Il Paese degli uomini che vivono tre volte

Sopravvivere, in Guatemala, è una pratica antica
Scritto da: Kingsize
il paese degli uomini che vivono tre volte
Partenza il: 04/02/2017
Ritorno il: 20/02/2017
Viaggiatori: 6
Spesa: 4000 €
Dalle stele ancora fissano, pietrificati, le radici serpeggianti scalzare i gradoni dei palazzi, i secoli sgretolare le acropoli altezzose, il sole bruciare le piazze cerimoniali. Cogli occhi sbarrati squadrano genti d’ogni dove affacciarsi per un attimo sul loro mondo, calpestare i recinti sacri e violare le stanze riservate ai sacerdoti. Ed è solo all’imbrunire che quei sovrani maya tornano signori delle piramidi imponenti e degli spiazzi erbosi, dove arrivano appena i richiami degli uccelli e i fremiti dell’umida giungla subtropicale che avevano eletto a proprio paradiso, a proprio inferno. E nella giungla ritrovano ragion d’essere gli altari e la loro offerta di vento a un dimenticato, sanguinario Olimpo, mentre le enormi pietre zoomorfe riportano allo stringente hic et nunc lo spirito degli animali che ancora serpeggiano, scivolano, saltano e s’appostano, intessendo un groviglio verde di varchi, voli, versi e voci.

Questa foresta ha dato la vita a uomini dall’indole bellicosa che crearono una società spietata di caste e di conquiste. La conoscenza puntuale e completa dell’ambiente non bastò però ad arginare la cieca presunzione o l’incompetenza – problemi acutamente attuali – dei governanti, che avevano forse dimenticato l’impegno solenne giurato dai loro antenati alla Terra. Fu una gestione irresponsabile delle risorse naturali, una macromutazione genetica causata dalle droghe e dall’alcool o un lungo periodo di siccità ad azzerare uno dei trionfi più notabili dell’ingegno umano? Gli ultimi Maya a venir sepolti erano giovani e malati. E’ lì, dove i glifi delle stele e delle architravi tacciono, che occorre cercare, lì dove un millennio e mezzo di progressi e di ampliamenti è imploso, forzato dal potere della natura o dalla natura ciclica delle vicende umane. Noi, testimoni d’un’era di gloria lontana nello spazio e nel tempo, assistiamo attoniti e muti, incapaci di entrare nella logica, di intuire le ragioni, per sempre relegati fuori da quest’ambiente così remoto, così arcaico, così alieno. Noi stranieri, se solo cediamo alla tentazione dell’apprezzamento, dell’ammirazione, cadiamo vittime dell’incantesimo maya. Per primitive che ci appaiano – la ruota era conosciuta ma, essendo sacra, non era utilizzata –, l’unicità dell’espressione, la ricchezza dei bassorilievi, la complessità dell’iconografia e l’ambizione irrefrenabile di perforare il livello terrestre per arrivare al celeste hanno sedotto archeologi e avventurieri sin dal 1881, quando l’interesse scientifico prevalse sull’indifferenza colla quale gli spagnoli avevano registrato, più di due secoli prima, la scoperta di quegli antichi insediamenti, passando oltre in cerca di utili immediati. C’è sempre un tesoro sconosciuto all’inizio d’un viaggio alla scoperta di un mito, e la muta presentazione che ne fa Iximché, la prima capitale, apre con cautela lo scrigno d’un tempo favoleggiato, d’una terra da scoprire al di là degli oceani dell’ardimento. Le sue pietre invitano a intuire l’interazione tra i luoghi e gli esseri, tra il reale e l’immaginario, e dalle pietre inesorabilmente spoglie e misteriose salgono i fantasmi dell’eterno ieri, spiriti incapaci di scomparire che impercettibilmente accordano la nostra sensibilità ai registri, alla pluralità delle voci che ci attendono. Le mutile basi squadrate che si susseguono sulle aride ondulazioni di Iximché offrono appena un sentore della monumentalità che si scoprirà più a nord, ma la loro finalità rituale comunica il senso che lì si è partecipato significativamente al grande mistero, che lì bene e male, tempo e non tempo, vita e morte hanno lottato e lì le arcane potenze che regolano il visibile e l’invisibile si sono rivelate agli umani. E lì capiamo che c’è una presenza nascosta in ogni oggetto, si tratta solo di affinare la percezione e sintonizzarsi sulla giusta lunghezza d’onda.

Festose nuvole rosa di madre cacao (gliricidia sepium) fioriti fiancheggiano la Carretera 13 che si insinua nel Petén, la vasta regione settentrionale del Guatemala, cuore del territorio maya, che spaziava da Chichen Itzá in Yucatán a nord a Cerén ne El Salvador a sud e da Toniná nel messicano Chiapas all’orientale confine de El Puente in Honduras. Delle città-stato che lo punteggiavano, Tikal, con le piramidi più eleganti e d’una verticalità impressionante, era di certo la superpotenza. Dal vertice della Piramide delle Maschere, dirimpettaia di quella del Gran Giaguaro, il colpo d’occhio sulla Plaza Mayor, colle stele allineate in bell’ordine ai piedi dell’Acropoli Settentrionale, evoca cerimonie presenziate da folle immense, occasioni in cui regnanti e officianti in pompa magna consolidavano il proprio ascendente sul popolo, sudato e stregato dallo spettacolo come noi. Come i rivoli di formiche tessitrici che indefesse portano ritagli di foglie, le fiumane umane sbucavano dai larghi viali che serpeggiano sotto le fitte chiome agitando palme in segno di esultanza. Dev’essere successo così per secoli: la scena, che più che immaginata, si direbbe indotta dal contesto, ed è così vivida, così plausibile che non può essere stato altrimenti. Il rito si ripete ogni anno per il Festival della Razza il 12 ottobre, quando un carnevale di colori anima il verde del prato. E davanti alla resilienza di questi uomini tarchiati, davanti alla solidità di queste donne dalle forme decise, il lascito dei loro avi dismette la gratuita monumentalità da catalogo turistico che ha ai nostri occhi per diventare, davanti ai loro, lo scenario nobile e necessario perché si riannodino gli estremi del tempo e i Maya smettano d’essere una falsa profezia per diventare una realtà concreta: i viventi, colle fattezze dei progenitori, parlano il dialetto ancestrale e, a dispetto di tutti i flagelli che hanno sferzato questa terra, sono qui, dappertutto. Dall’alto del Tempio IV una visione, inverosimile ma reale, s’imprime indelebile nella memoria: i vertici delle tre piramidi più alte emergono dalle onde ordinate dell’oceano di foglie che le circonda, isole di pietra candida, reliquie d’una sovrumana aspirazione o, forse, relitti dell’umana superbia. Quest’ossessione d’ascesa, confermata dagli osservatori astronomici presenti in ogni sito e dalla precisione delle previsioni planetarie – accuratezza che noi europei avremmo raggiunto solo un millennio più tardi – sostanzia il dubbio – inoculato dall’apparentemente ingiustificato interesse che tutte le antiche culture dimostrano per i movimenti celesti – della presunta paternità extraterrestre della razza umana, ventilata dalla stessa mitologia creazionista maya.

Abbandonata in questa valle di lacrime, l’umanità, assecondando un innato senso dell’autorità, ha provveduto a creare i propri dèi. Per volgere uno sguardo benigno, le divinità maya richiedevano il sangue dei re e dei sacerdoti, ma apprezzavano di più i sacrifici umani. Guai ai vinti: che fosse una partita del gioco della pelota o una guerra, il capo degli sconfitti veniva decapitato. E’ quel che successe a Coniglio Diciotto, il sovrano che promosse l’epoca d’oro di Copán, attualmente poco al di là del confine con l’Honduras e, un tempo, la maggiore città-stato meridionale. L’acropoli torreggia su una radura dove numerose stele celebrano, nei famosi bassorilievi, importanti personalità agghindate con ricchi costumi ed elaboratissimi copricapi. Continuamente sotto gli occhi di tutti, quelle erano le immagini imposte dal sovrano, il loro equivalente dei graffiti, onnipresenti rappresentanti delle nostre democrazie. Pezzo unico è la scalinata dei geroglifici, non ancora completamente decifrata. Protetta da un tendone, non la si direbbe una delle più rilevanti costruzioni maya. Una ceiba gigante fornisce ombra al tempio che sovrasta l’acropoli, oltre il quale le conche di due grandi cortili affiancano il Tempio 16, decorato da una fila di teschi scolpiti che, secondo una prassi comune, racchiude come una matrioska un tempio precedente, il coloratissimo Rosalila, che si può ammirare in replica a scala naturale nel luminoso, interessantissimo museo del sito. Coniglio Diciotto, il Lorenzo de’ Medici di Copán, fu decapitato da Cielo Cauac, vassallo ribelle della vicina Quiriguá, immersa, oggi come allora, in infinite piantagioni di banane. La foresta cinge la grande piazza silenziosa, dove le stele più alte in assoluto, pregevolmente scolpite e appropriatamente protette da tettoie di palme, ritraggono ripetutamente Cielo Cauac, tanto quanto Coniglio Diciotto è onnipresente a Copán. La solitudine deliziosa delle rovine di Quiriguá si fa magica sotto le alte fronde dei viali del sito archeologico di Yaxhá. Alcune piramidi sono state ottimamente restaurate, altre restano sepolte, in attesa di esploratori dai pingui portafogli. Dopo la vertiginosa arrampicata, dalla loro cima la sensazione di dominio è faraonica. E, proprio come i faraoni e i cesari romani, i capostipiti delle dinastie venivano mitizzati e venerati, il loro nome per sempre inciso nella pietra, per sempre sospirato dall’aria. Alla fine d’una lunga giornata zigzagando tra piramidi, acropoli e rovine, il tacito appuntamento è in cima al Tempio 216 per assistere al tramonto sulla laguna, piccolo specchio lucente aperto nell’infinita selva: Yaxhá significa infatti “acque verdi”. La caduta del sole, lenta ma irrefrenabile, impone un raccoglimento religioso. Circondate dalla muta distesa verde, quelle epiche dichiarazioni di pietra serbano il segreto dell’intenzione che ne ha determinato forma e funzione, mentre i petroglifi criptano le leggende, i rituali e gli oggetti di un sapere che, esiliato da una mitica Montagna Fiorita – anche i Maya favoleggiano un Eden –, raggiunse apici d’eccellenza prima di venire risucchiato dal nulla. Dopo esser stati testimoni del bene e del male, del fasto e dell’annichilimento umani, l’avvicendarsi ineluttabile del giorno e della notte inscena il grande fondale dove arcane potenze ci hanno calato. Sospesi in quel tempo-non-tempo, la relatività di essere e non essere diventa percepibile, e la mente muta, sospendendo la frenesia brutale a cui è abituata, nel tentativo di adattarsi alla cadenza del graduale andare naturale. In quest’incrocio del concreto e del meraviglioso, del quaggiù e dell’aldilà, il caleidoscopio delle emozioni che ci condizionano si stempera nella fissità serena della luce morente, mentre si rivela l’ineluttabile dualità della condizione umana: è il trionfo di māyā, il concetto indiano di illusione. Dopo cena, sotto le stelle e davanti a una birra, ascolteremo le note delle stazioni radio di Flores, le prime della regione del Petén, che arrivano di certo fino alle casupole sperdute nella giungla impenetrabile che nasconde El Mirador, culla della civiltà maya, raggiungibile solo con diversi giorni di trekking.

Sono scomparse, le usanze maya, come un vecchio affresco sotto una mano di colore. Che, ormai vecchia, qui e là si scrosta, rivelando l’immagine celata. Pascual Abaj è una collinetta adiacente a Chichicastenango, in cima alla quale alcune massicce pietre marcano, tra i pini, il sito degli attuali riti. Un piccolo fuoco, molto fumo, grossi sigari d’erbe verdi, invocazioni e, per i turisti, la richiesta, cortese ma ferma, di non più di tre foto. Altri fuochi e altre candele fumigano le facciate, imbiancate a calce, della chiesa di Santo Tomás e della capilla del Calvario mentre, all’interno, gli sciamani scortano i postulanti inginocchiati invocando gli spiriti. Sono rituali diretti senza mezzi termini agli antichi dèi, quelli della prima incarnazione di guatemaltechi, e l’epopea cristiana alla quale la seconda generazione è appartenuta appare come un’ospite tollerata giusto per le sue inflessioni pietistiche, che tanta presa hanno sul sentimento popolare. Sui gradini un caos di persone, fiori e sporcizia: quasi una materializzazione dell’anima umana. Stentano, le chiese, a contenere il mercato sul quale incombono, una babele che il giovedì e la domenica, fatta sparire la piazza nell’intrico fittissimo delle bancarelle, colonizza quasi tutto il paese, in una frenesia senza pari di oggetti e colori. Sculturette di legno, ricami paesani d’infinita pazienza, soprammobili improponibili, maschere e huipiles, monili di giada nera e ponchos, terracotte e arazzi: mortificare il naturale impulso all’acquisto è impossibile e l’unico limite è la capienza della valigia. Il mercato coperto che affaccia sulla piazza è una fiesta di frutta tropicale e di ortaggi dalle portentose dimensioni. Nemmeno da morti si sfugge alla baraonda: le tombe del cimitero, che avrebbe bisogno d’essere disinfestato dai randagi e ripulito radicalmente, sono disposte con la medesima noncuranza delle case dei vivi e, forse per mitigare il cordoglio, sfoggiano sfumature a dir poco carnascialesche. Sì, una visita a Chichicastenango è indimenticabile per più d’un motivo. Chichicastenango è anche l’unico posto dove i quetzales, la valuta locale, oltre che il mitico uccello nazionale, cambiano di mano così rapidamente che si può dire che volino. Li fornisce la banca che accetta solo euro e li fornisce anche la banca che accetta solo dollari. Nel minuscolo museo locale una serie di ruote concentriche dipinte, di certo un progetto scolastico, rappresenta graficamente il complesso calendario maya mentre, nelle vetrine, i lari e gli idoli in pietra danno un’improvvisa, inaspettata profondità temporale alla vita del paese: qui c’è molto di più di quanto l’occhio veda.

E se gli dèi noti non bastano, se ne inventano di nuovi. Maximón è nato così: ai commercianti della tribù maya Tz’utujil serviva un patrono, uno che funzionasse davvero. Rilaj Maam, l’”amato progenitore”, li ha esauditi, meritandosi un curioso culto da tesi etnografica. Lo troviamo a Santiago, ridente paesino sul Lago Atitlán, colla sua faccia di legno, sigaro in bocca, una trentina di cravatte al collo – ogni cravatta un simbolo di appartenenza – e candele votive ai piedi. Due assonnati uomini della famiglia hanno il compito di piantonarlo in una stanza semibuia, quasi impossibile da trovare nel fitto dedalo dei vicoli: Maximón, il grande avo, il benefattore malvagio, protettore di prostitute, narcotrafficanti, ubriachi – senza dimenticare i commercianti – cambia maschera e casa ogni anno, e per pochi quetzales si fa fotografare. In un angolo, una teca con un Cristo morto: questo sorprendente sincretismo rivela gli sforzi titanici di questi uomini di mais per colmare la distanza tra cielo e terra, tra gli spiriti potenti e l’umanità bisognosa. E se ancora non basta per ottenere prosperità, si tentano altre vie: la penetrazione delle sette protestanti è da tempo importante in Guatemala: nel 1940 il rapporto tra cattolici ed evangelici era di 97 a 2, ora le consistenze dei due culti si equivalgono, attestandosi ciascuna al 45% dei credenti. Antropologi e sociologi avanzano ipotesi tra teologia della liberazione e teologia della prosperità, ma è improbabile che i quattro gatti che ascoltavano le canzonette protestanti nell’addobbato salone giusto al lato dell’albergo fossero consapevoli di questi slittamenti epocali, forse orditi da lontano, e avessero di meglio da fare col proprio tempo. Ma, a ben vedere, è più il senso pagano delle pratiche ancestrali a far parte dell’identità di questi autoctoni. L’unica carnagione che hanno è quella, qualcuno direbbe “abbronzata”, da indios; l’unica lingua che hanno è quella maya e, sebbene invasi dal portato dei bianchi, non cedono il loro terreno, giustamente rifiutandosi di sentirsi ospiti nella propria terra. Questa è la forte impressione alla fine della fantastica zipline della Reserva Natural Atitlán a Panajachel: tra un tratto e l’altro del panoramico, superbo percorso – più entusiasmante di quello di Cuzco in Perù, di Queenstown in Nuova Zelanda, di Tsitsikamma in Sudafrica e di Whistler in Canada – le guide si contattavano nella loro lingua, e la triangolazione italiano/español/maya, il 2000 che s’incaglia nel 1500 per trasmettere al 500 d.C., la diversità della razza e del modo di fare comunicava l’impressione che venissimo, come difatti venivamo, da un mondo remoto. Uno per il quale i connotati del Nuovo Continente possono risultare eccessivi, anche in senso positivo: per Aldous Huxley il lago Atitlán possedeva una bellezza insostenibile che oltrepassava il limite consentito alla panoramicità. Non c’è strada che colleghi i villaggi che vi si affacciano, si va in barca e dal molo ci si arrampica fino agli abitati. Sul sagrato della chiesa di Santa Cruz stanno eleggendo Miss Bambina. L’altoparlante enumera i nomi e le età delle aspiranti assieme alle preferenze in fatto di colore, cibo e… non lo vogliamo sapere. Prendiamo il sentiero per Jaibalito, e lo sbigottimento di Huxley è veramente l’unica reazione possibile davanti alla purezza del lago, ai coni perfetti dei vulcani che lo sorvegliano, al sole che ama specchiarvisi in mille scintille e ai boschetti e ai dirupi delle sponde selvagge. Da dietro il muretto di recinzione del suo giardino, un’americana si distoglie per un momento dalle piante e si offre di annaffiarci, visto che siamo tanto accaldati. Passiamo campi di mais, piantagioni di caffè, di avocado, di ortaggi. Nei villaggi è in mostra il consueto artigianato, ma vi si nascondono anche laboratori di tessitura e di tintura e, sotto le sponde, sommersi siti archeologici attendono i sommozzatori. La festa serale di Panajachel accoglie al ritorno gli escursionisti: i mille colori delle insegne e gli invitanti interni rustici propongono ogni genere di delizie esotiche, dal pepián al tapado de mariscos al ritmo d’una partita di calcio o d’un quartetto di ragazze alla marimba. Resistere è inverosimile.

Dall’era dei primi abitanti del paese alla seconda vita che ebbe dopo Colombo ci cortocircuita Antigua, l’antica capitale, centro dell’amministrazione coloniale spagnola per tutto il Centro America. Qui la distanza tra gli empirei immaginati e la realtà cogente si fa lacerante. Contesa dal passato, pressante coi suoi magnifici ruderi, e dal presente, invadente colla quotidianità d’una piccola città, Antigua esiste sospesa in un limbo, abbracciata dal verde dei rilievi del suo orizzonte. Le basse case sono rinserrate tra i monasteri fatti a pezzi dai terremoti che l’hanno tormentata, e gli abitanti ostaggio dei turisti che si barcamenano confusi tra chicharrones e tapados, licuados e tamales. La distruzione dantesca de La Recolección si placa nel chiostro fiorito di San Jerónimo, i nobili labirinti di Santa Clara si schiudono nella vasta peschiera della Merced, dietro quella facciata bianca e gialla come una torta di limone e panna. Santo Domingo è perfino riuscita a coniugare sacro e profano, con un’ala ricostruita ad albergo di lusso e una pletora di minuscoli, preziosi musei incastonati nell’enorme area del monastero, collegati da un passaggio incantevolmente ombreggiato dai grappoli gialli della thunbergia mysorensis fiorita. Una navetta gratuita sale a una dépendence sulle pendici della collina che sovrasta l’abitato, tra boschetti, ariose aiole e sculture moderne. Lo spazio fa apparire claustrofobico il reticolo della città e, davanti a un aperitivo sorseggiato nel belvedere, si sorvegliano i movimenti del sole, che sparisce ogni sera dietro il Volcán de Agua. Ride di una gioia arancione l’accogliente lavatoio porticato del Tanque la Unión, mentre scruta nullafacenti e turisti a passeggio tra le palme del piccolo parco, ignorando ostinatamente le candide rovine di Santa Clara alle sue spalle. In fondo, se i terremoti non avessero distrutto la città, staremmo ora sgranando il rosario delle sue sontuose vestigia? Vulcani che seppelliscono abitati, rive con palazzi e templi che si inabissano, tempeste che affondano preziosi carichi: i disastri ambientali rubano il presente ai viventi per regalarlo ai discendenti. E le epoche hanno altri modi ancora di intrecciarsi: a Casa Popenoe, cos’è coloniale e cosa tardìa invenzione? L’intenzione di quel ricco agronomo, che aveva acquistato vecchi casali contigui per farne la propria residenza, era di riportarli allo splendore antico, rispettando del passato i canoni stilistici. Per mancanza di modelli o per necessità, fu Popenoe stesso a stabilire la posizione della fontana nel giardino, a decidere la destinazione degli ambienti, a decretare la costruzione d’un caminetto, tutti elementi senza precedenti, ma posteriormente presi a modello di architettura coloniale in un improbabile accavallamento temporale tra la seconda cultura fiorita nel paese e la terza, l’attuale.

Questa venerazione per la tradizione è la punta dell’iceberg di un’identità indigena prepotente negli stretti passaggi del mercato, nell’architettura tipicamente coloniale e nell’impero dello spagnolo, lingua squisitamente, caparbiamente refrattaria alla devastante tirannia dell’inglese. A questi miracoli di Antigua si sommano quelli dell’Hermano Pedro, invasato forse, ma di certo guaritore, che dal paradiso dove s’involò nel 1667 a causa d’una brutta bronchite, continua qui la sua missione di angelo degli infermi. Gli acciottolati notturni non risuonano più dei suoi moniti e le calli non pullulano più di straccioni malati, quelli che lui s’adoperava di restituire alla salute. Li accoglie ora un ospedale a suo nome, piccolo – solo 250 letti – ma questo è un paese dove è l’iniziativa del singolo a portare il cambiamento: un paese dove il 70% della popolazione ha limitato accesso ai servizi sanitari (U.N., 2016) e, oltre alle violenze fisiche e sessuali, i giovani rischiano soprattutto la povertà (Unicef, 2014). L’albero dell’Hermano Pedro dà fiori miracolosi: il principio attivo è, al solito, la fede. Ed è la fede a portare e trattenere qui tanti volontari, speranzosi che le loro azioni possano fare una differenza – fede nel frammento divino di cui in genere siamo, purtroppo, solo portatori sani. Vagabondo in vita, pellegrino anche in morte: dopo aver provato cinque diverse tombe, Pedro sembra aver trovato pace nella chiesa di San Francisco, meno monumentale di Santa Clara, ma più ornata. Nel piccolo, fervoroso museo a lui dedicato, tra le grucce e le candele, si leggono i ringraziamenti per aver salvato vite, superato rovesci finanziari, sanato pancreatiti e, più discretamente, per aver concesso quel che era stato chiesto. Tutto gratis et amore dei, una generosità alla quale le nostre aziende sanitarie locali ci hanno da tempo disabituato.

Era un dio potente quello a cui Pedro aveva strappato così tante grazie. Eppure, facendosi strada tra blocco e blocco nell’apocalittica distruzione de La Recolección, spettacolo meraviglioso e tremendo, passeggiando tra le siepi e le aiole di San Jerónimo, Santa Clara e Santa Isabel o costernati dalla sorte toccata alle intricate fioriture barocche della Cattedrale, il sospetto insistente si insinua che sia stato un infuriato dio misconosciuto a voler annientare gli adoratori di quel rivale e mettere così a tacere le preghiere blasfeme che si levavano da ogni calle della città. La violenza del terremoto con cui distrusse la città quasi conseguì l’obiettivo, posto che la maggior parte dei superstiti decise di abbandonare quell’ammasso di rovine e d’insediarsi altrove. La maîtresse è ora Città del Guatemala, refugium peccatorum, e Antigua un’oasi di grazia e di colori pastello, un Shangri La per gringos in cerca d’una cultura gentile, un Eldorado per le loro fantasie latinoamericane a metà strada tra buoi e breviari, una la-la land di vulcani violenti, di terribili terremoti e di sacrileghi sacrifici. Ma è commovente l’amore per il proprio posto nel mondo, in quel mondo allora nuovo, che le colonne del palazzo comunale e la vicina gradinata della cattedrale irradiano dal centro dell’ordinato reticolo delle calli, che parla forte d’una logica granitica. Ecco là il potere politico a braccetto con quello religioso in un universo, a differenza del nostro, ragionato, regolato e comprensibile. Al di là d’ogni innocente ingresso arcato s’intravede il patio colla fontana, il giardino e le stanze che vi si affacciano, proprio come le dimore degli antichi romani e come i caravanserragli dell’Asia, configurazione comune a ogni cultura preindustriale. Antigua è l’unica città in cui i pedoni non corrono alcun rischio: l’acciottolato è talmente irregolare che le (poche) auto marciano a passo d’uomo, seminando le viti delle sospensioni. E a passo d’uomo, per piccola che sia, per percorrerla ci vogliono le ore: tempo incantato in un passato a portata di mano, colle scarpe su centenarie pietre sconnesse dove il sole batte tutto il giorno.

Questa è l’America, portale di bizzarre cosmogonie e inaspettati contrasti, dove culture scomparse da secoli traspaiono, razze credute estinte popolano le strade e fiumi si inabissano per poi ricomparire… E’ quel che succede a Semuc Champey, dove il torrente Cahabón si infila entro una voragine seminascosta per riaffiorare trecento metri più oltre creando, in superficie, una serie di pozze digradanti. Dall’alto del belvedere – una piccola piattaforma di pali raggiunta arrampicandosi per un erto, scivolosissimo sentiero – il turchese limpidissimo delle vasche sottostanti – alcune vaste e profonde abbastanza per nuotarci – è sensazionale. Né è l’unica curiosità: a questo luogo incantato, estremamente fotogenico e perfetto per un picnic, arriva una strada sterrata dove la natura composita del Guatemala si rivela in un inclusivo colpo d’occhio: da una parte, sul versante, abeti pelosi, dall’altra, sul fondo valle, vegetazione tropicale. I pipistrelli delle vicine Grutas de Lanquín devono essersi trasferiti in caverne più interessanti: in pieno pomeriggio non ce n’è traccia, come anche di parecchie lampadine che dovrebbero illuminare il breve percorso attrezzato…

Della ventina di piccoli, panciuti natanti ancorati nella baia, la metà restano inattivi, molti ormai colonizzati dai pellicani che si affollano sul ponte, immobili, come imbalsamati, il becco puntato al largo. Dal tetto del capanno in fondo al pontile, altri scrutano impassibili l’occasionale canoa che rientra scivolando sul pelo immobile della baia, ancora addormentata sotto una coltre di nubi impalpabili. Zaino in spalla, gli avventurosi hanno abbandonato da ore l’oasi accogliente che li ha visti ieri sera organizzare le gite in barca tra sponde di felci e di mangrovie, magari fino al Balneario de Aguas Calientes, vicino all’estuario del Río Dulce, le visite ai villaggi Garífuna, il trek nella foresta a Siete Altares, le lezioni di tessitura e, perché no, le ore d’ozio sulla spiaggia serena di Playa Blanca o di Salvador Gaviota. Ai bungalow rimangono i messaggi arrivati dall’Italia, che da qui sembra la penisola che non c’è, mentre le note sommesse d’una tromba languida o d’una voce sensuale accennano le melodie di sempre, sorpresa piacevole come incontrare per caso un antico amante, musiche immutabili come le lente ore di Lívingston, così remota da non aver più neanche l’ufficio postale, così convinta del proprio destino di enclave di neri, Maya e meticci da nascondersi al bordo delle storie di schiavitù e deportazioni, al confine del Guatemala col Belize, sull’orlo del Mar dei Caraibi. La libertà delle colonie fu proclamata proprio in Guatemala il 15 settembre 1821, ma quella di questi africani e amerindi è arrivata dopo schiavitù, fughe, naufragi di progenitori dimenticati e abbandonati, fino a che l’indeterminato destino di questi indesiderati li ha vomitati su un tratto di costa dove ancora s’arriva solo col motoscafo. E sebbene sembri che ciascuno di loro viva una propria vita, in realtà sono accompagnati da storie tramandate di generazione in generazione, dai miti, dai racconti, dai riti e dagli artefatti di quel che adesso sono e di quel che sono stati nei secoli passati, eredità trasmessa da quella thin white rope di William Burroughs che lega il figlio al padre. Lívingston racconta una storia straordinaria di resilienza umana: al di là del singolo individuo, di passaggio come le nuvole sopra le valli o come il respiro del bestiame, la razza resta, carica di sconosciute epiche epopee, insopprimibile come le stelle che scintillano da centinaia di milioni di anni, ostinata come le pietre che rimangono immobili per secoli. La vita va avanti, invadendo il futuro. Il volo frenetico e diritto dei cormorani, le formazioni di pellicani in silenzioso trasferimento, le ali roteanti delle sterne artiche e i lenti, eleganti movimenti delle egrette incorniciano le grida dei ragazzi nel campo da gioco, le chiacchiere delle donne al lavadero pubblico e il rombo dei tricicli motorizzati. Mentre i minuti artigiani sono intenti ai loro minuti lavoretti nelle spoglie stanzucce, alle quali s’alternano sgargianti murales che celebrano la loro peculiare identità, sono i cani randagi i veri signori delle strade, odorose di pane di giorno e di fiori la notte. Al calar della luce l’aria si infittisce di cinguettii, fischi, sibili, cicciuccì, allegri, tristi, imploranti, per una mezz’ora di confidenze e maldicenze infervorate, prima che il buio costringa tutti al nido. Le luci punteggiano la notte, cessa anche il vento e le note di una languida milonga accarezzano i rampicanti e i tetti di palma, indugiano sulla passerella del molo privato, sospettose del movimento furtivo e incessante di quell’elemento nero e infido, con superficie ma senza fondo, che sostiene le barche ma lascia affondare i pensieri. Un oceano perduto, o forse trovato, nell’oceano del destino.

A Lívingston ci aveva condotto la Carretera al Atlántico, un piacevole viale ombreggiato da alberi generosi che era succeduto alla realtà rurale della parte centrale del paese, sparsa di piantagioni di caffè, cacao e thè e di modestissime costruzioni di blocchi di argilla espansa. Dietro alle verande dai portici incongruamente colonnati, inframmezzate a catapecchie di legno e corrugato (tutte però dotate di antenna parabolica), tra le frequentissime officine di gommisti che si susseguono al ritmo di bachata, come il tàn‑tantantàn d’un treno – i trasporti pesanti corrono su asfalto, e le strade hanno gran bisogno di manutenzione –, dietro l’intrico della vegetazione e dei cartelloni pubblicitari, il Guatemala mostra un potenziale agricolo enorme. Servono opere d’irrigazione e di bonifica affinché la natura possa collaborare al progresso del paese. Tra gli alberelli fioriti, la frutta matura e la vegetazione folta, punteggiata dall’occasionale banano o dallo sprazzo giallo della chioma d’un palo amarillo, i rilievi verdi e le montagne bruciate sullo sfondo non manifestano quale stagione sia. E’ tempo, però, di muoversi. Sono le sette e mezza e nei canaloni, tra le coltivazioni e i boschi di acacie, la nebbia stenta ad alzarsi dalla terra umida. La luce che filtra attraverso le foglie delinea le siluette degli alberi appollaiati sulla cresta. Sotto il cielo limpido, la donna lava nel cortile e l’uomo a cavallo è arrivato al magazzino dell’agropecuaria, mentre le scolarette, linde e pinte nella loro divisa, aspettano lo scuolabus giallo per una giornata alla scuola rurale mista: pare impossibile che ci siano stati 38 anni di guerra civile. Pure, la scelta dei percorsi non può seguire la logica geografica ma lo stato delle strade e l’eventuale presenza di predoni. I cartelli stradali, preoccupati, ammoniscono “Obedezca las señales” e addirittura “No maltrate las señales”. Sui bus multicolori, sulle cancellate, sui muri dei recinti le scritte apotropaiche si sprecano: “Jesús es Señor”, “Grande es Diós” e, appropriatamente, “Fortaléceme Señor”, perché la divisa della guerra della vita è la propria pelle, e toglierla di dosso non è possibile. Ma, finché i cartelli all’ingresso dei negozi indicano “Vietato fumare”, “Spegnere i telefonini” e “Vietato sparare”, stiamo tranquilli. Anche a Città del Guatemala.

E’ vero, le porte dei supermercati – e non solo – sono piantonate, ma questo ormai è regola anche da noi. Inquietante invece è la solida inferriata che difende la mercanzia degli empori e delle rivendite di alimentari. Scegliamo di non lasciarci intimidire e Città del Guatemala ci compensa con una giornata memorabile. I bordi delle volute e le nervature delle foglie dei capitelli corinzi di San Francisco, un tempo dorati, sono, più modestamente, ora solo dipinti. Il Cristo dell’altare abbandona la croce per porgere la mano al gesto amoroso di Francesco mentre, alle cappelle laterali, statue dolenti si offrono alla nostra pietà. E’ però nella Rectoría de Santa Clara che la preghiera vien dal cuore più sincera: le maioliche colorate del pavimento non son così diverse da quelle dell’albergo, e in questa casa di Dio si può chiedere senza venire intimoriti dalla formalità d’una grande chiesa: perfino l’Ecce Homo, con il suo scettro di bambù, chiede, annoiatissimo dentro la sua teca, comprensione e compassione. Affinché nessuno vada via amareggiato, all’ingresso vendono lecca-lecca con la Madonna di Guadalupe e col crocefisso. Rimanendo in tema, i fast food pollaioli assediano il vicino Ministerio de Gobernación e il contrasto la trivialità degli uni e la magniloquenza coloniale contenuta e cortese dell’altro non potrebbe essere maggiore. Ma non sono le sole presenze sulla Sexta Avenida, occupata da mane a sera da un incessante ribollire umano. I cartelli segnalano che la vendita sul suolo pubblico è proibita, ma ci si adopera con ogni mezzo per racimolare qualche quetzal. In mostra son tutte le risposte all’imperativo della necessità escogitate dalla goccia di libero arbitrio concessa ad ognuno: sciuscià, tattooisti e giocolieri si contendono l’attenzione dei passanti, mentre ai ciechi è riservato il destino di cantante. Questo microcosmo è lo spaccato del Guatemala a venire, una maschera modernizzata che cade quando nella Plaza de la Constitución, davanti alla Cattedrale, il mercato di libri e tessuti della domenica lascia il posto allo schioccare della frusta di un pastore di passaggio col suo gregge, un fulminante déjà vu della sorte toccata ai Fori Imperiali, poi Campo Vaccino a Roma, dove il punto focale d’un impero si ridusse a pascolo per il bestiame. Alle nove di sera, chiusi i negozi ed evaporato il viavai, una donna-spazzatura spinge un cigolante carrello da supermercato fino al convegno notturno dei reietti. Che ne sanno, i signorini che consumano la suola delle scarpe avanti e indré sulla Sexta, delle proprie vite passate? Prima sudditi d’un potente impero, poi coloni dei territori d’oltremare, ora cittadini d’una repubblica delle banane: pensano che i manifesti per la prevenzione della tortura non li riguardino, passano col rosso, lasciano che le belle architetture déco della loro capitale cadano a pezzi e si guardano bene dall’andare a curiosare nelle file di bancarelle della Diciottesima Calle, quella che porta all’altro centro della città, Plaza Barrios, incontro e sosta dei diseredati. Loro prendono i Transmetro, gli autobus snodati verdi che chiamano “gusanos”, cioè “bruchi” a causa del colore, quelli colle pensiline sopraelevate e sorvegliate da guardie armate. Quelli, cioè, che possono prendere senza tema d’essere depredati anche i turisti, che vanno a vedere la curiosa Mapa en relieve, una presentazione su 1.800 metri quadrati della geografia del Paese, costruita nel 1905 per l’educazione degli stessi guatemaltechi. O che fotografano la fontana, circondata da uno scenografico patio circolare colonnato, del Museo de Arqueología, pieno dei modellini delle ricostruzioni dei siti archeologici che andranno a visitare. Sempre per gli stranieri è anche il contiguo Centro de Artesanías, con souvenir d’ogni colore e d’ogni stile. E’ un po’ fuori dal centro, e siamo in sei. I taxi ci sono ma, per praticità, preferiamo non separarci. Ne occupiamo uno: il peso massimo del gruppo accanto al tassista, quattro sul sedile posteriore e io… io mi tuffo sulle loro ginocchia e si va così. Bravo il tassista, a macchina stracarica, a schivare le buche e i vigili. Ognun per sé, Dio per tutti: questa è la legge che guida la vita irrazionale della massa.

Abbandonata a se stessa, senza le redini della legalità e della civiltà, a chi può ricorrere quest’umanità bisognosa? Per ottenere prosperità e vita, Coniglio Diciotto, Cielo Cauac, Teschio d’Animale, Zampa di Giaguaro I e i loro grandi sacerdoti offrivano il proprio sangue a Kukulcán, il serpente piumato, a Chaac, dio del tuono e della pioggia, a Kinich Kakmo, dio del sole, e al resto del Pantheon forandosi lingua e genitali con spine di razza e frecce d’ossidiana, preziosi strumenti del loro alto rango. Secoli dopo, dalle volute barocche dei monasteri missionari, saliva al cielo l’offerta del corpo e del sangue di Cristo, per implorare grazia e vita eterna. La speranza di abbondanza e di vita comoda ancora animano i 15 milioni di guatemaltechi della civiltà postindustriale, ma questa terra vergine, primitiva, troppo vicina al fuoco eterno che arde nelle sue viscere, compresa tra gli infiniti di due oceani e ammantata d’una foresta incontenibile, continua a pretendere il tributo del sangue. Gli episodi di ordine e buona volontà splendono isolati nel sangue di violenze irreversibili che rimarranno ancora a lungo inevitabili. Dopo la disintegrazione della cultura maya, dopo l’evaporazione dell’ascendente della religione sulle anime, dopo l’esaurimento del modello occidentale che, oltre ad aver ripetutamente provato di non essere esportabile, è in piena decadenza negli stessi paesi che lo propongono, dove ha alienato la popolazione che non vi si riconosce più, l’esistenza in Guatemala sta segnando il passo, sognando uno sviluppo sostenibile e consapevole, che aggreghi le risorse dei singoli e restituisca dignità al Paese. La speranza è che la rivoluzione che stiamo vivendo prenda forma, che si raggiunga la massa critica perché quel salto di qualità della vita che tutti aspettiamo si realizzi. In retrospettiva, i Maya avevano correttamente segnalato la fine di un’era: siamo tutti consapevoli che un mondo nuovo sta, con molta fatica, formandosi. Dappertutto stanno nascendo e sviluppandosi comunità che hanno l’intento di ritrovare il senso vero dell’umanità, i suoi valori e i suoi obiettivi sia materiali che spirituali, ma non basta per cambiare le nostre stelle. Noi, sudditi delle grandi babilonie del III millennio, che viviamo delle briciole dei nostri potenti, non siamo meno vigliacchi e indifferenti di quelle antiche. Con troppa remissività camminiamo il sentiero del destino, vittime d’un incantesimo dal quale solo il bacio dell’assoluto ci potrà svegliare. In Guatemala si capisce che è necessario un temporale che rovesci la scena, un controtempo che rallenti la nostra corsa forsennata, permettendoci, in questo secolo commerciale, di sottrarci, di dissentire, rifiutando di bruciare la nostra vita in scorciatoie. Questo cantano gli uccelli della foresta, questo avvisa il ruggito dei terremoti. Come frecce, le piramidi maya puntano in alto, al cielo.



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