El estranjero valiente
Mi guardo intorno mentre la mia valigia si zittisce passando dal pavimento seghettato al pavimento liscio di cemento dell’aeroporto di Bilbao.
Decisamente questo ingegner Calatrava mi sta simpatico. Con le sue teorie sulla struttura degli edifici simile all’armonia dello scheletro dei mammiferi ha costruito delle cose davvero interessanti.
Intanto, è uno che fa seguire alla teoria un bel gioco di effetti di luce e spazi comodi e digeribili alla vista. Non racconta frottole. Odio chi racconta frottole. E guarda qui: pare sentire le forze che colano giù negli elementi di cemento prefabbricati. È poetico. Pare davvero uno scheletro, un animale volante. Uno pterodattilo? Penso al figlioletto di Margherita, innamorato dei dinosauri. Che direbbe se lo portassi qui e gli dicessi che siamo nella pancia di uno pterodattilo? Credo che mi crederebbe. Ma lui mi crede sempre, ha solo 5 anni.
Mentre penso a queste cose seguo la figura di mio padre che trascina il suo trolley davanti a me.
Venire qui insieme è stata un’idea mia per festeggiare i suoi 70 anni. Dovevamo venire a vedere il museo di Gehry.
Mio padre ed io lavoriamo insieme da qualche anno, e le fotografie di questa costruzione ci hanno sempre intrigato. L’architettura che esce dalla matita e dalla testa di papà è decisamente di un altro mondo, ma questo non significa nulla. Che sia una questione di linguaggio? Per risolvere il dilemma due mesi fa gli ho detto “Senti, è inutile guardarlo sulle riviste. Ci dobbiamo andare. Solleva troppe questioni, no? E poi sembra bello. Andiamo a vedere questa luce, ti invito io.” Naturalmente mio padre è come me: sempre pronto a riempire una valigia.
Le dritte di un GPC con i fiocchi, ed eccoci qua in terra iberica. Fuori è caldo, splende il sole ed entrambi ridiamo ascoltando la musica della lingua spagnola che tanto ci piace. La macchina è lì pronta che ci attende.
Siamo partiti prestissimo e siamo stanchi morti, ma ci dirigiamo subito al museo.
Bilbao. Una città strana incastonata tra montagne verdissime. Ha un che di triste, di industriale, di “troppo edificato nel posto sbagliato”, eppure ha un che di allegro. Appena riusciamo a trovare parcheggio ci buttiamo nel sole. Camminiamo a caso, tanto il fiume non è lontano, e sul fiume c’è quella grande cosa che io chiamo “il pesce in titanio”: il Guggenheim di Bilbao.
Ecco che il museo tutto ad un tratto sbuca tra le case con la sua luce abbagliante. Davanti ha una scultura ridicola di un cucciolo di cane enorme fatto di fiori. Scioccante tanto mi pare brutta e poco artistica. A risollevarmi il morale artistico è il grande telone che annuncia che al museo c’è l’esposizione di Calder. Adoro Calder sin da quando ero piccina. Calder affascinerebbe chiunque con la sua poetica e la sua eleganza decisa e potente. Sono felice di poter soffiare su di un qualche “mobile”.
Ma questo museo di cui tutti parlano? Cerco di riconoscerlo. Dal vero emoziona meno. Pare un misto di cose buttate lì a caso. Una parte in pietra, una in metallo, una terza colorata di blu… ma che confusione! Prendo la macchina fotografica e lo inquadro a pezzi. Ecco, ora lo riconosco. Riconosco i giochi di luce e di riflessi che produce la fine pelle in titanio. Ma… ed allora è tutto qui? È una semplice scenografia in cartapesta per attirare la gente? Ma io pensavo … Mah. Visto che mi sembra di averla sparata grossa (e chi sono io per giudicare Gehry e dargli del cialtrone?) taccio. Vedo che mio padre tace. Mmmhhh cattivo segno. Mi sa che anche lui è deluso.
Ci aspettavamo molto da questa visita.
Entriamo e scopriamo un museo finto. I pilastri non sono pilastri e suonano di vuoto malgrado appaiano di pietra, la luce entra come vuole e disordinatamente, gli ingegneri sono stati chiamati ad un semplice puzzle senza perché, e si sono dovuti arrangiare come potevano mettendo travi a destra e a sinistra un po’ come si può e dove si può. Non leggo la poetica, non capisco nulla. Sono confusa, oltre che delusa.
Sento nascere dentro la delusione di chi si aspetta molto e trova poco. Mi pare di essere a Hollywood. Cartapesta.
E Calder? Impossibile guardarlo e gustarlo. Gli spazi espositivi non hanno luce naturale, sono tutti storti e non ti permettono di concentrarti. Non vi è nemmeno l’emozione di scoprire che un “mobile” di Calder getta delle ombre sul pavimento o sui muri perché i curatori della mostra hanno deciso di ucciderne la poesia mettendo delle torte bianche ed orrende sotto ad ogni opera. Poi ti indicano le ombre illuminando ogni opera con spot potenti ed un po’ abbaglianti. La trovo una visita “guidata” un po’ arrogante. “Guarda, ignorante. Calder crea ombre. Non guardare l’opera sola.” Grazie, ma preferivo riscoprirlo da sola. Così diventa pacchiano. E la poesia del raggio di luce sull’opera d’arte, che con la luce cangiante naturale crea sempre nuove ed inaspettate emozioni? Nulla, le finestre appartengono solo all’atrio, qui tutto a Watt.
Qui nulla più è inaspettato. Tutto è guidato. Pure le emozioni. E non lasciano nemmeno soffiare sulle sue creazioni perché si muovano! Ma dove siamo? Sono state create per essere mosse dal soffio di chi le guarda! Mi pare di essere in una giostra dell’arte, e sto seguendo la guida (Gehry) che fa strada con il suo ombrellino sollevato sopra la testa gridando forte le emozioni che devo provare, le cose che mi devono stupire, eccetera. Accanto a lui, il curatore della mostra ci mette del suo.
Due minuti dopo mio padre ed io ci avviamo verso l’uscita con passo arrabbiato discutendo animatamente di quanto questa visita ci abbia deluso. Ma ci dovremo riflettere, magari le cose cambieranno nella nostra testa tra qualche giorno. Quando le emozioni istintive si calmano e si ragiona sulle piccole cose che al primo momento sfuggono. Mi spiace di non aver trovato ciò che cercavo. Sono uscita delusa ma contenta di aver visto di persona qualcosa che mi mancava. “Sono felice di essere a Bilbao.” penso “E poi, in fondo un viaggio porta sempre ad un fascio di emozioni diverse da quelle immaginate al gate di partenza. Ed il titanio crea davvero dei riflessi unici e bellissimi.” Ci fermiamo in un bar esponente bandiere della squadra di calcio della città e ci godiamo due tapas. La birra fredda ed il gustosissimo jamón ci fanno ritrovare in un battibaleno la pace con il mondo ed il piacere di quel viaggio appena iniziato. In fondo è bello accorgersi che oggi pensiamo in modo diverso da ieri. Il mondo è fatto di sorprese.
Ripartiamo con un sole fantastico verso sud. Direzione Victoria e poi Argomaniz, dove sorge il nostro Parador.
Le montagne dopo un poco si aprono su di una campagna meravigliosa tappezzata di verdi e di gialli. Siamo davvero stanchi ora. Siamo in viaggio da più di 12 ore. Guardo l’autostrada che scivola tra i campi e cerco il villaggio dell’albergo con desiderio crescente di stendermi e di farmi una doccia fredda.
Il ragazzo che ci accompagna in camera è di una gentilezza squisita e la camera è grandissima, luminosa e con una vista mozzafiato sulla campagna. Decidiamo di ristorarci con una doccia e di dedicarci ad una sana siesta.
In serata si esce di nuovo. La luce inonda questo tripudio di verdi e di gialli fino alle nove di sera. Abbiamo tempo di goderne. Ci dirigiamo a Victoria per fare due passi. La cittadina è molto carina. Le case sono tutte arricchite da verande in legno vetrate. Uno spazio guadagnato all’esterno dei muri dove vivere e godere del sole.
Mi piace molto questa cittadina allegra e piena di gente e di rondini. Ci sediamo due minuti a guardare alcuni uomini giocare a quella che crediamo essere la “pelota basca”: a pugno chiuso colpiscono a turno una pallina in gomma contro un muro altissimo. Ma non dovrebbero servirsi di un affare bislungo in vimini? La strada del ritorno taglia per i campi seguendo il sole ed imboccando stradine davvero piccole. Arriviamo in un paesino chiamato “Alegría”. Entusiasti ci fermiamo per una birra e due tapas sotto ad un gruppo di platani. Ci godiamo così l’ultimo sole di questo intensissimo giorno di viaggio.
Venerdì.
E perché non Burgos? Burgos dista un centinaio di chilometri dal nostro albergo. Potremmo visitare la famosa cattedrale e tornare passando dai vigneti del Rioja.
Aggiudicato.
Partiamo dopo una grandiosa colazione felici e satolli. L’autostrada che porta da Victoria a Burgos attraversa una delle campagne più belle che io abbia mai visto in assoluto.
Non credevo che potessero esistere tate sfumature di giallo e che una collina potesse avere un profilo tanto dolce. Il paesaggio varia nella sua bellezza uniforme. Sempre uguale ma sempre diverso ad ogni curva. Mio padre canticchia, poi si ferma di botto. “Ma lo sai che io sono stato qui esattamente 50 anni fa? Ma come ho fatto a scordarlo? Avevo appena compiuto 20 anni ed era il mese di giugno. Stavo andando a Madrid a lavorare. Non avevo un soldo e proprio qui a Victoria, era notte fonda, ho trovato un camionista che mi ha dato un passaggio fino a Madrid… e mi ha pure offerto la cena. Che fame che avevo! E nemmeno un centesimo in tasca.” E così il nostro viaggio comincia ad essere punteggiato di sensazioni legate al presente e di ricordi di mio padre che risalgono a 50 anni fa. Le persone, le cose, i paesaggi. Ma che coincidenza! Un viaggio proprio a Victoria, esattamente 50 anni dopo. Ma giuro che non sapevo proprio nulla io papà! Burgos si rivela un’altra bella sorpresa. Una città amena traboccante i gente che passeggia lungo il fiume sotto ai platani. Sono tutti vestiti di bianco e portano fazzoletti colorati al collo e sciarpe attorno alla vita. Oggi è giorno di corrida.
Visitiamo una cattedrale da poco ripulita e che splende al sole bianca e fiera. Al suo interno trionfano statue grandiose e griglie dorate. Pare di passeggiare in una città a sé. È davvero emozionante. Cristi piangenti e martiri doloranti.
“l’antropologo Leroy Gourand dice sempre che è inutile volere interpretare la religione di culture scomparse. Nel suo ultimo libro dice “immaginatevi un uomo primitivo che entra in una nostra cattedrale. Cosa vedrebbe? Un uomo crocefisso, afflitto e massacrato dai suoi simili? Cosa penserebbe? Che siamo un popolo che adora i morti? Che opera il sacrificio umano tutti i giorni? Necrofili?” mi ha sempre fatto pensare e sorridere. È un uomo intelligente quello lì.” Ha ragione mio padre. Guardare le statue ed i dipinti sotto quest’ottica fa impressione davvero.
Ancora una volta emozionante.
Come emozionante è il momento dedicato all’acquisto di prosciutti e salami vari. Ho deciso di portarmi del jamón a casa. E di portarne anche a Gaia che ne va matta. Dico a mio padre che quel negozietto lì sul fondo mi ispira. È piccolo ma la vetrina trabocca di prosciutto e salami. Entriamo.
Il teatro che avvia la signora è davvero incredibile. Mi fa assaggiare di tutto di più ed esco carica di prodotti deliziosi.
Inviteremo mia madre a gustarli con noi: mio padre ha comperato del vino. Ma come era simpatica la signora! Mi ha pure regalato una bottiglia di olio d’oliva! Due giorni dopo avrei trovato come utilizzarla. Ridacchio mandando un pensiero a Paco, lui e l’olio ormai formano un tutt’uno.
Papà è incantato di quanto io riesca a capire quando la gente parla. “ma come fai? Son mitragliette!”. È vero. Son mitragliette, ed io sono abituata alla parlata ben più lenta e dolce di Buenos Aires. Ma tra due parole colte al volo spesso è facile indovinare ciò che sta nel mezzo.
E poi è questione di abitudine.
Poi, se si capisce male che differenza fa? Una risata e via.
“Pensa se fosse lo Spagnolo la lingua mondiale e non l’inglese. Che meraviglia!” sono d’accordo con te papà. Lo spagnolo è musica. Mi piace da impazzire.
Il ritorno tra i campi è delizioso. Prendiamo stradine di campagna nemmeno segnate sulla carta, mentre mio padre grida “Olé toro!!” e dall’autoradio esce una musica arrabbiata di chitarra e flamenco. I verdi prendono il posto dei gialli, il grano lascia il posto all’orzo. Ed infine eccoci tra le vigne del Rioja. Un mare di vigna.
È quasi scuro quando parcheggiamo davanti all’entrata dell’albergo. Siamo sfiniti e felici. Una doccia, un sonnellino, e poi ci diamo al gaspacho andalúz meraviglioso del ristorante. Il ristorante è nel sottotetto. L’ambiente è strano ed accogliente. Ma a noi ricorda tanto “non ci resta che piangere”, il film con Benigni e Troisi. Ridiamo pensando a Troisi che mangia i fagioli mentre una bellissima spagnola munita di arco e frecce domanda loro se sono i padroni del carro parcheggiato fuori.
Le cameriere del ristorante sono vestite in maniera tradizionale con gonne a ventaglio rosse e nere, capigliature d’altri tempi.
Ehhh si, anche in Spagna esiste una Frittole. Forse ben più di una.
Dopo il gaspacho, un piatto di guance di merluzzo e scampi e per finire un dolce del luogo ancora una volta consigliatomi da Steve. Una bontà. Rientro in camera reso difficoltoso dalla quantità di vino e di cibo ingeriti durante l’ilare serata.
E oggi? E se visitassimo un monastero vicino e poi puntassimo su Pamplona? 50 anni fa esatti non sei andato a correre a San Firmín coi tori papà? E certo che ci è andato. Con due pazzi scatenati compagni di corso a Zurigo ai tempi dell’università (uno dei due ha insegnato vari anni alla mia, di università) incontrati per caso nelle strade di Madrid. Andiamo.
Pamplona.
Ripartiamo dall’albergo, stavolta in direzione est-sudest. Passiamo da luoghi cari ai pellegrini di Santiago. Visitiamo alcuni luoghi di interesse e ci stupiamo ancora una volta della meraviglia di questa campagna, che ora si riempie di girasoli. Il monastero di Suso ci colpisce per la sua bellezza cruda e arabeggiante, la cittadina di Estella ci lascia invece piuttosto indifferenti. Decidiamo non rendere omaggio ai due polli di San Domingo de la Calzada. Anche se fatti apparire lì in chiesa da Santiago stesso.
Papà mi racconta del trio di matti ventenni di cui faceva parte ben 50 anni fa. Quando quella stessa strada la percorse su di una vecchia jaguar di proprietà del più anziano dei tre.
“Ma.. Lui? Sai papà che quando lo incrociavo nei corridoi mi dava sempre una bruttissima impressione?” “ahh, al politecnico era considerato un genio. Quando siamo arrivati a Pamplona alcuni abitanti ci hanno dato una camicia bianca ed un fazzoletto rosso da mettere al collo e ci siamo lanciati nella corsa. Mi ricordo che ci si lanciava sulla schiena dei tori. Erano delle ammucchiate tremende. Poi, una volta arrivati dentro all’arena, mi ricordo, lui si è attaccato alla coda di un toro. Il toro se l’è trascinato per un buon pezzo, poi si è stufato e gli ha dato una pedata nello stomaco… Su tutti i giornali del giorno dopo il futuro professore veniva chiamato “el estranjero valiente”. A me era sembrato solo parecchio imbranato e leggermente stupido. Ma tant’è! Anche io ero stupido. Bevevo litri di vino dalle borracce di cuoio che mi tendevano da dietro le transenne e mi sono quasi fatto incornare…” Pamplona ci accoglie con un caldo terrificante. I termometri cittadini marcano 42 gradi all’ombra. Ogni tanto soffia un vento caldo e secco che pare succhiarti la minima goccia di sudore che hai addosso.
Ci rifugiamo in un piccolo bar chiamato “Bar Baserri”, citato nella guida verde per le sue tapas straordinarie. Ci sediamo al banco decisi ad ordinarne solo due o tre, e finiamo per spazzolare ben nove piattini di pinchos. Uno più incredibile dell’altro. In ordine di eccellenza per me c’era il carpaccio di struzzo con scaglie di formaggio e olio aromatizzato ai chicchi di caffè, seguito da un piccolo flan di scampi.
Mio padre si è letteralmente innamorato di un piatto di merluzzo affumicato con olio d’oliva ed olive nere, seguito da un boccone di anatra in salsa mandarino.
L’olio aromatizzato fa parte delle cose che metterò in pratica domani stesso. Utilizzerò l’olio della signora di Burgos. Basta immergere un buon numero di chicchi di caffè interi nella bottiglia di olio. Eccellente, lo devo fare. L’ho deciso subito, mentre mettevo in bocca il primo boccone di quel pincho meraviglioso e mio padre raccontava dei tori al barista. Da quella mattina, e per i due giorni seguenti, il genitore si è divertito a dire a chiunque incontrasse che 50 anni fa lui veniva chiamato “el estranjero valiente” per essersi comportato davvero bene di fronte ai tori di San Firmín. Queste sue confessioni in parte clamorosamente false gli sono valse nell’ordine: – La meraviglia di un passante a cui abbiamo chiesto la strada per la cattedrale. Il vecchino ha corso non so quanto santi Firmino ed era affascinato dallo straniero coraggioso che si era trovato di fronte. – L’indifferenza sogghignante del barista del Baserri che ha ammesso mai aver partecipato ad un San Firmin. Lui ed io ci siamo scambiati un’occhiolino d’intesa divertita.
– La risata fragorosa del cameriere del Parador quella stessa sera – Lo sguardo poco interessato di due ragazzine la sera dopo al bar di Hondarribia – Gli sguardi rassegnati di svariati altri baristi e cameriere Ero stupita di quanto in fondo ancora papà ricordasse di quello spagnolo imparato per strada ben 50 anni fa. Ogni tanto mi domandava sostegno per raccontare meglio dei tori e devo dire che ci siamo divertiti, con questa storia dell’ “estranjero valiente” : ogni volta la storia si arricchiva di un nuovo falsissimo particolare.
La città di Pamplona si era barricata dietro alle imposte, proteggendosi da quella calura tremenda. Usciamo nel vento caldo e ci dirigiamo verso la Cattedrale, in parte accompagnati dal vecchino e dalle sue 50 corse di san Firmín. Però il caldo è tanto che ci infiliamo a bere un’ottima “orchata de chufa” (come la chiama il papà in ricordo di anni passati), in un bar davvero meraviglioso chiamato “Bar Iruña”: un bar tutto oro e verde e specchi, in puro stile liberty. Una meraviglia.
Le strade sono vuote, le chiese chiuse, il vento pare uscire da un enorme forno in fondo alla via. Rientriamo all’albergo. Ma che città! Intrigante e silenziosa. Caldissima.
San Sebastián Oggi è una giornata che avevamo programmato insieme al museo: la città di San Sebastián, dove vogliamo gustare le ultime tapas ed ammirare le sculture di Chilida di fronte al mare.
Decidiamo di prendere strade secondarie, ma ci rendiamo presto conto che non ne valeva la pena: il paesaggio si chiude subito tra le montagne e la strada scorre in una valle industriale. La strada pullula di ciclisti. Mai ho visto tante biciclette da corsa come in questi 4 giorni spagnoli.
Prediligere la strada statale all’autostrada è una buona scelta solo vicino al mare: la costa è nebbiosa e fantastica. Era ancora un consiglio di Steve, e gli sono grata per questi consigli perché mi sarei persa molte cose.
Arriviamo in una città coperta dalle bandiere e con le vie del centro vecchio rivestite di tessuti blu e bianchi.
Chiedo al primo passante che succede, se per caso c’è una partita importante in previsione.
“come no!!! Se stasera il Real Sociedad (squadra di san sebastian) vince contro l’Atletico Madrid e il Real Madrid perde con il Bilbao, siamo campioni di Spagna !!!! È l’ultima domenica di campionato.” uno sguardo è sufficiente. Mio padre ed io passeremo la serata in un bar a seguire l’incontro.
Per ora ci godiamo il tifo che folleggia per le vie, le bandiere appese alle finestre ed alle spalle di ogni ragazzo che passeggia nel centro. Due bimbi litigano furiosamente contendendosi un pallone. Uno veste i colori di San Sebastian, l’altro veste la divisa candida di Madrid con il nome di Hierro stampato sulla schiena.
Visitiamo credo almeno 7 bar. Ogni bancone è soffocato da piatti traboccanti tapas e pinchos. Uno migliore dell’altro. Si beve un vino bianco che versano nel bicchiere da altezze vertiginose nella confusione più totale di canti, grida e risate grasse.
Beviamo vino, birra, e poi ancora vino. Mangiamo prosciutto delizioso che va servito sudato e che ti fa rapprendere i lati della lingua, per poi cedere a degli arancini di formaggio, o ad un piccolo spiedino di “boquerones”, alici. Non riusciamo a smettere e appena usciti da un bar già sbirciamo nel prossimo, giusto per vedere se lì hanno qualcosa che non abbiamo ancora provato. Gamberoni, formaggio, lumache, carciofi, scampi e baccalà. Gli spagnoli mangiano, bevono, ruttano felici e gettano le carte per terra. Per uno svizzero, questo che il gettare la carta sia lecito, costa uno sforzo piccolino all’inizio, ma poi… vuoi mettere la goduria? Gettiamo felici le cartacce e beviamo ad ogni morso.
La passeggiata sul lungomare per andare a vedere le sculture di Chilida ci voleva proprio.
Gli artigli di ferro sul mare… che scultura meravigliosa. Sono rimasta incantata ad odorare il ferro mangiato dal sale e ad abbracciare quegli artigli pieni e forti che spuntavano dalle rocce.
Felici ci siamo diretti ad Hondarribia, dove ci attendeva il Parador medievale e la serata calcistica.
Il Parador di Hondarribia è davvero speciale. Ci siamo fermati davvero volentieri.
Il bar e alcuni saloni sono davvero belli. Si tratta di una vera e propria fortezza massiccia dalle mura spesse un braccio. La pietra è di colore giallo ed i locali principali sono altissimi, con il soffitto a botte oppure delle travature in legno decorato.
Il paese di Hondarribia è strano davvero. Pare di essere in Alsazia. Le case medievali con le travi in legno a vista e l’intonaco nel riempimento, i fiori alle finestre, le tettoie decorate. Mancava solo un qualche nanetto qua e là. Dal mare spira un vento freschissimo e sale la nebbia. Che cambiamento! Affascinante.
Nel bar di fronte all’albergo hanno la tv accesa. Sono le nove e ci sediamo ad un tavolo. Mio padre ordina la migliore bottiglia di vino e un piatto di prosciutto. Inizia la partita ed il bar si anima.
Tutti si fischia e si incita. Non c’è nulla da fare: il calcio mi ipnotizza. Mi piace da impazzire. Tutti diamo del nostro meglio. Al primo minuto vedo il portiere dell’Atletico… ma quello… Le immagini di Buenos Aires mi investono. I mondiali del ’98, la squadra argentina con quel portiere che si muove solo all’ultimo istante. Lui rimaneva fermo, immobile, quasi ad invitare l’attaccante al tiro. Un’attore, un giocoliere, un uomo incredibile, un ex rockettaro batterista: Burgos.
Me lo ricordo bene eccome! Con Daniel avevamo fatto collezione di tappi coca cola ed avevamo vinto dei pupazzetti dei giocatori argentini: io avevo Verón e Crespo. Daniel si era aggiudicato (con mia grande invidia) Burgos e pure lui Verón, che era comunque il pupazzetto più raro da trovare. Ore e ore di fila al supermercato. Me lo ricordo bene. Quando è stato il mio turno Burgos era ormai terminato (ero stata miseramente fregata dal bimbo che ho lasciato passare per compassione davanti a me nella fila…). Daniel rideva ed io ho ripiegato su Crespo.
“Mi scusi, señor, però, quel Burgos lì è il Burgos vero? Quello argentino? Il batterista?” E’ lui. Tutto pare strano. Penso a Daniel ed al suo pupazzetto. Daniel che mi ha preso sotto la sua ala protettrice per un intero anno a Buenos Aires, con cui ho gridato al mondiale. Lui mi ha detto spesso di venire nella sua bella San Sebastiàn, dove ah vissuto per otto mesi o giù di lì divertendosi come un matto. E ora sono qui a guardare il “suo” San Sebastian forse vincere la “Liga” ed un portiere è Burgos.
Urge sms. Un bacio a Daniel.
Burgos non si smentisce. Quando il Real Sociedad attacca lui è immobile ad attendere che si facciano sotto. Con le sue brache lunghe ed il cappellino da baseball a contenergli la folta criniera. “Guardalo papà che è uno spettacolo. Non si muove. Guarda…” Che spettacolo Burgos! Prende comunque tre gol, dopo indeterminati assalti biancoblu. Il Real Sociedad scoppia di gioia, ma purtroppo vince pure il Real Madrid.
Niente da fare. La Liga resta a Madrid. Finisco l’ultimo sorso di vino mentre mio padre racconta dei tori a due ragazzine deluse della vittoria del Real Madrid. Ma nemmeno lui riesce a farle sorridere.
Torniamo a casa vah papà, che domani è già Lunedì. Che meraviglia questa Spagna! Hasta pronto bella terra di sorprese! Lo spero con tutto il cuore.