Antigua & Barbuda: caldo inverno

Nelle spettacolari isole tra Mare dei Caraibi e Oceano Atlantico, per scoprire la bellezza pura di un paesaggio caraibico a tratti selvaggio (Antigua) e un gioiello ancora incontaminato (Barbuda)
Scritto da: Rob-in-viaggio
antigua & barbuda: caldo inverno
Partenza il: 10/03/2017
Ritorno il: 18/03/2017
Viaggiatori: 2
Spesa: 2000 €
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Venerdì 10.03.2017

Partenza prevista con volo Neos da Malpensa ore 13:00 ritardata di circa 3 ore (decollo effettivo alle 16:20) per un tempo di volo totale di 9:20 con atterraggio alle 21:45 ore locali ad Antigua (-5 ore di fuso rispetto all’Italia). Ritiro auto (prenotata in precedenza) al banco Hertz, non senza qualche preoccupazione per l’orario di ritiro: l’agenzia avrebbe dovuto infatti chiudere alle 21:00, ma fortunatamente la responsabile ci ha aspettato agli arrivi e ci ha accompagnato al ritiro auto oltre l’orario di ufficio. Ci consegnano una Nissan Tiida bianca con cambio automatico pronta a portarci a spasso per l’isola: esame di guida a sinistra passato senza difficoltà, dato anche lo scarsissimo traffico e l’ausilio di una carta scaricata per uso off-line su smartphone (indispensabile e consigliatissima vista l’assenza di segnalazione stradale sull’isola). Lasciamo l’auto nel parcheggio privato del resort (Jolly beach resort and spa) e procediamo al check-in, pagamento e consegna chiavi. Serata al banco del bar per assaporare il rum del posto.

Sabato 11.03.2017

Giro in spiaggia con tentativo di raggiungere Valley Church beach a piedi fallito, in effetti all’ingresso del Cocobay resort ci blocca la strada il guardiano e ci consiglia di uscire dal resort e raggiungere le spiagge limitrofe dalla strada asfaltata. Prendiamo l’auto e decidiamo di dirigerci a Ffryes Beach una delle spiagge del versante caraibico più tranquille per la totale assenza di resort. I tronchi portati dal mare, che qui si arenano nella sabbia, il continuo andirivieni dei pellicani in acqua e le caprette libere al pascolo, rendono l’atmosfera selvaggia e incontaminata: l’acqua tuttavia risulta un po’ torbida anche se il paesaggio nell’insieme è comunque tipicamente caraibico (peccato per un agglomerato di gonfiabili per bimbi al largo davvero inguardabili). Per pranzo torniamo al resort, ma subito dopo ci rimettiamo in pista per visitare una nuova spiaggia: Valley Church Beach. La situazione è molto simile alla vicina spiaggia di Ffryes, poca gente (per lo più abitanti del posto), acqua di un azzurro torbido e totale assenza di strutture turistiche. Appena prima del tramonto ci dirigiamo più a sud verso Darkwood Beach e Turners Beach; nonostante la totale assenza di turismo in spiaggia, nessuna delle due spiagge ci convince fino in fondo (forse per l’acqua mossa o la vicinanza della strada) e decidiamo quindi di gustarci un cocktail coloratissimo sulla vicina e piccola spiaggia di OJ Beach al ristorante Jacqui O’s Love. In serata percorriamo tutta la spiaggia di Jolly Beach di fronte al nostro resort, fino oltre il ponte che separa in due il litorale, raggiungendo la parte più a nord dove ville private di lusso si affacciano su una spiaggia che si fa sempre più ampia e selvaggia.

Domenica 12.03.2017

Appena dopo colazione facciamo tappa al banco delle escursioni dove prenotiamo appena in tempo per il giovedì successivo la giornata a Barbuda (Barbuda Express AR, incluso trasferimento interno con taxi, pranzo in spiaggia e spostamento in barca per il Frigate Sanctuary al costo di 149 US$) e per il giorno seguente la circumnavigazione dell’isola con Extreme Antigua (incluso il pranzo in spiaggia e la visita a Stingray City al costo di 170 US$). Soddisfatti ci rimettiamo in pista direzione Half Moon Bay. La strada sin dall’inizio si rivela tortuosa e cosparsa di buche davvero profonde che cerchiamo di evitare non senza fatica, ma anche qui l’assenza di traffico ci facilita la guida (in tutti i casi non superiamo mai i 50 km/h). Nel primo tratto, fin quasi al bivio per English Harbour, percorriamo la Fig Tree Drive – nota per il tortuoso saliscendi all’interno della vegetazione tra piante di banano e piccoli centri abitati: molto famosa ma sinceramente un po’ deludente, ci si aspettava un tuffo nella foresta pluviale ed invece si tratta di una strada molto simile ad altre viste durante i nostri giri sull’isola. Dopo circa un’ora e trenta di guida appare finalmente la baia a mezza luna con onde possenti per quasi tutto il litorale: il punto sicuramente ideale dove accamparsi è il lato nord dove la curvatura della spiaggia è più accentuata e crea un ottimo riparo dalle correnti e dalle onde dell’oceano. Sul lato opposto notiamo lo scheletro di un resort abbandonato ancor prima di essere terminato, causa il passaggio di un uragano. Pranziamo in un bar a pochi metri dalla spiaggia e nel pomeriggio esploriamo la parte alta della mezzaluna rivolta verso l’oceano: il sole è davvero forte e nonostante creme a protezione elevate ogni tanto siamo costretti ad un tuffo in acqua (qui cristallina e trasparente) o al riparo tra la vegetazione che circonda la baia. Lasciamo la spiaggia decisi a goderci il tramonto sull’altura di Shirley Height, uno dei forti a difesa di English Harbour: ripercorriamo quindi a ritroso le strade tortuose fino all’altura di Blockhouse, dove visitiamo le rovine del forte e scattiamo qualche foto sulla costa sud est dell’isola. Già da questo punto si intravede la massa di gente che si sta accalcando sul forte Shirley Height per la festa che si tiene ogni domenica al tramonto. Una volta arrivati ci accorgiamo però che non si tratta della festa caraibica che ci aspettiamo, ma di un ritrovo per turisti (principalmente inglesi) che si accalcano per scattare una foto al tramonto, tra pinte di birra e carne grigliata, il tutto condito da un ticket di ingresso da 10 US$ a persona. Scattiamo a fatica una foto di English Harbour al tramonto (effettivamente l’unica nota positiva in questa situazione), compriamo da bere sgomitando tra la folla a dopo poco ci ributtiamo in macchina per il ritorno. In vista dell’escursione del giorno seguente, visitiamo Jolly Harbour appena dietro il resort alla ricerca del punto di imbarco dello speed boat Extreme: il porto è ben tenuto, deserto di persone ma affollato di barche a vela che stazionano lungo tutto il perimetro del pontile.

Lunedì 13.03.2017

Sveglia all’alba e partenza alle 8:00 da Jolly Harbour per il giro dell’isola. Per circa un’ora ci spostiamo lungo la costa per far salire passeggeri dai diversi resort, per poi partire a razzo tra onde altissime fino a raggiungere Long Island (il paradiso dello sfarzo e delle ville esclusive di lusso) e subito dopo Stingray City, la prima tappa del tour. Accostiamo una piattaforma galleggiante e già intravediamo in acqua le ombre delle razze (Stingrays appunto) che passano accanto alla nostra barca. Ci forniscono alcune indicazioni ma purtroppo capiamo ben poco e un po’ titubanti ci prepariamo alla discesa in acqua. Fortunatamente incrociamo una guida italiana che ci tranquillizza elencandoci alcuni semplici accorgimenti da seguire una volta a contatto con le razze. Ci facciamo scattare la foto di rito mentre abbracciamo/sorreggiamo la razza (al tatto è liscia e molliccia sul lato inferiore rivolto verso la sabbia) e poi proseguiamo con un po’ di snorkeling tra razze e turisti inquieti. Dopo circa 45 minuti ripartiamo ancora a tutta velocità alla volta di Pelican Island e Devil’s Gate (da non confondere con Devil’s Bridge), un arco di roccia plasmato dalla forza delle onde e del vento a largo lungo la costa atlantica. Ci fermiamo per pranzo su Green Island dove ci servono pasta fredda, pollo e banana bread (piacevole scoperta culinaria tipica del posto): gustiamo il pranzo all’ombra della verde vegetazione mentre paguri giganti ci vengono incontro curiosi. Giusto il tempo di fare una passeggiata sul lato opposto dove stazionano alcuni Kitesurfers ed è subito ora di rimettersi in moto tra le onde a tutta velocità. Lungo lo spostamento ci illustrano caverne, archi naturali e baie lungo la costa, ma l’alta velocità, l’acqua che ci arriva in faccia a secchiate e il rumore dei tre motori ci rende quasi impossibile capire le spiegazioni. Un po’ contrariati arriviamo a English Harbour: quello che nel nuovo continente è considerato “storico” agli occhi di turisti europei appare sempre un po’ deludente (almeno per me è quasi sempre così) e English Harbour non sfata questa convinzione. Sicuramente di maggiore interesse è la parete appena sotto Shirley Height, le cosiddette Colonne d’Ercole: formazioni rocciose scavate dall’oceano che appaiono come giganti clessidre a scalini. Per circa 30 minuti facciamo snorkeling proprio sotto queste colonne: la fauna e il fondale sono forse i migliori che esploriamo durante tutto questo viaggio, vediamo infatti pesci tropicali blu e gialli, due piccoli barracuda e una miriade di ricci dagli aculei lunghissimi. L’ultima tappa è la meravigliosa spiaggia di Randezvous Bay, dove una volta approdati ci servono un punch tipico del posto fatto con rum bianco e lime. L’acqua trasparentissima e azzurra su un fondo di sabbia marrone chiaro è contornata da una fitta vegetazione; tutto attorno si vedono solo verdissime colline e la spiaggia sembra totalmente isolata dal resto, vista la mancanza di collegamenti stradali. In realtà la si può raggiungere con una lunga escursione sulle colline oppure a cavallo (la strada non è carrozzabile), ma la via sicuramente più semplice è quella via nave. Anche in questo caso ci lasciano solo il tempo di un fugace bagno e di una breve camminata sulla spiaggia prima di richiamarci nuovamente sulla speed boat e ripartire. Passiamo in rassegna tutte le spiagge della costa caraibica compresa la “nostra” Jolly Beach e alle 15:40 terminiamo l’escursione nel porto di Jolly Harbour. In effetti ci sembra che per la cifra pagata (ricordo 170 US$ a persona) la visita poteva essere organizzata meglio: soprattutto ci lascia l’amaro in bocca il fatto di aver visitato luoghi bellissimi senza essere potuti restare più di 30/40 minuti, il tutto per poi terminare l’escursione molto presto (circa 3 ore prima del tramonto). Senza contare che siamo stati i primi a salire e gli ultimi a scendere, spendendo la prima e l’ultima ora dell’escursione per recuperare e poi riaccompagnare tutti gli altri passeggeri. Concludiamo la giornata sulla spiaggia all’ombra delle palme del nostro resort, in effetti siamo un po’ stravolti dal sole e dalla velocita della barca Extreme. La sera restiamo in resort ad assistere a spettacoli di danza tipica con il fuoco sulla spiaggia.

Martedì 14.03.2017

Complice il fuso che si fa sentire e il sole che tramonta relativamente presto (18:30 circa) tendiamo a svegliarci presto e alle 8:00 siamo già pronti per partire alla volta di Long Bay. Decidiamo di provare un percorso alternativo rispetto a Fig Tree Drive, ci dirigiamo quindi verso Saint John e da lì imbocchiamo la Factory Road. Decisamente un scelta azzeccata visto che la carreggiata è molto più rettilinea, scorrevole e in buone condizioni. Sulla strada per Long Bay decidiamo di fare tappa in uno dei luoghi simbolo di Antigua: Betty’s Hope. Si tratta di una ex piantagione di canna da zucchero ormai abbandonata i cui mulini e altri edifici in muratura sono stati parzialmente recuperati e restaurati, (sono tuttora funzionanti). La si raggiunge percorrendo per cinque minuti una strada sterrata sulla destra prima di Saeton. Scattiamo qualche foto, ma la voglia di spiaggia ci rimette subito in auto. Facciamo una deviazione a Seaton (il paese di pescatori famoso per essere la città delle razze da cui partono tutte le escursioni per il bagno con le stingrays) dove dovrebbe partire una escursione breve di circa 3-4 ore verso Great Bird Island, che include snorkeling e giro in kayak tra le mangrovie (costo 50 US$ a persona). Troviamo facilmente il posto (Paddle Antigua): una villa privata ma ben segnalata dove la titolare molto gentile ci illustra il tour nel dettaglio, interessante ma decidiamo di proseguire per Long Bay visto che la giornata comincia a farsi calda. Dopo circa un’ora di macchina (escluse le due soste lungo la strada), arriviamo a Long Bay dove ci accolgono subito beach boys simpatici e poco insistenti. Ci posizioniamo nella parte destra della spiaggia, a mio avviso la migliore sia perché sgombra dal turismo che qui è un po’ più evidente che altrove (mai comunque eccessivo), sia per la vicinanza al reef che dista solo alcune decine di metri da riva. Pranziamo in un barettino sulla spiaggia carino e a buon mercato, facciamo un giro tra le bancarelle e le casette colorate sulla spiaggia dove persone del posto espongono oggettistica artigianale e souvenir commerciali e decidiamo infine di dirigerci verso Devil’s Bridge che dista solo alcuni km dalla spiaggia. Lo raggiungiamo in auto percorrendo un ultimo tratto di strada sterrata in brutto stato, scattiamo alcune foto, ci scambiamo qualche battuta con gli ambulanti che stazionano vicino al ponte per poi ritornare in spiaggia a goderci il tramonto su Long Bay: attenzione ai mosquitos che qui si fanno sentire all’ora del tramonto. Il ritorno così come l’andata scorre via in circa un’ora di strada e per cena rientriamo a Jolly Beach resort.

Mercoledì 15.03.2017

Una delle penisole ancora da esplorare resta Five Island, quindi dedichiamo la giornata di oggi per visitare alcune delle spiagge su questa costa. Partiamo come al solito di primo mattino direzione Hawksbill Beach: percorriamo una strada stretta e sconnessa attraversando la periferia sud di Saint John tra casette di legno colorate e animali liberi. Pian piano che ci addentriamo nella penisola la strada si fa sempre più deserta, ci lasciamo sulla destra un parcheggio in riva al mare e proseguiamo poco più avanti dove una sbarra blocca l’accesso alle spiagge rese private. Scopriamo infatti che delle quattro spiagge che compongono Hawksbill solo la prima è a libero accesso, mentre le altre sono parte di un resort a cui è possibile accedere anche a giornata o mezza giornata ma pagando prezzi (a mio avviso) folli: si parla di 75 US$ per una giornata incluso un pasto. Lasciamo l’auto vicino al gabbiotto del guardiano e decidiamo di goderci la prima delle quattro spiagge (l’unica libera in effetti). Come spesso accade qui ad Antigua siamo gli unici sulla spiaggia e solo a mattina inoltrata ci raggiungono altre 5/6 persone del posto; diversa dalle precedenti, questa spiaggia è di sabbia più scura (o comunque non bianca come le altre viste nei giorni prima), ma con un’acqua davvero cristallina e calmissima. Saliamo sugli scogli lungo la parete di roccia che delimita la spiaggia a nord, da qui si vede tutta la baia (incluse le altre tre spiagge a pagamento) e in lontananza si scorge anche il faraglione a forma di rana visto in precedenza durante l’escursione di lunedì. Il contesto non sembra per niente caraibico anzi ricorda di più il Mediterraneo, ma non per questo meno affascinante. Senza accorgerci sono già le 14:00 e la fame comincia a farsi sentire, decidiamo di spostarci per pranzo e risaliamo in macchina alla volta di un’altra meravigliosa spiaggia: Deep Bay Beach. La spiaggia è famosa perché a circa 100 metri dalla riva si trova la zona in cui è avvenuto nel 1907 il naufragio della nave Andes, mentre a pochi passi si sviluppa un’insenatura dall’imbocco strettissimo simile ad un lago salato lagunare. Dapprima cerchiamo di raggiungere Deep Bay passando per strade sterrate a sud della laguna, ma un cancello dell’enorme resort da dieci piani ci sbarra la strada. L’unica via possibile sembra essere la strada tutta buche che termina a nord in un ampio parcheggio dove lasciamo l’auto per proseguire a piedi: passiamo su un ponte in metallo sopra lo stretto imbocco della laguna e dopo pochi minuti di passeggiata tra la vegetazione, ci si presenta un colpo d’occhio tipicamente caraibico, con palme giallo-verdi che si allungano verso una spiaggia bianca e un’acqua piatta e azzurrissima. Decisi a pranzare prima ancora di goderci la spiaggia deserta, ci dirigiamo verso il lato sud della spiaggia stessa dove al piccolo bar sulla spiaggia ci indirizzano al ristorante del mega-resort da dieci piani visto in precedenza. L’edificio è sinceramente inguardabile, sembra una struttura ospedaliera costruita su un lato della laguna appena dietro alla spiaggia; nonostante il nostro giudizio estetico, siamo grati della sua esistenza in quanto unica fonte di cibo. Pranziamo in una sala enorme ben tenuta e completamente deserta (come tutto l’hotel del resto) in una situazione quasi surreale misteriosa (ancora oggi ci chiediamo come possa restare aperta questa cattedrale nel deserto). Il pomeriggio trascorre tra sole e bagni rinfrescanti anche se purtroppo l’acqua azzurrissima è anche molto torbida (specialmente nella zona nord), tanto da non permetterci di fare snorkeling e vedere il relitto sommerso. Poco prima del tramonto saliamo sull’altura a nord della baia fino a Fort Berrington da cui si gode una vista fantastica che spazia dalla spiaggia, passando per la laguna, spingendosi fino a Saint John. Una volta tornati all’auto tentiamo infine di raggiungere Galley Beach per il tramonto, ma scopriamo cha anche questa spiaggia è ormai stata inglobata completamente in un resort, così torniamo stanchi ma comunque molto soddisfatti a Jolly Beach per la cena.

Giovedì 16.03.2017: barbuda

Oggi, signori, è il giorno di Barbuda. L’escursione con Barbuda Express parte alle 9:00 dal porto di Saint John, il check-in è alle 8:30, quindi per le 7:30 partiamo dal resort, calcolando 20 minuti di strada e una buona mezz’ora per trovare parcheggio nella capitale. In effetti a quest’ora del mattino Saint John è abbastanza affollata e caotica, ma pur sempre un traffico controllato: troviamo parcheggio a circa 600 m dal porto, al termine della High Street dove uno spiazzo di terra battuta lungo Indipendence Avenue costituisce un parcheggio tranquillo e gratuito. Percorriamo a piedi tutta la High Street dove edifici colorati caraibici e buildings in stile occidentali si alternano ben integrati tra loro. Avvicinandoci al porto notiamo alcuni spazi adibiti a parcheggi a pagamento custoditi, ma ormai la macchina è parcheggiata e andiamo dritti al pontile per l’imbarco. Al check-in è richiesto obbligatoriamente il passaporto o una foto dello stesso su smartphone e ovviamente saldiamo l’importo dovuto. Partiamo in orario e arriviamo a Barbuda dopo un’ora e 20 min di traversata un po’ mossa, ma comunque fattibile, dopotutto lo avevamo messo in conto, siamo in Oceano aperto. Barbuda appare subito come un’isola prevalentemente piatta e coronata da un mare azzurrissimo che spicca su sabbia bianca. Al pontile (chiamarlo porto è esagerato) ci aspettano i taxisti con furgoni da 10/12 posti pronti ad accompagnarci alla scoperta di questa meravigliosa isola. Il tutto è incluso nell’organizzazione dell’escursione quindi procede tutto molto rapidamente e in men che non si dica, dopo una tappa fugace a Martello Tower, siamo già per strada alla volta di Codrington (la capitale e anche unica città dell’isola). Il nostro taxista/guida Charlie lungo la strada ci fornisce informazioni sull’isola e ci mostra alcuni punti salienti della piccolissima città: anche in questo caso parlare di città è azzardato, si tratta di una manciata di case ed edifici sparsi lungo la strada principale dove si affaccia qua e là qualche cavallo libero. È tutto molto ben tenuto e si respira davvero un’atmosfera di pace e serenità. Dopo qualche curva e qualche buca arriviamo al molo, dove ci attendono le piccole barchette per condurci nella laguna alla scoperta del Frigate bird sanctuary: luogo dove nidificano questi caratteristici rondoni dalla particolare sacca di colorazione rosso vivo proprio sotto il becco. Dopo 15 minuti di traversata arriviamo alle mangrovie e riusciamo ad ammirare questi uccelli da vicino mentre gonfiano la sacca rossa come rito d’accoppiamento per attrarre la femmina. Nel ritorno riusciamo a scorgere sulla destra la famosa lingua di sabbia di 17 miles Beach che separa la laguna dall’oceano.

Una volta giunti a terra veniamo suddivisi in gruppi in funzione del tour scelto (è possibile infatti scegliere tra tre differenti itinerari) e insieme a una coppia di inglesi veniamo accompagnati sulla Pink Sand Beach per il pranzo (rosa appunto per la presenza di piccolissime conchiglie colorate). Parcheggiato il furgoncino, ci troviamo di fronte una distesa di sabbia bianca a perdita d’occhio e un mare da sogno: ci viene servito un piatto unico con pesce, riso e verdure in un minuscolo barettino in legno sulla spiaggia: ci siamo solo noi, è bellissimo. Dopo pranzo abbiamo giusto il tempo di scattare qualche foto, fare due passi per vedere da vicino Martello Tower ed è giunta finalmente l’ora di partire alla volta della Lady D Princess Beach per goderci a pieno il sogno di Barbuda. Dopo 20 minuti di strada sterrata arriviamo alle porte del K club, o forse dovremmo dire quello che ne rimane: il resort, voluto dalla stilista Krizia (da qui il nome K club) ormai dismesso da anni, era infatti la meta di Lady D durante i suoi soggiorni a Barbuda. Caraibi allo stato puro, puro nel senso di purezza assoluta; la spiaggia è deserta e si estende da Palmetto Point a Spanish Point per chilometri contornata da un’acqua spettacolare: piatta, calda e con colori azzurro fluorescenti tanto da sembrare irreali, a confronto l’azzurro del cielo sembra impallidire: un sogno. È sinceramente un peccato dover lasciare questo paradiso, ma purtroppo dopo due ore abbondanti, alle quattro il traghetto riparte alla volta di Saint John dove attracchiamo puntuali alle 17:30. Abbiamo ancora tempo per visitare la capitale prima che il sole tramonti, quindi decidiamo di fare due passi nei due grandi complessi che si affacciano sul porto dove si concentra l’attività turistica: l’Heritage Quay, terminal delle navi da crociera e sede di moderne strutture, di un casinò e di decine di negozi duty-free e il Redcliffe Quay, antica sede del mercato degli schiavi e attuale cittadella di capanne in legno e vecchi edifici in pietra restaurati che ospitano negozi, gallerie d’arte e ristoranti. Ci districhiamo a piedi nel reticolo di strade tutte perpendicolari fra loro e giungiamo all’unico vero edificio storico del luogo: la Cattedrale anglicana di Saint John’s che con le sue guglie rappresenta il punto più alto della città. Da vicino appare quasi abbandonata e non perfettamente conservata, purtroppo non riusciamo ad accedervi perché completamente recintata, quindi scattiamo qualche foto e via a recuperare l’auto. Torniamo al resort e trascorriamo la serata sulla spiaggia di Jolly Beach.

Venerdì 17.03.2017: ultimo giorno ad Antigua

Il cielo è coperto e questa volta le nuvole sembrano persistere, quindi decidiamo di trascorrere la mattinata in resort godendoci la spiaggia di Jolly. Purtroppo il tempo ballerino ci costringe ad un continuo va e vieni dalla spiaggia causa continui acquazzoni. Alle 12:00 facciamo il check-out e dopo pranzo riprendiamo l’auto decisi a goderci l’ultimo pomeriggio lungo le spiagge a nord della capitale. In circa 30 minuti arriviamo a Runaway Beach. Pensavamo di trovarci in una spiaggia completamente turistica e attrezzata e invece ci si presenta un litorale praticamente deserto e selvaggio: ottimo. Ci sono giusto qualche edificio disabitato e un barettino nella parte sud, mentre a nord la spiaggia è chiusa da una recinzione che delimita una zona privata. Come accade spesso qui ad Antigua, ci troviamo in spiaggia con pochissime persone, sembra sul serio di essere da soli sulla sabbia, l’acqua è trasparente, un po’ mossa ma nel complesso si sta bene. Dopo circa un’ora dal nostro arrivo compaiono dalla destra un gruppo di cavalli che tranquillamente sfilano davanti ai nostri occhi, cavalcati da turisti in escursione lungo il litorale: ecco spiegate le numerose impronte di zoccoli di cavallo viste all’arrivo. Prima del tramonto ci spostiamo decisi a raggiungere Dickenson Bay: da subito capiamo di essere giunti nella parte più turistica ed edificata dell’isola. Lungo la strada notiamo un po’ ovunque mega resort di lusso. Parcheggiamo a fatica in una stradina senza uscita tra un hotel e l’altro e arriviamo in spiaggia. Rimaniamo parecchio delusi per la presenza massiccia di lettini, ombrelloni, bar e ristoranti, ma soprattutto anche per l’acqua dell’oceano che qui ci appare molto meno pulita che altrove. Dopo poco più di 5 minuti ritorniamo sui nostri passi decisi a trovare un tratto di spiaggia più incontaminato: arriviamo quindi nella parte sud di Dickenson Bay dove un relitto di nave turistica arenato lungo la spiaggia testimonia il passaggio di un uragano. Anche qui però l’acqua non convince, quindi siamo ben felici di ritornare a goderci il tramonto a Runaway Baech. Un ultimo bagno ed è già ora di lasciare la spiaggia, ma prima di dirigerci in aeroporto tentiamo di berci un ultimo rum sulla spiaggia in uno dei tanti bar lungo Dickenson Bay; ormai però la folla si è ritirata nei resort, restano solo pochi abitanti del posto intenti a giocare a carte e nuvole di mosquitos che ci costringono a risalire in auto. Niente da fare, è proprio giunta l’ora di andare in aeroporto. Mentre percorriamo la strada costiera lungo il lato nord dell’isola, notiamo come questa zona sia decisamente diversa dal resto dell’isola: tutto è molto edificato, le strade sono nuove e ben tenute, ville e residence di lusso un po’ ovunque. Riconsegniamo l’auto senza problemi all’agenzia Hertz, mangiamo un panino in aeroporto (un furto vero e proprio: 18 US$ per panino e acqua) e alle 22:15 puntuali partiamo alla volta di Milano Malpensa dove atterriamo circa 8 ore più tardi.

Viaggio molto piacevole e semplice sia nell’organizzazione fai da te, che nella gestione sull’isola. Il volo diretto Neos è sicuramente già di per sè un buon motivo per scegliere questa meta invernale ed il fatto che Antigua sia stata in passato una colonia inglese garantisce una buona situazione a livello sociale, di infrastrutture e anche di sicurezza. E poi non dimentichiamoci la qualità fondamentale di questa isola: la bellezza pura di un paesaggio caraibico a tratti ancora selvaggio (nelle baie lontane dai resort), senza scordare la sorella di Antigua, Barbuda, un gioiello ancora incontaminato.

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Ffryes Beach

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Deep bay

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Barbuda

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OJ Beach

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Frigate

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English Harbor

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Antigua



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