbene tutti mi assicurino che quella piccola creatura non sia velenosa, da quel momento non mi siederò più sul water con la spensieratezza dei giorni precedenti. Detto questo, mi accingo a fare la doccia, ma prima mi soffio il naso e constato con una certa preoccupazione che il fazzoletto ha assunto le sembianze della benda di un garibaldino, conseguenza della quantità di sabbia rossa respirata nell’arco della giornata. La sera ci collochiamo nel patio e stocchiamo sul laptop le foto fino ad ora scattate, la temperatura è come sempre fantastica e la vita scorre in una tale tranquillità che comincio a meditare come sarà una volta tornato a casa. Alcuni degli autoctoni che vivono con noi iniziano ad attrezzarsi per la notte stendendo a terra qualche materasso (a chi è concesso), dormendo comunque all’aperto, al riparo del ballatoio o completamente sotto le stelle su panchetti di legno.
06 MARZO 2007 LOME’ La luce del sole mi sveglia puntuale alle sei, ma il sonno è stato discontinuo, disturbato dal canto dei galli, dalle preghiere provenienti dalla vicina moschea e dal correre dei lucertoloni sul tetto di lamiera. Chi è uscito all’albeggiare, rientrando in camera dichiara che l’umidità ha ricoperto tutto come se avesse piovuto. Oggi, come da programma, mentre infermieri e medici andranno in clinica per proseguire le visite, io seguirò due componenti del gruppo che distribuiranno colori, quaderni e giocattoli ai bambini delle scuole. Prima di partire si dividono i colori in maniera da fare eque distribuzioni. Il taxi ci porta attraverso le strade polverose di Lomé, dedali apparentemente tutti uguali dove il traffico sembra soltanto un lontano ricordo. Facciamo il nostro ingresso nella prima scuola ed inevitabilmente l’attenzione di insegnanti e bambini si catalizza su di noi. Ogni scuola prevede che tutti gli alunni indossino una divisa dello stesso colore, in questo caso spicca il viola. La nostra accompagnatrice ci guida nella prima classe, dove dopo un breve colloquio con la maestra i bambini danno il via ad una danza che in Africa è il modo per dare il benvenuto ai visitatori. I bambini cantano e ballano con un ritmo ed una intensità quasi fossero posseduti, tutto questo per un buon quarto d’ora mentre la maestra dà loro il ritmo battendo un’asta di legno contro la lavagna. Terminata l’esibizione i bambini tornano ai loro piccoli banchi con un visibile sorriso che si amplia quando comincia la distribuzione dei regali. Si tratta di piccole cose, doni di poco conto che un bambino occidentale guarderebbe con noncuranza, mentre la soddisfazione negli occhi di questi pare genuina. Proseguiamo la visita all’interno della stessa scuola, dove le classi sono disposte a ferro di cavallo ed al cui centro si trova un cortile nel quale capeggia un immenso mango; le pareti divisorie alte poco meno di un metro permettono a chiunque di vedere quello che succede, dunque le lezioni per il tempo della nostra visita sono sospese per l’eccesso di curiosità dei piccoli togolesi. A ruota incontriamo il preside della scuola con cui abbiamo uno scambio di convenevoli, quindi passiamo in rassegna classe per classe. Solo in una occasione mi capita di osservare una lezione che nonostante la nostra presenza prosegue come nulla fosse, ed il tutto risulta molto interessante. Il docente pone il quesito a voce, i ragazzi scrivono la risposta con un gesso sulla loro lavagnetta, quindi mettono questa sulla testa con la risposta rivolta all’insegnante, che in rassegna controlla l’esito delle risposte. I ragazzi con l’aumentare dell’età diventano più discreti, ma bisogna tener presente che ciò è dovuto in buona parte alla rigida disciplina imposta dagli insegnanti. Terminiamo la nostra prima visita e rientriamo nel taxi che ci accompagnerà alla seconda scuola, dove il colore delle divise sarà l’azzurro. Il tragitto è breve e la storia si ripete. I bambini più piccoli, intorno ai cinque anni, sono i primi a ricevere la nostra visita e l’accoglienza non è meno calorosa della prima. La maestra, un donnone sorridente, invita un paio di bambini a decantare delle poesie, terminate le quali si arma di maracas ed intona un canto a cui i bambini fanno eco. Si forma alle sue spalle un trenino che percorre tutto il perimetro dell’aula, al termine del quale si ripete la distribuzione dei regali ai bambini. Al termine di queste visite risulta difficile comprendere quanta spontaneità vi sia da parte degli insegnanti, se questo non sia un siparietto collaudato che viene riproposto in replica ad ogni turista che si presenta con dei doni, ma purtroppo non ci è dato saperlo. Riprendiamo nuovamente la strada, stavolta per tornare all’appartamento. Nel pomeriggio ci apprestiamo per la visita in altre scuole, ma causa una serie di incomprensioni salta tutto, cosicché la nostra accompagnatrice si offre di accompagnarci al mercato. Attendiamo il solito taxi che ci porta a destinazione, dove una lunga fila di bancarelle ai bordi della strada espone frutta, oggetti d’artigianato prevalentemente in legno, batik e bigiotteria. Ci viene consigliato di rimanere compatti, di attraversare la strada con accortezza ed il più rapidamente possibile, il pedone qui in Togo infatti vale meno di un due al Superenalotto. Camminando nel mercatino siamo vittima delle insistenti attenzioni dei commercianti che richiamano l’acquirente con un sussurro ripetuto all’infinito. Provando per curiosità a contrattare è avvilente constatare che gli stessi oggetti venduti ad un bianco possono subire rincari senza esagerare cinque volte (nel migliore dei casi) il loro prezzo per il pubblico locale! L’insistenza a volte oltrepassa il sopportabile, ma il momento più drammatico si rivela quello in cui, attardato dal gruppo per fare delle riprese, mi trovo accerchiato da cinque ragazzi che sembrano non avere intenzione di lasciarmi andare fino a quando non abbia deciso di comprar loro qualcosa. Fatico non poco a convincerli che non ho denaro con me (che poi è la verità), quindi quando svelo di essere italiano scatta un fantastico dibattito sul calcio, argomento internazionale che tra uomini fa sempre presa. Per la prima volta in questi giorni mi viene facile parlare francese, tutti i ricordi di scuola riaffiorano e mi diverto non poco; scopriamo di avere tutti quanti qualcosa che ci accomuna, un anello a rosario, chi al dito, chi nella collana, cosicché si finisce a parlare anche di fede e fidanzate. Questi ragazzi sono simpatici, come la quasi totalità di quelli che ho incontrato in questo viaggio, invadenti, ma alla fine dei conti dotati di cordialità, e quando riprendiamo il nostro cammino mi dispiace doverli salutare. Lasciamo il mercato per fare ritorno alla base dove ci viene spiegato il metodo corretto al fine di prelevare l’acqua per lavarci dai pozzi, cosicché per una sera si forma una catena umana che porta l’acqua in grossi secchi per riempire i bidoni dei bagni. Dopo cena mi dedico alla scrittura delle cartoline che un ragazzo locale ha provveduto a procurarmi in maniera che l’indomani le si possa spedire, ammesso che le mie quindici cartoline non mandino in tilt l’ufficio postale di Lomé!
07 MARZO 2007 LOME’ Come è ormai abitudine ci svegliamo col sorgere del sole. Il programma prevede la visita dei maggiori ospedali pubblici del paese, ma prima dobbiamo recarci dalle autorità per ritirare i visti che sono ancora in sospeso. Nel grande palazzo l’andirivieni di gente è pressoché ininterrotto, si tratta soprattutto di funzionari dell’ordine, autoctoni e cittadini cinesi, una razza che ha ormai attecchito ovunque. La burocrazia togolese continua a rivelarsi una macchina mangiasoldi, ogni pretesto è buono per estorcere del denaro e per riavere indietro i nostri passaporti integrati di visto siamo costretti a veder sfumare buona parte della mattinata. Ripartiamo e ci accingiamo a visitare il primo ospedale, un enorme complesso grigio con un giardino brullo costellato per contrasto da alberi con fiori di un rosso intenso. Gentilmente veniamo fatti accomodare nell’attesa di essere ricevuti dal direttore del nosocomio; non passa molto tempo che un incaricato ci accompagna nello studio principale ed è come attraversare uno specchio che accompagna in un altro mondo. L’ufficio è arredato con i migliori materiali, decorato in ogni suo dettaglio con poltrone e divani apparentemente trafugati da Versailles, il tutto mitigato dall’aria condizionata che gela corpo e cuore. Perché ostentare tanto benessere quando oltre quella porta la quasi totalità dei tuoi fratelli vive un’esistenza di rinunce e privazioni? Ovviamente rispondere ad una domanda del genere è banale tanto quanto il quesito, quindi abbandono immediatamente questo terreno nel quale si rischia solo di invischiarsi e passo oltre. Il colloquio col dirigente si esaurisce in pochi minuti, durante i quali ci vengono illustrate le funzionalità dell’ospedale e della relativa università di medicina attigua, il tutto sotto gli occhi vigili del capo dello stato raffigurato in un quadro alle spalle della scrivania come in ogni ambiente pubblico visto sinora. Veniamo successivamente condotti dall’incaricato alla visita dei reparti in un tour de force che si dipana attraverso scale, piani e stanzoni; sebbene l’ospedale di per sé non richiami alla nostra memoria ricordi felici, questi ambienti riescono nel non facile compito di trasformare i problemi della sanità italiana un dilemma di poco conto. I mezzi a disposizione non sono di prim’ordine, ma nemmeno di secondo né di terzo, letti, tavoli operatori ed ogni apparecchio prima di terminare il proprio ciclo operativo deve aver superato l’età pensionabile almeno tre volte e gli infermieri sembrano preoccuparsi più di arrivare alla fine del proprio turno lavorativo piuttosto che di rendersi utili. Osserviamo la struttura in ogni sua parte e poco prima di pranzo torniamo al quartier generale con Sara che accusa qualche fastidio accompagnato da febbre. Dopo aver pranzato riprendiamo da dove eravamo rimasti, cioè visitando un secondo ospedale, un complesso apparentemente più esteso fatto di padiglioni collegati tra loro da una fitta trama di percorsi pedonali porticati. Avvezzo alla sobrietà degli ospedali italiani, notare ovunque le pareti pitturate fino ad un metro di altezza con un insolito color marrone per poi proseguire con un giallo crema fa uno strano effetto. Una moltitudine di persone attende pazientemente al riparo dei loggiati, animisti, cattolici, mussulmani, tutti in rigoroso silenzio. In una sorta di peregrinazione passiamo da un padiglione all’altro osservando i mesti sguardi dei pazienti che in stanze spesso in penombra osservano quiete lo scorrere del tempo ed avverto in esse come un senso di rassegnazione, ma forse mi sbaglio. I ritmi blandi che ovunque si osservano (eccezion fatta per il traffico stradale) non sembrano fare eccezione negli ospedali e non di rado medici ed infermieri danno l’impressione di essere sfaccendati pur non mancando di certo il lavoro. Usciti dall’ospedale, allorché il cielo comincia la sua dissolvenza in nero, ci avviamo all’ultima tappa programmata per la giornata, la visita alla sede dei padri comboniani di stanza a Lomé, dove ci attende padre Bruno Gilli, un frate originario del Trentino da sempre dedito alla causa dell’Africa. Arrivati a destinazione, troviamo ad attenderci un uomo apparentemente burbero abbigliato con indumenti locali che dialoga in ewe con una donna del posto. Abituato al clichè del frate in tonaca dai toni gentili, vedere quest’uomo così abbigliato e dal fare arcigno mi coglie decisamente in contropiede. Una volta rivoltosi a noi ho l’impressione che oggi non sia giornata, o perlomeno che questo incontro per lui non sia troppo gradito. Risolta la questione con la signora precedentemente menzionata, ci invita a seguirlo all’interno del fabbricato dove i frati comboniani vivono e presso il quale offrono riparo ed istruzione a ragazzi abbandonati od orfani. I toni del frate col passare dei minuti si ammorbidiscono, anche se per tutta la serata conserverà un atteggiamento fondamentalmente austero. L’ospitalità è degna di nota e per circa un’ora ci illustra i suoi progetti passati e futuri, i mali del Togo, l’indifferenza dell’occidente, ma nelle sue parole non viene minimamente celata la rassegnazione di chi ha fatto molto senza riuscire a raccogliere altrettanto, anche se questa potrebbe essere stata solo una mia impressione. Un’ora passa senza che me ne accorga, nelle sue parole non vi è nulla di scontato, nulla che non meriti la nostra attenzione. Non vuole cambiare il mondo, vuole semplicemente avvicinare le culture senza che queste perdano i propri valori, vorrebbe far capire al mondo che con un po’ di raziocinio e buona volontà si potrebbe stare tutti meglio, anche quelli che apparentemente credono di star già più che bene. Il fascino espresso da questo personaggio è decisamente innegabile e non si può non augurargli che il suo lavoro possa avere un futuro. Poiché è autore di alcuni libri sulle pratiche vodù, al termine della chiacchierata alcuni componenti del gruppo colgono l’occasione per acquistare alcune sue opere, dopodichè nel buio della sera rientriamo a casa.
08 MARZO 2007 LOME’ – AKOUMAPE – VOKOUCHINE – SEVA – SEVAGAN – TOGOVILLE – AFANGNAN – ANÉHO L’inizio della giornata è scandito dagli auguri alle ragazze, essendo quest’oggi la festa della donna. Sappiamo attenderci una lunga giornata, quindi ci si comincia a preparare mentre fuori ancora albeggia. Il pulmino si presenta alle nove per accompagnarci in un hotel sulla costa dove i membri di un’associazione locale ci attendono per uno scambio di gagliardetti e convenevoli, il tutto in relazione a questa campagna contro la febbre gialla. Nel parcheggio dell’albergo capeggiano pick-up lucenti e fuoristrada targati O.N.U., di associazioni Onlus, vetture che hanno ben poco a che fare con i mezzi visti sino ad oggi solcare le strade della capitale. Nell’ampia sala d’ingresso l’impianto di condizionamento lavora a pieno regime, ovunque manufatti locali sono bellamente esposti, mentre uomini in giacca e cravatta comodamente seduti nelle poltrone di pelle sorseggiando caffé discutono verosimilmente di affari. E’ un angolo d’occidente che stride fortemente con quanto vi è attorno, e nel gruppo è palese quanto la futilità di questo incontro venga resa ancor più mesta dall’ambiente in cui ci troviamo. In bella mostra ad attirare la mia attenzione vi è un logo cartonato dei campionati africani Under 17 che sono in procinto di cominciare proprio qui a Lomé. Terminata la lunga attesa durante la quale gli interessati per un motivo che non mi è dato sapere evadono l’appuntamento, torniamo al pulmino per cominciare il tragitto che prevede diverse tappe, tutte dislocate nell’immediato entroterra. Quando ci lasciamo la capitale alle spalle il paesaggio cambia radicalmente, iniziano ampi spazi verdi ai bordi della carreggiata e la presenza di persone si fa sempre più rara. La strada a due corsie senza linee di demarcazione scivola via per lunghi tratti diritta e deserta, solo qualche albero a variare il panorama ed a grande distanza l’uno dall’altro villaggi come siamo soliti vedere in televisione, con mura di terra rossa o fango e tetti fatti di fronde. I posti di blocco sono all’ordine del giorno, nel più dei casi si rivelano indolori anche se la loro presenza condiziona non poco la tabella di marcia e questa mattina per fare poco meno di cento chilometri ne incontriamo sul nostro tragitto ben tre (nulla se paragonato alle tredici volte in cui la comitiva verrà fermata la settimana seguente alla mia partenza per percorrere poco meno di trecento chilometri). Lungo la strada l’approssimarsi di un villaggio è segnalato dalla presenza dei pedoni che incautamente, ma senza grandi alternative, camminano ai bordi della strada dove i veicoli procedono sempre a velocità sostenute serpeggiando per evitare le grosse buche dell’emmental stradale togolese. Non è insolito poi incrociare persone camminare solitarie in luoghi apparentemente distanti da qualunque abitato, qualcosa di completamente fuori da ogni concezione per un occidentale, una consuetudine per gli abitanti di queste regioni. Arriviamo finalmente ad Akoumape dove si trova il primo dei tre dispensari che visiteremo in giornata. Destiamo all’istante l’interesse della popolazione locale, tanto che chiunque fosse impegnato nella propria attività interrompe l’operato fino a quando non ci eclissiamo alla loro vista. Questi complessi sono un punto di riferimento per chi ha bisogno immediato di cure o deve procurarsi dei medicinali, sebbene si tratti di strutture con mezzi talora di fortuna, consunti dal tempo come nel caso dei materassi e dove l’igiene in alcuni casi è ancora un miraggio. Perlustriamo ogni singola stanza guidati da un responsabile che ci illustra le condizioni di lavoro e gli strumenti messi loro a disposizione. La quasi totalità delle attrezzature di epoca antidiluviana potrebbero competere con alcune viste il giorno prima nel tour degli ospedali, ma vincerebbero a mani basse potendo far sfoggio di un fantastico letto usurato, unico nel suo genere per i blocchi di cemento posti sotto all’altezza del cuscino per creare un rialzo ove poggiare la testa. Terminata la visita ci dirigiamo al secondo dispensario che si trova a Vokouchine, attraversando affascinanti villaggi di terra rossa immersi in una rigogliosa vegetazione, catturando nuovamente l’attenzione della gente ed in particolar modo dei bambini. Per raggiungere il secondo dispensario il pulmino deve percorrere un tratto di strada estremamente impegnativo, talmente gravoso che avrebbe messo a dura prova persino un esperto pilota di rally. Isolato da tutto e da tutti viene da domandarsi di che utilità possa essere, anche se del resto è chiaro che in Africa ci si rivolge alle cure solo quando si è ridotti ai minimi termini. Un cane solitario ci osserva apaticamente all’ombra di un albero, mentre qualche pollo passeggia indisturbato di fronte all’edificio che quest’oggi annovera al suo interno solo un paio di infermieri che all’occorrenza sono anche medici e chissà cos’altro. Le condizioni di questo dispensario sono le stesse in cui versa quello di Akoumape, con l’aggravante che il pozzo da cui si attingeva l’acqua è completamente prosciugato e senza finanziamenti per poter scavare in profondità è di fatto inutilizzabile. Prima di ripartire un gruppo di bambini si raduna a ridosso del pulmino per salutare e fare qualche foto commemorativa, quindi siamo nuovamente in viaggio. Nel tragitto per arrivare a Seva l’autista avvista lunga la strada una rivendita di noci di cocco ed accenna ad arrestare la marcia del veicolo. La scena non passa inosservata alle venditrici che assaltano il furgoncino alla maniera di pirati; ad ogni finestrino aperto, due e più braccia si introducono mostrando ed agitando la merce di fronte agli occhi di noi acquirenti, in un vortice di schiamazzi senza precedenti. Trovato l’accordo scendiamo tutti quanti dal veicolo e senza perdere tempo i più lesti si ritrovano tra le mani un cocco appositamente decapitato per berne il contenuto. Mentre la compagnia meno il sottoscritto si diletta con questi strani boccali, mi soffermo ad osservare con interesse le donne che con colpi rapidi e decisi di machete sgusciano i cocchi per offrirli agli avventori. Al termine del rinfresco i frutti vengono spezzati in due parti con un colpo di roncola sferzato con una tale energia che viene da domandarsi come facciano a non mozzarsi la mano che regge il frutto, mentre osservo come accanto alla rivendita di cocchi lavorino alacremente intagliatori di legno per una ditta di pompe funebri. Dopo questo spaccato di vita africana riprendiamo la corsa per arrivare nel terzo ed ultimo dispensario, localizzato a Sevagan ed in tutto e per tutto sulla falsariga dei primi due. Arrivati a Togoville, centro nevralgico del vodù, pranziamo a casa del padre della nostra accompagnatrice. Al termine del convivio ci addentriamo nelle vie della città che pigramente batte la fiacca in questo pomeriggio in cui il caldo sta facendo veramente il proprio dovere. Un grande monumento dai toni caldi capeggia in un crocevia piuttosto desolato, non vi è praticamente anima viva e lo stesso mercato è un pascolo per le capre che cercano tra la spazzatura qualcosa da mangiare. Nel frattempo tira un vento fastidioso che alza enormi banchi di polvere che mi costringono in più di un’occasione a camminare alla cieca, ma a quest’ora non circola nessuno e dunque posso concedermi il lusso di procedere a zigzag per la strada senza correre il rischio di venire arrotato. Al termine del viale principale una strada scende verso il lago Togo, mentre svoltando a destra si può accedere al bellissimo duomo ed al suo contorno fatto di gradinate, spazi curati ed un sacrario per enunciare la messa all’aperto. La chiesa è stupenda, colorata come nel perfetto stile africano, ariosa ed emozionante e dopo un’esauriente visita l’abbandoniamo per dirigerci al lago, dove a tutta questa armonia per contrasto affiora un amalgama di edifici fatiscenti e di baracche in malora. Nei pressi del lago il vento assume la massima potenza, ma essendo lo specchio d’acqua poco profondo non si crea altro che qualche piccola increspatura. Una piroga attende con impazienza l’arrivo di alcuni avventori per attraversare il lago, al cui interno tre ragazzini di divertono a fare evoluzioni e capriole molte decine di metri dalla riva, dove l’acqua è sufficiente a non schiantarsi sul fondale. Procediamo a ritroso e passando di fronte alla scuola osservo l’impeto di alcuni bambini che all’ombra dell’edificio principale suonano degli strumenti a percussione intonando musiche tribali. Presso il dispensario locale ci si accorda per la campagna di vaccinazione di febbre gialla ed alle visite gratuite, che verranno effettuate il giorno dieci. Si riparte, direzione Afangnan; unico evento degno di nota l’avvistamento di una famiglia di facoceri che ci attraversano la strada e di un paio di bambini che improvvisano un posto di blocco tendendo una fune dai due lati della strada nell’attesa della carità degli autisti (il nostro per inciso non ha neanche rallentato pur lanciando loro qualche spicciolo). Arrivati a destinazione osserviamo pasteggiare nella spazzatura sparsa in quella che dovrebbe essere una strada diversi animali, tra cui una gallina con la sua cucciolata; niente di eclatante, se non fosse per la tinta fucsia di questi animali che apparentemente non sembrano essere stati verniciati. L’ospedale che ci apprestiamo a visitare è sicuramente la massima espressione della medicina in Togo, la pulizia è ineccepibile, il giardino curato e l’atmosfera decisamente occidentale. Si tratta per la precisione di un ospedale a pagamento, qualcosa a cui in questo paese non tutti possono ambire, un ambiente a sé nel quale passiamo solo pochi minuti. Si è fatto tardi, dobbiamo ripartire poiché prima di tornare a Lomé ci attende un’ultima tappa. Verso l’imbrunire arriviamo ad Aného, quella che la guida della Lonely Planet indica come l’antica capitale del paese. Unici clienti della serata, ci sediamo al tavolo di un bar con annesso ristorante dal vago sapore coloniale presso il quale consumiamo lentamente qualche bevanda ad un prezzo irrisorio. Il panorama da questa posizione è veramente affascinante, di fronte a noi l’impeto del Golfo di Guinea è smorzato da due lingue di terra che convogliano le sue acque in una sorta di laguna, che a suo modo separa la città in due penisole messe in comunicazione da un ponte molto trafficato. Passeggio per il breve tratto di spiaggia notando una varietà di granchi che si muove da una tana all’altra con velocità disarmante, mentre in lontananza si osserva un pescatore alle cui spalle si alzano onde immense che lancia ripetutamente la rete per poi raccoglierne i frutti. Quando la notte ha preso il posto del giorno rientriamo nel furgoncino e con esso riprendiamo la strada di casa, attraverso vie totalmente prive di una qualunque forma di illuminazione.
09 MARZO 2007 LOME’ – GANVIE’ – TOGOVILLE Quando ci svegliamo una fine pioggia che termina quasi immediatamente fa eco sulla lamiera. Questa mattina ci prepariamo per andare a visitare Ganvié nel Benin. Si tratta di percorrere poco meno di centocinquanta chilometri, ma conoscendo i tempi di percorrenza nelle strade in questo angolo di pianeta, sono pronto a scommettere che non arriveremo tanto presto. Prima di dirigerci al confine l’autista del pulmino si addentra tra i vicoli della periferia di Lomé, fino ad un’officina dove per un motivo rimasto irrisolto fa sostituire la targa con un’altra avente la stessa numerazione, ma colori diversi. Nel cielo si staglia prepotente il sole, ad oggi decisamente il più vigoroso, tanto che il lato che espongo per il tempo del tragitto ai suoi raggi verrà ustionato senza pietà. Prima di giungere al confine facciamo una sosta sul lungomare, dove in brevissimo tempo si radunano alcuni ragazzini che come vuole la prassi cercano di venderci la loro mercanzia. Arrivati al confine di stato scendiamo dal pulmino e ci diamo appuntamento con l’autista dall’altra parte della frontiera; nel breve tratto di strada per raggiungere la dogana togolese veniamo letteralmente presi d’assalto da venditori ambulanti che in maniera ossessiva cercano di venderci i loro prodotti. Ci impegniamo nel rimanere compatti e data la situazione non fatichiamo a farlo. Il casello daziario si rivela indolore, impieghiamo pochi minuti dopo i quali ci spostiamo in massa verso la dogana del Benin, dove passeremo una lunga mattinata in attesa di un visto che ci permetta l’accesso nel paese per quarantotto ore. Siamo una decina di persone a farne la richiesta, quindi l’attesa di per sé lunga per un singolo individuo, si prolunga fino quasi allo sfinimento. Le autorità preposte non hanno fretta ed a livello di fiscalità non hanno nulla da invidiare ai loro colleghi togolesi, comunque sia quando le speranze cominciano a vacillare ci vengono restituiti i passaporti, decorati di una moltitudine di nuovi timbri, firme ed adesivi. Siamo dunque nel Benin; l’autista fa il suo carico di anime e finalmente si parte in direzione della nostra meta. Sono sufficienti pochi chilometri per constatare che le condizioni economiche di questo stato sono di certo superiori a quelle del Togo. Lo si nota dalla segnaletica stradale, meno attempata e più frequente, dei mezzi della polizia locale che a differenza di molti casi annotati in Togo sono fornite dallo stato. Intendiamoci, il cambio non è così radicale, ma queste piccole differenze in un contesto così particolare saltano subito all’occhio. Un ragazzino che indossa un paio di All Star Converse è la conferma di quanto detto precedentemente. La fascia costiera al pari di quella togolese è decisamente affascinante, distese di sabbia corrono indisturbate verso l’oceano e nonostante la distanza sono ben visibili le onde che smorzano il loro impeto sulla battigia, mentre macchie di palme e qualche povera abitazione completano il quadretto. Attraversata Grand Popo, una delle località di villeggiatura più rinomate, abbandoniamo la strada costiera per addentrarci nel cuore del paese. Come in Togo, nell’entroterra i colori dominanti sono tre, il grigio dell’asfalto, il rosso della sabbia ed il verde della vegetazione che delimita tutto quanto. I posti di blocco sono indolore, basta un’occhiata ed un cenno per lasciarci proseguire il nostro cammino. Dopo un centinaio di chilometri ci addentriamo attraverso uno stretto passaggio caotico di bancarelle, al termine delle quali si estende il lago Nokoué, sulle cui acque al riparo da occhi indiscreti sorge la celeberrima Ganvié, luogo di grande richiamo turistico, sebbene a ben vedere oggi siamo gli unici visitatori. Anche in questa occasione, appena scesi dal mezzo siamo braccati dei venditori ambulanti che nonostante i ripetuti dinieghi proseguono nel loro mercanteggiare. Sulle sponde del lago l’acqua ristagna formando un acquitrino dai toni simili al colore del petrolio creando un luogo ideale per le convention dei parassiti. Una moltitudine di persone accalcate in questa zona trafficano prodotti di ogni genere, mentre di fronte a loro, immerse in acqua, distese di piroghe formano un tappeto di legno galleggiante. Per raggiungere il punto d’imbarco delle piroghe taxi è necessario percorrere un sentiero battuto attraverso alte file di canne, tra le quali la puzza raggiunge livelli siderali (immaginate un misto di odore di palude, rifiuti organici e nefandezze varie). Raggiunto l’imbarcadero saliamo su di una piroga taxi dal tetto basso, tanto basso che accerto con la testa la consistenza di ogni singola trave fino a raggiungere la prua. L’acqua su cui galleggiamo, anche una volta abbandonata la riva, rimane talmente putrida e maleodorante che prego Sara qualora vi cadessi per qualunque motivo dentro di sopprimermi all’istante. Mentre si contratta il prezzo per la traversata, dalle barche attigue i bambini si sporgono per chiedere de l’argent, dei soldi, e purtroppo solo alzando la voce riusciamo a liberarcene. Accordatici sul prezzo dopo una lunga ed estenuante contrattazione, scivolando sullo scafo delle altre barche prendiamo il largo. Il barcaiolo nelle manovre da fermo utilizza un lungo bastone che punta nel terreno limaccioso per poi spingere con vigore, al contrario lontano dalla ressa delle barche accende il motore. Vediamo così scivolare ai nostri lati le piroghe dei commercianti che vanno o tornano dalla terraferma, qua e là canneti semisommersi come unico punto di riferimento e piccole colture che servono da esca per i pesci. Essendo questa una zona popolata essenzialmente da animasti, la telecamera e le macchine fotografiche infastidiscono gli autoctoni, in particolar modo le donne, che si riparano dietro grandi cappelli di paglia, manifestando in alcune occasioni a gran voce la loro disapprovazione. Noto come mentre chi da Ganvié per raggiungere la terraferma utilizza per la navigazione i remi, chi percorre il tragitto a ritroso sfrutta in vento e le vele che vengono issate (tali vele sono all’occorrenza anche tovaglie, indumenti e quant’altro). Impieghiamo parecchio tempo per vedere comparire all’orizzonte le prime palafitte, ma l’attesa non è vana. Questa Venezia sull’acqua per sentito dire conta almeno trentamila abitanti, di conseguenza un numero imprecisato di costruzioni su pali. E’ una città a tutti gli effetti, con ospedali, alberghi, poste e scuole tutti rigorosamente eretti su palizzate; in alcuni punti inoltre grazie al terreno di riporto sono stati creati piccoli cortili dove si possono vedere oziare capre, polli e mucche. Il primo edificio ad accoglierci in città è l’Expotel Chez Raphael, un bell’edificio rosso, poco dopo il quale sul lato opposto si trova l’ospedale, riconoscibile dalle grandi croci dipinte sui fianchi della struttura. Gli edifici che vediamo sono affascinanti, ma non certo le strutture che mostrano nelle località come le Maldive, queste sono sgangherate e talmente storte da mettere in dubbio ogni legge della statica. Attracchiamo per bere qualcosa nel bar dell’Auberge Carrefour Ganvié Chez “M”, dove attigua vi è un’esposizione di manufatti locali in vendita, si va dai batik alle maschere rituali, dalle miniature in legno ai falli finemente incisi alla stregua di Rocco Siffredi. Siamo i soli clienti e la cosa un po’ mi stupisce considerato il valore turistico della zona, comunque sia sorseggiamo le nostre bevande in questa capanna dal tetto alto. Dopo questa breve digressione riprendiamo la piroga che placidamente ci riporta alla terraferma mentre il cielo si è rannuvolato donando all’acqua una colorazione non troppo dissimile dall’argento. Quando una barca spinta a remi incrocia un’imbarcazione a motore, le piccole onde generate da quest’ultima mettono a dura prova gli occupanti delle piccole piroghe che devono talvolta fare numeri circensi per non capottarsi in acqua. Il ritorno a differenza del viaggio di andata è turbato da un fastidioso vento che alzando schizzi d’acqua ci costringe ad affrontare il tragitto con le spalle rivolte alla prua per evitare di bere quella sostanza dai dubbi contenuti. Attraccare infine è un po’ come giocare a Tetris, la barca dopo aver spento il motore si fa largo tra le altre imbarcazioni ormeggiate incuneandosi nei pertugi per raggiungere con una certa maestria il ponteggio dal quale eravamo partiti. Siamo pronti per ripartire, ma prima dobbiamo fronteggiare l’ultimo attacco dei venditori prima di poter riprendere la strada di casa. Nel percorso a ritroso osservo incuriosito come la consuetudine di vendere benzina ed olio per motore in grosse bottiglie di vetro qui abbia creato una vera e propria gara al ribasso, tanto che ogni piccolo venditore espone con orgoglio il prezzo più basso anche di un solo SEFA (meglio conosciuto come CFA, cioè franco dell’Africa Occidentale) del proprio vicino di bancarella. Il ritorno per la cronaca è estenuante, pressato come sono nel furgoncino confido nei posti di blocco per guadagnare il terreno e sgranchirmi le gambe che a più riprese devo prendere a pugni per rivitalizzarle. Quando il sole scompare all’orizzonte, nonostante manchi quasi ovunque l’illuminazione stradale, le strade diventano un fascio di luci abbaglianti, poiché gli autisti per mantenere la stessa andatura da Parigi – Dakar e vedere al contempo la strada devono far ricorso alle luci più alte del veicolo. Fortunatamente alla frontiera non ci sono problemi ed in pochi minuti calchiamo nuovamente il suolo togolese. Ripartiamo e ci troviamo imbottigliati nel traffico della sera dal quale ci divincoliamo abbandonando la strada costiera. La guida del nostro autista continua a mantenersi sul livello sportivo ed è un miracolo una volta a destinazione non dover annoverare la presenza di pedoni spalmati sul cofano del veicolo alla stregua di tanti moscerini. Arriviamo a Togoville scortati involontariamente da un gruppetto di giovani che suona strumenti a percussione e canta per le strade del paese. L’oscurità è totale ed una volta scesi dal furgoncino osservando il cielo si può scorgere con imbarazzante nitidezza le costellazioni che vegliano sulle nostre teste. Il paese non soffre di certo del cosiddetto inquinamento luminoso, le case e le strade sono immerse nel buio, con la sola eccezione dell’albergo che ci ospiterà per questa notte. Ci viene spiegato che l’illuminazione a Togoville per il solito discorso delle ristrettezze economiche viene attivata nel tardo pomeriggio e tolta verso le nove della sera ed a tal proposito veniamo provvisti di candele per affrontare l’imminente oscurità. In relazione a ciò approfittiamo della luce artificiale per fare la doccia in un bagno che può avere avuto passati illustri, ma di certo un futuro poco radioso. Consumata la cena ci dirottiamo tutti a letto perché domani attende alla combriccola una lunga giornata.
10 MARZO 2007 TOGOVILLE – LOME’ La giornata comincia molto prima del previsto a causa di alcune zanzare che hanno pensato bene di rendermi impossibile il sonno banchettando con il mio corpo. Un po’ impensierito che si possa trattare delle temute anofele (sto facendo la cura preventiva contro la malaria, ma la preoccupazione sussiste comunque), un po’sfiancato dal terribile prurito causato dalle loro punture, cerco a tentoni nel buio il cellulare ed una volta trovatolo scopro che è passata da poco la mezzanotte. Sara alla pari è disturbata dal ronzio insistente delle maledette, ma a differenza di me non verrà punta una sola volta. Ho già diversi becchi sparsi per tutto il corpo quando decido di darmi il repellente, che si rivela tuttavia inutile poiché le maledette proseguono imperterrite nella loro opera. Provo ugualmente ad addormentarmi, ma è una gara difficile; ad aggravare se possibile il tutto ci pensa il cuscino, che emana un terribile odore di spugna e sudore rappreso ed un letto che ha avuto passati di sicuro più gloriosi. Risultato, non chiudo occhio tutta la notte. Poco prima delle cinque, oltrepassato il limite massimo della sopportazione, esco dalla camera e trovo seduta in circolo nel giardino buona parte della comitiva. La nottata, chi per un motivo, chi per un altro, non è certo stata riposante. Alcune persone si organizzano per andare a messa, io perdo tempo facendo qualche ripresa ed osservando alcuni bambini nel campetto della scuola che giocano a calcio, il tutto mentre il giorno ha preso prepotentemente il posto della notte. Il dispensario nonostante l’orario comincia a popolarsi dei primi avventori, ed ancor prima dell’ora stabilita per le visite, al suo esterno è già radunata una nutrita folla composta prevalentemente da donne e bambini. Le visite cominciano ed allo stesso tempo si iniziano a fare i primi test dell’Aids, mentre i vaccini per la febbre gialla che ci dovevano essere recapitati da Lomé non sono ancora arrivati. Mentre nel dispensario dove si effettuano le visite non vi è un attimo di tregua, nell’ala destinata ai test regna una calma quasi irreale, che verrà spezzata nel momento stesso in cui arriveranno i vaccini, cioè ben più tardi dell’orario prestabilito. Alla ricerca di scene da filmare faccio la spola tra i due edifici, ed ogni volta dietro di me si raduna una folla di bambini che mi segue chiamandomi ironicamente Jesus riferendosi evidentemente ad alcune mie caratteristiche fisiche. Finalmente cominciano le vaccinazioni, i bambini hanno la precedenza, ma le loro espressioni lasciano intendere che cederebbero volentieri il proprio posto a qualcun altro. I più piccoli piangono, strillano e per riuscire nella vaccinazione è fondamentale la complicità che si instaura tra madre ed infermiera. Quelli più grandicelli al contrario partono spavaldi, alla vista dell’ago cominciano a perdere fiducia nell’uomo bianco e nel momento in cui questo è sul punto di trafiggerli assumono la consistenza del travertino. Spesso per non essere d’intralcio seguo le gesta dall’esterno attraverso la finestra, con il mio solito seguito di piccoli togolesi alle calcagna. Dove si effettuano le visite invece infermieri e medici hanno a che fare nella quasi totalità dei casi con pazienti affetti da dolori cronici vecchi anche di decenni, legati fondamentalmente ad un’errata alimentazione, allo scorretta postura e trasporto dei carichi, alla mancanza di sanità. Fino a poco prima delle quattordici non vi è un attimo di tregua, infermieri e dottori lavorano incessantemente, eppure la gente in attesa sembra non diminuire di una sola unità. E’ necessaria tuttavia una breve pausa, durante la quale consumo il mio ultimo pranzo africano con la troupe. Concluso il pasto raduno le mie cose, faccio i saluti di rito e parto alla volta di Lomé, dove con calma mi preparerò per il viaggio di ritorno. Giunti nella capitale, dopo una bella doccia corroborante mi faccio accompagnare in centro dove in una bancarella acquisto la fantomatica maglia della nazionale di calcio con il nome di Adebayor Sheyi. Per le strade intanto i festeggiamenti a seguito della vittoria del Togo nella gara di qualificazione con il Ghana nell’ambito dei campionati U17 non ha niente da invidiare ai caroselli che a luglio hanno accompagnato la vittoria mondiale dell’Italia. Perfezionati gli acquisti ed ultimate le valigie, mi faccio accompagnare in aeroporto con un buon anticipo, decisione che si rivelerà quanto mai azzeccata. La trafila all’aeroporto è snervante e trovandomi per la prima volta da sette giorni a questa parte completamente solo, comincio a pensare che due occhi ed altrettante orecchie non siano sufficienti per gestire la confusione che regna in questo calderone. Prima di entrare nell’edificio un poliziotto controlla le carte ed i documenti di chi sta per imbarcarsi, poiché l’accesso alla hall è consentito solo a chi è provvisto di biglietto aereo. Superata questa prima barriera si affronta l’ispezione dei bagagli a mano, che vengono passati prima ai raggi x e quindi scrutati da una addetta al controllo che mi lascia andare dopo aver cercato inutilmente nel suo francese africanizzato di chiedermi informazioni relative al contenuto della borsa. Come precedentemente consigliatomi procedo all’imballaggio delle valigie. Segue un nuovo controllo di passaporto e biglietto aereo, dopodichè finalmente mi incolonno con i passeggeri che attendono di fare il check-in compilando nel frattempo un modello con le proprie generalità ed ogni dato riguardante la visita effettuata nel paese. Il check-in viene svolto in totale tranquillità, quindi esco dalla hall nella speranza di salutare i ragazzi che mi hanno accompagnato in aeroporto. Rientro e sono costretto a ripetere la procedura di controllo dei bagagli a mano, l’addetta mi riconosce all’istante e con un sorriso a mezzo tra la simpatia e la compassione, mi lascia andare senza proferire parola. Mi avvio per l’imbarco dove mi controllano nuovamente passaporto e biglietto, mi passano in rassegna dalla testa ai piedi con un metaldetector, quindi superata questa formalità mi predispongo per l’ennesimo controllo del bagaglio a mano. Due poliziotti evidentemente di buon umore controllano con superficialità la mia borsa, mi chiedono dell’Italia e quindi mi salutano con un sorriso che lascia ben sperare. Finalmente raggiungo la sala d’attesa ed una volta seduto tiro un respiro di sollievo, perchè in queste occasioni anche se sai di non avere nulla da nascondere, temi sempre che possano trovare qualcosa che non vado loro a genio per cui possano farti delle storie. La sala d’attesa è molto spartana, l’aria condizionata al massimo dei suoi regimi e la barista scortese. Mi siedo e mangio alcune praline di noccioline offertemi prima di partire, quando un addetto alle pulizie mi si avvicina cercando di convincermi a cambiare le mie poche banconote africane rimaste in euro. Sono tentato dalla proposta, ma in questo paese dal regime militare non vorrei rimanere vittima di un raggiro, per cui seppur a malincuore declino l’offerta. Poco dopo viene chiamato l’imbarco al quale mi appresto con il groppo in gola quando istantaneamente come al termine di ogni viaggio le immagini cominciano a passare in rassegna di fronte ai miei occhi. Mi attende tuttavia un’altra sorpresa che non avevo messo in conto. Sulla pista ci riversiamo in fila indiana per raggiungere l’aereo, ma nel mezzo si frappone l’ennesimo controllo, quello più scrupoloso e lento. Colgo l’occasione per assaporare gli ultimi sprazzi di questo piacevolissimo clima che mi appresto a salutare, mentre passo dopo passo si avvicina il mio turno. Il bagaglio a mano viene nuovamente aperto, ma questa volta controllato minuziosamente in ogni suo pertugio, mentre un incaricato mi percorre per ogni centimetro del corpo col solito metaldetector, fino a quando all’altezza del ginocchio destro lo strumento rivela la presenza di qualcosa di sospetto. Scopriamo trattarsi di una penna, quindi risolto l’inghippo mi vengono restituiti i miei averi e mi dirigo alla scaletta dell’aereo dove un membro dell’equipaggio controlla accuratamente un’ultima volta i documenti di imbarco e verifica che la persona ritratta sul passaporto sia effettivamente quello che dice di essere. Trionfante prendo posto sull’aereo, speranzoso di non avere compagni nel sedile adiacente per volare in totale comodità. L’aereo lentamente si riempie in ogni suo posto, tranne quello accanto al mio, tanto che comincio ad espandermi fin quando una bella ragazza togolese gentilmente reclama con diritto il suo posto. L’aiuto a caricare i suoi bagagli ed in breve tempo grazie al suo buon francese riusciamo a stabilire un dialogo che si prolunga fin quando comincio ad accusare la stanchezza della giornata e senza opporre resistenza mi abbandono al sonno.
11 MARZO 2006 PARIGI – BOLOGNA Passata mezzanotte ci viene servito un pasto che consumo con allarmante rapidità. Sono stordito dal sonno e dai ripetuti urti al quale il carrello sospinto dagli assistenti di volo ha sottoposto ripetutamente il ginocchio sinistro. Ad un certo punto osservo dal finestrino il buio che avanza imperterrito e ripenso ai giorni appena passati, giungendo alla conclusione che ho bisogno di isolarmi, di riposare, di cominciare il mio viaggio di ricerca ora che questo è giunto alla sua naturale conclusione.
CONCLUSIONE A Parigi avverto il rigetto nel momento stesso in cui mi incolonno nell’imbarco per il volo che mi riporterà in Italia. All’improvviso avverto tutta la superficialità della società in cui viviamo, i futili discorsi della gente, come se fino a quel momento non avessi avuto la facoltà per potermene accorgere. La televisione, la nostra politica da pantomima, la ricerca frenetica di una felicità effimera, tutta questa esteriorità ed altro ancora mi portano all’inquietudine di inizio racconto. Viaggiare è ciò che ci permette di evolverci, di fare un gradino in più nella nostra evoluzione, perché da esso consapevolmente o senza volerlo torniamo a casa con un bagaglio culturale ed attitudinale arricchito… in definitiva, impariamo! Dell’Africa ho visto un’infinitesima parte, vi sono stato solo una settimana, ma penso di avere raccolto più di quanto potessi sperare. La mia vita rimane sempre piena di impegni, ma ora li affronto con lentezza, senza pressioni, pur sapendo che esse ci sono e che vanno affrontate. Potrei continuare dicendo che non avverto più la necessità del superfluo, anche se può sembrare la solita frase fatta. A distanza di tempo non so cosa mi mancherà maggiormente di questo viaggio, di sicuro da nordico convinto mi sono dovuto ricredere ed ammettere che l’Africa non può lasciare indifferenti.