Guatemala e Honduras – 1 parte

I giorno – Mercoledì 25 giugno 2003 La sveglia suona alle 4.15. Presto. Questa notte ho dormito bene, senza svegliarmi se non una volta per la consueta pisciatina. Quindi sono ancora più assonnato. I bagagli sono già pronti da ieri sera. Devo soltanto prepararmi in fretta e chiudere casa. Ho dormito con la finestra della camera aperta per via...
Scritto da: geutimes
guatemala e honduras - 1 parte
Partenza il: 25/06/2003
Ritorno il: 12/07/2003
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
I giorno – Mercoledì 25 giugno 2003 La sveglia suona alle 4.15. Presto. Questa notte ho dormito bene, senza svegliarmi se non una volta per la consueta pisciatina. Quindi sono ancora più assonnato. I bagagli sono già pronti da ieri sera. Devo soltanto prepararmi in fretta e chiudere casa. Ho dormito con la finestra della camera aperta per via del gran caldo di questo incredibile mese di giugno.

Facciamo colazione: frutta per me mentre Claudia mangia i soliti biscotti con il latte, che poi butta perché è troppo.

Usciamo di casa alle 5.10 circa, diretti verso la fermata dell’autobus. Il bus arriva presto, perché a qust’ora non c’è praticamente traffico; soltanto, è letteralmente strapieno di extracomunitari che vanno non so dove nè perché.

Timbro con fatica il biglietto.

Dobbiamo fare attenzione: l’autista salta le fermate non richieste, quindi contarle non serve. Le borse da viaggio sono ingombranti e cerco di farle stare tra i piedi per non infastidire gli altri.

All’altezza di corso XII Marzo, finalmente, accaldati e sudati, scendiamo per prendere la prima 73 della giornata, che passerà soltanto alle 5.45, cioé tra mezz’ora. Nell’attesa siamo divorati dalle zanzare, che ci colpiscono impietosamente e ripetutamente.

La 73 è quasi vuota e, soprattutto, ha l’aria condizionata.

Finalmente giungiamo a Linate, dove ha veramente inizio la nostra avventura.

Il volo per Parigi delle 6.55 è indicato in orario. Andiamo al check in Air France, ma lì ci mandano a quello Alitalia, così dobbiamo riattraversare l’aerostazione. Alla hostes chiediamo due posti finestrino/corridoio in corrispondenza dell’uscita di sicurezza sul Parigi – Miami, come avranno fatto le altre 350 persone di quel volo. La hostess se ne lava le mani e taglia corto dicendoci che non è possibile da Milano, ma che dobbiamo provare a Parigi, poiché lei non ha accesso al sistema software Air France. Vabbeh, sarà per un’altra volta.

Dopo una coda tanto lunga quanto rapida, oltrepassiamo i controlli e andiamo al gate, per scoprire che il volo è in ritardo, il gate è cambiato e l’aeromobile pure. Scendiamo all’imbarco definitivo e aspettiamo una decina di minuti sul bus che ci dovrebbe condurre all’aereo.

Finalmente saliamo: è un Airbus A321 dell’Alitalia che, dopo circa un’ora di volo, ci porta a Parigi.

Charles de Gaulle è un aeroporto veramente vasto e l’andare dal terminal F al C può essere un problema: a noi sono occorsi circa 20 minuti di cammino e bus, durante i quali Claudia ha trovato il modo di farsi sequestrare un paio di forbici da unghie ad un controllo.

Riusciamo dunque a raggiungere il gate C91 dove ci attende un Boeing 747 dell’Air France: constato con divertito timore che è lo stesso aereo che avevo notato poco prima sul bus dal terminal F: avevo proprio osservato quanto quell’aereo sembrasse vecchio e malconcio e mi chiedevo ironico se fosse un cargo, se andasse in Africa o dove altro potesse essere diretto: ora lo so! Probabilmente è lo stesso cancello d’imbarco da dove siamo volati in Polinesia; almeno ci sembra di riconoscerlo.

Giusto il tempo per una corsa alla toilet e siamo sull’aereo. 54F, un posto bruttino, in fondo e centrale; tuttavia il sedile è comodo e sufficientemente spazioso.

Claudia è in difficoltà con la scelta del menù, che in realtà si riduce ad un “o carne o pesce”, e sceglie quello in spagnolo, che evidentemente le sembra di preferire a quello in inglese o a quello in francese! Alla fine optiamo entrambi per la carne, anche se non è affato appetitosa.

Per il resto, il volo è tranquillo, a parte qualche breve tratto di turbolenza.

A circa un’ora dall’arrivo, uno stewart particolarmente stordito, nel porgermi il vassoio della colazione, mi urta il braccio e mi rovescia il budino sul tavolino. Io non faccio nulla, lui porge un vassoio dall’altro lato del corridoi, poi si volta di nuovo verso di me, mi guarda, vede che il budino è ancora sul tavolo, tira qualche ostia nella sua lingua madre, lo prende con la mano, lo rimette sul piattino e pone il tutto sul vassoio di fronte a me; a questo punto io penso a voce alta «ma questo è scemo !» e sbotto in una risata incredula. Lui ricomincia ad ostiare, mi toglie il vassoio, me ne mette un altro e da il mio ad un’Italiana davanti a me. Da quel momento solo sguardi da “OK Corral” tra me e lui.

Finalmente, dopo circa otto ore e mezza di viaggio, alle 14.00 locali, arriviamo a Miami.

Siamo un po’ agitati perché dobbiamo passare le forche caudine dell’Immigration statunitense, recuperare i bagagli, piacendo a Dio che siano arrivati e intatti, rifare il check in e ripassare il controllo antiterrorismo.

Con costanza, e dopo una lunga attesa sull’aeromobile, tocchiamo terra e troviamo subito un addetto Taca che vuole portarci al gate del volo per Guatemala City. Gli spiego dei bagagli, ma è convinto che siano già diretti alla destinazione finale. Insisto, e allora ci porta insieme ad altre trenta persone all’Immigration dove fa un po’ di confusione e poi si dilegua.

Ci troviamo, dunque, in una stanza enorme, piena di gente, senza finestre, con una ventina di sportelli.

Ci facciamo la nostra buona mezz’ora di coda, ma ne vale la pena: possiamo entrare negli Stati Uniti ! Siamo buoni ! Corriamo dunque al baggage claim dove riabracciamo le nostre care borse, tutte belle sigillate dal cellophan di Linate. Siamo contenti, riacquistiamo coraggio e ci dirigiamo al piano inferiore, il secondo, per il check in.

Lungo il tragitto Claudia mi fa notare un Pizza Hut. Non c’è tempo, abbiamo circa trenta minuti.

Il check-in passa senza problemi, tranne che per il fatto che non sono riuscito a caricare miglia sulla KLM come speravo.

Al controllo antiterrorismo c’è molta coda, però tutto sommato spedita. Arriva il nostro turno: devo togliermi le scarpe. Mi viene un flash: la faccia da sconvolto mentale dell’unico Talebano veramente pirla, che persino bin Laden non ha voluto, ossia quello che aveva cercato di far saltare l’aereo con le scarpe. Torno in me e resto con i calzini, butto tutto in un contenitore e passo il metal detector: tutto ok, non suona, però nel mio marsupio c’è qualcosa che non va: un funzionario mi chiede di poterlo controllare e comincia a rovistare: la videocamera, ok; le batterie: ok; gli occhiali: ok; i documenti: ok; l’accendino: non ok. Comincia ad annusarlo e a cercare di capire se funziona, poi dice qualcosa in Floridese stretto alla collega e mi lascia andare: immagino che, essendo a gas ricaricabile, perda e possa essere stato scambiato per qualcosa di esplosivo: certo, quell’accendino me lo sono procurato a Teheran, in Iran, … Comunque sia, non dico nulla, aspetto Claudia e ce ne andiamo.

Ora siamo rilassati, abbiamo una mezz’ora.

Decidiamo di mangiare qualcosa, anche perché per il nostro corpo è sera.

Il terminal A, dove ci troviamo, è brutto e non c’è quasi nulla. Vado un attimo in bagno: ancora la pipì. È pieno di gente, non ci sono urinatoi a muro, guardo il lavandino … No, c’è troppa gente, desisto.

Andiamo verso il gate. Il Pizza Hut di Claudia è solo un ricordo. Passiamo di nuovo in un corridoio con lastre verticali di vetro colorate dal giallo all’arancio, al verde, all’azzurro, con musica new age.

Scorgiamo una sorta di fast food, tale “Wings”: è molto invitante, con foto di panini con carne, tacchino o tonno, veramente stuzzicanti. Claudia prende un menù al tonno, io con il tacchino. Il tutto per 21 USD e rotti. Una vera schifezza ! Mai mangiato cibo simile ! Sono freddi ed il pane molliccio. Assolutamente da evitare. Bella lezione di capitalismo: ti invoglia, ti spilla quattrini e poi ti frega ! Desolati, non finiamo il pasto ed andiamo al gate.

Finalmente un po’ di calma.

Scorgiamo una ragazza spagnola, abbastanza giovane, stile randagiona, con macchina fotografica sempre in mano, che era vicino a noi sul volo da Parigi; c’è anche il ragazzo che era vicino a lei: alto, magro con i capelli ricci. Nessuna traccia, invece, della coppia di ragazzi spagnoli che sedevano vicino ad Claudia, né della famiglia di quattro Ungheresi (?) e dello stupido videogioco con il quale il padre ha passato il volo.

Ci imbarchiamo su un Airbus A319 dal gate A4 e, con tre quarti d’ora di ritardo, decolliamo.

Guardo dal finestrino Miami, sotto di me: una scacchiera smisurata di casette basse, molto regolari, con poche macchine, che vanno anche piano: mi sembra di giocare a Simcity. C’è qualche raro edificio più alto. Noto anche tre “condomini” su un’isola collegata con un ponte alla terraferma, con piscina ed ormeggi per le barche.

Il volo va avanti tranquillo. Ci danno un panino, discreto, ed un dolcetto confezionato, che decidiamo di conservare per tempi peggiori, o per la prossima colazione.

Durante l’atteraggio scendiamo sotto le nuvole, così riusciamo finalmente a vedere il suolo: alte montagne con creste anche aguzze, ricoperte da una vegetazione lussureggiante e verdissima; di tanto in tanto qualche strada o corso d’acqua marroncino. C’è anche qualche villaggio abbastanza isolato.

Poi compare Guatemala City: un vastissimo agglomerato di zone urbane divise da parchi o scarpate o colline verdeggianti. Soprattutto, in prossimità dell’aeroporto, vedo tantissime baracche o piccole scatole fatiscenti in muratura nel più completo degrado. Sono parecchie le zone ridotte così.

Atterriamo.

I bagagli arrivano dopo una breve attesa. Un grosso sospiro di sollievo ! Passiamo indenni l’immigrazione, ci chiedono se abbiamo la SARS e non ci aprono le valigie, ma ci credono quando diciamo che non abbiamo nulla da dichiarare. Comunque è la verità.

Decido di cambiare i dollari, così andiamo al primo banco che si incontra prima dell’uscita dall’aerostazione. È bastata una leggerissima distrazione, dovuta al controllo dei bagagli, e l’impiegato, un fetente, si imbosca 100 USD. Le mie proteste sono inutili, nega tutto. Cambio, così, “solo” 400 USD (a 7.75 Q/USD), per cambiare, poi, altri 300 USD trenta metri più avanti, dove ho trovato un’altra banca. Che fregatura ! Vabbeh, cerchiamo di tirarci un po’ su ed usciamo dall’aeroporto per incontrare l’autista che avevamo prenotato con l’albergo dall’Italia, per 12 USD a testa.

Si chiama Luis, ci saluta, ci porta al taxi, una bella monovolume, e ci avviamo con direzione Antigua.

È già buio, e fa anche un certo freschino, sì che indosso la felpa.

I Guatemaltechi guidano bene, rispettando le regole, ed il traffico è intenso, ma ordinato. C’è un inquinamento colossale, come non lo abbiamo mai “annusato”, nemmeno ad Atene, a Città del Messico o a Teheran. La strada per Antigua, circa 45 km, è a due corsie per senso di marcia, ma è molto trafficata. Incontriamo salite e, successivamente, discese, ripidissime, sì che a volte l’automobile è in difficoltà.

Giungiamo finalmente all’hotel Lasinventura di Antigua.

L’abbiamo prenotato dall’Italia, tramite Internet, ma non sembra che abbiano capito, poiché ci propongono due camere singole per una notte, contro la doppia per due notti che ci occorre. Alla fine concordiamo una “singola per due” a 25 USD a notte. Non li vale, poiché il letto è troppo stretto per due persone. Girando per Antigua troveremo prezzi più bassi per soluzioni migliori. Comunque è una stanza pulita, abbastanza buia, in un bell’hotel, centrale, anche se è un vantaggio relativo, poiché Antigua si può girare comodamente tutta a piedi.

Ci corichiamo presto, visto che sono ventitre ore che siamo in piedi.

II giorno – Giovedì 26 giugno 2003 Alle 8.30 del mattino siamo già per strada.

La colazione in hotel, 12 USD a testa, è troppo cara, così decidiamo di comprarci qualcosa in giro, se dovesse venirci fame.

Antigua è una cittadina veramente bella, in pieno stile coloniale, con vie regolari nella struttura a scacchiera della città. Le casette basse si susseguono colorate in tinte pastello e ogni scorcio è da cartolina.

Bazzichiamo il Parque Central ed entriamo nella cattedrale, o meglio, nella parte ricostruita dopo il devastante terremoto del 1773 (forse). Ci sono fedeli in preghiera e io cerco di visitare senza invadere, facendo un giro dell’edificio. Mi colpisce la quantità di statue ed immagini sacre, alla quale non sono abituato. Mi faccio il segno della croce, entrando ed uscendo, per non urtare l’eventuale sensibilità dei locali presenti. Fuori, all’ingresso che da verso il Parque Central, scorgo due locali che suonano goffamente degli strumenti artigianali.

Sebbene sia presto, l’atmosfera si sta animando e la gente comincia ad invadere le strade.

Entriamo poi, per 2 Q ciascuno, nella parte diroccata della grande chiesa, a vedere i ruderi del resto della chiesa, mastodontici ed impressionanti, nel loro giacere a terra l’uno sull’altro per effetto del devastante sisma; non c’è nulla di speciale da vedere, ma nulla è insignificante in un altro continente, a 10.000 km da casa.

Vaghiamo un po’ ovunque, per poi andare al mercato a fare un giro da curiosi. Quello dell’artigianato, coloratissimo, è un po’ turistico, mentre quello “normale”, oltre la strada, mi ricorda un po’ la festa di via Teodosio, a Milano.

Mangiamo da McDonald’s, 2 menu a 50 Q, e cogliamo l’occasione di consultare la posta elettronica, che è gratuita, avendo acquistato un menu.

Poi Claudia compra una tessera telefonica da 50 Q e chiama in Italia, avanzandone 42 Q.

Sediamo poi su una panchina del Parque Central a rilassarci e goderci questa splendida cittadina. La temperatura è ideale e di tanto in tanto ci rinfresca qualche spruzzo della fontana centrale.

Ci sono donne native ad ogni angolo, con i loro figli: vestite dei loro tipici coloratissimi abiti tradizionali vendono piacevoli oggetti di artigianato. Propongono l’acquisto, ma non insistono.

Passa un bambino obeso con la maglia dell’Inter. Mi irrita. Cominciano a vedersi anche un po’ di turisti, ma è una presenza discreta e non invadente. Il cielo minaccia pioggia, però per adesso il clima è ancora soleggiato. Antigua è una città molto curata, con delle belle aiuole con fiori e piante di tutti i tipi. È anche pulita. Osservo anche che ci sono molti giovani, presumibilemnte Americani, che, credo, risiedono qui per un certo tempo per imparare lo Spagnolo, esattamente come noi andiamo a Londra per l’Inglese.

Abbiamo deciso di passare un pomeriggio di relax e riposo, ma così non è, perché Antigua è così bella, interessante ed appasionante, che non si può resistere all’idea di “camminarla” tutta.

Dopo una breve sosta in albergo, ci presentiamo puntuali alle 15.00 per farci scortare dalla polizia turistica al Cerro de la Cruz, una collina nei pressi di Antigua, dalla quale si può godere uno splendido panorama della città. Siamo circa una ventina di persone, accompagnate da un solo poliziotto, pure disarmato. La salita, di venti minuti circa a piedi, è facile e rilassata. Su un muro, mi colpisce la scritta “el Che vive”.

Dalla cima lo spettacolo è davvero piacevole, poichè la splendida Antigua è tutta lì per essere apprezzata. Scendendo e salutato il poliziotto, decidiamo di prenotare lo shuttle per Copan e Chiquimula, quindi ci rechiamo in una agenzia turistica delle tante disponibili e concludiamo per 26 USD a testa, con Monarcas. Confermiamo anche tutti i voli Taca.

Ormai è sera e ci accorgiamo di avere camminato per chilometri in lungo ed in largo ed avanti ed indietro, ma ne è assolutamente valsa la pena.

In agenzia ci hanno consigliato un ristorante per la cena: ci andiamo: è il “La fonda della Calle Real”, dove, per 150 Q, mangiamo due piatti tipici locali; vale la pena andare, anche se io non ho appetito per via delle scottature solari alle braccia: non sembra, ma il Sole cuoce, anche se velato.

III giorno – Venerdì 27 giugno 2003 Questa mattina levataccia per andare a prendere il bus Rebuli delle 7.00 che, per 30 Q a testa, ci porterà a Panajahchel.

Usciamo dall’albergo alle 6.30 e ci appollaiamo nei pressi della fermata in attesa del bus. C’è un bar-pasticceria-biglietteria, dove alcuni turisti, anche loro in attesa, fanno colazione.

Finalmente giunge il mezzo: è uno di quei bus americani vecchi e riciclati da queste parti.

Partiamo quasi in orario. Il biglietto ci è chiesto maniacalmente tre volte durante il tragitto di circa tre ore. A bordo, oltre all’autista, ci sono anche un “controllore” ed un “aiuto controllore”. Il bus non è del tutto pieno e direi che siamo praticamente tutti turisti.

Ancora mi stupisce il fatto che ci sono più donne da sole che uomini, alla faccia della presunta pericolosità di questo accogliente paese.

Durante il tragitto l’autoveicolo si ferma più volte, senza logica apparente, per far salire altri passeggeri locali o nativi, per lo più contadini, tanto che a Panajachel tutti i posti sono occupati e qualcuno è pure seduto nel corridoio o sosta in piedi tra i sedili.

Il paesaggio è un alternarsi di campi di mais, villaggi di baracche e qualche zona boscosa. Mi colpisce come non vi sia traccia alcuna di macchine agricole, ma tutte le attività siano svolte con fatica dai contadini con semplici attrezzi rudimentali. Spesso, lungo il ciglio della strada, camminano contadini e bambini e di tanto in tanto sfioriamo delle mucche, estremamente magre.

Guardo i nativi assieme a noi sul bus: l’allegria e la vivacità dei loro abiti multicolori crea un contrasto con la durezza rugosa dei volti o la grossezza delle mani, che noi “animali di città” non possiamo comprendere. Noto, in particolare un campesino con un pollice gonfio per una ferita.

Ripeto, non ho visto macchine agricole, ma solo olio di gomito. L’idea generale è quella di una notevole povertà, e ha poco senso effettivamente discutere se fosse peggio il Chiapas o l’Egitto. Trovo, però, che, nonostante tutto, non venga trasmesso un senso di tristezza, forse perché vediamo pochi mendicanti, o forse perché, comunque, non si vedono persone trasandate o in disordine. La cosa mi lascia confuso.

Attraversiamo alcuni paesi, tutti sostanzialmente uguali e “senza nome”, data l’assenza di cartelli.

Il povero motore è in difficoltà in questo alternarsi di salite e discese, ed un lieve odore di bruciato ad un certo punto ci spaventa, ma non è nulla: questo vecchio veicolo ne deve avere passate molte, e ci vuole ben altro perché crolli.

Dietro sono sedute due ragazze francesi che non stanno zitte per più di dieci secondi.

Ad un certo punto ci accorgiamo di essere a Solola, dove c’è il mercato ed una grande confusione.

L’autista ha il suo bel da fare a districare il veicolo in queste piccole strade affollatissime e spesso deve fare manovra e retromarcia. È una buona occasione per guardare un po’ in giro.

Usciti da quel garbuglio, iniziamo la ripida discesa verso Panajachel. Già vediamo il lago Atitlan. Le tre ore del tragitto sono volate.

Si crea una sorta di “effetto cinema” in questi tragitti: sei seduto, rialzato rispetto al terreno, e hai un vetro che ti separa da quello che c’è fuori. È come se fossi fermo ed il mondo esterno scorresse. È come se stessi guardando un film. Sono tante emozioni che si alternano …

Scendiamo dal bus e percorriamo a piedi la strada principale, che direi che è anche l’unica di Panajachel.

Troviamo da dormire per 100 Q a notte da “El Viajero”, un posto bruttino e ai limiti inferiori di accettabilità, ma economico. Ho l’impressione, però, che si possa trrovare di meglio allo stesso prezzo.

Pranziamo in camera con del pane e dello yoghurth.

Stiamo un po’ nella stanza e ci accorgiamo che alle 14.00 il cielo si è completamente coperto di nuvole e la minaccia di pioggia è fortissima.

Non pioverà, ma resterà nuvoloso per tutto il resto della giornata.

È anche freschino, tanto che sul lungo lago occorre la felpa.

Ci informiamo per la gita in barca e prenotiamo lo shuttle per Chichicastenango a 56 Q a testa.

Mi sono scottato le braccia e quindi Claudia decide che devo procurarmi una camicia con le maniche lunghe. OK, compriamo la camicia con le maniche lunghe ! Ripercorriamo un altro paio di volte la strada principale, buttando gli occhi un po’ su tutte le bancarelle.

Panajachel è questo: una strada che finisce sul lago, circondata da alberghi e ristoranti e bancarelle di nativi che vendono oggetti di artigianato e stoffe nello stile tipico di queste parti.

Panajachel è questo: un prodotto confezionato su misura per i turisti, per lo meno per un certo tipo di turisti, per quelli un po’ hippy ed itineranti, a loro volta omologati e prigionieri di queste etichette.

Non credo che Panajachel abbia una storia.

Tra le bancarelle, alcune sono di occidentali che vivono qui come i nativi, anche se tra loro c’è un abisso.

Tutto sommato Panajachel non mi piace.

È bello il lago Atitlan, quello sì ! Vedo una camicia decente, che potrei mettere anche in altre occasioni, ma c’è solo la “L”: la provo e mi è stretta. Inoltre mi chiedono 125 Q. Trasecolo. Scende a 90 Q. Me ne vado.

Lungo la strada vedo passare tre bambini molto piccoli, piegati in due da un carico di legna che portano sulla schiena tramite una fascia che cinge loro la testa. Un turistone ipercolesterolico si affretta a tirare fuori la macchina fotografica per immortalarli. Mi vergogno per lui.

Vedo una camicia bianca e blu e la compro per 50 Q. Claudia ne preferisce un’altra, beige arancio e oro, però ci sono ancora solo taglie piccole.

Cercando il “mercado della frutta”, torniamo verso l’inizio della via principale, dalla parte opposta rispetto al lago, e proseguiamo verso destra. In questa zona non ci sono turisti, però sembra che stia per piovere, quindi torniamo indietro. Forse da quelle parti vivono i nativi.

Vedo una libreria, a metà della strada principale, e vi entro: soliti libri sui Maya o fotografici. Mi sembrano un po’ cari. Tra questi c’è anche il “Chronicles of the Maya Kings” che ho acquistato tre anni e mezzo fa al Louvre.

La camera non ci piace molto, quindi decidiamo di non starci troppo; perciò andiamo un po’ sul lungo lago. Leggo sulla guida che è circondato da tre vulcani, ma le nuvole me ne lasciano in mostra soltanto due. Di tanto in tanto ci avvicina qualche donna o qualche bambino nativo proponendoci acquisti, ma, rifiutando, non insistono, e la cosa mi stupisce.

Alcune ore fa abbiamo visto una scuola con dei bambini, e avevo concluso, sconsolato, che questo non è periodo di vacanza e che, quindi, i tantissimi bambini che vedo in giro, a scuola non ci vanno proprio.

Comincia a fare freddino e davanti al lago si è alzato un po’ di vento.

Dopo una breve sosta in camera, durante la quale manca la luce ed Claudia lava mutande e calzini, con una torcia che si è portata dall’Italia, andiamo a cena al “Sunset café”, dove, con 85 Q prendiamo un piatto messicano e una birra; abbastanza buono, anche se continuo a preferire il ristorante messicano di Carate Brianza. Il locale, comunque è accogliente, davanti al lago e con musica dal vivo.

Mi addormento di sasso ! Mi spalmo la crema dopo-sole per le scottature alla braccia, poi vado a letto e resto scoperto per aspettare che la crema si assorba. Claudia dorme già. Mi sveglio, un istante dopo, in piena notte, completamente gelato ! Mi tiro sopra le coperte, che, per fortuna, sono molto calde, e, subito, il teporino mi culla e riprendo sonno.



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