Da Lima a Iguazù e ritorno di 2
La mattina dopo, sotto una leggera pioggerella, andai a piedi al confine che distava solo un chilometro. Alle otto, quando aprì la migración, consegnai la carta turistica e mi feci apporre il timbro di uscita sul passaporto. Superata la sbarra, cambiai Stato ed orario. La Bolivia, infatti, è un’ora avanti rispetto al Perú. Al posto di frontiera di Kasani mi dissero che bisognava pagare il rilascio della carta turistica. Cambiai gli ultimi soles peruviani da una cambiavalute, che aveva sistemato il banchetto pieno di banconote esattamente sotto l’arco che segna il confine, e tornai con l’equivalente in svalutatissimi bolivianos. Le banconote erano logore e le monetine di stagno sembravano finte. Avevo sentito ogni genere di storie sui funzionari di frontiera boliviani: come secondo mestiere estorcono denaro ai turisti. E invece l’ufficiale mi rilasciò una ricevuta di pagamento, con i suoi bei timbri, date e firme. Provai a chiedere un permesso di tre mesi, ma mi rispose che di quella durata lo rilasciavano solo a La Paz. Timbrò il passaporto e la carta turistica: 30 días.
Collasuyo sotto l’impero inca, Alto Perú nel periodo coloniale, Bolivia dal 6 agosto 1825. Da lungo tempo attendevo questo momento. Fu molto divertente passare legalmente la frontiera con un sacchetto di foglie di coca. Lì vicino c’era la fermata dei colectivos per Copacabana. Salii su una vecchia Dodge nera, sperando di non doverla anche spingere visto com’era ridotta. Quando fu bella piena partimmo. La strada, che fino a quel punto era asfaltata, divenne una pista accidentata piena di pozzanghere. Era il biglietto da visita della Bolivia.
Copacabana sorge sulla sponda meridionale del Lago Titicaca, mollemente adagiata tra due buffi colli. Il nome dal sapore esotico non ha niente a che vedere con la spiaggia di Rio. In lingua aymara significa Vista sul lago. Trovai una stanza in un alojamiento vicino al lago, con bagno e cucina in comune, spendendo meno della metà di quello che pagavo in Perú. Rimasi piacevolmente colpito dai prezzi incredibilmente bassi che si praticavano in Bolivia, considerando che Copacabana è una località molto frequentata dai turisti. Andai a zonzo per il centro e mi fermai davanti alla Catedral costruita in stile mudéjar, con le alte volte artesonado e gli azulejos che ricordano le influenze arabe nell’architettura spagnola. In una teca collocata sopra l’altare maggiore è conservata la statua nera della Virgen de la Candelaria. Le sono attribuiti numerosi miracoli e attira un flusso inarrestabile di devoti pellegrini. Nella piazzetta di fronte vidi Stefania, che si stava riparando dalla pioggia leggera sotto un gazebo rialzato destinato alle orchestre. “Ma non facevamo prima a viaggiare insieme?” le urlai, zompandole da dietro e provocandole un mezzo infarto. Quando si riprese mi disse che stava soffrendo l’altitudine, ed era un po’ preoccupata perché stava partendo per La Paz.
“A che altezza si trova? Quattromila, no?” “Bah, credo di sì, più o meno.” “Volevo andare sul Chacaltaya, ma mi sa tanto che non ce la faccio. Boh, se proprio vedo che sto male torno indietro.” Da quell’invidiabile punto d’osservazione assistemmo ad un corteo di cholas, che protestavano contro il sindaco sventolando le huipalas, le bandiere a scacchi dell’Impero del Sole. L’accompagnai sull’autobus e ci salutammo, certi che ci saremmo rivisti prima o poi.
Il mio stomaco brontolava. Andai a passo sicuro verso il mercato. Avevo imparato che c’è sempre un settore riservato ai comedores, mense essenziali dove esperte signore preparano piatti semplici ma gustosi. Erano disposti uno di fianco all’altro, grandi quanto basta per contenere un angolo cottura e una panca. L’accanita competizione permetteva di concludere ottimi affari. La cuoca mi servì un caldo de gallina, minestra liquida di verdure con dentro un po’ di pasta scotta e un pezzetto d’osso di pollo. Di seguito un piatto di riso, pollo e patate e una scodellina di pomodori e cipolle. Sul bancone c’era l’onnipresente llajhua, la salsa piccante verde o rossa preparata con pomodori e peperoncini.
Dopo mangiato salii sul Cerro Calvario, uno dei due colli entro cui è compresa la città. Sulla ripida scalinata erano state erette, ad intervalli, le quattordici stazioni della via crucis, che terminavano nel piccolo santuario posto sulla sommità. A metà della salita c’era un belvedere con panchine e tavolini in cemento per i pic-nic. In teoria, perché invece erano utilizzati da sedicenti stregoni per togliere il malocchio e per assicurare la protezione degli spiriti. Il rituale prevedeva abbondanti aspersioni e libagioni di birra e l’uso delle foglie di coca, tra fumi d’incenso e croci cristiane in un miscuglio sincretico di nuove ed antiche credenze magico religiose. Ripresi la via dell’ortodossia e raggiunsi la cima. Il cielo era nuovamente di un azzurro profondo, posto maggiormente in risalto dal bianco puro delle nevi eterne. All’orizzonte la penisola di Yampupata si allungava verso nord proseguendo idealmente nell’Isla del Sol, separata dalla costa solo da un breve braccio di lago.
Il Niño Calvario, l’altro colle di Copacabana, è caratterizzato invece da aspre formazioni rocciose e da pietre scolpite. Il reperto più famoso è la cosiddetta Horca del Inca, una pietra orizzontale posta su due affilate rocce verticali, che la leggenda popolare vuole servisse come patibolo per le impiccagioni, da cui il nome. In realtà pare che venisse usata come osservatorio solare. Purtroppo il sito era deturpato da scritte e da graffiti.
Dopo una lunga astinenza decisi di approfittare della cucina dell’alojamiento per prepararmi un bel piatto di pasta. Andai al mercato e comprai pomodori, cipolle, peperoncini e mezzo chilo di spaghetti, venduti sfusi in grossi sacchi di canapa. Comprai anche qualcosa da mangiare per il giorno dopo e un sacco dello zucchero vuoto, utile per diversi scopi. Tra i comedores incontrai Brooke e Yana che stavano bevendo delle birre, tanto per non perdere l’abitudine.
“Sto andando in hotel a cucinare degli spaghetti, volete favorire?” “Magari, ma stiamo partendo per La Paz. Sarà per la prossima volta.” Nella cucina dell’alojamiento aspettai che tre australiani, fratello sorella e cugina, finissero di cucinarsi degli strani intrugli vegetariani. Preparai con cura il sugo, mentre l’acqua bolliva rapidamente per via dell’altitudine. Già pregustavo il geniale spaghetto e assaporavo sapienti forchettate. Peccato che quello che uscì dalla pentola fosse più simile a colla per manifesti che a qualcosa di commestibile. La fame e la nostalgia non furono condimenti sufficienti. Mi imposi di mangiare, ma dopo un paio di assaggi gettai la forchetta. “Volete? Bah, che strano, pensavo di avere fame, e invece…” commentai ad alta voce, spiando invidioso e affamato la sbobba vegetariana. Buttai via tutto e mi consolai preparando delle uova sode per il giorno dopo. Un cane entrò in cucina, annusò il cestino e uscì. Per fortuna che Brooke e Yana non erano venute.
I tre rimasero sbalorditi quando confessai che non ero ancora riuscito a vedere la Croce del Sud. “Ma come?! E’ il simbolo della nostra bandiera.” “Grazie, ma un conto è vederla su una bandiera, un altro è riconoscerla in mezzo a milioni di altre stelle.” Mi portarono in cortile e mi impartirono una lezione di astronomia. Fecero in tempo ad indicarmi Orione, che già conoscevo, la Croce del Sud e lo Scorpione, poi rientrammo perché faceva un freddo cane. Purtroppo non capita mai di vedere un cielo del genere quando fa caldo.
Depositai nell’alojamiento il sacco dello zucchero con tutto quello che non mi sarebbe servito per l’escursione e mi avviai verso il porticciolo. Comprai un biglietto per la prima barca diretta all’Isla del Sol. Per evitare contrattempi stavolta lo comprai di sola andata. Dopo mezz’ora di piacevole traversata, la barca attraccò all’Escalera del Inca. E’ simpatica tradizione di questa isole accogliere i visitatori con lunghissime e massacranti scalinate. Un ruscello scende dalla collina e irriga due giardini terrazzati situati ai lati della scalinata, riversandosi infine in tre fontanelle scavate nella pietra. L’effetto è molto suggestivo, tanto che quando gli spagnoli arrivarono qui credettero di aver trovato la leggendaria fonte dell’eterna giovinezza. Seguendo viottoli laterali gli abitanti di Yumani, il villaggio che sorge sulla cima, venivano fin qui con gli asini per trasportare l’acqua preziosa alle loro case. Alcuni bambini insistevano per essere fotografati col loro llama tutto agghindato in cambio di soldi. Capirono che non ero interessato, così si precipitarono dagli altri turisti rimasti indietro. Dalla sommità si godeva una spettacolare vista dell’Isla de la Luna. Il sentiero seguiva a mezza costa il profilo delle colline. Sopra e sotto era tutto un susseguirsi di terrazze punteggiate di eucalipti. Qualche maiale si spostava appena al mio passaggio, riprendendo tranquillamente a grufolare. Poi il cammino piegò all’interno in mezzo a colline coltivate. Mi concessi una sosta per mangiare qualcosa, all’ombra di grossi macigni tondeggianti.
“E a noi niente?” Erano i tre australiani, alquanto affaticati dagli zaini a pieno carico. La sera prima mi avevano illustrato il loro progetto di percorrere a piedi la strada che costeggia il litorale del lago fino a Yampupata e da lì arrivare sull’isola in barca. “Abbiamo considerato che camminare per venti chilometri con lo zaino in spalla sarebbe stato un tantino esagerato, così alla fine abbiamo preso il traghetto a Copacabana. E abbiamo fatto bene, perché siamo già morti.” Ci scambiammo qualche leccornia, tipo una mela per un uovo sodo, e brindammo con acqua ormai calda. Proseguimmo tra boschetti di eucalipti, per me molto esotici, per loro invece assolutamente normali. Raccolsero alcune foglie e mi insegnarono la loro ricetta per preparare una tisana balsamica. Aggiunsi così una manciata di foglie di eucalipto alla coca e ai rametti di qoa che avevo raccolto a Taquile. Mi sentivo uno dei misteriosi qallahuaya, gli sciamani itineranti della Cordillera Apolobamba conosciuti per il loro girovagare alla ricerca delle erbe con cui preparano pozioni magiche. Il sentiero scese dolcemente verso il villaggio di Cha’lla, allungato su una magnifica spiaggia di sabbia bianca. Tra le barchette addormentate sulla riva pascolava un gregge di pecore. Gli altri si fermarono in un alojamiento di fianco alla scuola, in superba posizione. Li salutai e andai a riposarmi in fondo alla spiaggia, davanti alla casa di un isolano che stava fabbricando dei mattoni di fango. Aveva preparato un impasto di terra e paglia e con la pala riempiva uno stampo di legno che il figlioletto spostava di volta in volta, lasciando sul terreno i mattoni così plasmati a cuocere al sole. Il sentiero riprese a salire bruscamente, tagliando una scogliera a picco sul lago e rivelando uno dei paesaggi più belli di tutta l’isola: la baia di Cha’lla, racchiusa dalla penisola Collasaya e dalla penisola Qea. Gli asciutti pendii contrastavano nettamente con le acque color zaffiro del lago, che le nuvole all’orizzonte facevano sembrare un mare infinito senza onde.
A Cha’llapampa feci una sosta per visitare il museo, che esponeva gli oggetti rinvenuti durante gli scavi archeologici di un sito subacqueo compreso tra le isole Pallalla, Qoa e Chullo. Gli abitanti locali l’avevano soprannominato ciudad sumergida, continuando ad alimentare la leggenda secondo cui nelle profondità del lago si celerebbero intere città decadute. La porta era chiusa, ma alcuni bambini mi indicarono dove poter rintracciare il custode. Lo trovai seduto sotto una tettoia di paglia, intento a giocare un’accanita partita a carte con alcuni amici. Si alzò dal tavolo sbilenco occupato da numerose bottiglie di birra vuote e venne ad aprirmi un po’ seccato. “Cinque bolivianos.” Pagai e attesi. Ci guardammo interrogativi. “E il biglietto?” domandai.
Quella richiesta dovette risultargli alquanto strana e anche un po’ offensiva, considerato il favore che mi stava facendo. “I biglietti sono finiti” rispose, invitandomi ad entrare e a non rompere. Non so perché, ma avevo la sensazione che i miei soldi avrebbero presto finanziato un’altra bottiglia di birra.
Sulla spiaggia si stava disputando un’animata partita di calcio. Fra i giocatori riconobbi un olandese che avevo conosciuto sul Cerro Calvario di Copacabana. Era l’unico biondo in mezzo a delle capigliature corvine. Mi disse con un po’ d’affanno che stavano perdendo e che avevano bisogno di uno straniero di spinta. Non ero affatto sicuro, però, che dopo avermi visto all’opera sarebbe stato ancora così fiducioso. Non volevo farmi sorprendere dal buio, lo salutai e ripresi a salire lungo un’antica strada lastricata. Mi fermai a bere ad un ruscello e mi sedetti per riposare. Venni nuovamente raggiunto dai tre australiani, molto più pimpanti adesso senza gli zaini. Poco dopo arrivammo alle rovine di Chincana, ultimo avamposto settentrionale dell’isola.
Questo sito è chiamato anche El Laberinto, a causa della struttura intricata dei suoi muri di pietra rossastra che seguono la pendenza della collina. Il complesso è orientato verso ovest e domina una splendida spiaggetta di sabbia. Tra le rovine alcuni bambini pascolavano la pecore, una fine ingloriosa per l’edificio. Piazzai la tenda nel luogo più evocativo di tutto l’impero inca, a ridosso della roccia Titi Qhar’qa, che in lingua aymara significa Pietra del puma, termine che ha finito poi per dare il nome a tutto il lago. Sistemai un cerchio di pietre tutt’intorno alla tenda, per impedire al forte vento di insinuarsi sotto. Un bambino molto intraprendente stava illustrando la roccia ad un turista danese. Lo vidi in difficoltà, così mi avvicinai e gli tradussi la spiegazione in inglese. Nell’estremità nord, proprio sopra la tenda, il bambino indicò il volto di Huiracocha, poi fece qualche passo più in là per mostrarci il muso del puma e quattro nicchie dalla forma allungata, da dove nacquero il Sole e la Luna. Infine si spostò su una pietra infissa nel terreno. Ci disse che i solchi presenti sulla superficie erano le impronte che avevano lasciato Manco Cápac e la sorella-moglie Mama Ocllo, i mitici capostipiti degli incas, quando nacquero dall’isola. Gli ultimi turisti si affrettavano a tornare ai loro hostales. Anche i pastorelli rincasarono con le pecore. Restai solo. Davanti alla Pietra del puma si trova la Mesa Ceremonial, un monolito posto orizzontalmente su piccole pietre, simile nell’aspetto ad un tavolo, da cui il nome. Si pensa che servisse come una sorta di meridiana o, più probabilmente, come altare sacrificale per animali e forse anche per esseri umani. Mi sedetti comodamente su una pietra e l’utilizzai più prosaicamente come scrittoio. Al momento di mangiare realizzai che non avevo più acqua. L’ultima fonte era troppo lontana. Sfruttai gli ultimi sprazzi di luce per scendere al lago a riempire una bottiglia. Quando tornai su, però, mi accorsi con disappunto che una gran quantità di esserini diafani nuotava allegramente nell’acqua. Mi tenni la sete. Ammirando il tramonto sulle limpide e sconfinate acque del lago compresi perché gli antichi lo collegassero ad eventi mistici.
Verso mezzanotte cominciarono a spirare tremende raffiche da ovest. La tenda che sbatteva come una bandiera e il fischio del vento non mi fecero dormire per niente. Ero seriamente preoccupato. Temevo che da un momento all’altro la tenda avrebbe spiccato il volo con me dentro. Che lo spirito di Huiracocha si stesse vendicando dello straniero profanatore? Mi alzai prima dell’alba e tornai all’Escalera del Inca per il Camino Sur, che segue il crinale occidentale praticamente disabitato passando di fianco al Cerro Chequesani, che con i suoi 4.076 metri è la cima più alta dell’isola. Arrivato alla scalinata mi saziai dell’acqua della triplice fonte. Non so se mi concesse l’immortalità, ma di sicuro mi salvò la vita. Era una giornata splendida. Il sole irradiava di luce il cielo terso, riflettendosi sulle acque calme del lago. Sulla barca viaggiava un’intera famiglia patriarcale boliviana, composta da otto adulti e sette bambini vestiti a festa. Gli uomini cercavano di far funzionare una videocamera, le donne spettegolavano tra di loro, i bambini saltavano e urlavano. Approfittarono della breve traversata per fare un frugale spuntino, che avrebbe potuto sfamare l’intera popolazione dell’isola. Al porto incontrai il danese che aveva girato il Cañón del Colca in bicicletta. Si godeva il sole seduto al tavolino di un ristorante sulla spiaggia in compagnia di alcune birre. Tornai all’alojamiento per rifare lo zaino, poi comprai il biglietto dell’autobus per La Paz.
Decisi di sfruttare il tempo che mi rimaneva prima della partenza per soddisfare la fame atavica, alimentata da troppi giorni di stenti. Entrai in un ristorante della Calle 6 de Agosto, che nel fine settimana preparava il lechón, il maialino da latte, autentica specialità di Copacabana. Presi posto nel patio soleggiato. Gli ombrelloni di paglia creavano un’atmosfera particolarmente invitante, che dopo la prima Paceña gelata divenne quasi paradisiaca. E finalmente arrivò lui, sua maestà il maiale: uno stinco, due patate bollite e una banana fritta adagiati su un letto di lattuga, cipolle e peperoni, il tutto guarnito di salsina piccante. Mentre assaporavo appagato la seconda birra, notai che sulla strada si stava formando uno strano corteo, vagamente nuziale, di automobili, autocarri e autobus imbellettati di fiori, nastri colorati e bandierine. Seguendo le vetture incolonnate arrivai davanti alla Catedral. Tutti i fine settimana si svolgeva la benedizione dei veicoli. I proprietari facevano richiesta di protezione alla Virgen de la Candelaria, poi eseguivano una rituale offerta di alcolici versandoli direttamente sui pneumatici e sui cofani. Il problema è che negli altri giorni, gli alcolici, li bevono.
La strada serpeggiava lungo un itinerario panoramico fatto di aspri canaloni dove pascolavano greggi di pecore e di llamas. A San Pablo l’autista ci fece uscire dall’autobus e lo guidò sopra una chiatta. Non capivo cosa stava succedendo. Seguii la massa verso una biglietteria e mi incolonnai dietro la mostruosa fila. Dopo una lunga attesa, salimmo a bordo di potenti lanchas che recuperarono il tempo perduto. Arrivammo quasi contemporaneamente all’autobus a San Pedro, sull’altra sponda dell’Estrecho de Tiquina, che separa il Lago Titicaca dalla sua propaggine meridionale, il Lago Huyñaymarqa. L’attività dello stretto era frenetica, perché arrivavano continuamente mezzi da traghettare. E in mezzo a tutta quella confusione per poco non ci dimenticavamo una coppia di boliviani che aveva perso l’orientamento e non sapeva più su quale autobus salire. Attraversammo un arido altipiano a più di quattromila metri di quota e arrivammo all’agglomerato di El Alto. E’ una delle città più alte del mondo, sommersa dalla sporcizia e tormentata dalla miseria. Le strade non erano asfaltate. Squadre di donne e di bambini reclutati dalla Municipalidad tentavano inutilmente di riempire le buche sempre più grosse scavate dall’erosione e dall’incessante passaggio di autocarri. Monelli cenciosi giocavano in mezzo a maiali e a cani scheletrici, mentre le madri lavavano i panni in sordidi canali e li stendevano ad asciugare su siepi polverose. I lati della strada erano una sequenza unica di officine di riparazioni meccaniche e di mercatini improvvisati. Una patina grigia e umida ricopriva tutto e tutti. Arrivati sul bordo del canyon ci apparve davanti La Ciudad de Nuestra Señora de La Paz, annidata sul fondo irregolare di un’enorme conca in cui le casette ammassate le une alle altre sembravano le tessere di uno stravagante mosaico. Migliaia di vetri riflettevano il sole abbacinante della sera.
Alla stazione degli autobus presi un taxi insieme a due turiste danesi. Procedevamo a fatica tra le strette vie in pendenza intasate di mezzi e di persone. “Domani è festa” si giustificava il taxista, che continuava a radiografare dallo specchietto retrovisore le due bellezze scandinave. Tutti gli alberghi erano pieni, ma al quarto tentativo, finalmente, riuscimmo a trovare due stanze in un alojamiento di Calle Illapu.
LA PAZ Per uscire dall’alojamiento dovevo scavalcare ogni volta le donne aymara sedute proprio davanti al portone in mezzo alla loro merce. Calle Illapu, fino a Plaza Eguino, si riempiva tutti i giorni del pittoresco mercato di abbigliamento, coi chioschetti di alimentari e le altre attività collegate. C’era sempre un disordine ubriacante, una confusione di venditori ambulanti che gridavano le meraviglie di pannocchie abbrustolite e di salteñas, di orologi e di calcolatrici, una brezza di immondezzai, di fritture, di automobili che singhiozzavano tra la folla, un rumore diffuso di andirivieni incessante. Dovunque c’era gente che aveva qualcosa da vendere e una chiacchiera da scambiare. La Paz è la città più popolosa della Bolivia e conta circa un milione di abitanti. I costumi tradizionali, altrove segno di disprezzo, qui erano invece indossati con orgoglio. Le cholas portavano le due caratteristiche trecce, spesso unite insieme da un fiocco di lana, una camicia di cotone, un maglione di lana abbottonato sul davanti, ampie gonne dette polleras formate da un numero imprecisato di sottogonne sovrapposte, un lungo grembiule annodato dietro e l’ahuayo, il coloratissimo rettangolo di stoffa a strisce orizzontali portato sulla schiena o a tracolla e usato come contenitore per qualunque cosa, di solito bambini. Ma l’elemento più caratteristico del loro abbigliamento è la piccola bombetta di colore scuro appoggiata appena sulla testa, introdotta dagli inglesi che lavorarono nella costruzione delle ferrovie. Passeggiando per la zona alta, dietro la Iglesia de San Francisco, mi imbattei nel Mercado de la Hechicería. Sulle semplici bancarelle di legno ai lati delle stradine erano esposte erbe e farmaci della medicina tradizionale, statuette a forma di gufo – simbolo di intelligenza – e di tartaruga – amuleto portafortuna per chi deve intraprendere un viaggio – e svariati oggetti con cui ingraziarsi le divinità che popolano il pantheon aymara: pietre magiche, polveri colorate, talismani, incensi, pelli di animali, piume di uccelli, feti di llama rinsecchiti. Scesi lungo Calle Sagárnaga e attraversai Avenida Mariscal Santa Cruz, l’arteria principale della città. Risalii quindi sull’altro versante in direzione della Catedral. Girato l’angolo, fui clamorosamente risucchiato da una marea umana. Plaza Murillo e le vie adiacenti straripavano di gente che tentava di entrare in chiesa. Ero capitato nel cuore dei festeggiamenti della Fiesta de Alasitas.
In epoca inca si celebrava il giorno dell’equinozio di primavera per augurarsi un raccolto abbondante. Nelle epoche successive la data venne spostata diverse volte fino all’attuale 24 gennaio. I campesinos accettarono mal volentieri la nuova data imposta dagli spagnoli e decisero di ridicolizzare la festa, estendendo il concetto di abbondanza non solo all’agricoltura ma a tutto indistintamente. La ressa era insostenibile. Amici e parenti venivano separati, i bambini piangevano. Istintivamente misi la mano destra sull’orologio. La folla salì le scale e mi ritrovai, mio malgrado, all’interno della Catedral. Una ventina di preti in piedi su lunghi tavoli di legno benedicevano i simboli della festa: piccole statue di Eqeqo, la divinità domestica dell’abbondanza, ricoperte di oggetti del desiderio. Adesso capivo la presenza di tante bancarelle piene di quelli che avevo considerato giocattoli, in realtà elementi essenziali per celebrare il rito pagano officiato dalla Chiesa. I fedeli chiedevano di tutto. Avevano modellini di automobili, di case, di ogni genere di cibarie ed elettrodomestici, dollari formato Monopoli e bambole vestite da sposa. Il vero problema, adesso, era uscire, perché i devoti attaccavano contemporaneamente i tre portali. Non mi restò altro da fare che tuffarmi in una corrente in uscita. Dopo furibondi combattimenti e scontri titanici tra flussi contrari riuscii a raggiungere la piazza. Anche lì la parapiglia era terribile, ma almeno potevo camminare con le mie gambe nella direzione desiderata. Mi issai sul monumento a Gualberto Villaroel per osservare dall’alto quel fiume in piena. Non c’era un centimetro quadrato libero, intere famiglie bivaccavano a terra per il tradizionale pic-nic. Alcune donne avevano provveduto la mattina presto a predisporre nel perimetro della piazza dei carretti con bombole di gas e fornelli, altre capienti tinozze piene di bibite immerse nel ghiaccio. Trovai un minuscolo fazzoletto di prato tra una ringhiera e un cestino della spazzatura. Non ci volle molto a capire perché fosse ancora libero, si trovava esattamente sulla scia di una di queste pestilenziali friggitorie su ruote. Verso la metà del pomeriggio la situazione andò normalizzandosi, a parte i cumuli di piatti, di bicchieri, di bottiglie, di tovaglioli e le aiuole devastate. Nella Catedral erano rimasti solo i tavoli e pozzanghere fangose di acqua santa. Le sedie e i banchi erano stati preventivamente accatastati nelle navate laterali; i dipinti e le statue erano stati ricoperti con lenzuoli per evitare danni.
Più avanti incontrai Alyssa seduta sui gradini di un Mc Donald’s. Quella sì che è una pia istituzione, mica le mie foglie! Mi salutò tutta contenta. L’aria di casa l’aveva resa euforica. Ma le combinazioni non erano finite, perché più avanti incontrai anche il ciclista danese. Lo presentai ad Alyssa, che se lo mangiò con gli occhi. E da come lo guardava, probabilmente lo preferiva ad un big mac. Di sera cenammo in un anonimo localaccio per turisti insieme a René, un suo connazionale di origini filippine. Aveva lasciato l’esercito dopo vent’anni di servizio per fare quello che aveva sempre desiderato: il cuoco. Apprezzava tantissimo la cucina italiana. Credo che si ricordi ancora i cappelletti in brodo che gli ho fatto assaggiare a casa mia, quando passò a trovarmi di ritorno da un viaggio in medioriente. Abitava a San Antonio, una città che fino al 1836 era appartenuta al Messico e che poi, nel 1845, venne annessa agli Stati Uniti insieme a tutto il Texas.
“Dunque sei texano, come i Simpson.” “Conosci i Simpson?” “Ma certo, sono un mito. Lo sapevi che nell’edizione italiana il capo della polizia parla in napoletano?” “Davvero?” “Sì, sì, e il collega nero di Homer in veneto; il bidello scozzese invece in sardo.” Rideva divertito dalle mie imitazioni, stirando i suoi lineamenti orientali. Per buona parte della serata mi mostrò i suoi disegni, schizzati con delle matite colorate sul quaderno degli appunti. Alyssa non si sentiva molto considerata.
Li incontrai la mattina dopo all’ufficio postale. Con loro c’era anche il danese. Non so se si fosse trattato di un incontro casuale o se Alyssa, in una crisi di solitudine, l’avesse tampinato di proposito. René mi salutò. Quella sera prendeva un aereo per il Paraguay, dove l’aspettava un cugino che operava in una missione. Scesi lungo il Prado e fermai un micro per Mallasa. Salii con un balzo dalla portiera aperta. Il micro proseguì verso i ‘quartieri alti’ di La Paz, che occupavano in realtà la parte più bassa della città. Il Río Choqueyapu, che scorreva nel sottosuolo, riemergeva nella Zona Sur carico di rifiuti e di veleni industriali. Quella mattina l’acqua aveva delle belle sfumature arancioni, con uno strato di schiuma bianca nei tratti meno rapidi. Mi feci lasciare all’altezza della Valle della Luna. Non si tratta propriamente di una valle, bensì del fianco di una collina che digrada verso il Río Choqueyapu. La sua conformazione geologica ha consentito nel tempo la formazione di pinnacoli e di curiose figure cineree create dall’erosione del terreno: torri merlate, mostri inanimati e sentinelle che sembravano custodire la pace e la tranquillità degli spiriti che sicuramente si aggiravano da queste parti. Sull’altro versante della vallata spuntava la Muela del Diablo, il dente del diavolo, la cima di un vulcano ormai spento dall’inconfondibile cuspide appuntita. Decisi che valeva la pena di darle un’occhiata più da vicino. Tornai in autobus nel sobborgo di Calacoto e mi incamminai sull’ampio marciapiede, voltandomi di tanto in tanto per avvistare un mezzo qualsiasi che andasse nella mia direzione. Da una macchina in corsa partì un pallone d’acqua che mi mancò di un soffio. Era il preludio del Carnevale, anche se mancavano ancora tre settimane. Il povero micro arrancò fino a Pedregal sfidando tutti i principi della meccanica. Nuovamente a piedi, oltrepassai il cimitero e presi una stradina che girava attorno ad una collina profondamente erosa, guadagnando ad ogni passo un panorama sempre più spettacolare sulla città. Dalla parte opposta svettavano le tre cime del Nevado Illimani, alto 6.460 metri. Numerosi kara kara, rapaci dal becco giallo con le cosce e il ventre bianco e il resto del corpo nero, volteggiavano silenziosi sul labirinto di calanchi e di pinnacoli. In prossimità della cima passai in mezzo ad un gruppo di case. Mi sentii leggermente osservato. Arrivai infine alla base della duplice guglia rocciosa della Muela. Provai a scalare quella sormontata da un parafulmine, ma desistetti quasi subito per non rischiare di sfracellarmi giù in basso, nella vallata desertica. Al ritorno mi fermai nella tienda di Pedregal. Comprai una Huari e andai a bermela fuori, la schiena contro il muro, comodamente seduto su alcune casse di birra. Un camion salì sbuffando per la stradina polverosa e si fermò lì davanti. L’autista ritirò le preziose bottiglie vuote e le sostituì con altrettante piene, per la gioia dei pochi clienti coi quali si intrattenne a chiacchierare, tra una sigaretta e una birra. In basso, nella strada principale, superai incolume una battaglia tra due opposte fazioni, che dai marciapiedi del trafficatissimo viale si scambiavano bombe d’acqua facendosi scudo con le auto parcheggiate. Fermai un micro e tornai in centro.
L’infuso di qoa e di eucalipto mi misero di buon umore. Il giorno prima ero riuscito finalmente a trovare una bomboletta di gas per il fornellino e l’avevo voluto sperimentare subito. Un penetrante profumo balsamico aveva invaso la stanza priva di finestre.
Nel pomeriggio presi un autobus stracarico diretto a Desaguadero, una cittadina al confine col Perú. Stavolta fui io a dovermi alzare dal posto, perché una signora aveva il biglietto corrispondente. Mi feci lasciare a circa metà strada, all’incrocio che conduce al villaggio di Tiahuanaco. Al di là dei binari della ferrovia ormai in disuso sorgono le rovine dell’antica Tiahuanaco. L’area archeologica era interamente circondata da una rete metallica. Davanti all’ingresso alcune donne vendevano statuette di creta clamorosamente false, anche se cercavano di convincermi del contrario.
Questo centro cerimoniale rappresenta la più imponente opera megalitica del Sudamerica. Ma non si conosce praticamente nulla della civiltà che più di millecinquecento anni fa prelevò da cave lontane almeno quaranta chilometri lastre di basalto e di arenaria pesanti fino a centosessantacinque tonnellate, le lavorò con estrema perizia, le unì insieme per mezzo di graffe di rame e costruì queste grandi costruzioni. In quei tempi lontani, prima che il Lago Titicaca si abbassasse di oltre novanta metri, Tiahuanaco sorgeva al limitare delle sue acque dominando un panorama di impressionante e sacra bellezza. Ora si trova in mezzo a promontori erosi e a distese pianeggianti spazzate dai venti. Oltrepassai tre llamas intenti a brucare l’erbetta che cresceva indisturbata all’interno della recinzione e mi trovai subito davanti un’altura. Era tutto ciò che restava della Acapana, un’imponente piramide a piattaforme sovrapposte lunga duecento metri e alta quindici, perfettamente orientata lungo l’asse est-ovest. Dopo la conquista i suoi superbi blocchi di rivestimento furono usati per erigere i palazzi coloniali di La Paz o per costruire la massicciata della ferrovia, e adesso purtroppo rimane solo una collinetta erbosa. Scesi lungo il versante nord ed entrai nel tempietto semisotterraneo, una fossa rettangolare profonda un metro e ottanta, le cui pareti sono formate da pietre squadrate inframmezzate da stele grezze più alte. In diversi punti spuntano decine di teste umane scolpite nella pietra. In mezzo al tempio sorgono tre obelischi. Il più alto, di roccia rossa, rappresenta Huiracocha, il Dio bianco dotato di barba. Questa caratteristica è molto strana: perché gli antichi abitanti adoravano una divinità dalla chiara fisionomia europea? La conquista da parte di un numero esiguo di conquistadores fu possibile proprio alla fiducia degli incas, convinti che si fosse avverata la profezia del ritorno di Huiracocha dal mare. E lo stesso accadde con gli aztechi in Messico. Voltandomi verso ovest vidi una scalinata litica composta di sei gradini, gli ultimi due tagliati in un unico blocco. Sopra si apriva un gigantesco portale fatto di grossi lastroni di pietra, in mezzo al quale si stagliava il monolito Ponce, una statua antropomorfa alta due metri e trenta. La porta era transennata. Per accedere al Calasasáya dovevo per forza fare il giro della sua poderosa muraglia di centotrenta metri di lato. In cielo si stavano addensando minacciosi nuvoloni. Una cappa color piombo oscurò il sole. In breve si scatenò un temporale misto a grandine. Mi distesi come tappezzeria contro uno dei tanti monoliti verticali alti quattro metri conficcati ad intervalli regolari nel muro, riuscendo a ripararmi dagli scrosci che cadevano di sbieco. Decisamente, non ero simpatico a Huiracocha. Un paio di monoliti più in là un giapponese nelle mie stesse condizioni tentava di fondersi nella roccia. Trovava la cosa molto divertente, perché non smise un attimo di sorridermi. Mi aspettavo che da un momento all’altro mi facesse una foto. Quando si placò l’ira divina entrai nel Calasasáya. Nell’angolo nord occidentale si trova la costruzione più famosa di Tiahuanaco, la Porta del Sole, un monolito di andesite largo tre metri e ottanta, alto tre e spesso quarantacinque centimetri, del peso stimato di dodici tonnellate. Fu chiamata così per via della divinità raggiata che compare al centro del fregio, identificato con Illapa, Dio del tuono e del fulmine, o con Huiracocha. La sua caratteristica enigmatica è il cosiddetto fregio del calendario scolpito sulla facciata orientale, lungo la parete superiore. Gli studiosi non sono ancora riusciti a mettersi d’accordo sulla sua funzione. E questo è solo uno dei tanti misteri insoluti che avvolgono questa sconcertante città sperduta nell’altipiano boliviano a 3.650 metri di altitudine.
Mentre l’acqua per il mate bolliva, preparai lo zaino scartando tutto il superfluo. Entrai nell’ufficio del gestore. Una volta poteva anche essere stata una reception, ma adesso era un qualcosa di indefinibile, un po’ ripostiglio e un po’ direzione. Le pareti erano decorate con vecchi poster ingialliti dell’ufficio del turismo. Mi inocai a guardare un quadro vagamente barocco, con una pomposissima bandiera tricolore sulla quale era scritto Antofagasta es boliviana. No al enclaustramiento.
“¿Entonces?” mi ridestò il gestore.
“Posso lasciare qui questo sacco?” “Claaaro.” Lo appoggiai su un divano impolverato, tra scartoffie e scatoloni. “Starò via un paio di giorni.” “Dove vai?” “A Taquesi, nelle Yungas.” “Da solo?” Quella domanda, non so perché, mi mise addosso un’improvvisa agitazione. “Sì, solo.” Leggevo nei suoi occhi la voglia di continuare l’interrogatorio, ma si limitò ad augurarmi buona fortuna.
In Plaza San Francisco fermai un micro che andava ad Ovejuyo, oltre la Zona Sur. Da lì saltai su un altro diretto ad Apaña. Alla tranca il conducente mi consigliò di scendere. Il paesino, infatti, non si trova sulla strada principale, ma più giù sulle rive del Río Laqha Qhollu. Tranca significa sbarra. Sono posizionate sulle strade più importanti, in corrispondenza dei posti di polizia ai confini delle città. Tutti i mezzi sono costretti a fermarsi per un controllo, sia pure solo formale. Per questo la tranca è un microcosmo dove vengono allestiti banchetti e chioschi e dove decine di donne approfittano delle soste per vendere bibite e cibarie. E’ anche un buon posto per aspettare un autobus o per cercare un passaggio, ma solitamente quando arrivano qui i mezzi sono già stipati. Proseguii a piedi fino al Paso Uni. Da lì la strada cominciava a scendere. La Capilla Uni, una chiesetta colorata di un arancione acceso, era ben visibile sulla sinistra tra il verde del prato ed il grigio delle splendide formazioni rocciose simili a canne d’organo, prodotte dal lavoro incessante dell’erosione. Dopo un chilometro lasciai la strada per Ventilla ed entrai nel villaggio di Uni, dove la principale occupazione era l’allevamento dei porcellini d’India. Adesso capivo perché li chiamano cuy: è esattamente il suono che emettono. Ad Arequipa mi ero tolto lo sfizio di assaggiarlo. Il cameriere col papillon mi aveva scodellato sul tavolo un roditore intero, con le zampette allargate e la mandibola tagliata per consentirne il totale schiacciamento. Sembrava che fosse passato sotto un rullo compressore. Attorno agli ossicini c’era poca carne e quel poco non sapeva di niente. Ma è comunque un alimento importante nella povera dieta delle genti andine, perché molto ricco di proteine. Un cammino preispanico seguiva la valle del Río Uni, fiancheggiando campi di mais coltivati ancora a mano da famiglie di campesinos. Sul percorso ero accompagnato da grossi cactus aggrovigliati e da frondosi eucalipti. Un bambino che accudiva un gregge di pecore mi fissava curioso con i suoi occhi nerissimi, ma venne prontamente richiamato da una vecchia malfidente, che non smise di squadrarmi finché non fui a distanza di sicurezza. Il sentiero digradava lentamente verso una profonda gola, le cui pareti spoglie contrastavano con le verdi colline circostanti. Scesi fino al letto asciutto del Río Palca. Un obelisco di roccia alto cento metri dominava l’ingresso del Cañón del Huariqunca. Sulla sabbia c’erano delle impronte di pneumatico: quando l’acqua era bassa il letto ghiaioso del fiume veniva percorso dai camion. Mi inoltrai per circa due chilometri tra le alte pareti verticali di roccia rossastra. All’altezza di un albero secco le impronte delle ruote svoltarono a sinistra.
“Buenos días, ¿a Palca?” domandai ad una famigliola che stava abbeverando il gregge ad un pozzo, indicando davanti a me col dito. La strada non poteva essere che quella, ma almeno li tranquillizzai sulle mie intenzioni amichevoli. Controllai che non mi fossero spuntate le antenne, perché da come mi guardavano sembrava che avessero visto un marziano. La strada proseguiva in lieve salita seguendo il corso del Río Huancapampa. Dopo circa tre chilometri arrivai a Palca, un piccolo villaggio di pietra con un passato di miniere d’oro. Lunghi muriccioli in rovina, casupole senza tetto, muri sgretolati, avanzi di cortili e di recinti fiancheggiavano la strada in pendio selciata al centro da grossi macigni. L’ombra delle montagne, l’elevata umidità dei boschi, quel senso di freddo e di abbandono rendevano quei ruderi ancora più tristi. Un micro del tutto insperato mi portò a Ventilla, un gruppo di case allungate su un crocevia. Da lì in poi non ci sarebbero più stati mezzi pubblici e me la sarei dovuta fare a piedi, perché avevo già sperimentato la mia fortuna nel trovare dei passaggi. In giro non c’era anima viva. Mi sedetti sulla soglia di una casa abbandonata per fare uno spuntino. Infilai la mano nello zaino. Era bagnato. Allarmato tirai fuori la busta delle provviste. Il formaggio galleggiava in un liquido biancastro come una mozzarella. Era ancora troppo giovane per resistere al chiuso. Posi fine alle sue sofferenze e asciugai il resto.
All’improvviso percepii un rumore… Sembrava il rombo di un motore… E veniva proprio nella mia direzione! Mi alzai galvanizzato. Dietro una curva comparve un camion pieno di gente. Su queste strade secondarie i camiones rappresentano l’unica possibilità di trasporto e applicano le stesse tariffe praticate dagli autobus. Mi sbracciai per attirare l’attenzione dell’autista, anche se andava così piano che era impossibile non vedermi. Cacciai tutto nello zaino e mi issai sul cassone. Non avevo ancora fatto in tempo a considerarmi fortunato, che percorsi cento metri eravamo già fermi. Una frana impediva di andare avanti. Il camion pian piano si svuotò e i passeggeri si apprestarono a scarpinare con la rassegnazione di chi è abituato a questo genere di situazioni.
“Ti porto lo zaino, señor?” mi domandò un ragazzino.
Lo guardai incredulo. “Ma pesa più di te!” “Poco prezzo.” “Lascia perdere. Senti, manca molto a Choqueqhota?” “Nooo, un’ora más o menos, senza zaino.” Abituato ai ritmi frenetici del mondo ‘civilizzato’ mi parve un’eresia considerare vicino un posto che si trova ad un’ora di cammino, senza zaino. La strada seguiva i capricci del Río Choqueqhota, che scorreva più in basso limpido e spumeggiante come un ruscello alpino. Sulle sue rive scoscese i contadini coltivavano magri campicelli. Tra le siepi che crescevano spontanee sul bordo della strada vidi il mio primo picaflor, un colibrì color malachite. Sbatteva le ali ad una velocità tale che riusciva a rimanere fermo nell’aria per succhiare il nettare dei fiori. Non pensavo che vivessero anche a queste altitudini.
Dopo un’ora e mezza arrivammo a Choqueqhota, l’ultimo villaggio prima del passo. Salutai il bambino e proseguii. Ebbi un attimo di esitazione quando vidi una jeep venire su dal villaggio. Purtroppo si fermò al cimitero. “Li mortacci…” Il villaggio sorge al confine della zona climatica che segna il limite degli alberi. Più in alto crescevano solo l’erba e i cespugli della puna. Salii per altre due ore e mezza, ruminando le foglie di coca e godendomi il magnifico paesaggio dominato ad est dalla cima del Nevado Mururata, alto 5.868 metri. Passato sull’altra riva del Río Choqueqhota, poco più di un rigagnolo adesso, mi trovai di fronte ad un bivio. La strada carrozzabile seguiva il fianco di una montagna, dov’erano ancora visibili le rovine dell’accampamento minerario della Mina de San Francisco. Rivolsi un pensiero a quei poveri minatori, venuti fin quassù per lavorare in condizioni proibitive nelle viscere di una montagna inospitale a 4.500 metri di quota. Sul sentiero mi vennero incontro due pastorelle. Conducevano una vita isolata, a cinque chilometri dal villaggio più vicino, cinque anni luce dai loro coetanei che vivevano in città. Erano estremamente poco vestite per quel clima rigido: una gonna di feltro rossa e una maglia di lana. Mi chiesero qualcosa in regalo. Frugai nello zaino e tirai fuori una tavoletta di cioccolata già cominciata. Non ho mai visto tanta felicità negli occhi di un bambino. Urlarono dalla gioia e si rincorsero giù per un prato, poi sparirono dietro un costone. Anche i loro avi conoscevano il cacao, ma lo mescolavano al pepe. E come la coca, era appannaggio dei soli nobili.
Timidamente, tra i saliscendi della parete di pietra viva, comparve una stupenda pavimentazione preincaica. Proseguii per un’ora fino al punto di ascesa finale, una sorta di stretto e profondo anfiteatro di roccia. Seguii con lo sguardo il sentiero che saliva di circa trenta metri, una passeggiata in condizioni normali, una maratona a quell’altitudine. Raccolsi un sasso non troppo pesante, masticai qualche foglia, respirai profondamente e ripartii. Impiegai circa mezz’ora per arrivare al punto più alto, il Paso Apacheta, a 4.650 metri. Le nuvole avvolgevano come nebbia la cima della montagna, riversandosi compatte e silenziose sull’altro versante. Posai il sasso sulla apacheta, una piramide di pietre sistemate dai viaggiatori come offerta agli Apus e agli Auquis, gli spiriti delle montagne. Si pensa che in questo modo, insieme al sasso, si lasci lì anche la stanchezza. Ci speravo proprio. Per un breve tratto camminai sopra le nuvole, tra branchi di llamas e di alpacas che al mio passaggio smettevano di brucare l’erba e alzavano la testa per osservarmi con le loro buffe espressioni. Mi avevano spiegato che i llamas sono più alti e robusti e hanno la coda che sporge leggermente in fuori, mentre gli alpacas sono più lanosi… Per me erano tutti uguali. Il sentiero costeggiava le bellissime Lagunas Loro Qheri e Jisqha Huara Huarani. Il posto era incantevole, ma c’era talmente umido che non me la sentivo di campeggiare, avevo paura di svegliarmi il giorno dopo col muschio attaccato sulla tenda. Decisi di raggiungere Taquesi e accelerai il passo, perché ormai il sole era già calato alle mie spalle.
Il villaggio si trovava più lontano del previsto. Arrivai che era già buio pesto, aiutandomi con la torcia elettrica. Un’altra torcia si accese nell’oscurità totale di quella notte senza stelle. Mi illuminai il volto e mi avvicinai a quella luce. Era una giovane donna. Le domandai se potevo dormire da qualche parte. Annuì con un filo di voce, guardando per terra. Moltissimi indigeni, specialmente le donne, sono estremamente timidi nei confronti degli stranieri. Per non parlare poi di quelli che compaiono a notte fonda. Mi indicò una capanna di pietra col tetto di lamiera ondulata. Chinai la testa per varcare l’ingresso e illuminai la stanza. Il terreno era ricoperto da un morbido strato di paglia. Su una mangiatoia erano accatastate delle pelli di capra. Qualche attrezzo agricolo completava l’arredamento. Sistemai alcune pelli sulla paglia, ma aspettai ad aprire il sacco a pelo, altrimenti si sarebbe inumidito. Uscii fuori a prendere un po’ d’acqua da uno degli innumerevoli ruscelli che scendevano dalla montagna e che scorrevano ovunque, anche tra le case. Diedi uno sguardo nella capanna che stava di fronte, coperta da un tetto di paglia fumante. L’interno era illuminato da un magro fuoco acceso contro la parete annerita, che saturava la stanza di fumo denso. Una vecchia stava rimestando in una pentola appoggiata su tre pietre. Accanto a lei la giovane donna era seduta sul pavimento di terra battuta con un neonato in braccio. Nessun altro. Regalai un pezzo di pane ed una manciata di foglie di coca e tornai nella stalla. Divorai tutto quello che avevo portato e trascorsi la serata ad ingrassare gli anfibi. Sebbene sia un’espressione dialettale molto diffusa dalle mie parti, per la prima volta in vita mia andai veramente ‘a paglia’. Il tetto di lamiera amplificò per tutta la notte i ripetuti scrosci di pioggia.
Quando mi svegliai guardai fuori. Sembrava di essere in Val Padana in autunno. Preparai un mate de coca molto dolce. Prima di andarmene lasciai il sacchetto di zucchero alla vecchia. Bofonchiò qualcosa senza scomporsi, dai suoi lineamenti grinzosi non traspariva alcuna emozione. Un velo lattiginoso ricopriva tutto. Con la luce del giorno mi resi conto del buco di posto che era Taquesi: una decina di capanne di pietra a quattro ore dalla strada carrozzabile più vicina, al di là di un altissimo passo. In quella stagione, poi, era perennemente avvolta dalle nubi e sommersa dall’umidità. Adesso che avevo raccolto e analizzato le prime impressioni, potevo confermare che “Mamma mia” era stata una prima reazione molto appropriata. Due bambini mi guardavano tenendosi a distanza. Dov’erano finiti gli uomini? Il sentiero superava il Río Taquesi su un ponte di legno di recente costruzione già pieno di scritte e declinava fiancheggiando le sue acque burrascose. Mano a mano che scendevo la temperatura aumentava e la vegetazione diventava sempre più rigogliosa. La foresta nana composta da piccoli alberi, muschi e felci lasciava il posto alla foresta vera e propria, con alberi d’alto fusto e un fitto sottobosco. Queste valli sono conosciute col nome di Yungas. Formano una formidabile barriera contro la quale si abbattono le nuvole cariche di pioggia provenienti dai bassipiani amazzonici. Acqua sopra, acqua sotto, soprattutto nel sentiero. Era strutturato in modo da convogliarla ai lati, ma ce n’era veramente troppa e non riusciva a defluire con la stessa rapidità con cui si riversava giù dai pendii. Era ricoperto da una stupefacente pavimentazione, che nei tratti pianeggianti gli conferiva più l’aspetto di una strada; nei passaggi più impervi, invece, si stringeva, trasformandosi in agevoli scale di pietra. Non era stato concepito per il passaggio di mezzi, visto che quei popoli non conoscevano la ruota. Superava le asperità del territorio riuscendo a conciliare la via più breve con quella più facile. Seguitavo a scendere lungo il fianco di una china, mentre il Río Taquesi precipitava nella profonda valle sottostante. Ogni tanto mi fermavo per realizzare dove mi trovassi e mi guardavo intorno compiaciuto per l’incredibile panorama. All’improvviso sentii delle detonazioni echeggiare tra le montagne. Subito non riuscivo a capire da quale direzione provenissero. Poi sull’altro versante della valle sempre più ampia individuai una macchia gialla tra gli alberi. Una ruspa avanzava inesorabile lasciando dietro di sé una profonda ferita. Stavano costruendo una strada sulla parete di una montagna ricoperta di foresta. Ma non si capiva né da dove venisse, né dove volesse arrivare.
“Muuuuuuu.” Inaspettatamente mi si parò davanti una mucca con tre vitelli. In quel punto, chiamato Loma Palli Palli, il sentiero era largo poco più di un metro: a destra c’era la parete boscosa, quasi verticale, a sinistra lo strapiombo. Non potevo proseguire, perché se solo provavo ad avvicinarmi la mucca chinava la testa minacciosa.
“Ma sei proprio una gran vacca!” le urlai. Non potevo certo stare lì tutto il giorno ad aspettare che un montanaro sbucasse chissà da dove per portarsela via. “Dai, bella mucchina, voglio solo passare, non intendo trasformarvi in bistecche.” Niente da fare. L’unica era aggirarli. Optai per la salita. “Così se perdo l’equilibrio almeno cado sul sentiero” pensai… “o su quattro paia di corna!” realizzai terrorizzato. Mi aggrappai ai cespugli umidi, ma non riuscivo a trovare un appoggio per i piedi. La foresta, piena di orchidee e popolata di colibrì e di pappagalli, in quel trattò mi deliziò con arbusti spinosi e rampicanti, che mi accalappiavano le gambe come trappole e mi ostacolavano come se avessero organizzato un complotto per impedirmi di andare avanti. Dopo innumerevoli tentativi e una buona dose di graffi, riguadagnai la strada alle spalle di quegli antipatici bovini. Riprese a piovere. Il sentiero iniziò a scendere con una notevole pendenza. Verso le undici arrivai a Estancia Cacapi, tre case e qualche campo strappato alla foresta. Entrai nel cortile di quella che esponeva un’insegna della Coca-Cola. “C’è nessuno?” Uscì un ometto di mezz’età, che gestiva una specie di hostal. “Buon giorno, ha qualcosa da mangiare?” gli domandai.
“Va bene un panino?” “Benissimo.” Mi sedetti ad un tavolo sotto una tettoia di paglia. Le assi di legno erano incise con nomi e date. Stesi la mantella impermeabile e mi levai gli anfibi. Per fortuna che li avevo ingrassati, perché dentro c’erano due dita d’acqua! Le calze erano fradice. Sotto il ginocchio ero completamente inzuppato, sopra invece ero madido di sudore. L’ometto tornò con un panino con formaggio e uovo fritto in una mano e con un registro per le firme nell’altra.
“Viaggi da solo?” “Ancora? Ma è una mania” pensai. “Sì… Perché?” “Fai attenzione, ci sono molti peruviani in giro.” Lo ringraziai senza capire. Strizzai i pantaloni, buttai via le solette marce, indossai un paio di calze asciutte e ripresi il cammino. Il percorso continuava a calare di quota. Superato un ponte precario sul Río Quimsa Chata, risalì brevemente fino al villaggio di Chojila. Poi tornò a scendere nuovamente, sprofondando nel folto della foresta e attraversando per l’ultima volta il Río Taquesi. Mi dissetai bevendo l’acqua fresca di una cascatella che scorreva tra muschi e felci. Dopo il ponte il sentiero coincideva con la copertura in cemento di un acquedotto che convogliava l’acqua del fiume. Il Río Taquesi si gettava sempre più a valle, mentre l’acquedotto procedeva con una pendenza minima, quasi orizzontale. Dopo circa un’ora giunsi ad una vasca di decantazione. Un sistema di pompe portava l’acqua al villaggio di Chojlla, abbarbicato sul fianco della montagna. In otto ore avevo superato un dislivello di duemilacinquecento metri. Ero arrivato nel punto più basso del cammino e ora fissavo basito il viottolo che si arrampicava tortuoso fino al villaggio, un centinaio di metri più in alto. Ero esausto. Masticai altre foglie e iniziai a salire.
Chojlla è uno squallido villaggio di minatori con impianti di lavorazione diroccati e case abbandonate. Il panorama era splendido, ma l’atmosfera non era per nulla invitante. Più in là scorgevo un altro villaggio, più o meno alla stessa altezza, e una linea in mezzo agli alberi che li collegava. Decisi di proseguire. Sulla strada melmosa disseminata di scorie minerali erano sparsi cavi d’acciaio, tubi, pezzi di motore e altri rottami. Cunicoli e gallerie si aprivano senza criterio nella montagna. All’uscita del villaggio due minatori abbracciati ad una sbarra verticale stavano triturando dei sassi facendo oscillare una grossa macina di pietra situata sotto i loro piedi.
“Scusate, c’è un mezzo che va in quel paese là?” “No, per oggi non ci sono più camion” mi risposero continuando ad oscillare come un pendolo.
“Malediz… E’ lontano?” “Nooo, un’oretta.” “Seeh, ho capito” pensai. “Che minerale estraete?” “Stagno.” “Grazie. Buon lavoro.” Passai sotto un portone scavato nella roccia, che un tempo consentiva di controllare l’accesso al villaggio. La casetta del custode, però, sembrava abbandonata da anni. La strada tagliava il profondo canyon boscoso creato dal Río Taquesi. Un cóndor mi passò vicinissimo per poi librarsi sulla valle sottostante. Verso le cinque arrivai a Yanacachi, completamente sfinito. Il villaggio si sviluppava ai due lati della strada per Santa Rosa e non era neanche lontanamente paragonabile col suo orrendo vicino. Trovai da dormire in una stanza nel retro della tienda, ma la proprietaria mi disse che non c’era acqua in tutto il villaggio. Dopo essere quasi scampato ad un diluvio, quella notizia mi lasciò di stucco. Il solo posto che durante la settimana serviva da mangiare era il ristorante dell’unico, carissimo hotel del villaggio. I tavoli erano tristemente vuoti. C’erano soltanto due ingegneri italiani ed il loro autista boliviano. Intuii dai loro discorsi che lavoravano in una miniera lì vicino, ma ero troppo stanco per attaccare bottone. Mangiai e andai dritto a letto. Ma fui disturbato dal concerto monotono della pioggia, che cadde incessante per tutta la notte.
Alle cinque andai ad aspettare l’autobus nel luogo che mi aveva indicato la signora. Nel silenzio ovattato dalla nebbia lo sentii arrivare in lontananza. Lo strepito del motore non lasciava dubbi: era una corriera tipo scuolabus. Cominciai a preoccuparmi. Valicato un passo ci immettemmo nella strada delle Yungas, classificata come la più pericolosa del mondo. Il panico subentrò già dopo le prime curve e rimpiansi i piccoli micro. La strada era così contorta da sembrare un politico. Gli altri passeggeri dormivano impassibili, mentre l’autista lavorava alacremente di sterzo. I miei timori venivano tragicamente alimentati dalle croci che spuntavano ai lati della strada sterrata, a perenne monito e memoria della caduta nel precipizio di sventurati mezzi che si erano trascinati dietro il loro disgraziato carico umano. Il vecchio autobus si inerpicava su angusti e tortuosi tornanti scavati nelle pareti di un profondo canyon. In basso, nell’orrido profondo, mormorava il Río Unduavi. Una leggera nebbiolina si alzava dalla foresta rigogliosa. Frequenti cascate, come la bellissima Velo de Novia, un getto d’acqua bianca e trasparente simile al velo di una sposa, erodevano il fondo stradale costringendo l’autista a difficili manovre. La radio trasmetteva i successi degli anni ottanta. Più avanti una frana ci bloccava il passo. Parte della montagna era venuta giù, creando una colata rossiccia di terra, di sassi e di radici in aperta antitesi col verde della jungla. Dall’altra parte un minibus era nelle nostre stesse condizioni. Uscimmo per accertarci dell’entità del danno e per fare una chiacchiera. L’autista, valutata la situazione, fece uscire tutti. Dopo una breve preghiera prese la rincorsa e aggirò la frana inclinandosi paurosamente verso il burrone. I passeggeri, un po’ scocciati per l’inopportuna sveglia, presero posto e ripresero a dormire beati. In fondo avevano ragione loro: se deve succedere, succede. Tanto vale morire sereni. Attraverso un impareggiabile paesaggio verticale giungemmo infine al Paso La Cumbre, a 4.752 metri di quota. Alla tranca, in perfetta sincronia, tutti uscirono per assolvere serenamente le loro funzioni fisiologiche. Gli uomini in riga sul bordo della strada, le donne indie accovacciandosi semplicemente in mezzo alle loro ampie gonne.
Il sabato depositai lo zaino nell’alojamiento e mi avviai verso la sede del Club Andino Boliviano per prendere parte all’escursione sul Chacaltaya. E’ una montagna alta 5.345 metri anche se qui, abbastanza eufimisticamente, viene chiamata Cerro, collina. I trasporti pubblici non arrivavano fin là, ma il C.A.B. Tutti i fine settimana organizzava un minibus, sempre che si fosse raggiunto un numero sufficiente di partecipanti. Puntammo verso El Alto. Cascate di case cubiche di fango e abitazioni di fortuna crescevano come funghi l’una ammassata all’altra, distruggendo nella loro espansione i boschetti di eucalipto piantati a suo tempo per arginare l’erosione delle friabili scarpate. Gli alberi venivano utilizzati nella costruzione o come legna da ardere. Il taglio indiscriminato comprometteva sempre di più la stabilità del terreno. Nelle stradine sterrate vagavano pecore e maiali. Era bastata mezz’ora per cambiare completamente scenario. Sulle alture a nord della città era stata eretta una selva di antenne dell’esercito e di ripetitori televisivi. I militari ci fermarono per un controllo e risultò che solo io avevo il passaporto. Gli altri turisti, bardati come se dovessero scalare l’Everest senza ossigeno, l’avevano lasciato tutti in albergo. L’autista cercò di sistemare la faccenda, ma il graduato baffuto e arcigno non transigeva. Di sicuro non aveva altro da fare. Evidentemente era anche un salutista. Non si spiega altrimenti perché gli requisì il pacchetto di sigarette.
“Guarda che gentile” pensai, “è riuscito a convincerlo a smettere di fumare. Allora non è poi così cattivo come vuol sembrare.” Gli disse che in futuro non avrebbe più tollerato simili leggerezze – portare degli stranieri privi di documenti nei pressi di importanti installazioni militari! – e che, per questa volta, ci faceva passare. Mi voltai e lo vidi accendersi una sigaretta e ghignare coi commilitoni. Nubi minacciose si stavano addensando sulla cima della montagna. Il minibus procedeva pian pianino arrancando sui tornanti pietrosi circondati da laghetti stagionali. Oltrepassato il laboratorio di ricerca dell’università ci fermammo davanti al rifugio del C.A.B. L’autista entrò al caldo. Noi seguimmo in fila indiana un sentiero che portava sulla vetta. Avevo il fiato a zero e la pulsazioni a mille. Nemmeno le foglie di coca erano granché d’aiuto. Il vento impetuoso influiva notevolmente sulla temperatura, coprendo e scoprendo alternativamente il sole. Sul Chacaltaya si trovano gli impianti di risalita a più alta quota del mondo, ma il ghiaccio si stava inesorabilmente ritirando. Mi fermai dove iniziava la pista da sci, a 5.320 metri di altezza. Ogni tanto le nuvole si aprivano offrendoci superbi primi piani dell’Huayna Potosí, alto 6.088 metri, e ampi scorci della Cordillera Real, la catena montuosa più alta e più imponente di tutte le Ande, con più di seicento vette che superano i cinquemila metri e sei oltre i seimila. Mi trovavo sulla spina dorsale del Sudamerica. Quello spettacolo, come pioggia, mi lavò via la stanchezza e l’affanno.
PIOGGIA Al terminal terrestre di La Paz montai sul primo autobus diretto ad Oruro. Qualche compagnia di seconda classe continuava ad usare decrepiti autobus ad uso e consumo dei poveri boliviani che viaggiavano su linee secondarie con bambini, quintali di bagagli e talvolta anche animali. Ma ormai le compagnie di trasporto disponevano di lussuosi pullman moderni di prestigiose marche europee. Insieme al comfort erano arrivati gli immancabili videoregistratori, che trasmettevano películas del calibro di Mazinga contro i ninja e film di quint’ordine di genere catastrofico. L’autobus avanzava lentamente nelle strade ostruite dai mercati, aprendosi un varco che subito si richiudeva al suo passaggio. Ad un certo punto attraversammo un campo da calcio circondato dai palazzi. I giocatori si fermarono nelle loro posizioni. Quando passammo ripresero la partita come se nulla fosse. Non sapevo se fosse più assurdo il film dentro o la scena fuori. Dopo circa un’ora dalla partenza ci lasciammo alle spalle El Alto e ritrovammo l’asfalto. Un cielo bigio e pesante gravava sull’altipiano. Oltre il vetro imperlato di goccioline d’acqua contemplavo quelle distese infinite e malinconiche. Chilometri e chilometri di niente, un’altra tra le tante ricchezze della Bolivia. I pochi che non dormivano subivano passivamente le immagini trasmesse dal video. Arrivammo ad Oruro al tramonto.
Mi caricai lo zaino in spalla e percorsi Avenida 6 de Agosto, uno squallido vialone tagliato nel mezzo, per tutta la sua lunghezza, dalla ferrovia per La Paz. Sui marciapiedi erano state allestite numerose gradinate di legno, che accentuavano il senso di sinistra desolazione. Non c’erano più i nuvoloni del Lago Titicaca, adesso il cielo era completamente plumbeo, senza possibilità di schiarita. Impiegai mezz’ora per arrivare in centro e dovetti girare parecchi alberghi prima di trovarne uno ad un prezzo accettabile. Oruro è una città mineraria e non ha molte attrazioni turistiche. Ma gli albergatori sfruttavano la sua fama di capitale folcloristica della Bolivia, che durante il Carnevale attira migliaia di visitatori. Mancavano ancora due settimane ai festeggiamenti veri e propri, ma già fervevano i preparativi. Per le vie del centro nutriti gruppi di giovani eseguivano le prove dei balli coreografici, seguendo il ritmo trascinante delle bande musicali che guidavano le sfilate suonando allegri strumenti a fiato. Molti vestivano alcuni ingombranti elementi degli elaborati costumi, per abituarsi a compiere le difficili evoluzioni.
Se il buon giorno si vede dal mattino, non riuscivo ad immaginare come sarebbe stato il pomeriggio. Quel tempo inclemente mi angosciava. Avvolto nella giacca di piumino impermeabile ripercorsi la strada per il terminal. Avevo deciso di andare al Parco Nazionale Lauca, in Cile, per poi raggiungere la costa alla ricerca del sole. Prima lo soffrivo, adesso invece lo rimpiangevo. Comprai un biglietto per il giorno seguente. Destinazione Chungará, sulla strada che conduce ad Arica.
Ero affamato, ma non avevo voglia di scarpinare fino al mercato. Entrai nel ristorante più vicino, giusto di fronte al terminal, e presi posto nell’unico tavolo ancora libero. Il locale era elegante, molto affollato di famiglie boliviane vestite a festa. La domenica qui è ancora la giornata da trascorrere serenamente con la famiglia dopo la messa. Un così alto numero di clienti mi faceva ben sperare. Solo che i camerieri non si avvicinavano. Ronzavano attorno ai tavoli senza degnarmi di una sguardo. Per un po’ rimasi seduto, guardandomi intorno visibilmente imbarazzato. Poi, spazientito, mi alzai e andai al bancone.
“Hay que comprar las fichas antes, señor” mi rispose la cassiera, anticipando la mia domanda. Bisognava pagare in anticipo. “Che cosa prende?” Mi soffermai a leggere una lista di piatti appesa al muro. I nomi non mi dicevano assolutamente nulla. Ordinai quello più caro: “Mmmm, un wat’iya a la piedra e una birra.” “¿Chica o grande?” “Grande.” Pagai e mi consegnò due fichas colorate, col prezzo stampigliato sopra. Tornai al tavolo. Finalmente il cameriere passò a ritirare l’ordinazione e dopo qualche minuto appoggiò sul tavolo, nell’ordine: un piatto ovale con arrosti di oca, di maiale e di agnello cotti nel forno d’argilla, guarniti con patate, una banana fritta, mele ed insalata; una bottiglia di birra Paceña; una scodella di salsa piccante. Al ritorno camminai piano per non inciampare nella pancia.
In centro avevano già cominciato il Carnevale con fucili ad acqua, schiuma da barba e gavettoni. I bersagli erano quasi sempre le ragazze. Più che dalla pazzia dei boliviani, a cui ci si abitua presto, ero sconvolto dalla quantità di giovani, davvero sproporzionata alle dimensioni della città. L’età media della popolazione è molto bassa, perché ci si sposa molto presto e si mettono al mondo parecchi figli. “Sei sposato?” è la domanda che mi sentivo rivolgere più spesso. E quando rispondevo: “No” mi guardavano stupiti, poi sorridevano e con fare esperto mi confidavano: “Se vuoi conosco un paio di segreti infallibili…” Per risparmiarmi queste reazioni avevo imparato ad inventarmi una moglie che mi aspettava a casa coi marmocchi. “Giusto, l’uomo può fare quello che vuole, tanto è la donna che deve occuparsi dei bambini” e dopo un attimo di sbandamento diventavo subito un fulgido esempio di macho. Mentre osservavo le povere fanciulle oggetto dei festeggiamenti, notai che nessuna di loro portava la gonna. Probabilmente questa tendenza era dovuta alla volontà di distinguersi dalle cholas, il cui abbigliamento prevedeva l’ampia pollera, o forse per darsi un tocco di modernità. Tutto sommato non era male, perché indossavano pantaloni mooolto aderenti. Con i lunghi capelli neri, la carnagione scura, gli occhi maliardi e il sorriso sbarazzino le boliviane sono veramente attraenti. In Calle Bolívar, la via dello struscio serale, mi agganciarono tre ragazze. Iniziai a pavoneggiarmi, sfoderando tutto il mio collaudato repertorio di frasi e di discorsi. Mi accorsi però che non mi prestavano molta attenzione. Continuavano a guardarsi intorno nervosamente e a stringersi il più possibile tra me e il muro. Stavolta il fascino del gringo non c’entrava nulla. In realtà mi stavano usando come scudo umano, sapendo benissimo che il coinvolgimento di uno straniero in attentati a base di acqua e di schiuma avrebbe comportato un pesante incidente diplomatico. Non ero molto sicuro, però, che la mia presenza costituisse un valido deterrente e mi voltavo preoccupato a guardare i ragazzi che ostentavano minacciosamente dei palloni pieni d’acqua. Speravo proprio che non ci sparassero addosso così spudoratamente. Rischiavamo, piuttosto, di attirare i palloni vaganti tirati all’orba nel mucchio. Per quella sera riuscii a scamparla.
“Oggi non c’è l’autobus per Arica” mi rispose distrattamente la bigliettaia.
Vacillai. “Come non c’è?” “Sì, c’è, però va ad Iquique.” “E… Ovviamente non passa per Chungará.” “No, per Pisigüe.” “E allora?” “Mañana” brontolò lei.
Seeh, domani, sempre domani. La filosofia sudamericana è tutta sintetizzata in questa parola. Mai fare oggi quello che tanto non potrai fare nemmeno domani. Mi ero sempre considerato un adepto di questo credo, ma non mi ero mai reso conto di quanto la civiltà tecnologico-industriale-capitalistica mi avesse assuefatto al suo ritmo di vita frenetico. La verità è che ero troppo rilassato per l’Europa e troppo esagitato per il Sudamerica. Fui molto sorpreso nel vedermi scocciato, soprattutto perché in un mese era il primo caso di disfunzione. Nei corridoi desolati del terminal riecheggiavano i richiami di un bigliettaio: “Co-chabamba Co-chabaaambaa”, a cui faceva eco una garrula ed insopportabile voce femminile: “U-yu-niii.” Mi feci restituire i soldi e mi rivolsi ad un’altra flota. Gli autobus diretti in Cile partivano solo alla mattina. Comprai un biglietto per il giorno dopo. Tornai nuovamente in centro con lo zaino sulle spalle e trovai una stanza in un altro hostal nei pressi del Mercado Campero, più scadente del primo ma più economico.
Un altro giorno in città sarebbe stato veramente troppo. Decisi di fare un salto alle terme. Alla fermata nei pressi dell’incrocio tra Avenida 6 de Agosto e Calle Caro c’erano tre vecchi scuolabus fermi. Partivano solo quando erano pieni, iniziando da quello più avanti. Per il momento a bordo c’erano solo un vecchio e una donna con un bambino in braccio. L’autista sonnecchiava sul volante. Avevo tutto il tempo per mangiare. Girai l’angolo ed entrai in un ristorantino affacciato sulla strada principale. Sulle pareti piastrellate diverse marche di birra si sfidavano a colpi di modelle in succinti costumi da bagno. Le signorine bionde, abbronzate e sudate rivelavano agli ammiratori il sistema per non morire di sete. Nella penombra il cuoco annoiato guardava un televisore in bianco e nero che trasmetteva l’ennesima telenovela fatta in casa. La programmazione televisiva era alquanto scadente, ma era una scemenza istituzionalizzata e nessuno aveva la pretesa di offrire programmi di spessore, come succede invece in Italia dove trasmettono talk-show e varietà patetici, film spazzatura, l’asfissiante calcio e telegiornali che passano allegramente dalla strage alla moda, dalla fame nel mondo all’ultimo pettegolezzo sui reali inglesi. Senza staccare gli occhi dal video il cuoco mi servì un almuerzo e una birra. Dopo la seconda birra tornai verso l’autobus. Nel frattempo erano saliti altri cinque passeggeri. Era il primo giorno di scuola e gli studenti indossavano le divise dei vari colegios. Le ragazze portavano camicette bianche di cotone, gonnelline plissettate, calzette bianche al ginocchio e scarpe nere; i ragazzi camicie bianche, cravatte, pantaloni e scarpe nere. I colori erano diversi per ogni istituto. Per una volta riconobbi l’utilità di queste stupide tradizioni. Solo grazie alle divise, infatti, riuscivo a vedere le gambe lisce ed abbronzate delle ragazze. Il sole faceva sempre più spesso capolino tra le spesse nubi. A quell’ora e a quell’altitudine scaldava terribilmente, tanto che, complice la digestione, sprofondai nella siesta.
“Su pasaje, señor.” Quando il bigliettaio mi svegliò l’autobus era pieno e stava già dirigendosi fuori città. Dopo circa venti chilometri arrivammo alle terme di Obrajes, un complesso turistico con bar, discoteca, grandi piscine di acqua calda e cabine con vasche personali. All’esterno due antiche chullpas vegliavano sugli stagni di acqua fumante. Le piscine erano gremite di ragazzini scalmanati, così optai per la più tranquilla cabina. Un rigagnolo d’acqua calda alimentava la vasca da una parte e defluiva all’esterno dall’altra. Mi rilassai in quel liquido che sapeva vagamente di zolfo e ne approfittai anche per insaponarmi, visto che negli hostal la doccia calda esisteva sempre e solo nelle rassicurazioni di chi li gestiva.
Di sera anche i gavettonari più incalliti deposero le armi per assistere alla processione per le vie del centro della Virgen de la Candelaria. Otto uomini sorreggevano una statua con l’effigie della Madonna illuminata come un albero di Natale. Un corteo di fedeli in abiti scuri la seguiva lentamente salmodiando e cantando. Le donne portavano lunghi scialli e veli di pizzo nero sul capo. Tra le mani intrecciate stringevano candele accese e rosari. In mezzo al corteo spuntavano bandiere e stendardi delle varie comunità religiose e innumerevoli immagini sacre. In cielo brillava una bellissima luna piena.
Mi alzai alle otto, preparai lo zaino, andai in banca a cambiare un travellers’ cheque a condizioni pessime – perché al Parco non era possibile farlo -, arrivai al terminal terrestre in perfetto orario e la bigliettaia, con una flemma irritante, mi disse: “Hoy el carro no sale”, oggi il bus non parte.
“Perché???” le domandai idrofobo.
“L’autista sta male” e con quella risposta le sembrò di aver esaudito le mie assurde richieste. La mia mentalità occidentale non si capacitava, dentro di me qualcosa si ribellava, poi una vocina ironica mi chiese: “Turista fai da te?” La bigliettaia mi restituì i soldi, come se di vendere biglietti non le importasse poi tanto. Restai un’ora buona a decidere se procrastinare ulteriormente o se cambiare programma, sempre più convinto che la malattia dell’autista fosse in realtà una scusa. Era molto più probabile, invece, che non ci fossero abbastanza passeggeri per giustificare il viaggio. Lasciai perdere il sole e presi un autobus per Cochabamba, col solito bambino che mi strillava nelle orecchie. E’ incredibile che con tutti i posti che c’erano finivano ogni volta o dietro o di fianco a me. Pioveva, faceva un freddo cane e il viaggio, come sempre, si rivelava più lungo del previsto.
Ci fermammo per una sosta in un ristorante sperduto tra le montagne, una casetta con il tetto di lamiera e le pareti di legno che stavano su con tante preghiere. Unici testimoni dell’era tecnologica erano un frigorifero e un televisore in bianco e nero. Si pagava in anticipo: la cassiera consegnava due posate, un tovagliolo di carta e la ficha che garantiva il piatto del giorno. Mi chiedevo se l’autista fosse d’accordo col gestore e prendesse una percentuale sui guadagni. Dopotutto era lui che decideva dove fermarsi. Tra i monti brulli si intravedevano dei puntini blu o verdi: erano i teli di plastica che i pastori adoperavano per ripararsi dalla pioggia. Con tutta quell’umidità le povere capanne di adobes col tetto di paglia mettevano i reumatismi solo a guardarle. La strada calava vertiginosamente di quota tra lapidi, mezzi in avaria e cani che campavano sulla superstizione dei conducenti degli autobus. Molti erano convinti infatti che gli Achachilas, gli spiriti che dimorano nelle cime più elevate, fossero incarnati in questi animali e davano loro del cibo nella speranza che gli consentissero di viaggiare sicuri attraverso le loro regioni. Valicato un passo entrammo in una fertile conca verde circondata da alti rilievi. Numerosi forni di pietra per la produzione della calce sbuffavano ai lati della strada. In fondo alla valle si trovava Cochabamba. Sebbene sorga a 2.570 metri di altitudine, era immersa in una lussureggiante vegetazione tropicale.
Presi una stanza in un alojamiento di Calle Aguirre. “Ah, italiano. C’è un tuo compaesano qui.” Il ragazzo della recepción mi diede una chiave e mi accompagnò al piano di sopra. Su un lungo ballatoio di legno si aprivano cinque stanzette prive di finestre. La mia era l’ultima. Passammo davanti ad una porta spalancata. Mi presentò un tale Kurt di Bolzano. Alto, biondo, trecce rasta e pizzetto lungo.
Mi diede la mano. “Ciao, come va?” “Di merda, sono tutto bagnato.” “Naaah, non ti preoccupare, fra un po’ smette. E’ il clima della città. To’, prendi questa” e mi passò una sigaretta artigianale che sapeva di rosmarino.
In realtà si considerava più tedesco che italiano. Divideva la camera con un colombiano. Si erano conosciuti in Argentina e adesso viaggiavano insieme. Lui costruiva collane con pietre dure e filo metallico; il colombiano, che era veramente un artista, realizzava oggetti in resina. Era seduto sul letto e stava caricando una pipa col fornello decorato da un volto demoniaco, una sua creazione. Nella camera c’erano vestiti sparsi ovunque, scarpe, giornali, attrezzi, materiali per i loro lavori e posaceneri pieni di mozziconi e di mezze sigarette non fumate. Limitavano al massimo gli sforzi. Per decidere chi doveva fare qualcosa ricorrevano alla morra cinese.
“Com’è la città?” domandai a Kurt.
“Bella, si vende bene…” fece una pausa per espirare il fumo dalla bocca “e poi puoi trovare tutto quello che vuoi.” “Cioè?” Tossì. “Cochabamba, è il paradiso, delle droghe.” Con la chiave aprii il lucchetto nero di fabbricazione cinese che teneva chiusa una porta a due ante. Dentro c’era un letto, una sedia e un comodino. Sulle pareti dipinte di rosa acceso una scritta diceva che José amava Consuelo. Portai la sedia sul balcone e aspettai che smettesse di piovere. Di fronte, a cinque metri di distanza, il tetto di lamiera di un altro alojamiento, con la sua brava cisterna di plastica nera per l’acqua, nascondeva il panorama sul centro. I due stretti cortili erano divisi da un muretto di mattoni. Dalla sommità di una lontana collina ad est una gigantesca statua del Cristo dominava la città. Un nero coi capelli rasta sul cucuzzolo della testa entrò dai miei vicini. Uscirono quasi subito, mi salutarono ed andarono via.
Quando smise di piovere mi recai in Plaza 14 de Septiembre, un palmizio fiorito pieno di gente in ozio. Sotto i portici della Catedral erano stati affissi decine di manifesti elettorali del presidente Hugo Bánzer Suárez, il generale che si era già impadronito del potere nel 1971 guidando una coalizione di destra. Sopravvissuto agli anni roventi dei golpe, era ricomparso come se nulla fosse accaduto ed era riuscito perfino a farsi eleggere. Misteri della politica o abile mossa dei burattinai che tramano nell’ombra? Imbucai Avenida Las Heroinas e la percorsi tutta fino in fondo. In circa mezz’ora giunsi all’inizio della lunghissima scalinata che sale al Cristo de la Concordia. Degli scriteriati avevano scelto quel percorso massacrante per fare jogging. Su ogni alzata dei gradini era stata murata una mattonella col nome delle famiglie che ne avevano sovvenzionato la costruzione. Mano a mano che salivo la vista si apriva sempre di più. Alla fine contai milletrecentoventidue scalini, ma non potrei giurarlo. Arrivai su abbastanza provato, ma il panorama mi ripagò ampiamente della fatica. Il Cristo, con le braccia aperte a formare una croce, sereno e maestoso fissava l’infinito in direzione del sole calante. In quello scampolo di giornata la valle, dominata in lontananza dalla mole del Cerro Tunari, alto più di cinquemila metri, si stava illuminando dei colori del tramonto.
L’aria fresca del mattino era una benedizione dopo il caldo e le zanzare della notte appena trascorsa. Una nebbiolina tropicale sfumava il panorama sui tetti della città. Entrai nella splendida doccia priva del marchingegno ‘frankenstein’. Peccato però che nessuno avesse acceso il boiler, così dovetti sorbirmi l’ennesima doccia gelata.
La stazione ferroviaria è circondata dalla Cancha, il mercato più grande di tutta la Bolivia. Come tutti i mercati era diviso per settori merceologici. Attraversai la zona dei falegnami, delle ferramenta, delle calzature, dell’abbigliamento tradizionale e moderno e capitai nel gigantesco mercato degli alimentari, dove si mescolavano colori e profumi esotici. Le bancarelle esponevano frutti mai visti, persone, biciclette, cani e micro intasavano le strade colme di rifiuti, ulteriormente ristrette dalle donne indie che vendevano ortaggi e verdure su semplici teli di plastica stesi per terra. Camion stracarichi di arance e di banane procedevano a strattoni strombazzando e ammorbando l’aria con nuvole di smog. Finalmente trovai la estación de ferrocarril. Il suo ingresso quasi non si vedeva, nascosto com’era dalle bancarelle. Quando entrai mi sentii proiettato in un’atmosfera sospesa. L’atrio era piacevolmente fresco e attutiva il rumore proveniente dall’esterno. C’era silenzio. Troppo. Mi guardai attorno. Era tutto chiuso e una pesante cancellata impediva l’accesso ai binari deserti. Non c’era nessuno, a parte qualche corpo placidamente addormentato per terra e due donne con una tribù di bambini impegnate a togliere le fave dai loro baccelli. Su una lavagna appesa ad un pilastro erano stati scritti col gesso degli orari ormai incomprensibili. In fondo ad un lugubre corridoio incontrai un vecchietto che stava facendo roteare una scopa per scacciare un indesiderato sorcio.
“Buon giorno, mi sa dire a che ora parte il treno per Oruro?” Mi guardò come se gli avessi chiesto a che ora partiva il tappeto volante per la luna. “Ma, durante la stagione delle piogge, il treno è soppresso” rispose.
“Ahá” commentai, come per dire: “Lo sapevo, volevo solo una conferma.” Lo salutai e mi rituffai nella bolgia.
Oltrepassai il centro e sostai in Plaza Colón, allietata da fontane e da alberi di ficus. Le armoniose palme ribollivano di chiassosi pappagalli variopinti. Il quartiere compreso tra la piazza e il Río Rocha era una delle zone ‘bene’ della città, anche se in un’accezione un po’ particolare. In Sudamerica è più evidente che altrove la linea di demarcazione tra zone ricche e zone povere, ma non è questione di sobborghi o di periferie. Nello stesso quartiere può esistere un confine invisibile tra due realtà diametralmente opposte. La distanza qui non si calcola in metri, ma in denaro. Non offriva nulla d’interessante, ma c’era un internet cabinas e si trovava sulla strada per andare al Palacio de Portales, un’opulenta abitazione del barone dello stagno Simón Patiño che avevo intenzione di visitare. Scrissi alcuni messaggi di posta elettronica e mi incamminai lungo Avenida Ballivián. Ma ero troppo stanco ed accaldato per proseguire. Mi fermai in un ristorante che aveva sistemato i tavolini sull’ampio marciapiede alberato. Ordinai un piatto di surubí, una sorta di pesce gatto che vive in tutti i corsi d’acqua dei bassipiani. Nell’attesa che il cameriere col farfallino tornasse col pranzo centellinai una Taquiña gelata da mezzo litro. Tra i tavoli passavano continuamente dei venditori ambulanti coi loro campionari di penne, occhiali, cassette di musica, attrezzi per pelare le patate e caramelle. In strada, non appena scattava il rosso, gruppi di bambini si sparpagliavano tra le auto per lavare i vetri in cambio di qualche centavo. Non c’è niente di peggio di un ricco in un Paese povero, perché cerca in tutti i modi di ostentare ed esagerare il proprio benessere e si permette di trattare male questi poveracci che tentano in tutti i modi di conciliare il pranzo con la cena. Chiamai un lustrascarpe, cacciato in malo modo da un altro tavolo, e mentre eseguiva il lavoro gli offrii anche una birra, tra sguardi di condanna e commenti del tipo: “Los gringos son todos locos.” Non avevo pensato che forse era a stomaco vuoto, comunque finì la birra e mi ringraziò di cuore. Ne ordinai un’altra per accompagnare degnamente il pesce, squisitamente condito con pomodori e cipolle. Nel tavolo di fianco al mio un biondino si stava gestendo due ragazze. Mi chiese se avevo una sigaretta da offrirgli, ma era una scusa per invitarmi al loro tavolo. Lui era di La Paz, la ragazza mulatta con uno splendido sorriso era la sua novia di Cochabamba, l’altra era la cugina di lei e viveva nella regione amazzonica del Beni. Cominciammo a bere birre su birre, offrendo un giro a testa per non offendere nessuno. Erano interessati a tutto ciò che riguardava l’Italia e l’Europa e mi tempestarono di domande. Ma le mie risposte diventavano sempre più confuse. Ormai non ero più in grado di visitare la reggia di Patiño. Ricordo soltanto che ci provai abbastanza spudoratamente con la cugina, allungando le mani sotto il tavolino. Ma la cosa incredibile è che ci stava. Almeno mi sembra. Poi arrivarono due loro amici che incrementarono il numero di bottiglie vuote…
Mi ritrovai in un luogo imprecisato, seduto sulla soglia di una casa, sollecitato a sloggiare dalla padrona notevolmente incazzata perché avevo vomitato dappertutto. Pioveva ed era buio, ma non avevo la più pallida idea di che ora fosse. Ero imborraciato marcio. Un ragazzo, impietosito, mi guidò all’alojamiento, riuscendo ad interpretare i versi inarticolati che gli davo come indicazione. Sentivo le gambe muoversi da sole, ma non arrivavamo mai. Mi sembrava di camminare da ore. Giunti finalmente all’alojamiento, per ringraziarlo tirai fuori uno zippo dallo zaino e glielo regalai. Un giorno sfogliando la guida trovai due numeri di telefono, uno di Cochabamba e l’altro di Vinto – un paese a quindici chilometri di distanza -, e un nome: Remmy. Non poteva che essere il mio misterioso benefattore, ma non ho assolutamente idea di che faccia avesse. So invece che faccia hanno i protagonisti di quel pomeriggio. Sono ritratti in due fotografie, che non ricordavo nemmeno di avere scattato.
‘Mi alzo dal letto e penso al mio povero fegato, fegato, fegato spappolato…’ (Vasco Rossi). Avevo il vuoto temporale e una gran cassa in pieno rullaggio al posto della testa. Chiunque avrebbe potuto rubarmi i soldi, l’orologio o la macchina fotografica. Ma era ancora tutto lì. Ero più pentito per la figuraccia che per il mal di testa. Il mal di testa passa, la figuraccia no. Non riuscivo a dormire sapendo che fuori c’era un mondo meraviglioso che aspettava solo di essere esplorato. Mi sedetti sul letto, cercando di organizzare mentalmente l’ordine in cui avrei dovuto indossare i vestiti. Non potevo certo mettermi quelli della sera prima. Dovevo aprire lo zaino. Le palpebre mi si erano già richiuse dopo quello sforzo prolungato, ma continuavo a vedere un sacco di puntini luminosi. Tirai fuori gli abiti di ricambio e mi vestii con immensa fatica. Lavai la camicia e i pantaloni e mi trascinai barcollando al Museo Arqueológico. Il sole mi accecava. Bevvi una quantità esagerata di spremute d’arancia nei chioschetti ai lati delle strade. Non si trattava di veri e propri chioschetti. Erano carrelli del supermercato pieni di arance e di pompelmi rosa, con una spremitrice manuale applicata sopra un’asse di legno appoggiata alle sponde. La visita al museo fu molto istruttiva, ma preferii ritornare in camera per meditarci sopra.
Mi alzai alle quattro e salii su un micro diretto a Quillacollo. Alla tranca subimmo l’arrembaggio di un nutrito esercito di donne che, con la medesima cantilena modulata in due note, offrivano i loro prodotti e li vendevano poi un po’ goffamente attraverso i finestrini. Qualcuna riuscì a entrare, ma l’autista la cacciò giù a urli. La principale attrattiva della cittadina è il Santuario de la Virgen de Urcupiña, che custodisce una effigie in pietra della Madonna trovata sulla montagna dove apparve, tanto per cambiare, ad una pastorella. Il reliquiario si trova in una cappella laterale, piena zeppa di candele e di ex voto. All’esterno c’erano i soliti venditori di candele e di santini. Schivai un numero pazzesco di donne che tentavano di appuntarmi ai vestiti la medaglietta con l’immagine della Virgen e tornai in piazza.
Al ritorno il micro si fermò nei pressi della Colina San Sebastián. L’avevo notata subito, appena arrivato, visto che si innalza proprio dietro il terminal terrestre. Nei giorni seguenti fu una presenza costante, perché domina tutta la zona del mercato. Salii per il viale abbellito da balaustre e da statue e fiancheggiato da grosse agavi con le foglie carnose incise di nomi. Sulla sommità era stato eretto il monumento che commemora le donne, gli anziani e i bambini che nel 1.812 difesero la città dall’attacco degli spagnoli. Da sempre i governi cercano di accendere l’orgoglio nazionale con testimonianze di battaglie, avvenimenti storici e personaggi illustri. La toponomastica di strade e piazze è infarcita di così tante date, che si rivelerebbe più utile girare con un calendario piuttosto che con una mappa. A Cochabamba avevano deciso di strafare, perché i numeri civici venivano calcolati partendo dalla piazza ed erano preceduti dalle lettere che indicano i punti cardinali. Anche una bussola, quindi, non sarebbe stata inopportuna.
Ero deciso a riprovarci. Scesi giù dalla collina ed entrai nella stazione degli autobus. Gironzolai tra le oficinas e comprai un biglietto per domenica. Direzione Arica, Cile.
La sera prima di partire andai a mangiare in un comedor del mercato. Alcuni tavoli allineati semplicemente di fianco ad una strada trafficata. Intorno c’era il finimondo.
“Quanto costano le banane?” domandai ad un’indigena paffuta che aveva steso il suo stuoino lì vicino.
“Cinque per due pesos e mezzo.” Accettai e mentalmente eseguivo i calcoli… “Caspita, solo cinquanta centavos l’una!” Rimasi sorpreso però quando mi accorsi che la signora continuava a riempire la busta di banane. Quando fu stracolma me la porse. Mi resi conto che in realtà mi aveva detto “Venticinque per due pesos e mezzo.” Non ebbi il coraggio di spiegarle che ne volevo di meno e tornai all’alojamiento con mezzo casco di banane che pesava una cifra. “Meglio così” pensai, “domani vado in alta montagna e lì di banane non ce ne sono di sicuro. Ne regalerò un po’, vedrai come saranno contenti.” Alle due di notte delle urla strazianti mi svegliarono di soprassalto. Nell’alojamiento di fronte si stava consumando una tragedia della gelosia. Una ragazza, sostenuta moralmente da un’amica, batteva disperatamente contro la porta numero sette, imprecando e chiamando un certo Miguel. Doveva trattarsi del guapo che avevo visto entrare verso sera con una bionda ossigenata. Dalla mia invidiabile postazione, appoggiato al parapetto del balcone, seguivo tutte le fasi del dramma amoroso, cercando d’indovinare i ruoli delle persone che man mano intervenivano. La faccenda andò avanti per una buona mezz’ora, finché l’amica della ragazza tradita ed umiliata la portò via. La stanza numero sette rimase chiusa e al buio.
Il cielo era azzurro, senza una nuvola. Diedi una sbirciata al registro dell’autobus: segnava il tutto esaurito. Andai al cancello. L’autobus era lì, pronto a partire, con l’autista incravattato di fianco. “Oooh là, voglio proprio vedere cosa succede stavolta!” mormorai soddisfatto. Ma trascorse l’orario fissato per la partenza e non succedeva nulla. Andai a chiedere spiegazioni allo sportello.
“In montagna sta piovendo, bisogna aspettare le dieci” mi rispose laconica la bigliettaia.
Conobbi un diciottenne svizzero, seduto contro uno smisurato zaino appoggiato alla parete. Era preoccupato, perché se non arrivava a Santiago entro una settimana perdeva l’aereo. Continuava a passarsi la mano tra i capelli biondi e ad inveire: “Me l’avevano detto in Cile che la Bolivia è un disastro.” “Beh, non è colpa di nessuno, siamo in piena stagione delle piogge.” “Sì, ma in Cile non sarebbe successo.” “Grazie, lì non piove mai.” Din-don: “Si avvertono i signori passeggeri che tutti i collegamenti per La Paz e per Oruro sono interrotti a causa della pioggia.” La voce gracchiante dell’altoparlante scatenò un brusio di malcontento. Era una giornata meravigliosa, non riuscivamo a crederci. La bigliettaia ci consigliò di aspettare, perché forse l’autobus sarebbe partito alle sei del pomeriggio. Ma non aveva specificato di quale giorno. Restituimmo i biglietti per ottenere il rimborso e rimuginammo sul da farsi. Lo svizzero era indeciso se andare a La Paz in aereo o se dirigersi a Sucre e raggiungere Santiago passando per l’Argentina. Io non ci pensai più di tanto, gli augurai buona fortuna e salii al volo su un autobus che andava a Santa Cruz, da tutt’altra parte. Stava già uscendo dal piazzale. Lo raggiunsi di corsa insieme ad una famiglia di boliviani carica di valigie. Mi venne il sospetto che in Cile non mi volessero. Ormai avevo capito che nella stagione della piogge il mio itinerario dipendeva più dalle condizioni atmosferiche che dai gusti personali. Avevo tenuto il piumino fuori dallo zaino, a portata di mano per affrontare il clima rigido dell’altipiano. Adesso, invece, mi immergevo nella giungla. La patria delle banane! Con gli ultimi ritardatari salì anche un venditore, che si dilungò nella pomposissima presentazione di una rivista di oroscopi. Faceva caldo. Alla tranca mi tolsi gli anfibi, che insieme all’aroma di pollo e di salsine varie crearono un’atmosfera sublime. I passeggeri, devo riconoscerlo, ci tenevano alla pulizia dell’autobus su cui viaggiavano, perché dopo mangiato cacciavano piatti e sacchetti fuori dal finestrino.
La nuova statale che collega Cochabamba a Santa Cruz passando per il Chapare attraversa un paesaggio di rara bellezza. Subito risale dolci colline coltivate e verdi pascoli per le mucche cinti da alte vette, poi scende ripidissima verso le vallate umide che digradano nella fitta foresta tropicale. A più di duemila metri di quota la strada serpeggiava curva dopo curva tra montagne ricoperte di piante e di alberi mai visti e si tuffava nella zona nebbiosa. La vegetazione traboccava rigogliosa, esuberante, trattenuta a stento dalla lama d’asfalto. Non avevo mai visto nulla del genere. Le Ande per quanto alte sono pur sempre montagne, laghi e fiumi ci sono ovunque, il deserto è un’infinita distesa di sabbia e di sassi. Ma la foresta è uno spettacolo che lascia senza fiato. Si fa presto a dire le piante sono tutte uguali. E’ un mondo completamente nuovo, talmente diverso da ciò che siamo abituati a vedere che non si riesce neppure ad immaginare. Ha un che di primordiale. Appoggiai la fronte al finestrino ipnotizzato da quell’impareggiabile scenografia, desiderando che quel viaggio non finisse mai.
L’autobus si fermò dietro una lunga fila di automezzi che si era formata davanti al presidio militare per il controllo del traffico di stupefacenti. Quando arrivò il nostro turno fummo costretti a scendere per un’ispezione puramente formale di sedili e portapacchi. Mentre due militari ci controllavano i documenti, altri due aprivano il vano bagagli. Era completamente stipato. Senza l’ausilio del sensibile olfatto dei cani tutta quell’operazione risultava inutile. Dopo aver controllato alcuni pacchi sospetti, decisero che era tutto regolare. Una jeep che procedeva nella direzione opposta alla nostra venne invece fatta mettere su una piattaforma rialzata. Un meccanico con la tuta sudicia di grasso e le braccia incrostate di unto cominciò a rovistare nel cofano e nella parte inferiore del motore, seguendo le istruzioni di un militare col fucile spianato. Quella era l’unica strada asfaltata che attraversava una distesa quasi impenetrabile di giungla. Mi sembrava quanto meno ridicolo eseguire quei controlli, che alla fine si rivelavano solo una perdita di tempo. Non che il tempo avesse molta importanza, ma sembrava quasi che fosse tutto un contentino per qualcuno.
Insieme alla Colombia la Bolivia è il principale produttore mondiale di cocaina. Nella sola regione del Chapare si stima che ci siano cinquantamila ettari coltivati a coca, che producono ogni anno cento tonnellate di cocaina. Le esportazioni illegali superano complessivamente le esportazioni di tutti i prodotti legali. I due terzi circa del prodotto interno lordo boliviano provengono da quest’attività. La produzione e la raffinazione offrono centinaia di migliaia di posti di lavoro. Molti di questi lavoratori sono poveri contadini o minatori licenziati nell’ambito dei programmi di privatizzazione e di tagli alla spesa pubblica adottati a metà degli anni ottanta. Sapendo che sarebbe impopolare intervenire drasticamente in patria, la D.E.A., l’agenzia antidroga statunitense, preferisce colpire i Paesi produttori che l’hanno coltivata per millenni. Il programma per lo sradicamento della produzione di cocaina, però, non sta dando i risultati sperati, a causa della nascita di sindacati dei cocaleros, della corruzione endemica e dell’aumento strabiliante dei profitti. Dal suo inizio la produzione è addirittura aumentata. A rimetterci comunque sono sempre i poveracci. Ricchi e potenti troveranno sempre il modo di guadagnarci sopra.
Arrivammo a Santa Cruz alle undici di sera, dodici ore per percorrere quattrocentosessantacinque chilometri. Il terminal terrestre si trovava in un incrocio trafficatissimo e mi ci volle un po’ per capire quale direzione prendere per andare in centro. Come tutte le città di origine spagnola anche Santa Cruz ha un impianto viario a scacchiera. Le strade generalmente sono a senso unico, una va in un senso e quella dopo nell’altro e così via. Gli isolati sono chiamati cuadras, termine che col tempo è diventato anche un’unità di misura. Per esempio, se chiedete: “E’ lontano?” un certo posto, potete sentirvi rispondere “No, tre cuadras” oppure “Sì, tre cuadras”, dipende da chi vi dà l’informazione. Plaza 24 de Septiembre distava tredici cuadras, circa un chilometro per chi ha più dimestichezza con le misure tradizionali. Quando mi trovavo a percorrere lunghe distanze, preferivo voltare una cuadra a destra e una cuadra a sinistra, piuttosto che due interminabili tratti ad angolo retto. Magari ci mettevo di più, e salire e scendere dagli altissimi marciapiedi era una fatica sicuramente evitabile, però mi passava meglio. Arrivai sfinito e terribilmente accaldato ad un residencial di Calle Ballivián. Bussai al portone. Aprì una signora anziana con l’occhio torvo di chi è appena stato svegliato.
“Buena noche, ¿hay un cuarto señora?” Mi fulminò con lo sguardo: “No hay, ¡mañana!” Il rumore del portone sbattuto rimbombò sotto i portici deserti. In Calle Sucre trovai un residencial col personale sveglio. Mi offrirono una camera con ventilatore e colazione inclusi nel prezzo. Costava quattro volte più che a Copacabana, ma ero troppo stanco per rifiutare. Accesi il ventilatore e crollai.
AMBORÓ Durante la notte aveva piovuto e col ventilatore acceso avevo dormito bene, senza zanzare. Mi sentivo ottimamente. Il residencial non era per niente male, ma era un po’ troppo caro. Sfruttai lo sfruttabile: mi feci una bella doccia e per colazione mi rimpinzai fino a scoppiare. Poi presi lo zaino e tornai a quello della notte prima. La signora mi fissò come per studiarmi. Non credo che mi avesse riconosciuto.
“Pase, rápido.” Avevo superato l’esame preliminare. Mi condusse in un tranquillo cortile pieno di piante e di fiori e mi indicò la stanza: letto incurvato in ferro battuto con doppio materasso, mobili antichi, brocca, catino e vaso da notte. Mancava soltanto, per ovvie ragioni climatiche, la stufa col bossolo di un proiettile di cannone riempito d’acqua per umidificare l’aria. Per il resto era identica alla casa di mia nonna Ermelinda. “Alle dieci e mezza si chiude, niente alcolici, niente ospiti.” Mi lasciò la chiave e tornò dai suoi fiori. Purtroppo il patio era circondato da alti palazzi moderni, ma visto da certe angolazioni riusciva ancora a rievocare l’atmosfera dell’epoca coloniale. Anche il centro di Santa Cruz mantiene il fascino del passato, con le sue casette colorate abbellite da porticati e da balconi di legno. Ma bastava uscire dal primer anillo, la prima di sette circonvallazioni che girano intorno alla città, per rendersi conto che la realtà era profondamente cambiata. Negli anni cinquanta con aiuti umanitari giapponesi venne costruita una strada di grande comunicazione che la collegò a Cochabamba – la stessa che avevo percorso per arrivare lì – che la fece uscire dal suo lungo isolamento nella foresta pluviale incontaminata. E guarda caso, le imprese per lo sfruttamento del legname erano per la maggior parte giapponesi. I collegamenti ferroviari col Brasile e con l’Argentina contribuirono ad intensificare gli scambi commerciali. Le sconfinate estensioni di territorio coltivabile e le opportunità economiche attirarono contadini dall’altipiano e gente di ogni tipo e provenienza, trasformandola nella città più cosmopolita di tutta la Bolivia. Negli ultimi trent’anni i suoi abitanti sono aumentati di otto volte e adesso contende a La Paz il titolo di città più popolosa. E finirà per superarla. Questo sviluppo straordinario è dovuto alla fiorente agricoltura tropicale, che sta sostituendo la foresta con piantagioni sempre più estese, e ai giacimenti di petrolio e di gas naturale scoperti nei dintorni. Ma il denaro vero proviene dalla cocaina, che ha riversato immense ricchezze nel suo territorio. E’ impossibile valutare la portata di questo fenomeno, ma Santa Cruz si muove ad una velocità sconosciuta nel resto del Paese, nonostante il caldo torrido che la opprime.
Andai a cenare al ristorante Bella Napoli. Dovevo ancora rifarmi del mese e mezzo di astinenza, resa più feroce dallo smacco di Copacabana. Il nome prometteva bene, ma dopo aver visto a Oslo una pizzeria Vesuvio gestita da cinesi avevo imparato a non fidarmi troppo dell’abusato made in Italy. Nel cortile erano parcheggiate lussuose auto europee di grossa cilindrata. Era lunedì. Ai massicci tavoli di legno era seduta solo qualche coppia elegante di mezza età. Sentii due camerieri farfugliare con un forte accento partenopeo con la cuoca, una donna rotonda con grembiule, zoccoli e capelli nerissimi raccolti sulla nuca. E gol! Mangiai delle ottime penne all’arrabbiata, mentre nel tavolo di fianco al mio due loschi figuri pieni d’oro si stavano abbuffando di cozze, a più di settecento chilometri in linea d’aria dal mare.
“Tutto bbene, paisà?” mi chiese il cameriere.
“Aaah, paisà, non puoi capire” risposi, massaggiandomi la pancia con le mani.
Si sedette al tavolo a fare due chiacchiere. Gira e rigira il discorso andò a finire sulla cocaina. “Qui si sente spesso raccontare la storia di quel narcotrafficante che propose al governo di saldare il debito estero, che ammontava a ben cinque miliardi di dollari, se la produzione di cocaina fosse stata legalizzata.” “Ed è vera questa storia?” gli domandai.
“Io so solo che questi signori hanno finanziato progetti di sviluppo per costruire ospedali, scuole e anche chiese.” Si segnò. “Qui rappresentano il potere e hanno l’appoggio della gente. I contadini prendono i soldi del governo per riconvertire le colture, poi si spostano altrove e ricominciano a coltivare la coca. Lo sanno tutti. Ogni tanto distruggono qualche ettaro di coltivazioni, ma non riusciranno mai ad eliminarle. Ci sono troppi interessi dietro, dai retta a me.” Tirò su col naso, strizzò l’occhio e scoppiò a ridere. Si alzò, sparecchiò e andò via canticchiando.
“Tutto esaurito” mi comunicò la bigliettaia. Quella mattina mi ero organizzato per andare a Vallegrande, ma l’autobus delle nove era già pieno. Il prossimo sarebbe partito alle due del pomeriggio. Avevo commesso l’errore di non comprare il biglietto il giorno prima, quando ero passato per informarmi sugli orari. Cambiai programma e cercai la fermata dei trufi per Buena Vista. Sono dei taxi collettivi che collegano le principali città del dipartimento. Le fermate, semplici cartelli che indicavano le destinazioni, erano situate una dietro l’altra nei pressi del terminal, attorno ad uno spazio erboso che la quantità di spazzatura e di gente addormentata per terra rendeva difficile definire parco. Quando arrivai c’erano già un ragazzo e un vecchio campesino in silenziosa attesa. Contrattai il prezzo e infilai lo zaino nell’ultimo spazio rimasto nel bagagliaio. L’autista dovette saltare sopra il baule per riuscire a chiuderlo. Dopo pochi minuti arrivò una meticcia più larga che alta, con un borsone di verdure in mano. Nessuno si mosse.
“Perché non partiamo?” chiesi all’autista.
“Un ratito.” Non riuscivo a capire che cosa dovessimo aspettare, visto che eravamo già in quattro. Gli altri passeggeri non si erano scomposti e seguitavano ad attendere con pazienza. Dunque un motivo c’era, anche se al momento mi sfuggiva.
“C’è ancora un posto?” domandò una ragazza dai lineamenti europei. I passeggeri presero velocemente posto, i tre dietro e la meticcia davanti.
“E io?” domandai disorientato.
“Adelante” mi sollecitò l’autista, facendo spicci gesti con la mano.
Mi sedetti tra la portiera e quella montagna di carne accaldata, scomodamente appoggiato sul fianco sinistro, col braccio dietro il sedile e la maniglia che mi pungolava il rene. Ma c’era qualcos’altro che non quadrava, che diavolo ci faceva il cruscotto davanti a me? Guardai oltre i ciuffi d’insalata che spuntavano dalla borsa. Sul lato sinistro dell’auto c’era solo il volante.
“Era una macchina giapponese, l’ho riadattata per la guida a destra” mi disse fiero l’autista, che non sembrava assolutamente preoccupato dalla mancanza di strumentazione, impegnato com’era a combattere contro una coscia enorme per manovrare la leva del cambio. Dopo vari assestamenti la signora riuscì a posare il suo cospicuo peso su di me. Diventai cianotico. Con una mossa di sottobraccio abbassai il finestrino, azionai la sicura e feci tutto il viaggio con la metà del corpo praticamente fuori. Proseguimmo verso nord lasciandoci alle spalle la città. Era la stessa strada che avevo percorso due giorni prima in autobus, solo che era notte e non avevo visto nulla. Dove un tempo prosperava la fitta foresta tropicale adesso pascolavano mandrie di zebù con larghe corna e la gobba pronunciata, utilizzati come posatoio da candide egrette. Sui prati verde smeraldo spuntavano qua e là eleganti aironi che facevano una scorpacciata di cavallette e di altri insetti spaventati dai loro pesanti zoccoli. Dopo circa un’ora arrivammo a Montero. Mi ero già abituato a vedere facce strane, ma rimasi molto sorpreso di vedere un gruppo di orientali muoversi con familiarità per le vie. “Chinos” mormorò l’autista ridacchiando. Con quel termine vengono chiamati indistintamente tutti gli orientali. Mi spiegò che nei pressi di Montero si trovava la colonia giapponese chiamata Okinawa, dal nome dell’isola da cui provenivano gli immigrati che dopo la seconda guerra mondiale arrivarono qui, spaventati dall’occupazione americana. Superata Montero la strada piegò ad ovest e scavalcò il Río Piray. Dopo un’altra oretta lasciammo la statale e giungemmo a Buena Vista. Scesi solo io, piegato in due. Il trufi si allontanò in una nuvola di polvere.
Il silenzio della piazza deserta mi avvolse sinistramente. Sotto un porticato un vecchio con gli occhi fessurati dal sonno mi guardava privo di coscienza. Trovai una stanza con ventilatore in un residencial vicino alla piazza, poi andai a cercare una guida per il giorno seguente. Buena Vista non doveva essere cambiata molto da quando era stata fondata tre secoli prima. L’ufficio del Parco Nazionale Amboró sembrava abbandonato. Girai nel complesso di edifici in legno dipinti di bianco circondati da alberelli rinsecchiti e bitorzoluti, ma non trovai anima viva. Dietro la staccionata, seminascosto da un sombrero di paglia, un vecchietto mi stava osservando incuriosito dai miei atteggiamenti ladreschi. Uscii dal cancello.
“Buon giorno, non c’è nessuno?” “No.” “Sto cercando una guida… Per domani…” Silenzio. Ero turbato non tanto dalla proverbiale timidezza degli indigeni, quanto dal mezzo metro di machete che portava a tracolla. “Sa dove posso trovare una guida?” “Señor Bravo” rispose, indicando col braccio ossuto una casetta in fondo alla stradina di terra rossa, quella con la moto parcheggiata davanti. La porta era aperta, come tutte nel paese. Tanto non c’era niente da rubare e almeno in questo modo circolava un po’ d’aria. Mi fermai sulla soglia e sbirciai dentro. Una giovane donna, forse la moglie, stava giocando con un bambino sul pavimento. La mia sagoma scura contro la luce accecante della strada ebbe lo stesso effetto di un campanello.
“Buon giorno, c’è il señor Bravo?” “Sì, te lo vado a chiamare.” Si presentò un ragazzo con indosso solo un paio di jeans tagliati. Mi disse che non aveva tempo, ma che conosceva qualcuno che avrebbe potuto guidarmi nel Parco. Restammo d’accordo che l’avrebbe mandato al residencial nel pomeriggio. L’aria pesante e umida si appiccicava alla pelle. Boccheggiavo per il caldo. Su un manifesto affisso ad una porta di legno, tra i pezzi di vernice che saltavano via, una signorina svestita mi stava proponendo un rimedio miracoloso per combatterlo. Entrai. Nella stanza buia c’erano alcuni tavolini rotondi di metallo con le sedie fatte di fili di plastica intrecciati, una struttura che assomigliava ad un bancone e un frigorifero della Coca-Cola. Il manifesto fuori era l’insegna del bar. Portai fuori un tavolino e mi sedetti all’ombra di un albero di cacao a sorseggiare una birra Ducal. Il silenzio stagnante era interrotto solo da alcuni fuoristrada e dalle moto che viaggiavano rigorosamente con tre passeggeri sopra, probabile risposta boliviana al caro benzina.
A mezzogiorno gironzolai per il mercato, fradicio di birra e di calore. Mi fermai a mangiare in un ristorantino che fungeva anche da pensione. La signora che lo gestiva mi servì d’ufficio il miglior almuerzo che abbia mai mangiato: una minestra con le uova e un piatto con riso, fagioli e un’autentica bistecca. E per finire un sorso di chicha gelata servita in un bicchiere di latta. La chicha è una bevanda alcolica ottenuta dalla fermentazione del granturco, una specie di birra di mais. Il termine è di origine caraibica, i quechua invece la conoscevano come aca. Viene prodotta in tutto il Paese, ma ha il suo centro principale nella regione di Cochabamba. Ne esistono numerose varianti, prodotte con maíz morado, maíz blanco, arachidi, manioca e patate dolci. La signora riuscì ad illuminarmi sul significato di quelle misteriose bandierine bianche, spesso brandelli di plastica, che sventolavano ai lati delle strade: indicavano una rivendita di chicha. Leggermente alterato, stanco e molto accaldato pensai bene di dare una controllatina all’efficienza del materasso. Il caldo era soffocante, ma il ventilatore faceva più rumore di un elicottero. Stavo cercando di risolvere l’angosciante dilemma quando passai, senza rendermene conto, dal ragionamento ad uno stato di morte apparente.
Il risveglio fu tale solo perché riacquistai la posizione eretta. Non ero in grado di reagire. Sotto un sole implacabile mi diressi verso il Río Surutú. La strada sterrata era una lunga ferita nella foresta ormai agonizzante. Dense colonne di fumo si levavano in cielo a testimoniare l’incessante disboscamento per fare posto a nuovi pascoli per il bestiame. Il nostro desiderio sempre crescente di bistecche distrugge le foreste ad un ritmo impressionante. Più avanti alcuni operai stavano riparando un ponte distrutto dalla piena di un ruscello, ora tranquillo e glauco. La strada terminava in un piccolo villaggio circondato dalle palme. Tra le capanne di legno vagavano indisturbate galline e maiali. Quell’oasi di serenità era funestata da un’antenna televisiva artigianale posizionata in precario equilibrio su un albero. Oltrepassato il più classico dei pozzi, col secchio fabbricato con pezzi di pneumatico, chiesi ad un uomo sdraiato su un’amaca la direzione per il fiume. Mi fece entrare nel suo giardino e mi indicò un sentiero che si inoltrava tra gli alberi. Sbucai poco dopo in un’ampia spiaggia. Sulla riva del fiume alcune donne stavano lavando i panni, mentre i loro bambini sguazzavano nudi nell’acqua. Poco più in là degli operai stavano caricando un camion di sabbia, dopo averla passata al vaglio di una rete da letto. Sull’altra sponda la foresta impenetrabile indicava l’inizio dell’area protetta. Per circa trenta chilometri il fiume segnava il confine orientale del Parco. Al ritorno ottenni un passaggio sulla jeep di un tizio, costretto a tornare indietro a causa del ponte in riparazione. Mi sedetti direttamente sulle molle del sedile. Con la mano dovevo tenere stretta la portiera che insisteva ad aprirsi. Un aggeggio indefinibile, da cui pendevano dei fili elettrici, emetteva una musica gracchiante e fumosa. Sobbalzando tra le buche grosse come crateri arrivammo in piazza.
La proprietaria del residencial era ipnotizzata davanti alla televisione. Si svegliò dal torpore e mi riprese con una punta di risentimento: “Potevi dirlo subito che cercavi una guida. Non preoccuparti, ci penso io. Mio marito faceva il guardaparco e conosce alcune persone.” Probabilmente tutto il paese era già al corrente che il gringo stava cercando una guida e si erano messi in moto i meccanismi delle amicizie e dei nepotismi.
“Ah, non lo sapevo, grazie tante.” Sfoderai un perfetto sorriso da idiota e le ordinai una birra.
“Serviti pure, il frigo è là.” Presi una bottiglia da un litro e andai a sedermi fuori, all’ombra del portico sostenuto da esili colonnine di legno. In cielo non c’era una nuvola. Mi tolsi gli anfibi ed iniziai ad ingrassarli. Faceva così caldo che il grasso si era liquefatto. Il modo migliore per conoscere un paese di quelle dimensioni è proprio quello di stare fermi in un buon punto d’osservazione e lasciare che la vita ti scorra davanti, senza fretta, con le orecchie ben aperte per captare i suoni, i rumori e gli immancabili pettegolezzi. Scoprii che Buena Vista era abitata da tantissimi giovani. Alla radio non si parlava d’altro che dell’imminente Carnevale e trasmettevano in continuazione la musica marziale e trascinante delle bande che accompagnano le sfilate. Al termine della seconda birra la signora mi spiegò dove potevo trovare la famosa guida, tale Ramón: “Abita in una casa bianca, vicino alla piazzetta là dietro la chiesa.” Buena Vista non è certo una metropoli, ma quella indicazione mi sembrò piuttosto nebulosa. Dopo diversi tentativi e qualche domanda trovai la casa, ma non lui.
“Torna stasera alle nove, e comunque non fa più la guida” mi rispose una tipa scorbutica. “Hai provato a chiedere a Julio?” “Non so neanche chi sia.” “Ti può accompagnare lui. Lo trovi vicino all’ufficio del Parco, lì…” “Sì, sì, grazie, so dov’è.” La salutai e ritornai sui miei passi.
“E se vedi Ramón digli che il lavandino continua a perdere” mi urlò da lontano.
Cominciavo ad essere stufo di venire rimpallato da un posto all’altro alla ricerca di una fantomatica guida. Trovai Julio seduto con altri ragazzi in una baracca circondata da motociclette. L’impressione fu pessima: zero entusiasmo e proposta di partire alle nove, quando la temperatura raggiungeva già i trenta gradi. Intanto che mi trovavo da quelle parti provai a ripassare da Bravo, che nel frattempo aveva indossato una camicia a fiori e macchie d’unto. Le mie impressioni non erano poi così avventate, perché quando gli nominai Julio mi assicurò che alle otto e mezza avrebbe mandato un altro al residencial.
Andai a mangiare al solito ristorantino. Non ci fu nemmeno bisogno di ordinare, la signora mi servì quello che c’era e non lesinò l’ottima chicha. Mi feci una doccia gelata e mi sedetti sotto il porticato per godermi la notte stellata. Uno sciame di falene svolazzava intorno all’unico lampione della strada. Dalla foresta circostante giungeva un odore denso, umido, un’aroma purulento di erbe e grida d’animali. La guida si presentò in perfetto orario. Si chiamava Antonio, era un meticcio di diciannove anni con la pelle scura e i capelli nerissimi. Ci accordammo sul prezzo e ci salutammo, dandoci appuntamento per il giorno dopo alle sette.
Per tutta la notte degli odiosi galli zampettarono sul tetto di lamiera ondulata della mia camera. E per essere proprio sicuri di non farmi dormire si misurarono in una competizione canora. Uscivo ogni volta più incavolato e lanciavo nel buio mollette e zolle di terra. Ma smettevano solo per ricominciare non appena mi riaddormentavo.
Alle sette Antonio era già sotto il portico che mi aspettava. Il cielo di un azzurro smaltato preannunciava una giornata afosa. Il sole sferzava il paesetto più che mai desolato nella luce abbagliante del mattino già caldo. In giro c’era poca gente. Andammo al mercato per comprare le provviste. Poi montammo sul taxi di un suo amico che ci aspettava in piazza e percorremmo trentacinque chilometri di strada sterrata fino a Las Cruces, una località che esisteva solo sulla mappa. Restai d’accordo col taxista che si sarebbe fatto trovare lì il giorno dopo alle dieci.
Un sentiero che qualcuno aveva avuto il coraggio di percorrere con un mezzo dotato di ruote si addentrava nella foresta, interrotta qua e là da un pascolo recintato o da qualche campo coltivato. Il disperato bisogno di terre da coltivare è il problema principale del Parco. I contadini avanzano all’interno della zona protetta tagliando e bruciando alberi. Nel 1995 duecentomila ettari di Parco, circa un terzo della sua estensione, furono riclassificati come Área de Uso Múltiple e aperti all’agricoltura, all’estrazione di minerali e allo sfruttamento del legname. Ci trovavamo in quest’area. Dopo circa un’oretta giungemmo al Río Surutú. Non esistevano ponti e l’unico modo per passare dall’altra parte era guadarlo. Ci togliemmo le scarpe e ci arrotolammo i pantaloni al ginocchio. Delle lunghe canne piantate nel fiume indicavano un tratto di acqua bassa. Per fortuna le piogge non erano state abbondanti: ci bagnammo solo fino a metà gamba. Più a valle una mandria di bovini gibbosi entrò nel fiume, ridiscese per un tratto il suo corso e risalì poi sull’altra sponda. In lontananza il Cerro Amboró, la montagna alta 1300 metri che dà il nome al parco, interrompeva la piatta monotonia della foresta. Tre chilometri più avanti arrivammo a Villa Amboró, una radura stupendamente immersa nella foresta. Dalle finestre della piccola scuola di legno spuntarono le facce sorridenti dei bambini, che ci salutarono al nostro passaggio. Soffrivo terribilmente per il cocente caldo tropicale, reso ancor più fastidioso dai nugoli di insetti, i famigerati zancudos, che mi bombardavano in picchiata accanendosi su ogni centimetro di pelle scoperta. Attraversammo un paio di volte il Río Macuñucu, un affluente del Río Surutú, e seguimmo il suo corso tra gli alberi. Il sole era già alto, ma sotto la fitta vegetazione i suoi raggi penetravano a malapena.
Alle undici arrivammo al campo delle guardie forestali. Era costituito semplicemente da un lungo capanno costruito con assi di legno e lamiera. Di fronte c’era un’ampia tettoia rettangolare di foglie di palma, sorretta da robusti pali. Sul lato che dava sul fiume si trovava una parete di fango, l’unica, che proteggeva il focolare e il forno d’argilla. Il focolare altro non era che un cerchio di pietre. Il forno, invece, era una semisfera di adobes rivestita d’argilla di circa un metro di diametro, appoggiata su un’impalcatura di legno. Assomigliava ad un igloo. L’unica imboccatura, annerita dall’uso, fungeva anche da camino. Per la semplicità di realizzazione era presente in tutte le case, forniva eccellenti prestazioni con una minima manutenzione. Non trovammo nessuno. Ci riposammo su due assi di legno grezzo tutte inarcate, di fianco ad un cumulo di mattoni da cui spuntavano ciuffi d’erba e un copertone da camion. Antonio mise in mostra le sue straordinarie doti di cuoco aprendo con incredibile maestria due scatolette di carne ed affettando un ottimo pane di mais. Lasciammo lì gli zaini e seguimmo un breve sentiero che scompariva nell’alveo pietroso del Río Macuñucu. Mi fermai ad osservare una processione di formiche che trasportavano pezzetti di foglie tra le potenti mandibole. La ricchezza vegetale che mi circondava traeva in inganno: il suolo era grigio, sabbioso, apparentemente sterile. Adesso capivo perché questo ecosistema fragile non sopravvive alla coltivazione intensiva o all’allevamento. Ne avevo sempre sentito parlare, ora me ne rendevo conto di persona.
Risalimmo il río per un paio di ore, saltellando sulle rocce che affioravano nell’acqua limpida e facendo la spola tra una riva e l’altra per aggirare i fondoni. La foresta ci aggrediva sui due lati, a picco sul fiume, con alberi monumentali ricoperti di muschio, di felci e di liane. Avanzavamo in silenzio, anche se qualche volta la perdita d’equilibrio ci costringeva a indesiderati pediluvi, cui seguivano sonore imprecazioni. Riuscimmo comunque a vedere una lontra, milioni di farfalle blu morfo dai riflessi metallici, diversi guanays, una specie di cormorano, e molti pesci che nuotavano nelle pozze d’acqua calma. Quando ci fermavamo a riposare, impertinenti farfalle rosse ed arancioni ci atterravano sulle braccia per succhiare il nostro sudore salato. Antonio sembrava imperturbabile, mentre io facevo fatica a trattenere l’eccitazione. Abbandonammo il fiume e ci inoltrammo nella foresta. Antonio si ricordava di una deviazione per raggiungere una serie di cascate. Ma il sentiero presto sparì, inghiottito dalle felci e dalle palme che si moltiplicavano tra gli alberi. Ci trovammo davanti un muro compatto ed impenetrabile di giungla. Non potevamo far altro che tornare indietro. Da una curva del fiume sbucarono tre tizi con lo zaino in spalla, che procedevano goffamente sulle pietre scivolose. Era una coppia di turisti canadesi con la loro guida. La notte prima avevano dormito in tenda vicino alle cascate. Antonio scambiò due parole col collega, che gli raccontò dell’incontro ravvicinato con un puma avvenuto quella mattina in riva al ruscello. Ne parlava con orgoglio, ma dal tono si capiva che si era preso un bello spavento. Ritornammo al campo cercando di ripercorrere il percorso dell’andata, ma la diversa prospettiva ci faceva finire spesso in tratti d’acqua alta e ci costringeva a ripetute deviazioni.
Montai la tenda in un tratto pianeggiante vicino alla tettoia, sotto lo sguardo divertito dei due guardaparco, che nel frattempo erano tornati dal consueto giro di perlustrazione. Al termine di quell’ultima fatica presi il sapone e la salvietta e tornai al fiume. Scelsi un tratto con piccole rapide e mi immersi nudo nelle sue fresche acque. Mentre ero intento a godermi l’idromassaggio, cinque pecaríes guadarono il ruscello a poche passi da me e scomparvero nel folto della foresta. Sono suini simili a cinghiali col pelo nero e una striscia bianca sul petto. Ma a differenza dei cugini d’oltreoceano hanno i canini rivolti verso il basso. Poco dopo, in alto sul sentiero, transitarono i due canadesi. Gli zaini avevano rallentato i loro passi. Passarono oltre senza accorgersi della mia presenza. La guida, invece, si fece largo tra le fronde e venne giù di qualche metro.
“¿Precioso eh?” “Stupendo” gli risposi.
“Devi stare attento, però.” “Perché?” Ormai sapevo che le raccomandazioni il più delle volte servivano unicamente per impressionare gli stranieri.
“Beh, in questi fiumi vive il candirú. E’ un pesce così minuscolo che può infilarsi ovunque.” “Ma va?” “Sì, ad un mio amico gli è entrato dentro de la pierna. Non è stata un’esperienza piacevole, te lo assicuro” mi disse ridendo intanto che risaliva.
Dopo cinque secondi ero fuori, sicuro che anche stavolta lo scopo era solo quello di impressionarmi. Figuriamoci se ci credevo. Mi sdraiai su una calda roccia tonda per asciugarmi. Poi mi rivestii.
Un guardaparco si stava rilassando su un’amaca annodata alle travi della tettoia. Gli raccontai entusiasta l’episodio dei pecaríes.
“Sono scappati perché si trovavano a valle e hanno sentito il tuo odore. Non bisogna sottovalutarli, però, perché possono essere pericolosi. Comunque non è difficile vedere degli animali selvatici qui, basta restare in silenzio. Spesso la mattina trovo delle orme fresche di giaguaro sulle rive melmose del río, proprio qua davanti. Ma ci credi se ti dico che non ne ho mai visto uno?” Rise. “Ci vuole una gran fortuna per vederli. Sono dieci anni che faccio questo lavoro, due settimane di fila qui e una settimana a casa. E non ne ho mai visto uno. E’ buffo, no?” “Dipende. Quel ragazzo stamattina si è trovato davanti un puma e a momenti gli prendeva un colpo.” “Ah sì, Enrique. Me l’ha raccontato proprio adesso, avrei voluto vederlo” e scoppiò in un altra risata. “A proposito, hai fatto il vaccino per la febbre gialla?” “Sì, perché?” “Nooo, niente. Il mese scorso sono venuti dei turisti… Fra l’altro, aspetta… Mi sa proprio che fossero italiani. Be’ insomma, uno di loro si è ammalato. L’hanno portato all’ospedale di Santa Cruz e dopo una settimana è morto di febbre gialla.” Ogni reazione mi si strozzò in gola. E lo raccontava così, con una calma incredibile! Ma che posto era quello, dove si correva il rischio di diventare la colazione di un puma, di morire per la puntura di una zanzara o di perdere l’uccello per colpa di un pesce? Mi spruzzai una dose massiccia di repellente contro gli insetti, potenza extreme, e aiutai Antonio a scaldare sul fuoco una minestra liofilizzata, che costituì la nostra cena insieme a due scatolette di sardine. Antonio stese l’amaca sotto la tettoia. Io me ne andai in tenda a prendere la solita razione di pioggia notturna.
Quando il cielo passò dal nero al blu notte, mi alzai, tirai un filo sotto la tettoia e stesi la tenda. Nelle sei amache tutti dormivano profondamente. I nuvoloni erano passati. Era incredibile che piovesse sempre di notte. Si alzò anche Antonio. Divorammo tutti i biscotti e il latte condensato, raccogliemmo le nostre cose sparse in giro e ripartimmo. Il cammino nella foresta era reso pesante dalla pioggia. Con una marcia forzata che mi troncò la gambe arrivammo alle dieci a Las Cruces. Il taxista era già lì, impegnato a lavare la macchina con l’acqua di un canale. Antonio sembrava così disgustosamente fresco e riposato che mi venne voglia di farlo tornare a piedi. La strada sterrata per Buena Vista era quasi impraticabile a causa del fango e delle pozzanghere di acqua rossa che si erano formate di notte. Arrivammo dopo un’ora. In albergo recuperai il resto della roba e preparai lo zaino. Mi accorsi di aver dimenticato lo spago nella tettoia. Ne comprai altri tre metri in una tienda, di nylon azzurro, e andai in piazza ad aspettare il primo mezzo per Santa Cruz. Passò un trufi diretto a Montero. Stavolta viaggiavo dietro. Mi lasciò alla fermata proprio di fianco ad un altro trufi in partenza per Santa Cruz. Come un’antica staffetta smontai da uno e salii sull’altro quasi senza fermarmi.
Al terminal di Santa Cruz comprai un biglietto per Vallegrande. Mi rimaneva giusto il tempo per mangiare qualcosa. Non c’era che l’imbarazzo della scelta. Entrai in uno dei tanti ristorantini e mi sedetti ad un tavolo. La radio annunciò che in occasione del Carnevale sarebbero stati distribuiti quarantamila profilattici e continuò, col solito contorno musicale, presentando il calendario delle sfilate e delle manifestazioni. C’era un clima di spasmodica attesa.
VALLEGRANDE Per arrivare a Vallegrande bisogna percorrere la vecchia statale che collega Santa Cruz a Cochabamba. Per i primi novanta chilometri segue la stretta valle del Río Piray, selvaggia e spettacolare, in una posizione geografica particolare alla confluenza tra la regione andina e il bacino delle Amazzoni. Il vecchio autobus seguiva la parabola discendente del sole, cigolando sulla strada stretta e tortuosa fiancheggiata da strane formazioni di roccia rossa. A Mairana, a circa centotrenta chilometri da Santa Cruz, l’asfalto lasciò il posto ad una disastrata pista bianca e polverosa. La stanchezza cominciava a calarmi addosso, accentuata dall’esasperante lentezza con cui ci muovevamo, tanto che il paesaggio affascinante, purtroppo, mi lasciava quasi indifferente. Quando si viaggia su un autobus boliviano bisogna tener presente che il tempo di percorrenza si aggira sui cinquanta chilometri orari sulle strade asfaltate e rettilinee, e sui trenta sulle strade di montagna o non asfaltate. Dopo sei ore avevamo percorso sì e no duecento chilometri. A Mataral lasciammo la statale e svoltammo a sinistra. Erano calate le tenebre e non potevo più contare sul panorama per distrarmi. Non sopportavo più i bambini coi loro piagnistei e le estenuanti soste per far salire altri passeggeri con altri bambini. Non appena l’autobus si fermava venivamo presi d’assalto da orde di battagliere venditrici. Indipendentemente dall’orario c’era sempre qualcuno che gradiva uno spuntino servito in una busta di plastica trasparente. La spossatezza mi aveva reso insofferente alla mania tipicamente boliviana di tenere i finestrini chiusi anche quando la temperatura interna raggiunge livelli di guardia. Per loro era meglio cotti che impolverati. Mi aggrappai alla speranza di trascorrere la notte nel clima fresco della montagna e passai il resto del viaggio cercando di dormire. Arrivammo a Vallegrande alle nove e mezza, sotto un pesante acquazzone. Otto ore di viaggio per percorrere duecentocinquanta chilometri. Dopo una bella doccia ristoratrice tirai il filo di nylon tra la spalliera del letto e la maniglia della finestra e ci stesi sopra la tenda ancora umida dalla notte prima. Mi tuffai sul letto e mi addormentai prima ancora di sentire il tonfo.
La mattina una spessa cortina di nebbia ammantava le colline boscose a più di duemila metri di quota. Puntai dritto verso il mercato coperto che si trovava nei pressi della piazza e pareggiai i conti con la fame arretrata ingozzandomi di pan dulce e bevendo una tazza di caffelatte bollente. Quando finalmente cominciai a ragionare, cercai la fermata del micro per Pucara che mi aveva indicato il gestore del residencial. Chiesi conferma ai passanti, perché la fermata altro non era che un insignificante crocevia delimitato da basse casette di adobes nella parte alta del paese. Molti camion aspettavano in fila il loro carico umano da trasportare nei villaggi dei dintorni. Mi sedetti sulla soglia di una casa ad osservare il viavai di operai e di campesinos che si spostavano per lavoro con attrezzi e mercanzie. La nebbia si era dissolta rapidamente lasciando il posto ad un bel cielo terso. Il sole cominciava a scaldare, quasi a volermi rammentare che era il corrispettivo australe del sole di ferragosto. Dopo un’ora di attesa, inocato a fissare le piastrelle esagonali di cemento che lastricavano la strada, decisi che il ritardo era troppo perfino per la Bolivia. Domandai un po’ in giro e stilai un sunto mnemonico delle risposte: “Ahorita llega” superava di poco “No sé”. Probabilmente, a causa della pioggia della notte scorsa, quel giorno il micro non sarebbe partito. Rassegnato, cedetti all’offerta di un taxista, che partì tutto contento dopo aver ottenuto la metà del prezzo che mi aveva chiesto inizialmente. Non sono un gran intenditore di macchine, ma credo che il valore del mezzo dipendesse di volta in volta dalla quantità di benzina contenuta nel serbatoio. Impiegammo due ore per arrivare a Pucara, percorrendo quarantacinque chilometri di strada dissestata che ebbe la meglio sul copertone di una ruota posteriore. L’inatteso arrivo del taxi mise in agitazione un gruppo di persone, che attendevano speranzosi un passaggio per Vallegrande. Non feci in tempo a smontare che abitacolo e bagagliaio erano già pieni.
Mi guardai intorno e andai in una tienda sotto i portici della piazza. Mentre bevevo una soda, termine generico con cui in Bolivia vengono chiamate le bibite gassate, chiesi al vecchio gestore informazioni per raggiungere La Higuera.
“Non ti puoi sbagliare, c’è solo una strada.” “E’ lontana?” “Como quince kilómetros.” “Porca… Ci sono dei mezzi?” “Solo camiones, ma la mattina presto. A quest’ora già cominciano a tornare indietro.” “Che culo!” pensai. Salutai il vecchio e mi incamminai. Arrivato in cima ad una collinetta contemplai Pucara, una macchia marrone di tegole e adobes in mezzo a dolci declivi di un bel verde intenso. La strada continuò a salire per cinque chilometri, poi, valicato un passo, prese a scendere leggermente sull’altro versante. Il percorso era allietato dal volo di numerosi rapaci e di coloratissimi pappagalli e dalle occhiate curiose di qualche bambino. In due ore e mezza arrivai in vista di La Higuera. Dall’alto vidi con disappunto due camion risalire la valle. Speravo che non fossero gli ultimi della giornata. L’indomani avrei dovuto assolutamente lasciare la stanza, già prenotata per il Carnevale, e il ritorno a piedi sarebbe stato massacrante, praticamente impossibile.
La Higuera è una strada fiancheggiata da semplici casette di fango coperte da tetti di paglia. Il 7 ottobre 1967 le truppe governative del dittatore René Barrientos, che si erano avvalse dell’addestramento della C.I.A. E della consulenza di Klaus Barbie, il famigerato nazista conosciuto come il macellaio di Lione, riuscirono a catturare Che Guevara, lo condussero ferito nella scuola del villaggio e lo uccisero il giorno seguente per decisione ufficiale del governo fantoccio. Il suo cadavere venne quindi trasportato a Vallegrande, esposto al pubblico e successivamente sepolto in un luogo segreto sotto la pista del piccolo aeroporto. Innumerevoli murales ricoprivano i muri intonacati delle case con brani della celebre canzone di Carlos Puebla e con disegni tratti dall’ancor più celebre fotografia di Alberto Díaz Gutiérrez detto Korda. Nella parte alta del villaggio c’è una piazzetta recintata dedicata alla sua memoria e, di fianco, un busto di bronzo alto circa un metro e mezzo. Sulla grossa roccia che serve da basamento una mano anonima aveva scritto con della vernice rossa Tu ejemplo alumbra el nuevo milenio. In fondo al villaggio si trovava l’unico edificio restaurato del villaggio: la scuola dove fu tenuto prigioniero il Che, attualmente trasformato in ambulatorio. Era chiuso. Entrai nella tienda in cerca di cibo e di informazioni. La signora dai lunghi capelli grigi mi servì quello che aveva: biscotti e soda. Poi si sedette di fronte a me e cominciò a narrarmi gli avvenimenti di trent’anni prima: “Allora avevo dodici anni. Mi ricordo ancora tutti quegli uomini in divisa che arrivarono qui sui camion. In quei giorni avevamo sentito degli spari nelle quebradas. Ci avevano avvertito che c’erano dei pericolosi bandoleros in giro. Mio padre mi chiuse in casa coi miei fratelli. Nessuno sapeva che cosa stava succedendo. Ricordo anche la mia meraviglia quando vidi un elicottero: non ne avevo mai visto uno prima. Quella notte i soldati si ubriacarono e fecero festa. Poi se ne andarono, ma per altri dieci giorni rimasero nei dintorni. Dicevano che stavano cercando altri banditi che erano riusciti a scappare e che avrebbero dato dei soldi a chi li avesse trovati. Ho saputo poi che sono riusciti a salvarsi.” Lo raccontava con indolenza, sospirando per il tempo passato più che per l’evento storico, consapevole di averlo vissuto senza nemmeno rendersene conto. Mi consigliò di chiedere a don Pedro le chiavi della scuola e mi spiegò dove rintracciarlo. Stava aiutando un amico a caricare un camion, che partì quasi subito. Ma mi assicurò che a metà pomeriggio sarebbe passato l’ultimo. Mi consigliò di aspettarlo davanti alla scuola intanto che andava a prendere le chiavi. Mi sedetti all’ombra, sulla panchina addossata al muro dipinto di giallo. In quel villaggio sperduto in mezzo a piacevoli montagne verdi regnava la quiete più assoluta. Una scritta diceva No a la comercialización del Che. Purtroppo il guerrigliero argentino y cubano è diventato un’abusata immagine da poster e nessuno lo considera invece per quello che è stato veramente: un arguto economista. Passata un’ora non ebbi più dubbi sul bidone che mi aveva tirato don Pedro.
Il camion arrivò ballonzolando sulle buche e si fermò proprio lì davanti. Scaricò frutta e ortaggi e caricò sacchi di verdure e scatoloni. Dopo mezz’ora era pronto per ripartire. Mi issai sul cassone e mi posizionai nell’angolo in fondo. Insieme a me viaggiavano sei donne, un bambino e una povera gallina con le zampe legate, che non riusciva a stare in piedi per via dei continui scossoni. L’autista guidava come un pazzo. Ad ogni curva e ad ogni buca, cioè sempre, eravamo costretti a tenerci ben saldi alle sponde o alla trave centrale. Imparai a mie spese che in quella posizione tutti i sussulti e le contorsioni sono accentuate, ma ormai non c’era più posto davanti. Contemplai per l’ultima volta la Quebrada del Yuro, il canalone boscoso teatro dell’ultimo combattimento dell’Esercito di Liberazione Nazionale della Bolivia. Nella luce dorata del tramonto due avvoltoi planavano pigramente sopra di noi, librandosi sulle verdi vallate. Durante una sosta per far scendere alcuni passeggeri chiesi ad una campesina se poteva farmi una foto. Era imbarazzatissima. Le sue amiche nascondevano timidi sorrisi dietro le mani. Parlava uno spagnolo stentato e non aveva la minima idea di come si usasse una macchina fotografica, ma riuscì ugualmente a farmi una bellissima foto. Vinsero in parte la loro timidezza e mi offrirono dei dolcetti di Carnevale fatti con miele e mandorle. A Pucara ci fu un ricambio di passeggeri e di merci. Un vecchio a terra mi passò una capra e la caricai a bordo prendendola per le corna. Gli zoccoli scivolavano sul fondo di lamiera, così passò il resto del viaggio sdraiata in un angolo. Ogni tanto veniva bersagliata da un bagaglio vagante, che la faceva lamentare con una schietto accento boliviano: “Beeee, beeee.” Attaccato saldamente alla traversa guardavo il panorama che si apriva a trecentosessanta gradi, sopraffatto dal ruggito del motore. Arrivammo a Vallegrande a tempo di record, impolverati e col cuore in gola.
Mangiai un disgustoso pollo mezzo crudo in un locale giustamente vuoto, mentre fuori gli incessanti lanci di acqua e di schiuma annunciavano che il Carnevale, finalmente, sarebbe cominciato il giorno dopo.
Alle sette andai alla fermata degli autobus e salii sul primo, scassatissimo mezzo diretto a Santa Cruz. Alla luce di quella splendida giornata di sole potei apprezzare l’aspro paesaggio che mi ero perso all’andata. La pianura era punteggiata da maestosi cactus cereus alti fino a cinque metri, veri e propri alberi con le spine che ci accompagnarono fino a Pampa Grande. Una leggera brezza trascinava nel cielo cotonose nuvole bianche. Gli scossoni erano tali che non riuscivo a scrivere. I miei compagni di viaggio sembravano non accorgersene. Con abilità ed esperienza si dedicavano alle due occupazioni principali: mangiare e dormire.
Fui l’unico a scendere a Samaipata. L’autobus mi lasciò sulla statale, nuovamente asfaltata dopo quasi centoventi chilometri di strada sterrata. Proprio di fronte l’insegna di un hotel svettava su un lussuoso edificio moderno. “Mmm, troppo caro” considerai. Mi incamminai verso il centro cittadino, che si trova circa mezzo chilometro a sud della statale. Provai in tutti gli hostales, hosterías, residenciales, casas de huéspedes, alojamientos, posadas. Erano tutti occupati per il Carnevale. Samaipata è un tranquilla località turistica che attira i cruceños stressati dalla vita frenetica e dal caldo opprimente del capoluogo. Si trova a 1640 metri di altitudine e gode di un clima piacevole, anche se il caldo di mezzogiorno mal si conciliava con attività faticose, tipo girare come una trottola con la zavorra sulle spalle. Ritornai stanco e sconsolato alla parada dell’autobus. Feci l’ultimo tentativo nell’hotel snobbato in precedenza.
“Avete una camera per stanotte?” domandai ad un’elegante signora, sottolineando il fatto che volevo fermarmi solo per una notte.
“Vediamo… Sì, ce n’è una.” “E… Quanto costa?” Irrigidii i muscoli facciali per ripararmi dall’imminente mazzata.
“Dieci dollari.” Si vede che sgranai gli occhi, perché si affrettò ad aggiungere: “Bagno privato e colazione compresa.” “Ah beh, allora!” pensai. Con quella cifra avrei potuto dormire una settimana in una bettola o tre giorni in un alberghetto modesto. Ma quello che più mi sconvolgeva era il prezzo espresso in dollari. In Sudamerica i dollari hanno quasi valore legale e sono preferiti alle svalutatissime monete locali. Per sicurezza viaggiavo sempre con un centinaio di dollari in contanti, nel caso in cui non fossi riuscito a cambiare i travellers’ cheques. Ma li custodivo gelosamente solo per i casi di necessità. Quando potevo preferivo pagare in valuta locale. Consegnai l’equivalente di dieci dollari in bolivianos e presi possesso della salatissima stanza.
Scesi le scale dell’hotel in boxer da mare e ciabatte, in mano una borsa di vestiti e un sapone da bucato acquistato ad Oruro. “C’è un posto dove posso lavare questa roba?” chiesi alla signora. Probabilmente era la prima richiesta del genere che riceveva. Ci pensò su, poi chiamò a gran voce una cameriera che mi accompagnò nel cortile sul retro. Sotto alcuni alberelli di mango c’era una vecchia vasca da lavanderia con sapone, spazzola di legno, catini di plastica e un bidone di benzina pieno d’acqua. Condivisi l’uso del rubinetto con due bambini biondi, che a turno venivano a riempire dei palloncini d’acqua. Mi avevano eletto annodatore ufficiale del cortile. Cinque minuti per prepararli, un secondo per tirarseli addosso. Ma al termine del bucato, non so come, ero più bagnato io di loro. Stesi i vestiti sui fili assicurandoli con delle mollette, poi andai a mangiare in un ristorantino affacciato sulla statale, a pochi passi dall’hotel.
Spaparanzato all’ombra di un ombrellone di tela con scritte pubblicitarie sorseggiai una Ducal da mezzo litro, osservando lo scarso traffico e l’inattività dei conducenti dei trufi. Mi alzai prima di addormentarmi. Attraversai la strada all’altezza di un rompe muelle, come vengono chiamati i dossi artificiali limitatori di velocità, e aspettai col pollice alzato nella classica posizione del dedo.
Da queste parti l’autostop non è esattamente così come lo intendiamo noi, perché chi dà un passaggio il più delle volte chiede una ricompensa. Diedi due bolivianos ad un simpatico camionista e seguii una stradina in salita, che si inoltrava in un paesaggio bucolico di ruscelli e di boschi dove svolazzavano rumorosi parrocchetti verdi. Dopo cinque chilometri giunsi alla base di un nudo scoglio roccioso, che spuntava come per incanto dalla vegetazione. Sulla sommità si trova El Fuerte, un antico insediamento preincaico così battezzato dai primi conquistatori spagnoli che pensavano fosse stato costruito per scopi difensivi. L’attrattiva principale è un pietrone lungo un centinaio di metri, su cui sono scolpite nicchie, scalinate, sedili, vasche, bassorilievi zoomorfi di puma e di serpenti e due enigmatici solchi paralleli. Nessuno conosce il significato esatto di El Fuerte, tutti però concordano col fatto che le incisioni e il perfetto orientamento est-ovest della roccia abbiano avuto sicuramente un significato religioso. Nei pressi sono stati rinvenuti resti di abitazioni, templi e piazze in gran parte ancora sepolti dalla vegetazione. Ero l’unico fortunato visitatore di quella giornata. Mi sedetti sul mirador per godermi l’affascinante paesaggio andino che digradava verso le pianure orientali.
Ritornai con calma in albergo e mi preparai al sabato sera di Carnevale. Nel bagno da dieci dollari mancava lo specchio. Andai alla recepción per reclamare. La signora, senza minimamente scomporsi, mandò a chiamare la cameriera. In un attimo mi portò uno specchio rettangolare con una cornice di legno. Lo incastrai tra il muro e il lavandino. Ingobbito mi spalmai la schiuma sul viso e cominciai a radermi. Fu allora che mi accorsi di un particolare alquanto seccante: i rubinetti erano asciutti. Provai con la doccia. Niente da fare. In corridoio incrociai la cameriera.
“Senta, c’è un problema.” “Sì?” “Non c’è acqua.” “Ah” rispose meravigliata. Probabilmente pensava che quella schiuma bianca facesse parte del mio costume da Babbo Natale.
“Potrebbe portarmi una bottiglia d’acqua?” “Subito.” La seguii con lo sguardo mentre scendeva le scale, poi tornai in camera, colpito da quelle incredibili doti intuitive.
Scesi giù bello sbarbato e aspettai che l’erogazione riprendesse. Celebrai anche un rito propiziatorio sacrificando una birra. Niente da fare. La signora si giustificò dicendomi che episodi del genere succedevano spesso, perché Samaipata si trova in una zona relativamente arida. Non era difficile, però, che le autorità municipali avessero deciso di chiudere i rubinetti per impedire gli sprechi d’acqua che caratterizzano il Carnevale boliviano. Abbandonai l’idea di farmi la doccia e andai in Plaza 15 de Diciembre. Dal balcone dell’alcaldía, seminascosto da uno striscione della birra Ducal, il sindaco stava presentando alla folla indemoniata i carri allegorici che sfilavano lentamente attorno alla piazza. Quella sera sarebbe stata eletta la Reina del Carnaval, scegliendola tra le reginette delle diverse comparsas che in precario equilibrio sulle elaborate scenografie regalavano splendidi sorrisi al pubblico. I carri erano preceduti dalle bande e circondati da coloratissimi e scalmanati giovani, che danzavano ritmicamente a suon di musica. Tra gli alberi, le panchine e la fontana infuriava una cruenta battaglia di bombe d’acqua e di schiuma, tutti contro tutti. Proprio quando i festeggiamenti stavano entrando nel vivo con l’elezione della regina, si scatenò un diluvio degno di Noè, che provocò un fuggi fuggi generale. Scappai verso Calle Bolívar e mi riparai sotto i porticati in stile coloniale. Aspettai davanti ad una discoteca che smettesse di piovere. Macché, invece di diminuire aumentava d’intensità. La temperatura era precipitata. A malincuore mi lanciai verso l’albergo. La tanto desiderata doccia alla fine era arrivata. Un po’ in ritardo, va beh, un tantino fuori luogo, claaaro, ma ero stato esaudito. Ero un mago. La distanza fu sufficiente a farmi arrivare completamente bagnato, coi vestiti pesanti come un’armatura.
“Piove?” mi chiesero alcuni burloni ospiti dell’albergo. Quando si placarono le risate mi invitarono a bere una birra con loro.
“Mi cambio e arrivo.” Passai il resto della serata ad assistere ad una discussione politica sul perché la Bolivia, che è così ricca di materie prime, viva in realtà in condizioni di povertà e di arretratezza.
“E’ colpa della corruzione, che impedisce lo sviluppo” sentenziava un vecchio di Santa Cruz.
“Magari fosse solo quello” gli rispose un giovane studente di Sucre. “L’affare in realtà è molto più complicato. Ci sono Paesi specializzati nel guadagnarci e altri destinati a rimetterci, è la legge del capitalismo. Il sottosviluppo di tutta l’America Latina non è una tappa dello sviluppo: è la sua conseguenza. Le ricchezze della Bolivia hanno sempre generato la nostra povertà per accrescere la prosperità dei gringos…” “Gringos, sempre gringos. Non puoi negare che ci danno parecchi aiuti economici. Che poi, guarda caso, spariscono. La colpa è tutta dei politici” ribatté il vecchio.
“E’ vero. Ma non sono i politici a governare. Loro si limitano a rubare le briciole. In Bolivia non ci sono industrie, perché l’industrializzazione è incompatibile con il sistema di dominazione imposto dai Paesi ricchi. I salari da fame dei nostri lavoratori servono a finanziare gli alti profitti di Gringolandia e dell’Europa.” Ci fu un attimo di silenzio, sufficiente per sentirmi inquisito. Proposi di deporre le armi e andai a combattere col cuscino.
“Ti conviene chiudere il finestrino” mi consigliò il conducente del trufi. A San José il mercato domenicale aveva invaso la statale e la macchina procedeva lentamente tra due ali di bancarelle e di persone. Molto ragazzi si aggiravano furtivi con preoccupanti palloni d’acqua, secchi e bombolette di schiuma e non perdevano l’occasione di bersagliare gli incauti passeggeri dei veicoli che transitavano. Arrivato a Santa Cruz notai un fatto curioso. I micro erano interamente ricoperti da uno strato di fango che lasciava scoperti solo i finestrini. Era un geniale stratagemma escogitato dagli autisti per impedire che la vernice, che scorreva a fiumi in quei giorni, macchiasse in modo indelebile la carrozzeria. Finita la festa sarebbe bastato rimuovere il fango per tornare all’aspetto originale.
CARNEVALE Il trufi si fermò di fianco al terminal terrestre. Gironzolai tra le biglietterie delle diverse flotas, indeciso sulla mia prossima meta. L’ambiente era stranamente desolato e silenzioso, ma l’arrivo di un gringo zainato e con l’aria incerta rivitalizzò gli addetti delle compagnie di trasporto, che mi urlarono tutte le destinazioni possibili cercando di superare la voce dei colleghi. Decisi di seguire la linea programmatica che aveva guidato finora il mio viaggio: l’improvvisazione. Fra le varie proposte ce n’era una che mi intrigava in modo particolare: Asunción del Paraguay. Un nome dal suono dolcissimo, che rievocava straordinarie immagini di natura selvaggia e di territori inesplorati. Seguii la signora nel suo ufficio due metri per due. Mi disse che il primo autobus sarebbe partito il giorno dopo alle sette di sera. Rimasi un po’ deluso, perché ero già pronto per rimettermi in viaggio. Tutto sommato la prospettiva di trascorrere la domenica di Carnevale in città non mi dispiaceva. Piuttosto, quando mi sparò il prezzo di sessantacinque dollari esitai un attimo. Mi spiegò che il viaggio durava due giorni, che era incluso il vitto, che la strada non era perfetta e un’infinità di altre ragioni che, sommate, alla fine davano quella cifra. Trovai una stanza in un alojamiento lì vicino, in Calle Lemoine. Ero già entrato nella scia di un getto d’inchiostro, perché notai delle macchie blu sulla camicia e sullo zainetto. Sicuramente sarei arrivato a sera in condizioni peggiori. Tanto valeva aspettare a farsi la doccia.
Il centro era stato chiuso da alte transenne di legno, con le quali dei militari svogliati e invidiosi regolavano la circolazione dei mezzi pubblici. Gli angoli delle strade pullulavano di gente carica di borse piene di palloni già pronti e armata di fucili ad acqua, di bombolette di schiuma, di inchiostro e di lucido da scarpe. Ogni volta acceleravo il passo, ma fortunatamente nessuno se la sentiva di sperimentare le reazioni di uno straniero, a parte due bambini che mi svuotarono addosso i loro fucili ad acqua. Il tempo stava migliorando e il sole si apriva con prepotenza dei varchi tra le nuvole. Sostai su una panchina in Plaza 24 de Septiembre, all’ombra delle palme. Una tipa mezza svitata mi si sedette di fianco blaterando frasi senza senso, poi decise di rivolgere le sue attenzioni ad un’altra vittima che capisse meglio le sue farneticazioni. L’unica cosa che ero riuscito ad afferrare non era molto confortante: le banche e tutto il resto rimaneva chiuso per due giorni. Solamente mercoledì la città sarebbe tornata alla normalità. Mi restavano cinquanta bolivianos e trenta dollari. “Dunque, vediamo… Cena, pranzo, un po’ di spesa per il viaggio con cinquanta bolivianos; poi mercoledì ad Asunción cambio un travel… Sì, dovrei starci” conclusi soddisfatto. Pian piano arrivavano le comparsas e verso le quattro la piazza era stracolma di ragazzi col viso reso irriconoscibile da manate di lucido da scarpe. Al ritmo forsennato della bande già belle carburate accennavano le loro danze coreografiche. Ma non riuscivano nemmeno ad iniziare, un po’ per la ressa insostenibile, un po’ perché erano troppo impegnati a bere e a lanciarsi acqua, birra, schiuma e inchiostro. In Sudamerica il Carnevale è una cosa seria, molto importante, significa una ventata d’allegria, dimenticare per qualche giorno le antiche e sempre presenti disgrazie. Non è una semplice festa per bambini. E’ l’occasione che anche i più poveri attendono per indossare il costume che hanno realizzato con un duro anno di lavoro. Salii i gradini della Catedral. Sotto di me ribolliva un mare di colori e di musiche, che ad ondate ritmiche trasportava allegria e zaffate alcoliche. Mi aggirai in quel pandemonio in compagnia di un fotografo di un quotidiano locale. Creammo ancor più confusione quando cercammo di far schierare sui gradini della Catedral un’intera comparsa di ottanta elementi con la casacca viola. Dopo varie attese per recuperare qualcuno che si era attardato a bere con gli amici, riuscimmo nell’intento. Spacciandomi per fotografo riuscii a passare indenne in mezzo alle battaglie più accanite ed ebbi la scusa per fare dei primi piani a splendide fanciulle. Santa Cruz è la città meno boliviana della Bolivia per via della scarsissima presenza di indigeni. In mezzo a quella baraonda non era raro individuare persone bionde, dalla pelle chiara e dai tratti somatici europei. Nelle vie laterali erano stati allestiti dei palchi su cui si esibivano le bande ed altri pieni di casse che sparavano musica a tutto volume. Le strade e i marciapiedi rialzati erano ricoperti da strati di bottiglie e di lattine. Il cielo adesso si era completamente pulito. Le uniche nuvole di quel pomeriggio erano quelle di schiuma che si formavano ad intermittenza sulla faccia della gente. Gli schemi coreografici erano saltati, ma non era importante. Tutti ballavano, bevevano, urlavano, ridevano. Un pomeriggio indimenticabile.
Ero uscito da quella bolgia praticamente illeso. Sulla via del ritorno, in una strada pressoché deserta, incrociai un tale che mi sparò dell’inchiostro rosso nel collo. Così, dopo la doccia, mi toccò rilavare la camicia appena lavata. Di sera andai al mercato a mangiare in un comedor all’aperto. Ma una birra non mi bastava. Avevo una sete da deserto e una gran voglia di frutta. Nei banchi di mercanzia tropicale non c’era nulla che mi ispirasse. A scanso di equivoci comprai un’anguria di dieci chili. La mangiai in camera sgocciolando sul pavimento. Anche soltanto mutandato la temperatura era insopportabile.
Il giorno dopo mi presentai al terminal con un po’ d’anticipo. Col caldo che faceva ero uscito in boxer da mare e ciabatte, riuscendo non so come a far stare gli anfibi dentro lo zaino. C’era ancora meno gente del giorno prima. Verso mezzogiorno arrivò la signora. Mi guardò sorpresa e con aria innocente mi annunciò: “Ma señor, è Carnevale. Fino a mercoledì è tutto fermo.” Mi ero illuso. Non avevo ancora imparato niente. “Lo so anch’io che è Carnevale, e lo sapeva anche lei ieri quando mi ha detto che l’autobus sarebbe partito stasera alle sette” protestai.
Si limitò ad alzare le spalle. Non avrei mai immaginato che la festa fosse sentita al punto da bloccare ogni attività che non fosse di umana sussistenza. Restai seduto sul muretto di recinzione che separava le biglietterie dal piazzale degli autobus, in attesa di prendere una decisione. Un poliziotto stava avvertendo due turisti canadesi che tutti i collegamenti con Sucre erano interrotti per pioggia. Considerato il diluvio di Samaipata, non sembrava la solita storia inventata ad arte per i turisti. Mi inserii nella discussione e convenimmo che era impensabile viaggiare in Sudamerica con poco tempo a disposizione, perché era un attimo rimanere bloccati per i motivi più disparati e si rischiava di rimanere fermi delle giornate intere solo perché non c’erano mezzi di trasporto. La stagione delle piogge, poi, complicava ulteriormente la situazione. I due canadesi se ne andarono via abbattuti, il poliziotto tornò nel suo ufficio col ventilatore sul soffitto. Notai una ragazza seduta da sola qualche metro più in là. Le sorrisi e distolsi lo sguardo. Dopo un breve istante la riguardai. Un candido sorriso le illuminava il viso abbronzato. La salutai e sorprendentemente si alzò e si sedette di fianco a me. Si chiamava Mayerlin. Veniva dalla regione amazzonica del Beni. Si trovava a Santa Cruz per motivi di studio, ma in quei giorni di festa aveva lasciato da parte i libri e si era vestita da battaglia: sandali, maglietta nera dei Metallica e pistola caricata ad inchiostro. Si offrì di guidarmi in un hostal dove solitamente alloggiavano i suoi amici.
Numerosi cecchini appostati sulle terrazze delle case basse bersagliavano i passanti con bombe d’acqua e secchiate. Arrivammo asciutti all’hostal. Si trovava in un quartiere molto vivace, pieno di botteghe artigiane e a due passi dall’affollato Mercado La Ramada. Lo gestiva una ragazza che un tempo doveva essere stata bellissima, anche se dire un tempo può sembrare eccessivo, visto che dimostrava trentacinque anni. Ma da queste parti di diventa adulti molto presto. A vent’anni una scapolo è guardato con sospetto, mentre una ragazza senza figli è additata come zitella. I bambini che scorrazzavano per i corridoi l’avevano fatta sfiorire prima del tempo.
“Ci vediamo qui tra un’ora?” “Va bene” le risposi.
Ci salutammo ed entrai nella stanza arredata molto sobriamente: c’era solo un letto e un tavolino zoppo. Alcune scritte decoravano le pareti di cui ormai si era persa memoria del colore originale. Ritornai ad un abbigliamento più cittadino e andai al mercato a mangiare.
Mayerlin arrivò in compagnia di una cugina, che la ospitava durante la sua permanenza in città. Se girare insieme ad una ragazza durante il Carnevale rappresenta un pericolo serio, con due diventa addirittura un suicidio. Camminavo tesissimo, girandomi intorno continuamente per riuscire ad individuare in tempo i palloni d’acqua che piombavano alla cieca da tutte le direzioni. All’improvviso sbucarono dal nulla due ragazzi, spalmarono mezzo vasetto di lucido da scarpe sul viso delle due cugine e si dileguarono sghignazzando tra la folla. Entrarono in un bar per ripulirsi. Misi sul tavolino un pacchetto di fazzoletti e ordinai tre sodas.
“Adesso dobbiamo andarcene” mi disse Mayerlin. Sembravano due spazzacamini. “Ci vediamo all’hostal alle cinque.” Non sono mai riuscito a capire il motivo di quelle sue misteriose sparizioni, ma nei giorni successivi ci feci l’abitudine. Restai seduto a terminare la bibita, indeciso se continuare la passeggiata nel pericoloso clima di festa o se tornare in camera, che la temperatura tropicale rendeva più simile ad una sauna. Optai per la sauna, che conciliò un lauto pisolino.
Alle sei Mayerlin non era ancora arrivata. Un po’ risentito per il bidone, feci un giro dalle parti del terminal in cerca di un cambiavaluta. Le mie finanze ammontavano ad un boliviano tondo tondo. Con il nuovo denaro comprai una confezione da cento palloncini. Tornai all’hostal, ne riempii d’acqua quanti ne poteva contenere una capiente borsa di plastica e andai nuovamente al terminal. L’incrocio prospiciente era intasato di mezzi di tutti i tipi, i marciapiedi erano affollati di pedoni. Lanciai i palloni nel mucchio con la tecnica ‘dove prende, prende’, o dentro i finestrini dei micro in corsa lasciati imprudentemente aperti. Due turiste bionde, completamente fradice, camminavano mestamente tra la folla. Un’eventuale reazione, oltre che inutile, avrebbe significato la ripresa delle ostilità. Se avessero perseverato così, invece, con indifferenza, presto la gente si sarebbe stancata di loro per puntare su bersagli più asciutti. Esaurite le scorte seguii alcuni bambini che andavano a rifornirsi in una bocchetta antincendio scassinata per l’occasione. Continuai la battaglia fino all’esaurimento delle munizioni, riportando solo ferite marginali.
Ero sveglio da circa un’ora. Stavo leggendo comodamente seduto sul letto, quando sentii bussare alla porta. Quei colpi improvvisi mi ridestarono una seconda volta.
“Chi è?” “Sono Mayerlin.” Mi vestii alla svelta e corsi ad aprire.
“Ciao, scusa per ieri.” “Non preoccuparti, accomodati.” Un aspetto positivo, se non altro, quella stanza spartana ce l’aveva. Per accomodarsi bisognava sedersi o sul tavolino traballante, o sul davanzale della finestrella ad un metro e mezzo da terra o, guarda la combinazione, sul comodo letto. Parlammo di noi e delle nostre vite, discorsi fatti più per circostanza che per reale interesse, utili solo per superare la timidezza di quei momenti. Mi raccontò della sua famiglia nel Beni e di vari episodi divertenti. “Fra due giorni compio diciotto anni.” Certo, non aveva l’aspetto adulto, ma sapere che era minorenne innescò certi meccanismi di difesa, che preferii ignorare. Per soddisfare la sua spontanea curiosità dovetti praticamente improvvisare una biografia completa e dettagliata. La mattina trascorse così, tra battutine maliziose e gesti appena sfiorati. Ero impegnato a disegnare sul diario una cartina dell’Italia, per mostrarle grosso modo dove abitavo. Eravamo vicinissimi, i miei occhi fissavano i suoi, scuri come la notte. Sentii come un nodo alla gola, mentre il cuore mi batteva all’impazzata. Chiusi gli occhi e la baciai.
Dopo pranzo tornammo in camera a riprendere il discorso interrotto in modo poco romantico dalla fame. A metà pomeriggio si addormentò sul letto, serena ed imperturbabile. Ormai ero abituato a vedere i boliviani dormire anche nelle situazioni più assurde, ma non avrei mai pensato che qualcuno potesse riposare beatamente mentre un’intera banda musicale, oltretutto bisognosa di maggior esercizio, era impegnata a suonare proprio dietro la finestra, tenuta aperta per il gran caldo. ‘Amorcito piel canela tu me has robado mi corazón’ diceva la canzone. La stanza si trovava al piano terra e solo una tenda ci separava dal cortile di una casa, dove un’intera famiglia festeggiava allegramente tra risate sguaiate e bevute colossali. Quando si svegliò mi fece un gran sorriso e mi riempì di baci. Ma un velo di tristezza sembrava esserle caduto addosso durante il sonno. Sapeva che domani sarei partito. Mi scrisse una poesia ingenua sul diario, lo chiuse e con tono malinconico sospirò: “No te vayas.” Potete dirmi quello che volete, ma una bella ragazza che ti parla in spagnolo per me è il massimo della seduzione. Dopo cena mi portò in una chopería, un locale con tavolini grandi abbastanza per ospitare scomodamente due persone e schermi che trasmettono video musicali. Nella luce soffusa le risate e il tintinnio di bottiglie e di bicchieri si confondevano col perenne sottofondo di musica romantica e sdolcinata. Fuori regnava la solita confusione, anche se molta gente era stata mietuta dai festeggiamenti. In lontananza vidi i due canadesi passeggiare per strada a torso nudo. Accompagnai Mayerlin ad un taxi.
“Ciao, ci vediamo domani alle undici” mi disse dal finestrino. La vidi sparire nel traffico caotico della sera.
Col pensiero fisso all’autobus per Asunción alle otto ero già alla oficina, ma con mio gran disappunto la trovai chiusa. Mi balenarono per la testa i pensieri più pessimistici e già immaginavo la bigliettaia in una spiaggia brasiliana a godersi i miei soldi. Ma poi considerai che era assurdo pretendere che in Sudamerica un ufficio aprisse a quell’ora. Il Carnevale era ufficialmente finito e la città stava tornando al consueto andazzo quotidiano. In centro faticai non poco per trovare una banca che cambiasse un travellers’ cheque. Ci vollero alcune fotocopie del passaporto, mezz’ora di attesa per la firma di autorizzazione di un funzionario, controlli e riscontri, ma alla fine ottenni i miei soldi, sudati come se li avessi appena guadagnati. Visto che mi rimaneva ancora del tempo, feci un salto nell’internet café del centro commerciale di Calle Junín per aggiornare la mia posta elettronica. Dopo quindici giorni di latitanza i miei amici mi avevano dato ormai per disperso.
Ritornai al terminal. Al posto della signora c’era un tipo baffuto. Mi confermò che l’autobus sarebbe partito quella sera alle sette. Risollevato, tornai in hostal a rifare lo zaino e lo depositai nella recepción, in balìa dei bambini pestiferi. In attesa delle undici bighellonai per il mercato, l’unica parte della città che non aveva risentito della festa appena trascorsa, sempre in frenetica attività tutti i giorni dell’anno. Mayerlin arrivò allegra e raggiante. Speravo che avesse superato l’angoscia del giorno prima, perché non avevo voglia di addii strappalacrime. Ma soprattutto perché quando sorrideva era così carina che era un peccato vederla triste. Chiacchierammo per un’oretta in un bar, ubriacandoci di bibite e di baci. Quando mi chiese di lasciarle un ricordo, non trovai di meglio da darle che una biro nera e una scheda telefonica. Sembrò ugualmente contenta.
A mezzogiorno tornammo in hostal. Mi caricai lo zaino in spalla e ci incamminammo verso il terminal. Solo due giorni prima avevo percorso con lei quel viale. Mi sembrava che fosse trascorso un mese. L’oficina era chiusa. Provai a chiedere all’impiegata dell’altra flota che copriva la tratta per Asunción.
“Oggi gli autobus non possono partire, perché nel Chaco piove: mañana.” Restai inebetito a fissare il vuoto, completamente svuotato di pensieri e di vitalità. Avevo già passato sia la fase dell’inquietudine che quella della rassegnazione. Di fianco a me Mayerlin tratteneva a stento la gioia. In quel momento capii realmente la profonda filosofia sudamericana. In fondo ero contento, perché avrei passato un’altra giornata con la mia morenita. Il problema era che domenica mi scadeva il visto turistico. Non avevo assolutamente voglia di affrontare gli snervanti iter burocratici per ottenerne l’estensione. Ma ci avrei pensato a tempo debito, per il momento avevo solo fame. Mangiammo qualcosa in un ristorantino, poi ritornai all’alojamiento di Calle Lemoine. Era la sesta notte che passavo a Santa Cruz e avevo già cambiato quattro alberghi. Mi diedero una camera diversa dalla precedente. Come potevo sapere se nel cambio ci avevo perso o guadagnato? Mi toccò passare qualche ora con Mayerlin a saggiare la comodità del letto. Andò via alle quattro e mi diede appuntamento dopo un’ora al terminal.
Ne approfittai per fare un salto in oficina. La signora, ovviamente, si guardava bene dal farsi vedere. In compenso c’era il tipo baffuto, che scoprii più tardi essere il marito. Gliene dissi una più del porco. Era uno di quei momenti in cui avrei voluto avere maggiore padronanza della lingua, perché un conto era litigare in una lingua straniera col vocabolario ridotto, un conto poter usare un’ampia gamma di espressioni più o meno colorite, di epiteti e di insulti. Fui irremovibile. Andammo insieme dall’altra flota. Si mise d’accordo con l’impiegata, che mi rilasciò un nuovo biglietto assicurandomi che l’autobus sarebbe partito domani alle sette, “seguro”. La mia unica preoccupazione erano i sessantacinque dollari già pagati, non volevo ricevere un pacco clamoroso. All’origine di tutta questa confusione c’era una pratica molto diffusa da queste parti. Gli agenti delle diverse compagnie di trasporto vendevano biglietti anche per le tratte che i propri mezzi non coprivano, poi indirizzavano i passeggeri ignari verso gli autobus dell’altra compagnia, pretendendo un modesto compenso. Inoltre le piccole flotas mettevano insieme i propri passeggeri per far partire un solo autobus a pieno carico, risparmiando sul carburante e sulla paga degli autisti. Scoprii che l’unica compagnia che gestiva i collegamenti col Paraguay era quella che mi aveva rilasciato il nuovo biglietto. La signora mi aveva tenuto in ballo per tre giorni solo per una misera commissione.
Proprio di fianco all’alojamiento si trovava la stazione da dove partivano gli autobus per il Paraguay: uno stanzone congestionato di merci e di bagagli e una bilancia per pesarli. Sedute ad una scrivania sommersa di scartoffie due impiegate stavano contenendo l’assalto di alcuni passeggeri inviperiti. Tra gli altri c’erano Ramiro, argentino di Buenos Aires, Manuel, cileno di Valparaíso e Jorge, paraguayano di Ciudad del Este. Come succede di solito in queste circostanze, la comune sventura accese subito quella solidarietà che si crea tra viaggiatori e in breve chiacchieravamo come amici di lunga data. Ramiro e Manuel avevano assistito alla diablada di Oruro e stavano tornando a casa. Jorge, ormai alla fine del suo viaggio, era rimasto bloccato a Santa Cruz da una settimana. Aveva finito i soldi e tirava avanti grazie all’aiuto di alcuni ragazzi che lo stavano ospitando in città. Ma le sue preoccupazioni erano altre. Quel ritardo forzato aveva fatto avvicinare pericolosamente il termine della licenza dall’accademia militare. Era disperato. Restammo d’accordo che, se nemmeno l’indomani fossimo riusciti a partire, ci saremmo coalizzati per farci restituire i soldi. Uno svizzero che aveva vissuto per tre anni in Paraguay ed altrettanti a Santa Cruz favoleggiava l’esistenza di una flota dotata di autobus con la trazione integrale che se ne fregavano della pioggia, ma non sapeva dove si trovasse esattamente. La faccenda della pioggia mi lasciava alquanto perplesso. Dietro la scrivania un cartello avvisava i passeggeri delle due partenze settimanali per Asunción: il lunedì e il giovedì. Poteva benissimo aver diluviato, ma in ogni caso quello non era giorno di partenza. Dopo aver atteso due giorni, non capivo per quale motivo avessero tirato fuori quella scusa ignobile. In cuor mio ero abbastanza sollevato. In fondo c’erano anche dei sudamericani madrelingua e certamente più abituati di me a questo genere di situazioni che si trovavano nelle mie stesse condizioni.
“Comunque vedo che non ti è pesata l’attesa, eh?” mi canzonò ironico Jorge, seguito da una risata generale. Avevo il collo pieno di succhiotti. Ma con quel caldo non potevo certo nasconderlo con una sciarpa. Frecciate e battutine seguitarono a fischiarmi addosso, finché ci salutammo con un laconico “Hasta mañana.” Avevano già dimenticato problemi e preoccupazioni e si apprestavano a trascorrere un’allegra serata. Entrai in una tienda che si trovava tra la stazione e l’alojamiento, comprai una birra e mi sedetti in strada. Le bottiglie di vetro costavano più del loro contenuto e se si portavano via bisognava pagare la cauzione. Così capitava che un normale negozio diventasse una sorta di bar, dove si potevano gustare le bevande e alla fine lasciare i preziosi vuoti. L’introduzione delle bottiglie di plastica aveva in parte modificato quest’abitudine. Costano meno di quelle di vetro, sono più leggere e non si rompono. Ormai si trovavano dappertutto, specialmente sui marciapiedi e ai bordi delle strade. Da lì potevo controllare l’ingresso dell’alojamiento, dove Mayerlin mi aveva dato appuntamento alle otto. Ma dopo la seconda birra capii che non sarebbe arrivata. Deluso e in stato di leggera euforia alcolica passeggiai attorno al terminal, un microcosmo ormai familiare che avevo preferito al centro, troppo snob e tranquillo. Nell’aria calda e inquinata riconobbi un soave profumo di carne alla brace. Seguii la sua scia invitante lasciando che l’olfatto guidasse i miei passi, che mi portarono dritto dritto ad una parrillada argentina. Una vocina dentro di me protestava: “Ma sei matto? Carne grassa e unta col caldo che fa? E poi stai per finire i soldi.” Ma perché tutto ciò che piace o è illegale o fa ingrassare? Cedetti facilmente alla tentazione. In un baleno ero seduto ad un tavolo e avevo già ordinato una grigliata mista e una birra da un litro. Mangiai con la voracità di un naufrago appena tratto in salvo. Un simile sforzo andava premiato con una colossale dormita. Tornai in camera bello fiero e dopo una doccia gelata ripresi a galleggiare nell’aria calda e umida della notte.
Verso le nove bussarono alla porta metallica. Era il gestore dell’alojamiento che mi annunciava delle visite. Mi vestii e andai giù. Nell’atrio ancora addormentato Mayerlin e la cugina mi aspettavano impazienti. Lo immaginavo che erano loro. Le invitai in camera. Salirono le scale seguite dallo sguardo di disappunto del gestore. Avevano programmato una gita sul Río Piray, così sfoggiai la mia divisa estiva: i soliti boxer da mare e le solite ciabatte. Preparai lo zaino con la velocità che mi consentivano il sonno, il caldo e il sovraffollamento della stanza. Ma non sembravano disposte ad aspettarmi, così mi cacciarono fuori a colpi di solletico. In corridoio si scatenò una rumorosa battaglia in cui capitolai per inferiorità numerica. Dalle altre stanze si levarono dei cori di protesta. Quando udimmo il rumore di una serratura che si apriva, scappammo giù dalle scale e uscimmo fuori ridendo a crepapelle, seguiti nuovamente dallo sguardo di disappunto del gestore. Prendemmo un taxi e puntammo verso la parte occidentale della città, intersecando i vari anillos che la circondano. Ci lasciò in uno spiazzo vicino al fiume, tra alcuni scalcinati chioschetti di legno già intenti a cucinare su focolari d’argilla e un vecchio motel per coppiette abbandonato. Quindici anni fa qui sorgeva un giardino botanico, ma venne distrutto da un’alluvione. Ora tutta l’area era destinata a parco naturale, ma non sembrava che l’amministrazione cittadina ne fosse al corrente. Dalla soglia di sicurezza antialluvione la strada scendeva bruscamente immergendosi nelle acque limacciose del fiume. Alcuni camion guadavano il río per caricare sabbia e ghiaia. Il livello dell’acqua era basso, anche se in certi punti la corrente era piuttosto forte. Raggiungemmo senza troppe difficoltà una delle tante isolette che costellavano l’ampio letto del fiume. Mayerlin e la cugina entrarono in acqua vestite.
“Non vieni?” mi urlarono, come se fosse la cosa più normale del mondo.
“Ma voi siete matte” risposi con ritrosia.
Feci appena in tempo a salvare la macchina fotografica che fui lanciato a forza in acqua, vestito ovviamente. La cosa stupefacente è che dopo mezz’ora eravamo asciutti. In compenso mi ritrovai la sabbia dappertutto, anche nei recessi più impensabili.
Tornammo in autobus all’alojamiento, preparai lo zaino e lo depositai in oficina. “Stasera si parte alle sette” mi assicurò l’impiegata, “mi occorre solo una fotocopia del passaporto.” L’espressione di Mayerlin cambiò decisamente in peggio, ma subito mi regalò uno dei suoi splendidi sorrisi. Riacquistò l’abituale allegria, o per lo meno cercò di dissolvere la patina di tristezza che le appannava lo sguardo. “Gli occhi non mentono” mi aveva detto una vecchia zingara in Romania, tanto tempo fa. Finsi di non accorgermene. Mangiammo in un simpatico comedor all’aperto in un clima di apparente serenità, evitando, forse inconsciamente, ogni discorso che avesse anche la minima attinenza con viaggi e partenze. Dopo pranzo se ne andò via con la cugina. “Ciao, ci vediamo alle sei in stazione” mi disse, lanciandomi un bacio con un soffio.
Fu l’ultima volta che la vidi.
Forse è stato meglio così. Non saprò mai i motivi che la spinsero a prendere quella decisione, ma in fin dei conti fu una scelta, la sua, che risparmiò inutili cliché e promesse tanto sincere quanto impossibili da mantenere. Forse in quel momento, mentre si allontanava, già sapeva che non sarebbe venuta a salutarmi. E forse soffriva, come più tardi soffrii anch’io. Ignaro di tutto feci una fotocopia del passaporto, comprai qualcosa da mangiare per il viaggio e andai in posta a spedire una lettera che avevo scritto in camera la sera prima. Con gli ultimi soldi rimasti comprai un raspado. Su un carrello fabbricato con pezzi di bicicletta, tubi e lamiera saldati alla buona un signore tutto vestito di bianco inserì un blocco squadrato di ghiaccio in una morsa e, manovrando una manovella, lo fece roteare sopra una grattugia artigianale. Prese il ghiaccio tritato con una palettina e riempì un bicchiere di plastica, misura grande. Lo guarnì con quattro differenti sciroppi colorati e ci infilò una cannuccia e un cucchiaino di plastica. Una delizia.
“A Asunción, ya saaale.” Con la tipica cantilena le due impiegate cercavano di attirare gli ultimi passeggeri, mentre un facchino caricava merci e bagagli con una lentezza irritante. Un’impiegata salì sull’autobus e chiamò il mio nome. Mi avvicinai. Disse che secondo i suoi calcoli dovevo ancora pagare venti dollari. Le mostrai il biglietto con l’importo versato, spalleggiato da Jorge e da Ramiro che per poco non la insultarono. Partimmo alle nove passate, con un ritardo di ottanta ore. Fino alla fine avevo cercato tra la gente il suo bel viso abbronzato. Poi l’autobus imboccò un lungo vialone illuminato da tristi lampioni.
“Addio Mayerlin.” Infilai il fiore giallo, che avevo colto per lei da una siepe, nella maniglia del sedile davanti e mi addormentai appoggiato al finestrino.
LA STRADA DEL CHACO Fui svegliato di soprassalto da una selva di mani cariche di cibo che si protendevano verso i finestrini. Poi l’autobus superò la tranca e riprese a correre nella campagna avvolta dalle tenebre. Ormai mi ero talmente assuefatto agli scossoni e al rumore ripetuto e monotono, che quando ci fermammo mi svegliai. Con gli occhi impastati guardai fuori. C’era solo il buio. Nient’altro. Quando spuntò il sole saltai giù in silenzio per scoprire il motivo di quell’interminabile, inspiegabile sosta. Oltrepassata una lunga fila di mezzi incolonnati mi si parò davanti una scena apocalittica. Due TIR e un autobus erano piantati in mezzo ad un piccolo ruscello torbido che attraversava la strada. La strada non era altro che una semplice pista in mezzo alla boscaglia e in quel tratto si infossava per guadarlo. Da ambo le parti una fila clamorosa di veicoli si era allungata per tutta la notte. Centinaia di persone assistevano al penoso lavoro degli autisti e dei pochi volontari che spalavano il fango dalle ruote e vi sistemando sotto tronchi e rami per fare presa. Ma le ruote giravano a vuoto e i mezzi sbandavano inclinandosi paurosamente. Dopo inutili spinte collettive l’autobus venne trainato da un camion con un potente cavo d’acciaio. Due autobus riuscirono abilmente a passare dall’altra parte, aggirando i due TIR invischiati. Ma di nuovo un furgone rimase intrappolato nei profondi solchi tracciati dagli altri mezzi. Alle otto e mezza, finalmente, riuscimmo a passare anche noi, guardati con invidia dagli altri passeggeri. Un paio d’ore dopo fummo costretti a fermarci in uno sperduto villaggio per tamponare una crepa che si era aperta nel filtro dell’olio. Intanto che la colla asciugava, ne approfittammo per fare uno spuntino. Alle undici e mezza eravamo ancora fermi. La lunga colonna di mezzi non lasciava presagire nulla di buono. Andai in avanscoperta sul ciglio della strada, cercando di camminare sull’erba o sui bordi induriti dei vecchi solchi. La colonna di veicoli era serrata, ma in un punto era separata da un’enorme pozzanghera larga quanto la strada e lunga una trentina di metri. Quattro bambini si affacciarono dal finestrino di un autobus e mi chiesero con esuberanza infantile di fargli una foto. Si misero in posa sorridendo con le dentature da latte incomplete e scattai.
“E la foto?” Non dimenticherò mai la loro delusione, quelle facce incredule quando non videro materializzarsi la fotografia, tipo Polaroid. Provai a spiegare che bisognava prima sviluppare il rullino. Ma non capirono nulla e ci restarono malissimo. Più avanti sprofondai nel fango fino alle ginocchia. Nel tentativo di estrarre i piedi dalla morsa melmosa le ciabatte si stracciarono e adesso si trovano ancora lì dove le ho lasciate, sotto quaranta centimetri di ‘strada’. Da quel momento girai scalzo, mentre il fango mi si induriva addosso. La strada, più simile a sabbie mobili, aveva inghiottito le ruote di diversi autobus e di un camion che trasportava banane.
“Beh, almeno di fame non moriamo” sentenziò uno dei tanti curiosi, seguito da una risata collettiva.
Non è che la situazione fosse poi così allegra, però. Si ripetevano le stesse scene di prima, ma questa volta la strada era in condizioni veramente disperate. In alcuni punti gli autisti, immersi nel fango fino alle ginocchia, cercavano di fare il possibile con pale e secchi. Quando ci avevano detto che nel Chaco pioveva, forse non mentivano. Se non altro in quel momento c’era un bel sole. Alla fine riuscimmo a saltare fuori anche da lì.
A pranzo finimmo le scorte di viveri che ci aveva fornito la flota. In teoria sarebbero dovute bastare per tutto il viaggio. I miei compagni di viaggio leggevano, ascoltavano musica, si facevano i fatti loro. L’autobus era mezzo vuoto, almeno si dormiva decentemente.
“E’ vero che ci sono molti italiani a Buenos Aires?” domandai a Ramiro.
“Altroché, metà degli abitanti è italiana o di origini italiane. Io mi chiamo Rodríguez, i miei antenati venivano dalla Spagna; ma la mia ragazza è italiana. E viviamo nel quartiere Palermo.” “Ma tu di dove sei?” mi domandò Jorge.
“Italia.” “Sì, ho capito. Ma di dove, di quale città?” “Parma. La conos..?” “Ah, Parma! Crespo, Sensini, Couto…” “Asprilla” aggiunsero gli altri in coro. Ne sapevano più loro di me.
Prima che la squadra di calcio andasse in serie A e si affacciasse alle competizioni internazionali, nessuno all’estero conosceva la mia città, tanto che ero solito dire che abitavo vicino a Milano. Al limite qualcuno si accorgeva della somiglianza Parma-parmigiano. Mi ricordo di quella volta a Stoccolma quando ero andato a cambiare i soldi in uno sportello di cambio della stazione ferroviaria. L’addetto si era soffermato a guardare la mia maglietta con lo stemma dell’università e aveva esclamato: “Ah, Parma. Brolin!” In pratica la mia città era conosciuta a livello internazionale solo per il formaggio e per la squadra di calcio. Sono soddisfazioni di cui andare fieri, non c’è che dire.
Dopo diciotto ore di viaggio arrivammo a Camiri, la capitale petrolifera della Bolivia, distante appena trecento chilometri da Santa Cruz. Gli autisti ci lasciarono in un ristorante sulla strada e andarono in un’officina a poca distanza da lì per eseguire certe riparazioni. Quell’ennesima sosta forzata ci permise di conoscerci meglio. I passeggeri erano in prevalenza giovani, una compagnia molto eterogenea. Oltre a Ramiro, Manuel e Jorge, che avevo già conosciuto a Santa Cruz, c’erano tre giapponesi, un brasiliano mezzo giapponese con lontane parentele italiane, un peruviano, tre fratelli e una sorella ecuadoriani in abiti tradizionali e due ragazze irlandesi. I rimanenti erano peruviani e boliviani di mezz’età. Le irlandesi erano particolarmente carine. Non sapevano una parola di spagnolo, così mi sacrificai a fare da interprete. Al che si scoprì che tutti parlavano inglese alla perfezione. Manuel si spacciava addirittura per madrelingua. Saltavano fuori delle traduzioni così bislacche da scatenare ripetuti scrosci di risate. Le due povere ragazze si guardavano attonite, sorridendo senza capire. Il clima era piacevolmente disteso, favorito anche dalle barzellette di Jorge. E’ incredibile come fossero le stesse barzellette che circolavano in Italia. In quello sperduto locale di Camiri era rappresento mezzo Sudamerica. A volte riuscivo perfino a cogliere le differenze di pronuncia tra uno e l’altro. Ma intanto il tempo passava e dell’autobus nemmeno l’ombra, anche perché ormai era buio. Dopo un rapido consulto decidemmo di fare un salto nell’officina. Trovammo i due autisti e l’aiutante svaccati sopra dei vecchi pneumatici a tracannare birra.
“Qual è il problema?” chiese Ramiro a quello che sembrava più sano.
“Nada” rispose infastidito.
“Meno male. Siamo fermi solo da quattro ore, figuriamoci se era qualcosa di serio!” “Si è rotta una sospensione, dobbiamo saldarla.” Considerò chiusa la discussione, si girò verso gli altri e ricominciò a bere.
Dei veri simpaticoni. Fino a quel momento non ci avevano dato la minima confidenza. Passavano il tempo alla guida bevendo e ruminando enormi quantità di coca. Tornammo al bar, mentre gli autobus incolonnati dietro di noi durante gli impantanamenti adesso ci sfrecciavano davanti sollevando dense nuvole di diesel e di polvere. Restammo bloccati lì per otto ore. Quando ripartimmo era già buio da un pezzo. A mezzanotte superammo Boyuibe e ci fermammo alla migración della postazione militare, un chilometro più avanti. Ci mettemmo in fila per ottenere, con molta calma, il timbro di uscita dalla Bolivia. Appena ripartimmo andò via la luce all’interno dell’autobus. Guardai fuori dal finestrino. La notte senza luna era illuminata da milioni di stelle.
Da Boyuibe in poi comincia il Gran Chaco, una sconfinata steppa pianeggiante coperta da un groviglio quasi impenetrabile di arbusti spinosi che si estende fino al Paraguay occidentale, lungo il confine con l’Argentina. La scarsa popolazione è composta da qualche allevatore che pascola le sue mandrie in vastissime estancias, da isolati gruppi di indios guaycurú, da famiglie di mennoniti olandesi e da pattuglie delle postazioni militari. E’ una regione inospitale e quasi del tutto disabitata. Eppure Bolivia e Paraguay se la contesero nel corso di una sanguinosa guerra scoppiata nel 1932 e conclusa tre anni più tardi. Come tutte le guerre che si rispettino anche questa fu determinata da solidi interessi economici. La Standard Oil, quella che oggi si chiama Exxon, sosteneva la Bolivia, la Royal Dutch Shell il Paraguay. Il vincitore si sarebbe aggiudicato il diritto di sfruttare i giacimenti petroliferi di cui si illudevano fosse ricco il sottosuolo. Nel 1862 l’Argentina aveva sottratto alla Bolivia il Chaco Central. Alla fine della Guerra del Chaco la Bolivia perse anche il Chaco Boreal, sessantacinquemila uomini e un’incerta via di comunicazione verso l’Atlantico lungo il Río Paraguay. Ma le favolose risorse di petrolio non furono mai scoperte. Pazienza. Le compagnie petrolifere avrebbero cercato da qualche altra parte.
La mattina del terzo giorno ci svegliò un magnifico sole. Ormai procedevamo su due solchi paralleli nella sabbia rossa. Sobbalzavamo di continuo. L’autista era costretto a difficili slalom per schivare le pozzanghere e ci piegavamo paurosamente quando ne prendeva una particolarmente profonda. Verso le otto del mattino arrivammo al Fortín General Eugenio Garay e capimmo di aver varcato l’invisibile frontiera tra i due Stati. Eravamo in Paraguay.