Hotel California
Il cielo è d’un grigio melanconico, potrei quasi illudermi di essere nel bel mezzo dell’autunno, di un qualsiasi pomeriggio novembrino.
All’improvviso mi viene voglia di una tazza di cioccolata; chissà cosa avrebbe fatto, in una giornata simile, Virginia Woolf? Eppure, in Italia c’era un sole scintillante e caldo da far invidia ai Tropici.
Mi piace questo tempo, m’invoglia a scrivere e mi concilierà il sonno.
Attorno a me brulica la vita; io, forse a causa della sinusite, mi limito ad osservare; l’aereo non è ancora decollato, ma ormai è questione di pochi minuti.
Non mi sembra vero di essere qui a godermi un sogno che si realizza; nemmeno i frenetici ritmi lavorativi protratti fino a ieri mi hanno ostacolato nella preparazione di questo viaggio; tra un impegno e l’altro, ho trovato il tempo di organizzare le mie idee e di comporre l’itinerario di questa vacanza errante.
I LEFT MY HEART IN SAN FRANCISCO by Frank Sinatra San Francisco, 26.07.2003 Finalmente a destinazione.
Il viaggio non è stato affatto male: Milano Linate-Parigi-SFO, totale 12 h e 30; nessuna turbolenza.
All’aeroporto abbiamo immediatamente recuperato l’automobile prenotata in Italia: io avrei scelto una decappottabile alla Thelma & Louise, o in alternativa una Cherokee, ma erano entrambe al di sopra del nostro budget, così ho dovuto accontentarmi di una berlina, una Alero (qualcuno sa dirmi qualcosa circa questa ignota vetturina?).
L’automobile è dotata di ogni confort: apposito spazio ove riporre le bevande, comandi al volante e dispositivo per fissare la velocità di crociera.
Ci salgo e inspiro profondamente, inalando il profumo che ci accompagnerà per le prossime due settimane di vita sulla strada.
Sento crescere l’adrenalina.
Mauro al volante, io nell’improbabile ruolo del navigatore ci spostiamo “per le strade di San Francisco” fino a scovare il Carlton Hotel, in Sutter street (tra la Hide Avenue e la Larkin), l’unico prenotato dall’Italia.
Trovare l’albergo si rivela abbastanza semplice , più complicato è il reperimento di un parcheggio .
Frisco ha una mappatura reticolare; la città è stata costruita sulla bellezza di 43 colline, il che la rende unica e meravigliosa, Non per parcheggiare, però! E’ umanamente impossibile trovare un parking lot, almeno di godere di una situazione astrale particolarmente favorevole; dopo mezz’ora di infruttuose peregrinazioni lungo gli isolati prossimi al Carlton, ci arrendiamo ad un parcheggio a pagamento per la non modica cifra di 18 dollari al giorno.
Cominciamo bene! L’albergo, esternamente molto carino, disattende un pochino le nostre aspettative: l’angusta stanzetta si rivela vecchiotta, ammobiliata con mobili di arte povera, copriletto a florilegi e bagno con doccia dall’ impercettibile getto unidirezionale.
Per vincere il fuso, decidiamo di uscire per una passeggiata nella vicina Union Square, cuore della cittadina.
La piazza è bellissima, vivace e animata come quella delle nostre metropoli europee; la illuminano tutti i più lussuosi mega stores americani da Macy’s a Sarks.
Sfidando i 15° centigradi, gironzoliamo per il quartiere dell’alta moda; naturalmente noi italiani in questo settore siamo insuperabili, il che per una fashion victim come la sottoscritta, è un gran bel motivo d’orgoglio! San Francisco è una città affascinante, profondamente diversa da tutte le altre città statunitensi, non a caso è definita “l’europea”; la sua conformazione geofisica la rende alquanto originale.
Purtroppo è, altresì, caratterizzata da un clima freddo, assai poco californiano, come disse Mark Twain: “l’unica cosa più fredda dell’inverno di San Francisco è l’estate di San Francisco”. Soprattutto la sera, dalla baia spira un vento gelido che rende proibitivo indossare abiti primaverili.
Per scaldarci un po’, ci rintaniamo in una pasticceria di ispirazione italiana; al riparo dal vento, mi concedo una cioccolata calda, la cioccolata di Virginia Woolf.
Alle 10 p.M., esausti e infreddoliti, torniamo in albergo e rapidamente scivoliamo in un sonno profondissimo.
San Francisco, 27.07.2003 Per quanto minimale, questa stanza oggi mi è tanto cara; Frisco è incantevole con i suoi continui saliscendi, ma è fredda e nebbiosa.
Stamane ci siamo diretti a North Beach, il quartiere italiano.
Fino ad un secolo fa, questo era il quartiere italico per eccellenza; risiedevano qui tutti gli immigrati provenienti dal Belpaese.
Oggi, la maggior parte di essi ha fatto fortuna e si è trasferita altrove, ma North beach è rimasto italiano nella configurazione:innumerevoli bar, ristoranti, negozi si snodano lungo la Columbus Avenue.
Ad ogni pilastro sono affisse bandierine tricolore (questo, per la verità, è assai poco in italian style…).
Soprattutto, però, North Beach è il quartiere della City Lights Bookstore, la storica libreria che diede diffusione del pensiero Beat : Kerouac, Borrough, Ferlinghetti frequentarono usualmente questo luogo facendo sì che, con il tempo, divenisse una meta di culto.
A pochi passi dalla libreria, divisi da uno stretto viottolo malodorante intitolato all’autore de “On the road”, c’è il caffè Vesuvio, mitico bar beat; anche ai nostri giorni gli esponenti dell’intellighenzia nord-californiana si ritrovano in questo posto.
Per la nostra colazione, noi optiamo per lo storico caffè Trieste, altrettanto noto, altrettanto “beat”, ma considerato altresì il più “preppy” della città.
Il locale è tutto un fermento, sulle mura scritte di illustre testoline, fotografie e ritagli di giornale ne fanno un reale caffè letterario.
Rifocillati dal mega croissant e dal bicchierone di cappuccino (quanto magnano questi yankees!) ci dirigiamo in Lombard Street, la via che per la sua strabiliante pendenza è tra le più suggestive del mondo.
Le automobili la percorrono scendendo lentamente e serpenteggiando tra variopinti cespugli di ortensie; il colpo d’occhio è incredibile. Scattate le foto di rito, partiamo alla volta del Golden gate.
Quale delusione nel scoprirlo parzialmente coperto da una folta coltre di nebbia1 Aargh! Il ponte d’oro, laddove si riesce ad intravvedere è spettacolare; il suo color rosso vivo, la Baia e la struttura rimarranno a lungo impressi nella mia memoria.
Decido di non imprecare e di non disperare (tornerò un altro girono) e proseguiamo per Sausalito.
Il quartiere di Sausalito, oltre la famosa baia, ha l’aspetto di un villaggio di pescatori del Nord America (non che io ci sia stata!).
Pur essendo domenica, negozi e ristoranti sono aperti il che rende più divertente la mia promenade (ogni strada diventa più interessante se c’è un negozietto da adocchiare, giusto?); lasciamo l’auto in un parcheggio e pranziamo in un ristorante dall’ottima cucina americana.
Quando fuoriusciamo, scopriamo di aver preso una multa per aver lasciato l’auto senza il parchimetro (‘azz!).
Dovendo pagare la multa all’ufficio postale, o all’ufficio della Polizia (entrambe chiusi nel dì di festa), ci toccherà tornare domani.
La mia sinusite, intanto, non accenna a migliorare nonostante l’antibiotico; e, certamente, il clima freddo di Frisco non è congeniale al mio disturbo.
Le orecchie turate e il peso a livello occipitale mi mettono ko.
A metà pomeriggio, lasciamo Sausalito e puntiamo verso il quartiere di Castro ove risiede la comunità gay più popolosa del mondo; la tolleranza e l’evoluzione di questa città ne hanno fatto la residenza di un numero sempre crescente di persone omosessuali.
Dalle finestre sventolano bandiere arcobaleno; cartelloni pubblicitari reclamizzano l’amore diverso e coppie gay passeggiano serenamente, mano nella mano, libere da ogni pregiudizio.
E’ una specie di villaggio nella città.
Torniamo al nostro albergo, lasciamo la macchina nel solito esoooso parcheggio e, approfittando della giornata soleggiata (sapremo poi insolitamente) imbocchiamo Powell street la via dei mitici Cable-car, sempre pieni zeppi di tranquilli cittadini e di turisti sovragitati.
Rimaniamo estasiati ad osservare quest’agorà in fermento, finche ci arrendiamo al flusso ed entriamo in uno shopping center.
Da più parti ho letto che , in questa cittadina di 750.000 abitanti si incontrano le due culture occidentali: il mondo Vecchio e quello Nuovo; la grandezza americana e la dimensione europea.
E’ indiscutibilmente vero, ma questo connubio non riesce a conquistarmi.
San Francisco diventa ai miei occhi un ibrido, non totalmente americana e poco europea.
Non c’è il fermento culturale di New York, né l’arte di una qualsiasi capitale europea.
San Francisco, 28.07.2003 12-13° centigradi Questa mattina, dopo colazione, facciamo un altro tentativo al Golden Gate.
Di vedere il meraviglioso ponte rubino, non se ne parla nemmeno; una heavy fog ostruisce la visione dell’agognata struttura metallica (che fine ha fatto la California dei soleggiatissimi american movies?!) Delusa e con il naso gocciolante come neanche fosse inverno, ci dirigiamo a Sausalito per saldare il nostro debito con la giustizia.
Il porticciolo con tutte le barchette attraccate, mi ricorda molto il Maine… cioè, non è che io l’abbia visto, però non mi sono persa neanche una puntata dè “La signora in giallo”.
Non ci rimane che visitare il quartiere SO.MA (South of Market Street) ove è sito il SFMOMA (San Francisco Museum of Modern Art).
Gli americani e la loro forsennata mania per gli acronimi…! L’edificio è alquanto moderno, nel suo vivace arancione; in questo periodo l’attrattiva maggiore è rappresentata da una collezione di opere degli impressionisti francesi.
Alla biglietteria c’è un codazzo a serpentina che non mi ispira minimamente; se rimaniamo dobbiamo posticipare l’inizio della nostra discesa verso il sud della California.
Decidiamo per una volta nella vita di rinunciare all’arte (e già immagino i rimbrotti di mia madre quando le dirò di questa scelta) e ciondoliamo lungo le vivaci vie del Downtown.
Lentamente il sole inizia a far capolino e , altrettanto lentamente, la gente inizia a riversarsi nelle strade, zigzagando fra i moltissimi centri commerciali.
Noi, facciamo una capatina al SF Shopping center, un imponente edificio elicoidale a 7 piani: una cosa è certa, in California non faticheremo a trovare i regali per i nostri cari, c’è l’imbarazzo della scelta.
Dopo aver acquistato la maglia di football americano dei San Francisco Fortyniners per la mia nipotina, pranziamo a base di sandwich ed oleosissime patate fritte in una delle numerosissime steak houses.
Il tempo di digerire e siamo pronti per metterci in strada.
Monterey, 28.07.2003 Da Frisco a Monterey ci sono circa 200 km da percorrere sulla mitica highway 101.
Il paesaggio circostante consta di ampie pianure aride e campi brulli, di tanto in tanto si incontrano centri commerciali, o aziende agricole piuttosto dimesse.
La desolazione di questi terreni dà un’idea precisa di quanto sia sconfinato il territorio di questo paese.
Monterey è una penisola abitata da circa 30.000 anime.
E’ famosa per l’Osservatorio Marino (pare che sia il più bello di tutti gli Stati Uniti) e per aver avuto come illustre cittadino Steinbeck; nella piazzetta centrale, infatti, c’è un’imponentissima statua di bronzo in suo onore.
Non credo che l’Osservatorio Marino avrà l’onore della nostra visita, la mia passione per questo tipo di attrattive è piuttosto bassuccia (come dice la mia amica Viola: “noi, si è polli da allevamento”).
Gironzoliamo per il cuore della cittadina: guardandomi attorno, fatico a pensare di essere in America; a parte gli enormi alberghi, il resto dell’urbanistica è fatto di case ordinate e di negozietti eleganti in stile boutique.
Superata la piazza, si può proseguire verso il porticciolo e da qualsiasi punto si scorgono gruppi di leoni marini distesi a riposare.
E’ incredibile, ma il paesaggi cambia in continuazione e adesso sembra di essere in qualche villaggio di pescatori del nord Europa… Prima di continuare la nostra visita, si rende necessario trovare una sistemazione per la notte; io ho già un’indicazione precisa, il Casa Munras Hotel.
In questo albergo ha dormito il mio idolo Claire De Vries, nella sua magnifica attraversata degli States.
Lo individuiamo subito perché, oltre ad essere centralissimo, la facciata esterna è totalmente ricoperta di edera ed ha l’aspetto di una casa per viaggiatori più che di una struttura alberghiera.
Io mi sento una grande, voglio dire leggo libri e traggo informazioni necessarie che mi consentono di muovermi oltreoceano come se mi trovassi nella mia città; ganzo, no? Tra l’altro, secondo la mia fonte, questo delizioso, confortevole e peculiare hotel non dovrebbe essere costoso! Ci appropinquiamo alla reception (Oddìo c’è anche un romantico caminetto…) e mentre Mauro si informa circa i prezzi, io sbircio la sala ristorante: tavoli rotondi ricoperti di graziose tovaglie a quadretti , candele profumate, sedie adornate da cuscini di morbidi stoffe decorate a mano… Mi piace assai! Mauro mi sembra perplesso: che ha? Vien fuori che il Casa Munras Hotel (di cui io sono già totalmente innamorata!) è molto expensive:solo il pernottamento costa 159 dollari, a notte (parcheggio escluso!).
Rien à faire; siamo fuori budget! Nonostante i miei mugugni, dobbiamo cambiare; Mauro è irremovibile! Scopriamo presto, tuttavia, che Monterey è affatto economica; alla fine ci sistemiamo a Best Western ($. 119, incluso il parcheggio)! Monterey, Carmel, Big Sur, 29.07.2003 Cielo plumbeo.
Non ci è dato sapere che fine abbia fatto il famoso e decantato sole californiano! Non solo, l’aria è fredda; non frizzantina, proprio gelida! Fortunatamente entro sera raggiungeremo Los Angeles, 450 km a Sud da qui; c’è qualcosa che mi sta attirando verso quella città con una forza incredibile.
Prima di arrivare tra gli angeli, ci fermeremo a Carmel e faremo una capatina anche a Big Sur.
Ieri sera, dopo i rituali di toeletta abbiamo fatto una passeggiata sul lungomare ove si susseguono ristorantini internazionali, l’uno ordinatamente accanto all’altro.
Al termine del nostro excursus, abbiamo optato per una cenetta italiana, niente male, presso il Ristorante “Cibo”.
Stamane, fatte nuovamente le valigie, ci rimettiamo in macchina alla volta di Carmel.
Carmel è una cittadina molto originale; è famosa per aver avuto come sindaco dal 1986 al 1988 Clint Eastwood.
La cittadina sembra essere fuori dal tempo e dallo spazio: case, per lo più seconde case, curate, pulite, ordinate, quasi svizzere nel loro rigore (le cassette della posta sono state abolite perché antiestetiche); mi ricorda molto Carilò, una località balneare argentina che ho visitato lo scorso inverno.
La city hall dove Clint faceva il primo cittadino è una costruzione in legno, piccola e perfettamente in armonia con le altre abitazioni con le quale potrebbe facilmente confondersi se non fosse per il cartello e l’immancabile bandiera americana.
Dopo un breve giro alla playa e una promenade tra le viuzze di questa suggestiva località, sostiamo per il pranzo da Danny’s, una catena di ristoranti specializzata nella cucina tipicamente americana: io ordino una T-bone (una bisteccona sanguinolenta molto gustosa) con le immancabili patate fritte sommerse di ketchup.
Terminato il nostro lunch, ci rimettiamo in marcia.
Mau imbocca la California 1, la strada panoramica più nota al mondo; tanto per citarne una, avete presente la scena dell’inseguimento di Basic Instinct, Douglas dietro alla Stone? E’ una strada con un’unica corsia di marcia (cosa inusuale in America) che costeggia l’Oceano Pacifico.
La sensazione, il panorama sono da togliere il fiato: sulla destra montagne rocciose, sulla sinistra l’oceano.
Purtroppo i severi limiti di velocità e la natura curvilinea della strada impediscono di proseguire con passo sostenuto.
Ci accorgiamo quasi subito di aver commesso un errore; arriveremo a Los Angeles in tarda serata.
La mia guida Routard consigliava una tappa a Big Sur, località amata da Henry Miller; a causa del preoccupante ritardo ci limitiamo ad un giro in macchina sufficiente appena per assaporarne la magnificenza.
Immersa nei boschi, circondata da un verde deciso, Big Sur offre anche un’incomparabile veduta sul mare.
Tentiamo di proseguire il più rapidamente possibile, tuttavia potremo ricollegarci alla mitica freeway 101 soltanto a San Louis Obispo, a metà del nostro percorso.
Quando finalmente vi arriviamo, sono le 6.30 p.M.
Ci fermiamo il tempo di sgranchirci le gambe e gustarci un gelato. E che gelato! Il locale dove ci accomodiamo mette a disposizione ogni sorta di dolcetto con cui è possibile arricchire il gelato: frutta a pezzi, scaglie di cioccolato, caramelle gommose, cereali, biscotti.
Mi accorgo solo ora, che c’è finalmente un sole caldo e abbagliante.
Sono ormai le 9.00 p.M quando le mille luci di Los Angeles ci danno il benvenuto; il cielo è limpido e tutto questo sfavillìo m’impaurisce un poco: è tardi e noi dobbiamo ancora trovare un albergo per la notte.
Usciamo dalla 101, un po’ casualmente, all’altezza di Hollywood Boulevard, a nord della città.
Senza che io riesca a rendermene conto, attraversiamo Hollywood in macchina.
D’impatto amo Los Angeles.
Sfiniti dai lunghi e tortuosi percorsi, ci sistemiamo all’Howard Johnson sulla Wilshire Avenue, l’unico che avevamo scovato frettolosamente in Internet durante un frettoloso collegamento a Monterey.
Lasciamo in camera le valigie e cerchiamo un posticino dove cenare, che sia raggiungibile a piedi.
L’unico ristorante aperto nei dintorni è messicano: stasera “enchiladas” con concerto di musica mex a seguire.
L.A. IS MY LADY by Frank Sinatra Los Angeles, 30.07.2003 HOLLYWOOD, MELROSE, BEVERLY HILLS “Questa è Hollywood. Dove a quanto pare, Clara Bow si è scopata l’intera squadra di calcio della University of South California; dove la stella del muto Karl Dane, ridotto in miseria, fu costretto a vendere hot dog davanti allo studio che, prima dell’avventodel sonoro, lo aveva fatto una celebrità; dove Peg Entwistle si suicidò lanciandosi dall”H” di Hollywood quando la sua carriera andò a rotoli”1 Non appena svegli, abbiamo preparato le valigie (di nuovo!) e abbiamo lasciato il claustrofobico e decentrato alberghetto e ci siamo diretti alla ricerca di una nuova sistemazione a Beverly Hills.
La fortuna ci ha assistito e siamo riusciti a trovare l’ultima camera a disposizione al Beverly Crowne Plaza (1150 South Beverly Drive) alla ragionevole -vista la centralità della location- cifra di 109 dollari (sarebbero stati 129 dollari se invece di prenotare tramite Internet, avessimo prenotato la camera alla Reception), naturalmente parcheggio escluso. Aargh! La zona, manco a dirlo, è splendida: centrale, sicura e tranquilla poiché leggermente defilata rispetto alle vie più note del quartiere.
Lasciamo i bagagli e puntiamo verso Hollywood.
Orientarsi a Los Angeles non è difficile come pensavo; basta avere una buona cartina e un discreto senso dell’orientamento come il mio… No, davvero! Una buona cartina e un’attenta pianificazione degli spostamenti, vi eviterà di perdervi in una delle città più estese al mondo. Ben più arduo è riuscire a trovare un parcheggio senza dover, per questo, avviare un mutuo.
Anyway, posteggiata l’Alero, ci dirigiamo al Mann’s Chinese Theater; quando me lo trovo di fronte mi sento invincibile.
Questa è la sala cinematografica più famosa al mondo, gran parte delle prime cinematografiche hanno luogo qui.
Il fondatore Sid Grauman non era cinese, ma decise di costruire il teatro ispirandosi all’architettura cinese dopo un viaggio in Oriente.
Sul piazzale antecedente sono state immortalate le impronte dei piedi e delle mani delle celebrità.
Il mio cuore va all’impazzata, non voglio perdermi nessuna star: i minuscoli piedini di Shirley Temple, i tacchi a spillo di Marilyn, le enormi suole di Sidney Poitiers… Dal teatro parte la Walk of Fame, il marciapiede con le stelle dedicate alle star di cinema, teatro, televisione; parto alla ricerca di quella dedicata ad uno dei miei uomini (ovviamente, si fa per dire…) Tom Cruise.
E’ quasi mezzogiorno e noi non abbiamo ancora fatto colazione, un certo languorino comincia a farsi sentire; camminiamo sulla via della fama e calpestandone le stelle , mi sembra quasi di commettere un sacrilegio… Dopo aver percorso interamente il viale , sostiamo ad uno Starbuck’s per fare colazione.
Ci rituffiamo fra le stelle e ci spostiamo con gli occhi fissi a terra.
Los Angeles gode di un clima strepitoso: anche in giornate molto calde (oggi ci sono 32 gradi), un venticello leggero non smette mai di spirare, rendendo il caldo assolutamente piacevole e sopportabile.
Prossima tappa: fotografare la celebre scritta; non è facile come si può credere , poiché sita sulle colline, la scritta è difficilmente raggiungibile, comunque, molte guide forniscono l’indirizzo esatto per arrivare in punti strategici (da Hollywood boulevard, svoltare in Franklyn e poi in Beachwood drive).
Le gigantesche lettere son da anni in stato di degrado; negli anni passati sono state salvate da una sottoscrizione promossa dalle stas del rock: Alice Copper ha finanziato il restauro della “O”, mentre il Duca David Bowie ha pagato l’H”.
Io scatto due fotografie: una a colori e una in bianco e nero; non posso fare a meno di trovare l’illustre scritta emozionante.
Lasciate le colline alle nostre spalle, ci dirigiamo in Melmose Avenue; la zona di Melmose è molto peculiare.
La lunghissima strada è costeggiata da negozi di vario tipo: da quelli chic (Miu Miu) ad originali e deliziosi negozietti vintage.
La via è molto animata ed ha un fascino piuttosto alternativo.
Per oggi, noi ci limitiamo ad un giretto superficiale; ci spingiamo fino al numero 5555 dove ci sono gli Studi della Paramount.
Per il pranzo (alle 4 del pomeriggio) scegliamo la zona intorno a Rodeo Drive, il miglio quadrato più caro al mondo.
Effettivamente, Rodeo Drive mantiene fede alla sua fama e si rivela più bella via della moda che io abbia mai visto (altro che 5^ strada in NY): un susseguirsi di negozi d’alta moda, dalla sfarzosissima architettura, palme esotiche perennemente inondate dal sole e a rinfrescare l’aria, una piacevole brezzolina -che giurerei- profuma di “Giorgio Beverly Hills”agita lievemente le fortunate chiome dei ricchi clienti di Rodeo dr.
Potrei restare qui, un intero pomeriggio, senza annoiarmi; davanti a me sfila oltre ad una modella in carne ed ossa in posa per un servizio su Cosmopolitan, la gente più à la mode du monde.
Dopo aver visitato alcuni dei negozi (Gucci, Tod’s, Louis Vuitton, etc…), Mauro mi trascina via a forza.
Meglio così, anche perché cominciavano a frullarmi in testa strane idee circa l’improrogabile necessità di taluni acquisti… Los Angeles, 31.07.2003 UNIVERSAL STUDIOS A risvegliarci, un sole dolce sole californiano che è una delizia.
Oggi, si va agli Studios! Nonostante tutte le guide consigliassero di essere mattinieri, noi approdiamo ai mitici Universal Studios alle 10.30 dopo una lunga doccia, un’abbondante colazione e dopo esserci cambiati d’abito per ben 3 volte.
L’ingresso è rapido.
Il sole mi brucia le spalle; non sapendo bene come muoverci, iniziamo la nostra gita visitando il set di Jurassic Park.
Pare che ci siano 20 minuti di coda; un display elettronico informa i turisti dei tempi di attesa (gli americani le sanno proprio tutte!).
Dopo un’ora di coda (no commenti…), possiamo finalmente imbarcarci su una specie di canotto che ci condurrà, per via fluviale, all’interno del parco dei dinosauri, i quali sbucano all’improvviso suscitando gli isterici gridolini di un gruppetto di giapponesine minuscole, ma chiassose, nonché voci di giubilo degli americanoni.
Io, se devo essere sincera, in questa situazione mi sento un po’ rimbambita; sono un po’ grandicella per queste cose, o no? In compenso, l’emersione dal fondo di un rettilone mi lava da capo a piedi.
You ‘ll get wet! Recitava un cartello, uomo avvisato… Terminato il tour giurassico, sentendoci un po’ stupidi per esserci prestati alla sauro-doccia, optimamo per una scelta più consona ai nostri trent’anni e andiamo a scoprire i segretoi degli effetti speciali del cinema hollywoodiano.
Rinsaviti ed eruditi dalla technè tanto geniale quanto elementare, passiamo adesso a visitare i sets (e vvai!) con il trenino (Sob!).Scegliamo la guida spagnola, più facile da intendere per me; ci troviamo, pertanto, in compagnia di messicani, argentini, portoricani,colombiani e spagnoli.
Vediamo la casa dove Hitchcock filmò Psyco, Amity Ville (Lo squalo), il quartiere di Angela Lansbury, alias “Signora in giallo”; altro che Maine! Persino, l’ultimo videoclip di Nelly è stato girato aquì. E, tra gli ultimi films, quello con Jim Carrey “Una settimana da Dio”, roba per cervelli fini.
Serpenteggiando tra un set e l’altro, facciamo salti nel tempo passando dall’antica Roma al vecchio Western.
Quando il trenino ci riporta a destinazione, sono ormai le 2.30 pomeridiane; è ora di mettere qualcosa sotto i denti: una pizza di Sbarro, andrà benone.
Subito dopo ci accomodiamo nella sala £D dove proiettano Terminator (Hello, Arnie!).
Devo ammettere che gli spettacoli tridimensionali sono stupefacenti: pareva proprio che Swarzy spianasse il suo cannone contro di me, il che è impossibile visto che io non sono malvagia…
Sono quasi le 5 p.M quando, esausti, lasciamo il baraccone.
Tornando a Beverly Hills lungo il Viale del Tramonto (assolutamente la mia via preferita) ci fermiano in un McDonald’s per uno spuntino veloce.
Siamo cotti per il sole e per la stanchezza, ma quanto mi piace questa città! Los Angeles, 01.08.2003 SANTA MONICA, SAN DIEGO Oggi, spiagge immense ed assolate… Già…, perché a Los Angeles ci sono anche le spiagge più famose al mondo! La spiaggia di Santa Monica è enorme, sabbiosa, festosa; ci sono le torrette, i guardaspiaggia con il loro furgoncini gialli, ma soprattutto ci sono i californiani che si vedono al cinema e in televisione: belli, tonici, abbronzati.
Lungo la spiaggia non c’è una semplice pista dove si ammucchiano caoticamente pedoni, cicloamatori, pattinatori, ecc… Ci sono due bei viali “palmeggiati”: uno per persone-di ruote-munite e uno per le promenades.
Bar, gelaterie, bazar si susseguono a non finire.
C’è, infine, l’altra faccia dell’America: i senza tetto, homeless come dicono qui, con i loro carrelli carichi di miseria. Due mondi lontani condividono lo stesso spazio, respirano la stessa aria.
Noi stendiamo su questa spiaggia il nostro asciugamano e ci abbandoniamo per un paio di orette alla vita da spiaggia; il sole è caldo, ma il vento fresco rende la temperatura gradevole.
Quando ci alziamo per il pranzo, cogliamo sulla nostra pelle i segni dell’esposizione.
L.A. È una città camaleontica, sa assumere mille facce diverse: metropoli popolosa, mecca del cinema e dei lustrini, leggera stazione balneare.
Dopo una passeggiatina per il centro turistico di Santa Monica e l’ennesimo pranzo a base di pollo e patate fritte al Kentucki Fried Chiken (l’ennesimo fast food), imbocchiamo la freeway 405 South in direzione di San Diego.
La strada è terribilmente trafficata; pare che tutti gli angelinos abbiano deciso di trascorrere questo fine settimana a San Diego.
Di questo passo non arriveremo tanto presto; in alcuni punti siamo proprio fermi.
C’è da augurarsi che sia soltanto per un breve tratto di snodo… San Diego, 02-03.08.2003 GASLAMP- SEAPORT VILLAGE, LA JOLLA Alla fine siamo arrivati in città alle 7.15 p.M: quasi 4 ore e mezza per percorrere 200 km di autostrada! Neanche l’A4 il primo sabato d’agosto… Abbiamo saputo poi, che la moda angelina degli ultimi tempi è quella di trascorrere il w-e a San Diego, perciò vi consiglio di evitare di percorrere questa tratta il sabato pomeriggio, a meno che non amiate le code chilometriche. Stremati abbiamo rinunciato a vagabondi giri alla ricerca di una sistemazione conveniente e ci siamo fermati all’Hilton, nello storico quartiere di Gaslump.
Arrivando al crepuscolo, tuttavia, abbiamo potuto godere di un panorama mozzafiato: il cielo e l’orizzonte tutto, avevano preso una colorazione corallina che davvero non dimenticherò facilmente.
Non sarà molto conveniente ( e fa poco viaggiatore, I know…), ma il dodicesimo piano dell’Hilton offre una magnifica veduta sulla città; la camera è moooolto confortevole, in bagno c’è ogni sorta di crema, lozione, unguento per il corpo e ammetto di sentirmi molto vip.
Dopo esserci rilassati e rinfrescati, ci prepariamo per uscire a cena. Indecisa (come al solito) circa il look da adottare, opto per qualcosa di casual: pantaloni neri e top lilla.
Due isolati più avanti, mi accorgo di aver toppato alla grande: a San Diego come in Italia, il sabato è serata di locali e movimento: le ragazze snelle e abbronzate passeggiano tirate di tutto punto che pare di essere nella piazzetta di Porto Cervo! Uff! Tra l’altro c’è una temperatura mite che mi avrebbe permesso di sfoggiare qualche pezzo forte del mio guardaroba, tipo l’abitino nero di Dolce&Gabbana… Che rabbia! Ci fermiamo in un ristorantino italiano sulla 4^ avenue dall’invitante nome di “Assaggio”: cibo e personale sono absolutely made in Italy e deve aver fama di buona cucina poiché per avere un tavolo bisogna fare un po’ di coda, mentre il ristorante americano di fianco è deserto.
Noi, abbiamo voglia di mangiare un po’ alla maniera mediterranea, così aspettiamo. Quando arriva il nostro turno, ordiniamo fettuccine con panna, salmone e vodka e per dessert la torta di mele.
Persino il caffè macchiato è tale e quale al nostro! Un’autentica rarità! Dopo questa romantica cenetta, passeggiamo per il quartiere, osservando edifici, negozi e ristoranti e devo dire che la prima impressione della terra di Zorro è davvero positiva.
L’indomani mattina, ci alziamo in tutta tranquillità; in programma c’è la visita al Downtown, quindi il Seaport Village e infine il pomeriggio alla spiaggia dei surfisti La Jolla.
A differenza delle altre località visitate, San Diego è più latina; il clima particolarmente gradevole (caldo, secco, ventilato) e le allettanti onde dell’oceano hanno reso questa città tra le mete estive preferite dagli americani.
A causa di questi flussi crescenti di turisti, San Diego si sta strutturando con alberghi, ristoranti, shopping center.
Con il tempo diverrà sempre di più una stazione balneare.
L’elemento ispanico è più evidente al Seaport Village: un quartiere con negozietti, bar, ristoranti proprio sul lungomare.
Noi curiosiamo. Stranamente io, dacchè siamo in the USA, non ho ancora fatto acquisti; ho la netta sensazione che è giunto il momento di riprendere le buone abitudini.
A mano a mano che ci siamo spostati verso sud, la mia sinusite è andata migliorando; luoghi e persone hanno incontrato il mio gusto e una gioia immensa si è profusa fuori e dentro di me.
In uno di questi negozietti dai colori vivaci, acquisto un paio di infradito nere, ultrapiatte.
L Jolla è una località molto chic: è il paradiso dei surfisti.
Di recente, lungo La Jolla Boulevard sono stati aperti numerosi negozi di alta moda.
La spiaggia è affollatissima (oggi è domenica) nonostante sia molto grande.
Io e Mauro, trovato il nostro angolo, ci sdraiamo a goderci questo magnifico sole californiano: la vita da spiaggia è la stessa in qualunque parte del mondo, potrei essere a Rimini.
Ad un tratto, però, noto poco distante da noi due ragazzi con guantone da baseball; più in là, un ragazzo e una ragazza si lanciano un pallone da football americano e sul mare numerose tavole da surf cavalcano alte onde spumose… Effettivamente, queste attività sono poco riminensi… Prima di lasciare il lido in un negozio che vende articoli per surfisti, compro una paio di shorts da spiaggia rosa confetto ( un amore…) con la scritta “San Diego” sul lato B… Mooolto californiani! Verso Las Vegas, 03.08.2003 Stamattina il cielo è nuvoloso; durante la notte ha piovuto.
Noi ci prepariamo, di nuovo, ad attraversare il deserto, il Nevada ci aspetta.
Ancora valigie.
La tratta da coprire è piuttosto lunga: circa 500 km sulla freeway 15.
La strada è larga e costeggiata dal nulla: terra cotta dal sole, colline rocciose; le uniche piante in gradi di sopravvivere all’arsura sono i cactus. Il sole non si è fatto desiderare e ora splende alto in un cielo terso.
Non mi pesano queste ore da trascorrere in auto: con la mente rivisito le tappe di questa vacanza.
Attraversato il Mojave, il deserto che separa la California dal Nevada, negli occhi solo scenari di desolazione, approdiamo improvvisamente a Las Vegas.
LEAVING LAS VEGAS by Sheryl Crow Las Vegas, 03.08.2003 50 gradi Celsius, un sole luccicante e una bolgia umana in un tripudio di luci, Las Vegas ci accoglie così.
Lungo lo strip (Las Vegas Boulevard), la strada principale, hotels-casinò grandiosi si contendono i clienti con attrattive sempre più strabilianti e stars di grido.
Noi dormiremo al Luxor, l’hotel di Claire.
Ad eccezione dei giorni proibitivi (venerdì e sabato) a Las vegas cibo e pernottamento- secondari rispetto al business- sono a buon mercato! Tranne ad agosto, però! Infatti, il Luxor con le sue 4000 camerecosta la bellezza di 129 dollari a notte! Gulp! Fortunatamente, Mauro è dell’idea di fermarsi forse a causa della stanchezza, o forse per accontentarmi.
Gigantesche statue di Ramsete sostengono i piloni all’ingresso; all’interno ci sono sontuose fontane zampillanti, plurimi ristoranti, un ufficio postale (per i vaglia/bonifici?), negozi, un centro estetico e naturalmente una piscina sconfinata.
Si potrebbe vivere qui dentro, senza uscire per anni.
L’impatto con le slot-machines è da togliere il fiato: decine, centinaia di macchinette mangiasoldi ovunque, persino nei bagni.
I suoni sono quelli sentiti in numerosi films; infatti anche Las Vegas ha fatto da sfondo a numerose pellicole di tutti i generi: da Mars Attack!, a Rain man, al bellissimo Via da Las Vegas.
Ceniamo ad uno dei ristoranti caratterizzati dalla formula “All you can eat” All’interno degli alberghi, l’aria condizionata è altissima; per riscaldarmi, convinco il mio fantastico fidanzato ad uscire per una passeggiata perché le mille luci di questo paese di balocchi per adulti sono davvero impedibili.
L’intento degli hotels è quello di riprodurre le località più belle del mondo: l’Egitto (Luxor), New York New York con tanto di Statua della Libertà e ponte di Brooklyn, il Montecarlo, il Bellagio, il Paris-Las Vegas con la sua Tour Eiffel, il Venetian e naturalmente il Caesar’s dove tutto è ispirato ai tempi dell’antica Roma (stasera qui si esibisce Celine Dion).
Ogni albergo organizza uno spettacolo: L’Island Treasure propone ogni ora una naumachia tra navi inglesi e navi pirata (per far ciò hanno dovuto ricreare un mare artificiale, non so se mi spiego…).
L’aria ha la consistenza del vapor acqueo.
Torniamo in albergo; abbiamo ben 20 dollari a testa con cui tentare la fortuna.
Ci accontentiamo di giocare alle slot machines, tanto per noi più dell’azzardo vale il momento.
Ogni tanto, negli immensi saloni, si odono voci garrule esultanti di vittoria, ma più spesso è la voce metallica delle infernali macchinette a prevalere.
Las Vegas è un posto quasi irreale: fuori dal tempo, poiché nei casinò non filtra la luce naturale allo scopo di non far percepire al cliente-giocatore il trascorrere del tempo; fuori dallo spazio poiché sperduto in un’area deserta a confine della vita.
Chi viene in california non può mancare un –seppur breve- passaggio nella città dove tutto è possibile.
Quando ci corichiamo sono quasi le tre; la sala del Luxor è ancora gremita.
Las Vegas-Los Angeles, 04.08.2003 Al riveglio, è subito chiara la nostra ubicazione: siamo in Egitto! Apro gli occhi e vedo sulle pareti della mia stanza geroglifici rappresentanti strani figuri che camminano in modo anomalo.
Ogni accessorio, ogni rifinitura è in perfetto stile egiziano.
Un attimo più tardi, i ricordi cacciano via la sensazione “luxoreggiante” e le immagini di Las Vegas si fanno più nitide on my mind.
Facciamo il check out e usciamo per strada.
Di giorno, senza lo sfavillìo di luci colorate, la cittadina potrebbe sembrare quasi normale.
Certo i mega hotels sono ancora qui, imponenti e magnifici.
Con la nostra mitica Alero ci dirigiamo verso il downtown, il che ci permette di vedere altre strutture.
Per la colazione sostiamo da Sturbuck’s, ma trovare posto attraverso questa fiumana di gente riversa nelle strade non è facile.
Per strada vediamo le cappelle dei matrimoni improvvisati. Proprio mentre sfiliamo a passo d’uomo, da una cappella escono due giovani neosposi, accompagnati da una coppia di amici ilari e vocianti.
Chissà come sono arrivati fin qui… Non abbiamo il tempo di approfondire, dobbiamo tornare a Los Angeles (tra un paio di giorni partiremo dall’aeroporto LAX alla volta delle Bahamas) ed io non sto più nella pelle.
Di nuovo deserto, di nuove terre brulle, di nuovo un sole giaguaro.
Giungiamo in città alle 6 p.M. Dobbiamo trovare sistemazione in un hotel vicino all’aeroporto perché il nostro volo partirà alle 9°.M, il che vuol dire che dovremo essere in aeroporto alle 6°.M per il check-in.
Scegliamo (si fa per dire…) il Radisson, confortevole e vicino La sera andiamo a cena ad Hollywood: al Mann’s Chinese Theater proiettano la prima mondiale dell’ultimo film di Jamie Lee Curtis: “Freaky Friday”.
Pare proprio che l’attrice assista all’anteprima perché una piccola folla di turisti si ammassa fuori dalla sala.
Cinque minuti più tardi eccola: la splendida figlia del mitico Tony Curtis, il pesce di nome Wanda con il suo fisico statuario nonostante la non più giovane età… Los Angeles, 05.08.2003 VENICE BEACH, MELROSE AVENUE Ultimo giorno A parte la visita a Venice Beach (la spiaggia dove si registrano le puntate di Baywatch), in programma non c’è altro che fare shopping.
Prima di tutto voglio andare al negozietto “Girlfriend” in Beverly Drive: questo delizioso negozietto è vicino all’albergo in Beverly Hills dove pernottavamo prima di andare a San Diego.
E’ molto trendy; io ho messo gli occhi su una canottierina viola e gialla con corallini applicati sulla scritta Los Angeles chiaramente ispirata alla canotta dei Lakers e su un paio di pantaloni di spugna Juicy che ho scoperto essere molto in voga in California.
Nel negozio ci sono fotografie di illustri sederini che li indossano da Pamela Anderson a Cindy Crawford.
La canottierina è ancora al suo posto; i Juicy, però, nella mia minitaglia non ci sono più. Tutta colpa della cattiva alimentazione americana: la maggior parte degli americani, infatti, ha enormi fondoschiena, ragion per cui i capi di abbigliamento di taglia piccola sono confezionati in tiratura ridotta.
La delusione è tale che il mio volto assume un’espressione alla Rossella O’hara (quando Reth le dice:”Francamente me ne infischio” e infila la porta).
La commessa vedendomi affranta mi consiglia di fare un giro a melmose, dove potrei trovare qualcosa di simile.
Melmose Av. È lunghissima, costeggiata a destra e a manca da ogni tipo di negozio: chic, etnico, vintage.
Tutti articoli di buon gusto, per altro.
Scoviamo un negozio molto originale, si chiama “Barracuda”: all’interno c’è una bellissima consolle stereofonica, poltrone di pelle rosso ciliegia e alle pareti coloratissime stampe moderne.
In questo negozio non fatico a trovare articolo di gradimenti per me e per i miei amici che attendono un pensierino.
Los Angeles, 05.08.2003 BEN AFFLECK Ho incontrato Ben Affleck! Nel pomeriggio, siamo andati alle Tower Records sul magnifico Sunset Boulevard per acquistare la solita vagonata di cd.
Io mi stavo terribilmente annoiando, aspettando Mauro che sembrava proprio deciso a passarli in rassegna uno ad uno.
Dalla porta d’ingresso uno strano individuo, alquanto corpacciuto, ha aperto la porta e dopo una veloce perlustratina l’ha richiusa alle sue spalle; un attimo più tardi, Ben Affleck ha fatto la sua straordinaria entrée! Dico, ben Affleck! Quel bel fusto dall’inconfondibile mascella americana, premio oscar con Matt Damon per il film Will Hunting; il fortunato fidanzato di Jennifer Lopez, nonché attore idolatrato dalla mia amica Sabina che, informata dell’incontro, stramazzerà al suolo verde per l’invidia! Io l’ho riconosciuto istantaneamente, a dispetto dello scetticismo del mio fidanzato che, inarcato incredulo il sopracciglio, mi ha liquidato con un risolino di compassione: “Se quello è Ben Affleck, io sono Elvis Presley”! Peccato, cara la mia reincarnazione del Re, che un attimo dopo uno stuolo di paparazzi e due energumeni hanno letteralmente presidiato la porte d’ingresso del negozio.
A quel punto, io mi sono avvicinata a Ben e l’ho salutato, con tanto di manina oscillante; lui, forse per il mio fascino, o più probabilmente per la curiosità compassionevole della grande star che si avvicina al popolino, mi ha risposto chiedendomi donde provenissimo… Così l’abbiamo intrattenuto dicendo che eravamo italiani e parlando di cinematografia (fortunatamente Mauro è un cinefilo appassionato), perché le mie domande(“Do you know Dolce&Gabbana?) non si sono rivelate troppo intelligenti (anche se J.Lo avrebbe apprezzato una conversazione sulla moda italiana, ne sono sicura!).
Comunque, un quarto d’ora più tardi, quando ormai fuori dal negozio si era fatta una discreta folla, ci siamo , salutati (sottolineo che ha chiesto il permesso al mio fidanzato di darmi un bacio, dicendogli che era molto fortunato… Io faccio sempre la mia porca figura!), dopo aver scattato una fotografia, ovviamente.
Esaltatissima per l’incontro (che ho raccontato alle mie amiche un pochino più fantasticato), ci siamo diretti a Venice Beach.
La spiaggia più famosa del mondo è colorata, caotica e popolata da una galleria di strani personaggi.
Passeggiamo ammirando le bancarelle degli artisti da strada più disparati; da una parte l’Oceano Pacifico, spiagge dorate, surfisti; dall’altra balenghi festosi e rumoreggianti.
Devo darmi un pizzicotto per convincermi che non sto guardando una puntata di Baywatch.
E’ la nostra ultima notte a Los Angeles.
Nonostante domattina la nostra svegli trillerà alle 5.30, stasera usciamo a cena.
Dal Radisson Hotel, ci vogliono 50 minuti buoni per attraversare la città e arrivare ad Hollywood; dal girono in cui siamo approdati in questa città non ci siamo ancora concessi una cenetta in un localino à la page, perciò decidiamo di festeggiare i giorni californiani mangiando in un animatissimo ristorante sul Sunset Boulevard.
Scegliamo il ristorante Med: il posto si rivela azzeccatissimo: ottimo cibo, atmosfera da sogno e prezzo ragionevole.
Sento una fitta al petto, al pensiero di lasciare questa città; sono cresciuta negli anni d’oro della televisione americana: i miei gusti, le mie abitudini sono stati influenzati –consapevolmente o meno- da questo Paese.
Amo Los Angeles per ciò che rappresenta: l’America, così come la vedevo con gli occhi da bambina.
CONCLUSIONI Come avrete certamente intuito dal mio racconto, la California mi ha conquistato.
Il mio è sicuramente un viaggio “on the road” un pochino anomalo, soprattutto per le sistemazioni certamente non arrangiate, o di fortuna.
D’altro canto, è anche vero che per vivere bene la sensazione dello stato più felice, leggero e abitato da divi degli stati Uniti, bisogna -ove possibile- calarsi un pochino nella parte degli spensierati abitanti di questa terra… O no? Susanna