Viaggio nel mondo del Fico Mandorlato

Un racconto antropologico in terra di Puglia
Scritto da: Hiroingi
viaggio nel mondo del fico mandorlato
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Golosi di tutta Italia, dico a voi!

Quello che vi racconto oggi non è un luogo, è più un esperimento di scrittura antropologica. Come un moderno Mario Soldati, mi calo nei panni del ricercatore culinario (cosa che non sono, credo) che va alla scoperta delle tradizioni, delle usanze, del dialetto e, soprattutto, dei piaceri della tavola. D’altronde, come diceva qualcuno, viaggiare è conoscere luoghi e genti attraverso il mangiare.

Protagonista di questo spaccato di cultura contadina è sua maestà il fico ed il dolce che da esso se ne ricava.

Ve lo dico fin da subito: non aspettatevi un dolce cremoso, “pannoso”, oppure ricoperto di cioccolata.

Quella che vi sto per raccontare è una prelibatezza dell’estremo tacco d’Italia, voce di una tradizione secolare che rimane ancora presente tra le campagne di un terra aspra e generosa.

In Puglia il fico lo chiamiamo il “maiale vegetale”, per quella sua capacità di essere utile sempre, concedendosi ad ogni richiesta della tavola.

Nel Salento non ne buttiamo nemmeno una parte, centellinando la raccolta in diverse fasi dell’anno, tra Maggio e Novembre, dividendola per varietà e maturazione.

Le varietà di fico in Puglia

Come un moderno Marco Polo, cerco di viaggiare alla scoperta delle “varietà più varie”, domandando in giro agli anziani del paese, manco fossi un esploratore desideroso di trovare specie pregiate.

Da qualche parte avevo persino letto che in Puglia esistono più di novanta specie di fico. Trovare quindi qualcuno in grado di elencarmele tutte sarebbe impresa ardua, anche per un curioso narratore come me.

Vi posso soltanto dire che nella mia zona, al confine tra le provincie di Brindisi e Lecce, la raccolta ruota attorno a tre varietà principali.

Cominciamo con sua maestà il fiorone, detto in dialetto autoctono culummu. Se lo vedete a Giugno vi apparirà portentoso, con quel colore a metà tra il verde, il violaceo ed il nero.

Poi, in linea temporale, è il turno del fico dottato, conosciuto come fica uttata. Questo è il gioiellino al centro del nostro studio e, perciò, lo approfondirò tra un pochetto. Prima è giusto fare un appunto sul famoso ficu ti la signura, quello dolcissimo, con la corteccia nera e con la maturazione tardiva.

La storia del fico mandorlato

Il fico mandorlato, meglio noto come fica cucchiata (accoppiata, letteralmente), me lo vedo tra i piedi fin da quando ero bambino. Scorte e scorte stipate con minuziosa cura, preparate in modo maniacale attraverso una lavorazione certosina e puntigliosa.

E’ proprio nel sangue e nella storia della mia terra. Pensate che i contadini costruivano, in estate, capanni di paglia provvisori (pagghiari) per dedicarsi alla raccolta e all’essiccazione del fico. Tra veglie notturne e sveglie mattutine, conducevano una vita in stile nomadi mongoli: la pagghiara fungeva da yurta.

Parliamo di un frutto incredibilmente unico, fondamentale per il sostentamento invernale delle famiglie. Se lo volessi paragonare penserei alla castagna e a quello che rappresentava per molte zone del nord Italia.

C’era chi affittava un albero per la bella stagione, manco fosse stato un posto auto. Chi, non potendosi permettere le lettiere per l’essiccazione, utilizzava delle spianate naturali di erbe profumate, queste ultime chiamate fumuri.

E poi si partiva verso il forno a legna, quello che serviva per combattere la scadenza naturale e per produrre un dolce semplice e gustoso, da conservare all’interno delle piccole capase in terracotta, magari con qualche foglia di alloro.

Ecco come si produce il fico mandorlato

Una presentazione me la dovevate pure concedere. Ve lo avevo accennato che il tentativo è quello di ritagliarsi uno spazio come viaggiatore enogastronomico alla ricerca delle chicche della gola.

Comunque, se proprio siete curiosi, vi spiego tutti i passaggi.

Il soggetto principale è il fico dottato e quello lo troviamo tra Giugno e Settembre. Lo riconoscete dalle smagliature, dal verde o dal nero esterno e da un bel colore interno.

Quando vi ritroverete tra le mani questa delizia, mi raccomando, non la mangiate. Stipati ca truvati, si dice, tanto il palato vi ripagherà.

Tagliate ogni fico a metà e poi toglietevi il pensiero per due giorni, tanto loro, i fichi, stanno lì fermi a prendere il sole su una lettiera di bambù.

Intanto il consiglio è di procurasi le mandorle e tostarle per bene, serviranno.

Ora, quando i fichi sono belli asciutti e ingialliti dal caldo, vi tocca aprirli e mettergli in pancia una mandorla per lato, insieme ad una scorsa di limone grattugiato. Poi li prendete, li schiacciate a mo di panino e li mettete in una teglia tutti belli uniti, come se fossero in fila.

Dopo 180 °C e 30 minuti di cottura, la vostra squisitezza è pronta.

Noi ci mettiamo una foglia di alloro, all’interno del barattolo di vetro.

Vi assicuro che è una prelibatezza, un viaggio culinario talmente tanto intenso che io, sinceramente, lo avrei inserito in un documentario di Mario Soldati, se fosse venuto al sud nel lontano ’57.

D’altronde, se ci pensate bene, nella cucina c’è la natura, la tradizione, il racconto e la cultura.

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