Viaggio in Togo, esperienza di vita e volontariato
Un volontario che decida di fare una simile esperienza si sente prima di tutto un viaggiatore, un ricercatore; si porta dietro le sue domande e la sua voglia di fare, di cambiare; anche un po’ di presunzione, come mi hanno fatto notare. Ciò non penso sia necessariamente un difetto. Adesso in ogni caso è fortemente diminuita; anche quel pensare in grande si è ridimensionato abbastanza rapidamente.
Come ho detto, è un mondo diverso, con regole diverse e un volontario extraterrestre è facile preda di uno sconforto iniziale originato dai mille problemi che individua praticamente da qualsiasi parte si giri. Mi ricordo la prima notte sdraiata su un materasso di spugna a fianco di mia sorella Tina; fissavo il soffitto in lamiera che veniva martellato violentemente dalla pioggia e pensavo: cosa posso fare qui io realmente? Cosa posso cambiare realmente? Ho capito che da questa mia missione ci avrei guadagnato io più di tutti. Un ricercatore per prima cosa; con le sue domande. Avrei trovato risposte, o guadagnato altre domande.
E così è stato; la mia esperienza, seppur breve, da subito così autentica che mi ha permesso di respirare un poco di quell’altra vita, la mia vita se fossi nata lì, in quella famiglia che così calorosamente mi ha ospitato, in quel quartiere a 40 minuti dal centro dove tutti mi salutavano e i bambini gridavano “YOVO YOVO bonsoir!!” (tradotto “BIANCA BIANCA buonasera”, saluto cortese che ricevevo a tutte le ore del giorno); dove la sarta mi cuciva il vestito per la messa della domenica e la parrucchiera mi aveva messo le mani sui capelli il quarto giorno che ero arrivata e li aveva trasformati in lunghi tronchi d’albero (o tale era la sensazione di pesantezza) che tuttavia secondo il parere di tutti mi stavano benone e a cui mi abituai presto. Mi abituai presto a tutto.
Così ho potuto, sebbene per poco tempo, confrontare due stili di vita, due mondi e due Chiara; e più entravo nella routine togolese più i mille problemi iniziali diventavano mere differenze; la differenza tra fare la doccia e tirarsi un secchio addosso, tra mangiare con forchetta e coltello e divorare tutto con le mani, tra viaggiare a quattro ruote e marciare a due piedi; un problema che non causa fastidio, litigio o dolore non è certamente un grave problema; è questione di abitudine, specialmente poi se questa differenza non la si conosce. Tuttavia, siccome non voglio che pensiate che Lomé sia il villaggio tribale dei Flintstones, informo che il giardino del vicino occidentale lo vedono in tutto il suo splendore in tv e su youtube – così io mi chiedevo spesso se i miei fratelli seduti accanto a me nel “salon” a guardare sitcom americane in uno scatolotto a pixel sgranati percepissero lo stesso senso di ingiustizia. A voler chiudere la parentesi con una nota positiva: sarò anche capitata nel periodo delle piogge, ma l’erba a Lomé mi è sembrata diventare ogni giorno più verde. Inutile dire che cresce rapidamente.
A dir la verità, dopo qualche settimana iniziavo addirittura a trovar più problemi nella Chiara italiana. Imparai a trarre gioia dalle piccole cose – frase da Tumblr, ma è stata veramente la mia soluzione. La nonna che scattava a mettere l’acqua sul carbone non appena mettessi testa fuori dalla porta di camera mia così che potessi lavarmi con acqua calda (vizio esclusivo a cui avrei potuto rinunciare ma la nonna era inarrestabile, e anche un po’ sorda); mami che passava “per caso” e regolarmente mi chiedeva « tu as bien dormi? tu vas prendre du thé? » con una premurosità negli occhi che non credo di aver mai visto a nessuno; Tina mi ricopriva di antizanzare ogni volta che dovessi uscire ed è così riuscita a finirmi in una settimana un flacone che pensavo mi sarebbe durato per tutto il mio soggiorno; mio fratello Simon, uno storyteller eccezionale, non mi lasciava annoiare (che per me era leggere in pace) un minuto; e tante, tantissime altre piccole cose.
Risolvere piccole cose invece diventò il mio nuovo obbiettivo. Così a fianco del presidente dell’associazione, che da subito fu amichevolmente Gilbert, è iniziata la mia missione. Insieme ci siamo recati in un villaggio nei dintorni di Lomé. Il ritmo del tamburo di benvenuto suscitava nei più piccoli una buffa danza a mo’ di gallina; le donne intorno accompagnavano con voce e battiti di mano finché tutti si sono uniti alle danze formando un cerchio continuo di denti bianchi, e una successione di passi di gallina. Per i capi villaggio forse è stato anche lo shot di sodabi ad animare la festa, una tradizione. Alla fine, i doni. 150 euro son bastati a vestire tutti i bambini e i giovani del villaggio di duecento e passa tra costumi carnevaleschi e abiti ordinari. Mai viste così tante principessine Disney. Meno di un euro a capo, ma «vestiti di prima scelta!» sosteneva Gilbert. Si capiva che quegli abiti ne sarebbero presto diventati dell’ultima, passando di bimbo in bimbo e consumandosi fino ad essere ridotti a stracci… e poi certamente sarebbero stati usati anche come stracci, nell’avvento di una prossima donazione.
Ho capito allora che bisognava concentrarsi sull’associazione, sul suo futuro e su quei progetti nella testa di Gilbert che avrebbero potuto procurare al villaggio qualche soldo per comprarseli da sé i vestiti. Fui quindi felice e determinata nell’occuparmi dal quel momento in poi di “questioni amministrative” e vitali per l’associazione, a fianco del presidente sempre. Chiaramente non era una missione convenzionale ma forse era anche più importante e sicuramente mi sentivo più utile così.
Nasce alla svelta (perché coltivato a lungo nella testa di Gilbert) il “cyberprojet”; speriamo infatti che la creazione di un cybercafé possa rendere l’associazione autosufficiente sul piano economico e mantenere bassi i costi di partecipazione dei volontari, unico introito di cui io stessa mi meravigliavo “per del lavoro gratis”, prima di vedere il bilancio dell’associazione e capire che proprio non starebbe in piedi altrimenti. Da sé viene il trasferimento di sede in un locale più grande che possa ospitare il cybercafé ed accogliere i missionari in maniera un po’ più istituzionale; «è rassicurante» dice Gilbert.
C’è un entusiasmo generale nei traffici di questa espansione (con qualche seccatura al porto e al ministero, anche lì due realtà che meriterebbero una storia a sé) ma lo dirò francamente: Io spero che i futuri volontari AJVDEC (ma tutti in generale) vivano un’esperienza quanto più simile alla mia: autentica, personale, inufficiale e ben poco istituzionale. Via l’alloggio volontari, la mensa, la gita turistica, il corso di Ewe (ecco questo magari sì che dalle poche frasi che ho imparato mi è sembrata una lingua con più eccezioni dell’italiano, senza parlare delle imbarazzanti difficoltà di pronuncia); Io spero che vivano Lomé, il Togo, l’Africa nera come li ho vissuti io, che probabilmente sono già arrivata tardi; perché la mia sensazione è che questo mondo sia in rapida estinzione.
Questo è piccola parte del bagaglio che ho riportato in Italia; non me l’hanno fatto pagare in aeroporto, sebbene pesi molto.