Cina e Giappone, il fascino di due imperi
L’occasione ghiotta (la cucina a bordo è italiana) veniva subito concretizzata con la prenotazione di una mini-suite. A quel punto non si poteva resistere alla tentazione di far precedere la crociera da un tour a terra (tappe Pechino, Xi’An, Shanghai e arrivo a Hong Kong) di una settimana. Quel che segue è il racconto del viaggio e delle “grandissime maraviglie e diversitadi” che abbiamo visto.
VERSO LA CINA Dopo varie consultazioni di cataloghi e siti, la scelta è caduta su Chinasia per un tour personalizzato: avremo in Cina un pulmino privato con autista e guida parlante italiano in ogni tappa, con transfer, visite e hotel 5 stelle. D’altronde, per il mese di giugno non c’erano tour di gruppo in data utile, e (con una scelta che si è rivelata decisiva), abbiamo voluto evitare il prolungamento a luglio: in quella zona, e in Giappone, c’è infatti il mese delle piogge. La partenza è da Fiumicino alle 20,10. Arriviamo con una coincidenza pomeridiana da Palermo (finalmente niente viaggi che cominciano all’alba…) e al check-in un’impiegata italiana ci sistema tutti insieme in una fila da quattro. Dopo due ore di attesa supplementare per un ritardo, finalmente a bordo per affrontare le 11 ore di volo (all’arrivo 6 ore di fuso orario). L’aereo Air China è un Airbus nuovo di zecca, ognuno di noi ha un televisorino con telecomando, i sedili – per essere in economy – sono abbastanza larghi e comodi. Le hostess parlano cinese e inglese, sono gentili e subito presenti appena si suona il campanello. Periodicamente, puliscono persino i bagni. Come cena, ci servono una sorta di “spezzatino” che divide la famiglia, come accadrà spesso durante il viaggio: Manu ne fa a meno; io, Maria e Simone lo troviamo tutto sommato decente. Film e programmi sul televisorino sono tutti in cinese e inglese. La notte passa rapida con la parte finale del “Signore degli anelli” e Gollum che sibila nel buio “Treassure, my treassure”…
LA MAESTOSA PECHINO Arriviamo intorno alle 14, ora di Pechino, nel terminal C dell’aeroporto: è nuovo di zecca, appena finito per le Olimpiadi, su progetto di Sir Norman Foster (quello del palazzo-proiettile di Londra). L’impatto è davvero eccezionale: visto dall’alto ricorda un drago e il parcheggio coperto lì davanti sembra il guscio di una tartaruga. Osservato dall’interno, il soffitto spiovente dà una visione avvolgente dell’enorme area (1,3 milioni di mq) e tanti archi metallici luccicano su un fondo rosso-arancione (le squame del drago?).
Riprendiamo le valigie, controlli veloci e all’uscita incontriamo la nostra guida, Chang Ching (o qualcosa del genere). È una giovane magrolina e occhialuta di 25 anni che ha studiato 10 mesi a Perugia e parla un buon italiano. I genitori le cambiarono il nome da piccolina perché piangeva sempre: quello attuale significa infatti Serena. Come fanno le guide cinesi, ci invita quindi a chiamarla con il nome italiano.
Il nostro albergo, il Crowne Plaza, è in centro, sulla via Wangfujing, isola pedonale e piena di negozi, a poca distanza dalla piazza Tienanmen. Dopo tante paure e incertezze, è valsa la pena puntare sul circuito 5 stelle, visto anche che c’era soltanto una leggera differenza di prezzo rispetto al 4. L’hotel è infatti elegantissimo, nella grande hall ci sono persino due ascensori panoramici e sembra …Una nave da crociera. Abbiamo due camere vicine, sullo stesso piano, pulizia e servizio sono impeccabili. All’ultimo piano c’è il centro benessere e la piscina coperta. Unico neo: l’acqua dai rubinetti non è potabile e non lo sarà in nessun altro hotel cinese. Accanto al lavandino si trovano due bottigliette di minerale, evidentemente per almeno lavarsi i denti senza troppi rischi.
Chiediamo alla guida e ci spiega che è questa la normalità: anche a casa sua devono bollire l’acqua dei rubinetti prima di poterla usare per scopi alimentari ed è così un po’ dovunque a Pechino.
Ci informano anche degli orari anticipati dei pasti in Cina: il pranzo (cinese, in corso di escursioni) sarà sempre intorno a mezzogiorno, la cena (col tour operator si è concordato che si tratti di buffet internazionali) dalle 18 in poi. Siamo ormai a ridosso dell’orario e, stravolti dal fuso orario e dalla fame (per il nostro stomaco è mezzanotte), ci presentiamo al ristorante dell’albergo. Il buffet è davvero all’altezza: c’è il sushi ma anche salmone, gamberoni e cozze. Ci sono i piatti cinesi ma si possono chiedere bistecche o pesce alla griglia e il cuoco le prepara all’istante. Gran tavolo di dolci e persino la fontana di cioccolato dove intingere pezzetti di frutta. Guardo i miei due figli con gli occhi che brillano e finalmente penso che possiamo rilassarci…
Dopo cena facciamo prenotare alla guida i biglietti per uno spettacolo di kung-fu in un teatro. La sorpresa positiva è il costo del taxi: tragitti di andata e ritorno di circa 20 minuti, spesa in totale 32 yuan (l’equivalente di 3 euro e venti centesimi). Abbiamo posti in terza fila e lo spettacolo è molto simpatico: in scena più di 30 ballerini acrobati. Il più bravo è anche capace di stare in equilibrio su una spada o di infrangere, con una testata, tre lastre di marmo. Da questa mossa nasce l’urlo che sarà il tormentone del nostro viaggio: UATTOO’…
Da pronunciare, facendo il gesto di infilare due dita negli occhi dell’avversario, quando si fa un buon affare ai danni dei cinesi. O subire dagli altri quando prenderemo i bidoni dai cinesi. Per il taxi risparmioso intanto primo UATTOO’…
LA CITTA’ PROIBITA Primo giorno, eccoci a piazza Tienanmen, la più grande del mondo. Il colpo d’occhio è davvero impressionante, anche se il ricordo delle immagini dei carri armati e dei massacri degli studenti nell’89 non si è scolorito. L’enorme piazza rettangolare venne creata dal regime comunista a fianco e come contraltare alla Città proibita. Tanto che il mausoleo di Mao, con la sua architettura stalinista, ne occupa tutta una parte. Lì davanti la coda di turisti e cinesi è davvero lunga: non siamo molto interessati alla mummia e quindi ci dirigiamo all’ingresso della Città dalle 9999 stanze (in realtà qualche centinaio in meno, dicono gli esperti). Si passa sotto l’enorme foto di Mao, ma l’emozione è grande nell’attraversare le spesse e rosse mura. Entriamo nel regno degli imperatori della Cina, carico di quasi sei secoli di storia. UATTOO’ di felicità…
A pianta quadrata, la Città Proibita è il centro ideale di Pechino: la capitale si sviluppa man mano intorno agli edifici imperiali con un reticolato regolare di strade ortogonali e porzioni di territorio chiamate anelli. Attraversate le mura della Porta Meridiana, e poi i cinque ponti di marmo sul fiume Goldwater, ci si trova di fronte la maestosa Entrata dell’Armonia Suprema. Oltre la quale si stagliano, uno dietro l’altro, gli edifici resi famosi dal film “L’ultimo imperatore” di Bertolucci (ci dicono che è stato l’ultimo regista ad avere l’autorizzazione a girare lì). E poi altre porte, altri palazzi, in un inseguirsi di forme squadrate, sempre con un cortile interno su cui danno tutte le stanze. In vista delle Olimpiadi sono stati effettuati numerosi restauri e i palazzi si presentano splendenti di rosso e di blu. Peccato però che gli interventi continuino per l’edificio principale, la “Sala dell’Armonia Suprema”, dove avveniva l’incoronazione: è inaccessibile per i lavori. Il “Trono del drago” – quello dove l’anziano Pu-Yi ritrova il grillo della sua infanzia – è stato spostato in un edificio vicino.
La nostra guida Serena ci segue e spiega con efficacia l’insieme della filosofia che penetra le architetture ma anche i dettagli: le 9 borchie su ogni portone, il numero imperiale (il 10 era riservato alla divinità). E ad ogni portone la trave incassata a terra per fermare sulla soglia gli spiriti maligni.
Sugli spigoli dei tetti dei palazzi più importanti i nove animali in fila e il giallo-oro colore della dinastia Quing, appunto l’ultima (solo l’imperatore poteva indossare abiti di quel colore). Le decorazioni col drago e la fenice, simboli dell’imperatore e dell’imperatrice. I guardiani: il leone con la sfera e la leonessa che accarezza con la zampa il figlioletto, posti a ogni ingresso…
In oltre tre ore di tour a piedi riusciamo a farci appena una pallida idea dei molteplici luoghi dove gli imperatori regnavano e lavoravano, insieme con eunuchi, funzionari, militari, fra intrighi di corte e sfarzo di gioielli. Alla sera tutti i maschi fuori, tranne l’imperatore: per evitare dubbi sui discendenti…
Impossibile descrivere tutto e d’altronde per questo basta una buona guida: il consiglio è allora di godersi soprattutto l’insieme dei maestosi spazi e delle armoniose architetture. Gli interni dei palazzi e dei cortili risultano infatti parzialmente spogli: per questo è anche importante una visita al Museo del Palazzo (si paga un biglietto a parte) dove sono custoditi splendidi gioielli, orologi, vestiti e arredi di corte. Anche se la maggior parte del “tesoro” imperiale fu trafugata dai nazionalisti di Chang Khai Chek, sconfitti da Mao, e si trova tuttora al museo di Taiwan (vedi più giù).
A pranzo andiamo in un ristorante cinese molto elegante, all’interno di un hotel. Ci servono quindici pietanze diverse su una grande vassoio girevole al centro del tavolo: pollo e manzo, funghi e verdure varie, tutto a bocconcini o striscioline. Ci stupiamo perché davanti a noi abbiamo solo piattini minuscoli che usiamo all’occidentale, posandovi con difficoltà ciò che preleviamo dal centrotavola. Dopo le risate delle cameriere che non ci staccano gli occhi di dosso, capiamo che in realtà i cinesi con le bacchettine prendono i bocconi dai piatti di portata e li portano direttamente in bocca, senza passare dal piattino che è messo lì giusto per figura. Ma, insomma, comunque riusciamo a mangiare e Maria ha anche il …Coraggio di usare, con una certa destrezza, le bacchette (con un moto di pietà al tavolo ci portano in ogni caso le posate).
Di pomeriggio è la volta del Palazzo d’Estate, residenza vacanziera dei regnanti, portato all’attuale splendore dalla Imperatrice Cixi. In origine concubina di terzo grado, riuscì a impadronirsi del potere per quasi cinquant’anni, governando prima in nome del proprio figlio (morto a 18 anni), poi grazie a intrighi e complotti fino al 1908, tirando le fila di imperatori-fantocci e portando la dinastia Quing alla consunzione e rovina finale. Per dirne una, fece uccidere una concubina che le si opponeva: arrotolata in un tappeto e gettata viva in un pozzo della Città dagli eunuchi. È rappresentata anche all’inizio del film di Bertolucci: in punto di morte nomina l’ultimo imperatore ancora bambino e, appena spirata, le chiudono la bocca con una perla nera.
Il Palazzo e il giardino meritano una lunga visita: atmosfere fiabesche sul lungolago, con la passeggiata coperta (750 metri), di legno intarsiato e dipinto con vari paesaggi o scene mitologiche, che univa i vari edifici della residenza. Il Changlang (Lungo corridoio) termina con la “Nave di marmo”, una follia costosissima dove Cixi prendeva il tè. Per l’intero complesso, a quanto pare, l’imperatrice dissipò la somma che era destinata alla costruzione di una grande flotta militare…
Al termine prendiamo un’imbarcazione con la testa di drago per un piacevolissimo giro a ritroso sul lago. La serata si conclude con uno spettacolo al Museo nazionale dell’Opera di Pechino, per la verità consigliabile solo agli appassionati del genere (i ragazzi rumoreggiano…).
AVVERTENZE PER LO SHOPPING E I TAROCCHI Prima e dopo la visita al Palazzo d’Estate è tempo di shopping: ci portano prima in una fabbrica di perle di fiume, poi in una fabbrica di seta, con tanto di spiegazioni e dimostrazioni con ostriche e bachi da seta, tutto sommato interessanti. Qui occorre però un’avvertenza, utile per tutti: le guide in Cina sono impiegati statali e guadagnano ben poco (lo stipendio medio mensile, ricordate, è l’equivalente di 400 euro). Le guide arrotondano quindi con le percentuali sugli acquisti che procacciano. E’ anche vero che il governo, di fatto, obbliga a portare i turisti nelle fabbriche e nei magazzini statali, anche se queste visite non sono menzionate nei programmi delle agenzie di viaggio.
In sostanza, è bene chiarire subito con la guida se si è davvero interessati a visite del genere e soprattutto quanto tempo si vuole dedicare. Da parte nostra, l’avvertenza è anche questa: nei magazzini statali i prezzi di partenza, in teoria fissi, sono abbastanza cari. Ma è comunque possibile trattare, rivolgendosi ai responsabili del negozio (le commesse non hanno molti margini). Certamente, si trovano prezzi più abbordabili negli altri negozi o nei mercatini o sulle bancarelle. Ma se si vuole essere certi della qualità dei prodotti, e non prendere bidoni, è bene affidarsi ai negozi statali per quanto riguarda giada o pietre preziose, seta, cachemire e pashmina, ceramica di valore e cloisonné (una particolare tecnica di lavorazione e decorazione dei vasi di rame). Nei magazzini statali vengono forniti anche scontrini, ricevute e certificati di garanzia, comunque utili per superare indenni la dogana. Per i prezzi – dopo lunghe, estenuanti trattative – sulle pietre preziose siamo riusciti ad avere sconti anche del 35-40% (soprattutto se si acquistano più oggetti). Meno elasticità su altri articoli come quelli di seta (sciarpe, trapunte, piumini, copriletto), comunque convenienti rispetto ai prezzi italiani.
Tutt’altra musica nei negozi non statali: rispetto al primo prezzo, si può arrivare tranquillamente a sconti anche del 60-70% a seconda della vostra abilità nel contrattare e del tempo a disposizione. Sempre buono il vecchio trucco di fingere di uscire dal negozio, per farsi inseguire dal negoziante urlante con l’ultimo ribasso.
Qui occorre anche aprire il capitolo della merce taroccata. In teoria si tratta di un commercio proibito e all’inizio le guide vi racconteranno che non vogliono averci niente a che fare. Dopo varie insistenze, si faranno invece convincere ad accompagnarvi, con aria furtiva, in un retrobottega o in una casa privata o in vere e proprie centrali del tarocco. Anche qui le guide hanno la loro percentuale: il venti per cento di quel che spenderete.
Occorre anche dire che in Cina si trova ben altro, oltre alla merce taroccata in modo grossolano, di cui sono piene le bancarelle di tutte le piazze italiane (e forse del mondo occidentale). Esistono infatti copie perfette di borse, t-shirt, orologi, penne e quant’altro, così identiche agli originali griffati da alimentare più di un sospetto. L’ipotesi è che le stesse fabbriche che di giorno producono per la griffe, di notte si mettano nuovamente in moto per il mercato parallelo e clandestino. Oppure che proprio da quella fabbrica vengano “trafugati”, grazie a custodi consenzienti e poliziotti corrotti, i prodotti finiti, insieme con marchi, materie prime, etichette etc.
La prova l’abbiamo avuta a Tjanjin, dove abbiamo visitato un’intera strada tutta con negozi di prodotti taroccati, dove la vendita avveniva alla luce del giorno, senza neanche la finzione del retrobottega oscuro con la merce nascosta. Se ci fate caso, visto che non si riesce a venire a capo dell’emergenza, molte griffe stanno di recente lasciando precipitosamente la Cina, trasferendo le fabbriche altrove.
Tutto ciò (e la guerra commerciale in corso) coincide con una filosofia tutta cinese: se in Occidente l’arte e l’artigianato hanno più valore se sono originali e creativi, in Cina il “maestro”, l’artista, il bravo artigiano è considerato tale solo se riesce a imitare in modo perfetto un originale (frutto dell’opera dell’uomo o della natura, come nel caso dei giardini cinesi e dei bonsai). Ecco quindi che la “filosofia del tarocco” ha radici profonde e ancestrali in Cina ed è una delle “cause” della mostruosa crescita economica degli ultimi anni, con il Pil che aumenta con un ritmo del 10% annuo (in Italia lo 0,5%).
SCALARE LA GRANDE MURAGLIA Nuova giornata di visite, baciata dal sole di Pechino. Siamo sempre sui 30 gradi e l’umidità è altissima, oltre il 90%, come per tutto il viaggio. Mescolandosi allo smog, diventa una nebbiolina persistente, mentre il caldo mozza il respiro dopo pochi passi. A sorpresa non si vedono neanche tante biciclette, almeno in centro. Le auto, secondo le statistiche, si vanno infatti moltiplicando e l’inquinamento di pari passo. Per le Olimpiadi sono state istituite le targhe alterne, in modo da limitare lo smog (a nostro parere con scarsi risultati).
In programma la visita alla Grande Muraglia, nel tratto di Badaling, a circa 55 chilometri da Pechino. La prima buona notizia è che col pullmino possiamo arrivare fino al grande parcheggio proprio sotto l’ingresso. I turisti cinesi, invece, vengono bloccati in anticipo, in altre piazzuole a distanza considerevole. Per loro la scalata di “The Great Wall” inizia molto prima.
Un luogo comune, alimentato dallo sciovinismo cinese (si trova pure in molte guide), è che la Muraglia sia l’unica opera dell’uomo visibile dalla Luna. In realtà non è così. Ma con i suoi 6430 chilometri è certamente ben visibile dai satelliti, se vi accontentate (ho verificato in una foto). In origine ideata dal primo imperatore, Quin Huangdi (ne riparleremo a proposito di Xian), poi completata sotto la dinastia Ming, infine è stata restaurata recentemente in alcuni tratti. La zona di Badaling è affollatissima di turisti ma anche di cinesi: d’altronde lo stesso Mao diceva che “non può chiamarsi uomo chi almeno una volta non ha scalato la Grande Muraglia”.
Salendo dall’ingresso, si può scegliere se andare a destra o a sinistra. A destra campeggia un enorme cartellone con lo slogan olimpico “One world, one dream” e ci dirigiamo da quel lato…Macchine fotografiche alla mano.
Come un serpente, la fortificazione sale sul crinale delle montagne, adattandosi alle curve naturali, e il colpo d’occhio è davvero spettacolare. In pochi minuti si raggiunge un’altezza ragguardevole. Si può seguire con lo sguardo il nastro che si inerpica fino all’orizzonte da una parte all’altra. Ogni cento metri c’è una torretta che permette una breve sosta: in alcuni tratti il sentiero è davvero scosceso e intervallato da gradini ripidi. Il giorno prima è anche piovuto e si rischia di scivolare sull’acciottolato ad ogni passo. Immaginate come i blocchi di roccia siano stati issati dalle vallate fin lassù e si comprenderà anche il numero imprecisato di persone che ha perso la vita per realizzare una simile opera, risultata poi pressoché inutile dal punto di vista militare.
Dopo un paio d’ore di andirivieni, sfiniti torniamo al parcheggio, non senza prima aver fatto una sosta nei negozietti, dove non resisto e compro la maglietta con la scritta “Ho scalato la Grande Muraglia”.
Pranziamo nel ristorante di una fabbrica di cloisonnè. Senza gli occhi delle cameriere puntati addosso, ci divertiamo a usare le bacchettine e Simone risulta il più bravo. Ci servono anche un liquore bianco di riso, equivalente del sakè giapponese. Sull’etichetta della bottiglia riusciamo a decifrare: 56 gradi.
Di pomeriggio visita alle tombe dei Ming e alla via Sacra: un lungo viale con statue (sacerdoti, guerrieri, animali) da entrambi i lati che termina con una enorme tartaruga, simbolo della longevità (toccare per credere). La guida e i familiari esausti propongono di prendere le macchinine elettriche, ma io insisto e facciamo tutta la Via a piedi. Alla fine ne valeva la pena: il luogo ha infatti un’atmosfera sospesa e incantata davvero unica. UATTOO’ per aver resistito…
Sulla via del ritorno diamo un’occhiata alla zona dei nuovi impianti olimpici. Il famoso stadio “Nido d’uccello” (progetto di Herzog & De Meuron e del cinese Ai Weiwei) e il “Cubo” (Aquatics center) per gli sport d’acqua. Foto e sosta d’obbligo, in attesa di rivederli in tv l’8/8/08. Qui andrebbe fatto una parentesi sulla scaramanzia dei cinesi e sul loro rapporto con i numeri. Ma basta dire che pagano fior di quattrini per aggiudicarsi le targhe delle auto con i numeri più fortunati tra cui le sequenze con il numero 8…
Rientrati a Pechino, trasferimento in una delle zone più caratteristiche, quella degli Hutong, le case popolari a un piano. Siamo nel centro storico con i suoi vicoletti, almeno quelli sopravvissuti al sacco edilizio, durato fino agli anni Novanta. Una esperta sinologa come Renata Pisu parla addirittura di un 70% della vecchia Pechino travolto dal cemento e dai grattacieli negli ultimi anni. Facciamo un giro in risciò a pedali, con diverse soste, anche se apprendiamo che, in vista delle Olimpiadi, il governo ha imposto alle guide percorsi obbligati. Una zona vicina al lungofiume è piena di localini e negozietti per turisti. Giovani con i capelli colorati e l’aria da punk occupano i tavoli dei pub. Altre zone più interne e degradate ci riportano indietro nel tempo, a una Cina che forse è già sparita sotto le ruspe mentre stiamo scrivendo. Visitiamo una casetta in cui abita una coppia di anziani. Lo schema è sempre quello quadrato, con un cortile interno su cui danno tutte le stanzette. All’interno spiccano tv e computer nuovi, di buona qualità, in mezzo alla miseria più nera. La signora ci riceve affabilmente ma è costretta ad ammettere che i suoi figli preferiscono vivere lontano, nei grattacieli. Salutiamo e ci immergiamo nuovamente nel vortice degli hutong. Ci risponde anche il corvo della coppia, abituato a dire Nihao (buongiorno).
Di sera cena con l’anatra laccata in un elegante ristorante. Col cameriere che affetta la “prelibata” pietanza davanti a noi, munito di coltellaccio e mascherina da chirurgo. Per mesi, prima della partenza, questo piatto era diventato il simbolo dell’incubo gastronomico che la Cina rappresentava…E invece mangiamo di gusto e senza problemi. Difficile descrivere il sapore, nulla a che vedere col pollo. Piuttosto sembra quasi una porchetta, soprattutto la pelle glassata diventa gustosa e croccante…UATTOO’ di felicità, viene proprio dal palato.
L’indomani la visita è al Tempio del Cielo, patrimonio dell’Unesco, oggi anche parco pubblico. Due volte all’anno l’imperatore vi si recava per ringraziare per il raccolto già fatto e per propiziare il raccolto venturo. L’edificio di maggior pregio è il rotondo Quinian Dian (appunto la Sala della preghiera per i buoni raccolti), tutto di legno, costruito senza l’uso di un solo chiodo, alto 40 metri con tre livelli coperti di tegole blu intenso. L’enorme parco è l’occasione per vedere il variopinto popolo cinese dedicarsi al ballo, al badminton, agli aquiloni, ai canti o a gettare urla al Muro dell’Eco.
Con Serena torniamo all’aeroporto-dragone, salutiamo e diamo una meritata mancia a lei e all’autista. Due ore di volo e siamo a Xi’an, l’antica capitale.
I GUERRIERI DI TERRACOTTA Per più di mille e cento anni, attraverso 13 dinastie, Xi’An (leggi scian) è stata la capitale e il centro dell’Impero, fiorente di commerci lungo la Via della Seta. Oggi è una moderna città industriale di 7,5 milioni di abitanti. E anche una delle più inquinate a causa di fabbriche e centrali elettriche (a carbone) che la circondano.
All’aeroporto viene a prenderci la nuova guida, Vittorio (nome per gli italiani) che si rivelerà abilissimo nell’organizzarci gli extra (e guadagnarci). Arriviamo all’hotel Shangri La, anche questo molto elegante (secondo la guida del National Geographic il migliore della città) e ceniamo. Al buffet internazionale la gradita sorpresa: il cuoco cucina anche dell’ottima pasta e non mancano i dolci (UATTOO’).
Di sera, su proposta di Vittorio, andiamo nel centro storico e assistiamo allo spettacolo, davvero affascinante, delle fontane musicali: getti d’acqua coordinati su una colonna sonora accattivante. In piazza anche qui la gente si riversa per cantare, ballare e mangiare. A Xi’An esiste anche una forte comunità musulmana (c’è anche la moschea) e quindi Vittorio ci porta in un mercato arabo che non ha nulla da invidiare ai suk africani. Tra bancarelle di essenze e profumi, negozietti di thè, kebab e spiedini di agnello, ci porta poi in un negozio dove c’è, così dice nel suo italiano sgrammaticato, ”uno segreto”: un retrobottega di tarocchi…
Il giorno dopo visite a Xi’An: saliamo sulle mura della città antica, splendidamente conservate. Risalgono alla dinastia Ming e sono profonde dodici metri e lunghe 14 km. Di mattina figuranti in costume d’epoca aprono il ponte levatoio sul fossato. Andiamo poi al museo della Foresta di Stele (iscrizioni su pietra) e alla Pagoda della Grande Oca (monastero buddista), purtroppo chiuso per restauri dopo il terremoto.
Tacitato bruscamente Vittorio che ambisce a farci visitare a lungo un altro paio di fabbriche, di pomeriggio la visita più attesa: i guerrieri di terracotta. Come è noto, si tratta di oltre 7000 statue trovate nel mausoleo del primo imperatore, Qin Huangdi, l’uomo che unificò la Cina e le diede anche il nome (Qin si legge appunto Cin) per morire poi nel 210 a.C.
Le costruzioni vennero subito dopo distrutte e date alle fiamme da coloro che fondarono la dinastia Han. E i guerrieri hanno dormito sottoterra fino al 1974 quando un contadino fortuitamente ritrovò una statua (l’anziano è ancora vivo e, dietro lauta mancia, autografa in loco i cataloghi). Oggi la zona ospita uno dei musei più affollati e noti del mondo. Vi sono in tutto 4 fosse, ma la principale, nella quale soffermarsi, è la prima. Di forma rettangolare, è lunga 200 metri e larga 60, suddivisa in 11 corridoi. Si può percorrere l’intero perimetro del capannone che la sovrasta ma la vista migliore è proprio quella dell’ingresso. Andando sul fondo si può invece osservare l’intenso lavoro di recupero e restauro sulle statue.
Nella seconda fossa si trovano per lo più cavalli e carri da guerra, nella terza ufficiali e statue non finite (probabilmente per la morte del sovrano). Esiste anche una quarta fossa trovata vuota. Un altro edificio ospita un piccolo e affollato museo con, tra l’altro, il modello in miniatura di un carro di bronzo con 4 cavalli e cocchieri (ritrovato nel 1980). Le statue sono imponenti, varie e dettagliatissime nel volto e nei costumi. Alte un metro e ottanta, appena tirate fuori dalla polvere mantengono i colori originali. Poi nel giro di poche ore assumono la tinta marrone o grigiastra. La guida ci spiega che si sta cercando un modo per continuare gli scavi, preservando queste tinte sopravvissute più di duemila anni. Ma l’intera zona conserva ancora chissà quante sorprese, a cominciare dalla tomba vera e propria del Primo imperatore, che si trova a un chilometro e mezzo dai guerrieri e che ancora non è stata portata alla luce. Tutti coloro che erano a conoscenza dell’ingresso vennero uccisi.
Scrive un antico narratore (Sima Quian) che “la camera mortuaria venne riempita con modelli di palazzi, torri, pietre preziose. Furono fissate all’esterno balestre automatiche capaci di uccidere sul colpo gli eventuali ladri…”. Gli scavi proseguono quindi con cautela…Anche visitando le tombe dei Ming a Pechino, d’altronde, la guida ci aveva mostrato i pozzi in cui venivano gettati vivi i dignitari di corte che avevano seguito la tumulazione dell’imperatore, sempre per mantenere il segreto sull’ubicazione della tomba.
Qui Vittorio piazza il suo affondo e, con merito (UATTOO’ di gaudio) ci propone la visita a …Un altro esercito di terracotta. Nei pressi dell’aeroporto di Xi’An, infatti, da pochi anni sono venuti alla luce altri guerrieri: la scoperta, poco pubblicizzata in Italia e nelle guide che avevamo consultato, merita senz’altro una visita suppletiva.
Nel 153 avanti Cristo, il quarto imperatore della dinastia Han decise di impreziosire la propria tomba con una schiera di guerrieri: si tratta di centinaia di statue più piccole di quelle di Qin ma in origine rivestite di seta finemente tessuta e colorata. Nel mausoleo, noto col nome di Hanyang, anche scheletri di animali veri murati nella tomba e modellini di animali finti. Il museo si può visitare agevolmente perché si cammina su lastre di vetro attraverso le quali si osservano da vicino le statue e gli scavi che ancora proseguono.
Di sera altra cena tipica, stavolta con squisiti ravioli (dodici tipi diversi di ripieno) e, nello stesso edificio, ci accompagnano poi in un elegante teatro per lo spettacolo di “danze imperiali”, con incluso una coppa di champagne: ve lo consigliamo, il nome è “The Tang dinasty” (Changan Road 75) SHANGHAI L’indomani salutiamo Vittorio e l’autista e ci imbarchiamo per Shanghai con un volo di un’ora e 50’. Al recupero delle valigie un addetto controlla attraverso le etichette che abbiamo ritirato davvero il nostro bagaglio (encomiabile).
All’uscita dall’aeroporto, incontriamo il signor Wang, la nostra guida, che si dimostrerà di gran lunga la più preparata e con il migliore italiano (addirittura con accento aspirato toscano). Andiamo a pranzo in una brasserie dove ci accoglie una bisteccona…Poi la guida ci avvisa che, essendoci una tregua dopo lunghe piogge, conviene iniziare subito le visite. Il centro storico, perfettamente conservato o ricostruito, è il cuore di una megalopoli da 8 milioni di abitanti (16 milioni con l’area metropolitana): osserviamo la Casa del tè Huxingting (la più vecchia della città) che si raggiunge attraverso un ponte a zig zag su un piccolo lago, e i Giardini Yujuan (XVI secolo) con rocce e colline artificiali, stagni pieni di carpe gigantesche, mura e padiglioni. Nonostante l’enorme afflusso di turisti, si coglie ancora tutto il sapore dell’antica Cina.
Andiamo poi sul Bund, il famoso lungofiume dal quale si può abbracciare con lo sguardo il doppio volto di Shanghai. A destra si osserva infatti una sfilata di splendidi palazzi tipici dell’architettura di epoca coloniale, tra cui il Peace hotel (purtroppo chiuso per restauri). L’era in cui Shanghai era terra di droga e di spie, di prostituzione, intrighi e affari internazionali…
A sinistra, invece, – oltre il fiume Huangpu – ecco la zona modernissima di Pudong con la famosa torre della tv e una serie di grattacieli proliferati in pochissimi anni dove una volta era tutta campagna (con grande sconcerto degli anziani del luogo). Il governo cinese sta infatti investendo moltissimo sulla città per farne il contraltare di Hong Kong come centro economico della nuova Cina. Più tardi, prese le camere all’hotel Salvo, torniamo sul Bund illuminato: uno spettacolo da non perdere (fino alle 22). C’è anche il tempo per una passeggiata sulla via Nanchino (a poche decine di metri dal nostro albergo), la strada pedonale con i migliori negozi e i grandi mall all’americana. Nelle strade laterali, mentre torniamo in hotel, possiamo assistere alla movida alla cinese. Conclusa la giornata di lavoro, la gente si riversa per le strade (non so se per via degli appartamenti minuscoli o per la cattiva qualità dei programmi tv) e sta lì ad arrostire spiedini o friggere pesce, mangiando e chiaccherando allegramente, tra rutti di gradimento e sputi sul marciapiede.
Il giorno dopo, secondo giorno a Shanghai, si festeggia il mio compleanno. Visitiamo due monasteri buddisti: il tempio del Budda di Giada e quello di Quien Lu, tra imponenti statue dorate e nuvole di incenso. Finalmente il signor Wang ci fa capire origini e fondamenta del buddismo con spiegazioni dettagliate e competenti (io ero fermo a Siddharta di Hesse…). Visita anche al museo di Shanghai, dove a sorpresa troviamo anche audio-guide in italiano. Se in Cina volete limitarvi ad un solo museo dedicatevi a questo: con un allestimento moderno e funzionale, permette davvero uno sguardo d’insieme sullo splendore dell’arte e dell’artigianato delle dinastie imperiali. Interessante anche il piano destinato ai tessuti e costumi d’epoca, ben fornito il bookshop.
Pranzo veloce alla cinese (dieci minuti netti) e consueta visita in una fabbrica, dove compriamo sciarpe di cachemire e preziosa pashmina. Di pomeriggio incursione nel mondo del tarocco: prima in una sudicia casa con un minuscolo bagno-cucina dove stanno persino tosando un cane. Purtroppo le camicie della mia misura sono proprio nei pacchi accatastati sotto il cane e quindi mi astengo dall’acquisto, sentendo già un po’ di prurito…Poi visitiamo un enorme market alloggiato nei locali di servizio di un teatro…
Cena all’hotel Salvo (forse il più bello del viaggio, almeno per le eleganti camere, ma purtroppo non c’è un buffet internazionale, solo cibo cinese o quasi) e in serata andiamo in un teatro per assistere a uno spettacolare e coloratissimo show acrobatico (da consigliare) con ballerini-atleti degni dei migliori circhi.
HONG KONG Il giorno dopo (21 giugno) trasferimento in aereo e in due ore siamo a Hong Kong, fino al ’97 terra inglese, oggi tornata alla Cina tra mille paure ma comunque governatorato autonomo per altri 50 anni e ancora città di ricconi e di affari, di Rolls Royce e grattacieli. Nel programma non è previsto nulla ma, approfittando del volo in orario (come tutti quelli del viaggio, tranne il primo), chiediamo alla guida un city tour supplementare. Sono infatti le 14 e l’imbarco sulla Allegra è previsto solo dalle 16. L’idea si rivela ottima e più tardi capiremo perché (UATTOO’ di soddisfazione).
Concordiamo prezzo e durata del giro (3 ore e mezzo) e, a bordo di una fiammante monovolume Toyota con sedili di pelle e telecamere, visitiamo il Victoria Peak, la zona collinare con le residenze più lussuose e un panorama spettacolare sulla baia dove laggiù, vicino al molo dei ferry, intravediamo la Allegra. La guida parla solo inglese ma grazie a Manu (e al fatto che con Maria siamo già stati due volte a Hong Kong) ci orientiamo facilmente. Attraversiamo il centro con i palazzoni delle vie degli affari. Poi andiamo a Repulse Bay, la famosa spiaggia, e visitiamo il grande e coloratissimo tempio buddista proprio sulla riva. Ci propongono la visita in gioielleria e – ormai avvisati dell’andazzo – rifiutiamo, chiedendo in cambio di essere portati allo Stanley Market, dove non mancano le occasioni dello shopping. In un negozio vedo anche magliette di Bruce Lee che urla e il grido sembra proprio il nostro UATTOO’…
Infine andiamo ad Aberdeen, il villaggio dei pescatori e facciamo un giro in sampang, accompagnati da un vecchietto al timone: ai ragazzi ricorda l’imbarcazione guidata da Stallone in Rambo IV. Nella baia intere famiglie vivono in condizioni sub-umane in vecchissime barche all’ancora. Ed è nettissimo e impressionante il contrasto con i grattacieli sullo sfondo.
Torniamo al porto ed è il momento dell’imbarco sulla Allegra. Lasciamo le valigie sul molo, le ritroveremo nella nostra minisuite, ma si resta per ora ad Hong Kong, dove la nave rimane all’ancora anche domenica 22.
Per tempo avevamo programmato una giornata che per i ragazzi è rimasta la più divertente del viaggio (e forse non solo per loro): la visita al parco Disney. Aperto nel 2005, è ancora piccolo e poco conosciuto ma per noi appassionati rappresenta comunque un’occasione ghiotta (gli altri sono in California, a Orlando in Florida, a Parigi e Tokyo). Biglietti già fatti su internet (circa 30 euro a persona), di mattina presto prendiamo un taxi e in mezz’ora siamo ai cancelli. La spesa per il taxi è di circa 18 euro. Pensate che in agenzia ci avevano chiesto 150 euro a persona per biglietto e transfer. Quando entriamo, puntuali alle 10, risuona davvero un UATTOO’ liberatorio. Alcuni nostri amici ci avevano infatti terrorizzato dicendo che, essendo il parco piccolino, appena si raggiunge il numero massimo di visitatori, i cancelli vengono chiusi per sicurezza. Probabilmente un problema reale subito dopo l’inaugurazione del parco, ma ora non c’è più una simile folla.
Il parco è diviso in quattro parti che ruotano intorno al viale principale, dove si svolgono le parate (vedi la mappa sul sito Disney). Andiamo in lungo e in largo più volte nonostante il gran caldo: i giochi più gettonati sono quelli di Buzz Lightyear (si spara a Zurg, e a vari bersagli, dalla navicella) e (per Simone e Maria) le montagne russe al buio di Space Mountain. Divertimento tra liane e ponti sospesi anche sull’isola di Tarzan (soprattutto per Manu). Memorabile la parata pomeridiana con i personaggi Disney che innaffiano il pubblico e regalano un po’ di refrigerio. Pranzo con un buon hamburger in un fast food e fino alle 20, orario di chiusura, spasso per tutti.
All’uscita troviamo un altro taxi che ci riporta all’Ocean Terminal. Il tassista dell’andata guidava senza scarpe, questo sembra un po’ più normale e ci lascia davanti al porto, dove spendiamo gli ultimi dollari di Hong Kong nei numerosi negozi del terminal (vale una visita).
CINESERIE Bye Bye Cina, domani comincia la crociera. Scrivo alla vigilia dell’abbuffata agostana sui mass media per le Olimpiadi e quindi forse voi ne avrete già abbastanza. Qui occorre comunque dire che, abbagliati dalle bellezze culturali dell’Impero Celeste (o dal kitch della Cina d’oggi), non bisogna dimenticare che – dal massacro di piazza Tienanmen in poi – non sono stati fatti chissà quanti passi avanti sul piano dei diritti umani. Come scrive Federico Rampini, parliamo della più grande dittatura del mondo. Dove si finisce in galera per un articolo di dissenso contro l’oligarchia che controlla il partito unico e le sorti dell’intero paese. E lo ha lanciato verso un capitalismo senza scrupoli. Allo stesso modo la condizione femminile è lontana anni luce dalla parità. Gli operai rischiano la vita ogni giorno nei cantieri, senza alcuna tutela. E i cattolici sono continuamente osteggiati e incarcerati: il governo nomina persino i vescovi. Se in valigia la polizia cinese vi trova più di una Bibbia, sarete respinti alla frontiera con l’accusa di propaganda contro il Partito. Della mancanza d’acqua, dell’inquinamento e della sovrappopolazione si è già detto…
Tutto ciò contribuisce a creare quel clima di diffidenza e mistero che pervade l’Occidente a confronto con la realtà della Cina moderna. E, chiedendo in giro durante il viaggio, c’è stata la conferma: il governo di Pechino incentiva il trasferimento di famiglie cinesi all’estero, pronte – contanti alla mano – a rilevare negozi e piccole imprese, riempendo le strade occidentali di lanterne rosse. Sembra lecito il sospetto di un progetto egemonico, politico ed economico. Nel 1816 Napoleone disse: “Quando il colosso cinese si sveglierà, il mondo tremerà”. Frase ripresa da Lenin un secolo dopo. Oggi, altri cento anni dopo, forse la profezia è vicina ad avverarsi.
IN CROCIERA CON LA ALLEGRA La Allegra è una delle navi più piccole e con più anni sul groppone della flotta Costa. Ma la scelta è stata obbligata in quanto nel 2008 è l’unica ad effettuare queste crociere in Estremo Oriente. Visto il successo, dal prossimo anno arriverà la ”Classica” (che ha il doppio del tonnellaggio) mentre la ”Allegra” andrà a Sud, tra Filippine e Malesia.
Tutto questo per dire che le rughe, nonostante i lavori del 2006, si vedono. Rispetto alle sorelle più grandi (noi le abbiamo provate tutte, dalla Atlantica alla Serena, varata nel 2007), le cabine sono piccole (circa 15 metri quadri), anche se alcune vengono vendute come quadruple. Noi abbiamo ovviato scegliendo una minisuite (l’ultima disponibile, prenotata a ottobre). A bordo diversi servizi igienici sono logori, durante il viaggio l’aria condizionata è andata a singhiozzo in alcune cabine, la rottura di un tubo ha allagato per un pomeriggio una parte del nostro piano.
I lavori del 2006 sono serviti ad adattare la nave ai gusti dei passeggeri cinesi: in origine la “Allegra” doveva servire in esclusiva per loro, poi sono state introdotte anche le crociere per il pubblico occidentale, come questa di giugno. Ad esempio un grande bar che si trovava al ponte sopra il ristorante è stato cancellato ed è stato di conseguenza ampliato il casinò (i cinesi sono grandi appassionati del gioco d’azzardo). Il teatro è stato trasformato in un lounge bar/sala da ballo con i tavolini e così via. Alcuni cambiamenti non sono però irreversibili: ad esempio il sushi bar per la crociera europea è diventato cioccolatteria. L’insieme degli ambienti comuni è comunque gradevole e sobrio, il servizio accurato come da tradizione, lo chef è italiano sia al ristorante principale, il Montmartre, che in quello Amalfi (a pagamento, lo proviamo grazie alla cena che spetta ai soci Pearl ed è di buon livello. Segnaliamo le farfalle con i broccoli e la millefoglie di cioccolato). Da segnalare anche approvvigionamenti di pesce fresco, sia a Hong Kong che a Kobe, che ci hanno permesso di avere nel menù dell’ottima aragosta e il dentice. A bordo i dirigenti dei servizi sono tutti italiani, durante le escursioni sono state assicurate sempre guide parlanti italiano (anche se spesso in modo insufficiente). Il programma prevede il consueto calendario di iniziative Costa (animazione e concerti, cocktail col comandante, cena di gala, serata “italiana” con i camerieri che ballano, buffet di mezzanotte…) Una curiosità: su 800 passeggeri (per lo più italiani, spagnoli, francesi e inglesi) circa 300 erano soci Pearl (i più “fedeli”), a conferma del fascino di questa crociera sui clienti abituali. Una nota di merito per la gentilezza e l’affabilità al comandante Donato (che avevamo già conosciuto sulla Serena) e all’hotel director Delucchi.
Rughe della nave a parte, i problemi principali emersi durante la crociera sono stati due. Il primo: numerosi passeggeri si sono presentati a bordo senza il visto individuale cinese. Solo grazie alla mobilitazione dello staff Costa si è riusciti ad ovviare con un visto collettivo giunto in extremis prima dell’arrivo a Tjanjin. Di conseguenza all’arrivo a bordo, il pomeriggio e la sera del 21, scintille e tensioni. Di certo le agenzie di viaggio dovrebbero informare di più, ma è anche vero che, in vista delle Olimpiadi, le autorità cinesi ad un certo punto hanno bloccato l’emissione dei visti. In vari scali lo staff Costa ha cercato di agevolare le pratiche di sbarco, precompilando i moduli ma ciò ha comportato che i passaporti venivano ritirati e rilasciati in varie ondate. Per esempio a Hong Kong la sera della domenica, una volta saliti a bordo, il documento è stato ritirato e non è più stato possibile lasciare la nave.
Il secondo problema è stato connesso ai controlli cinesi molto lenti e burocratici all’arrivo a Tjanjin, con conseguente ritardo di partenza delle escursioni (slittate dalle 8 alle 12,30) verso la Città Proibita o la Grande Muraglia. Sono state controllate persino le carni di pollo in cambusa e all’equipaggio è stato proibito di scendere a terra. Se il problema delle lungaggini non dovesse risolversi, forse occorre ripensare la fase finale della crociera, magari programmando un “overland” a Pechino con un pernottamento, in modo da poter vedere sia la Città Proibita che la Muraglia (dover scegliere tra le due cose ha messo molti in imbarazzo, al di là delle ore trascorse in inutile attesa sulla nave).
Durante gli scali in Giappone, invece, si è respirato un clima diverso. Già alla prima tappa, Naha-Okinawa, i controlli sono stati molto celeri e svolti a bordo velocemente. A Tokyo ci hanno accolto con la banda sulla banchina e la stessa cosa è avvenuta a Nagasaki: in quest’ultimo porto le autorità sono salite a bordo per un saluto ai passeggeri, offrendo anche uno spettacolo di danze giapponesi. Ma ecco il racconto delle varie tappe della crociera.
KEELUNG (Taiwan) Arriviamo ancora sotto choc perché nella prima notte di navigazione abbiamo assistito in tv alla disfatta dell’Italia ai rigori con la Spagna. Via satellite col nostro fuso orario erano le 2,45 al calcio d’inizio, l’alba all’ultimo rigore…! Quanto sonno sprecato…
Arrivati in porto, via con la prima escursione, il city tour di Taipei di 4 ore e mezzo. Con noi sul bus una guida locale e una interprete che traduce in italiano. La tappa più interessante è al Museo Nazionale, con una collezione di circa 700 mila pezzi e il meglio del tesoro che Chang Khai Chek portò via da Pechino e dalla Città Proibita. Ceramiche e porcellane, antichi oggetti in bronzo, sculture di giada, ricami, pitture, meraviglie dell’oreficeria e dell’artigianato. Si visita poi il Santuario dei Martiri, che ricorda i caduti della guerra civile: affascinante il cambio della guardia, ritmato dai passi marziali e dal rumore dei fucili che vengono fatti ruotare nell’aria. I militari sono addestrati a restare rigidamente immobili…Poveri soldatini, sotto il gran caldo-umido che anche qui, come nel resto del viaggio, continua a imperversare. Ultima tappa al Memoriale della Democrazia, già di Chang Khai Chek: di recente è cambiato il partito al governo e di conseguenza è stato modificato il nome. Il mutamento al potere ha portato anche un certo disgelo col governo di Pechino che continua a ritenere Taiwan (da sempre protetta dagli americani) una provincia cinese da riconquistare. I propositi bellicosi sono (per ora) messi da parte e dai primi di luglio duemila turisti cinesi al giorno potranno sbarcare sull’Isola. Cosa che suscita una certa apprensione tra i residenti…
In sostanza escursione affascinante e varia, ma se volete potete anche prendere un taxi e andare soltanto al museo che è l’appuntamento più interessante.
OKINAWA Temperatura corporea, impronte digitali, foto dell’iride, tre moduli e fotocopia del passaporto: questa la trafila per sbarcare in Giappone. Ma, curioso a dirlo, la polizia nipponica sale a bordo e con velocità ed efficienza, tutti i controlli sono effettuati rapidamente. Mettiamo quindi piede nel regno del Sol Levante, isola di Okinawa, città di Naha. L’escursione scelta è “Okinawa dai tempi antichi ai giorni nostri”. Prima visita al Castello di Shuri-jo, interamente rifatto nel 1992 sul modello del XV secolo dopo le distruzioni della guerra. L’isola per circa 500 anni è stata infatti un regno autonomo e questa era la residenza reale: è patrimonio dell’Unesco, per quanto solo alcune parti siano originali.
La seconda visita è tra le più emozionanti dell’intero viaggio: scendiamo nel bunker sotterraneo dove le truppe giapponesi resistettero per mesi all’avanzata degli americani durante la guerra mondiale. Solo dopo aver conquistato l’isola, infatti, gli Usa ebbero mano libera nel ribaltare le sorti dello scontro con il Giappone (iniziato, ricordiamolo, con il massacro a freddo di Pearl Harbour). Basta qui ricordare i numerosi film di guerra sulle battaglie di Okinawa. Stavolta il punto di vista è ribaltato, si visitano i locali dove i giapponesi avevano organizzato la resistenza con l’aiuto della gente del luogo. C’è ancora la stanza con i buchi alle pareti dove gli ultimi soldati e il loro comandante si fecero saltare in aria con le granate per non arrendersi. Nel bunker furono trovati 175 corpi di suicidi. Il comandante lasciò un biglietto in cui elogiava i soldati e la gente di Okinawa per l’eroica resistenza.
Sui camminamenti e i locali sotterranei è stato costruito un museo con impressionanti foto e documenti dell’epoca. In silenzio usciamo, meditando una riflessione sulle atrocità della guerra.
Il tour si conclude in Kokusai Street, via del commercio e del mercato di alimentari, carne e pesce. Svicoliamo rapidamente perché in certi punti l’odore è davvero nauseabondo. Purtroppo scoppia infine un acquazzone: riguadagniamo il pullman per una veloce corsa verso la nave e una doccia calda.
KOBE Qui la “Allegra” resta all’ancora due giorni. La cittadina di Kobe non offre molto se non la vista di qualche costruzione avveniristica nei pressi del porto. Scegliamo quindi il tour di Kyoto con lo Shinkansen (il treno superveloce) per il primo giorno e la gita ad Osaka di mezza giornata. Era possibile anche un “overland” con pernottamento a Kyoto, ma a costi ragguardevoli.
Il nostro primo tour è di una giornata con pranzo: eravamo stati in Giappone per una ventina di giorni nel ’95 e quindi riscopriamo le bellezze dell’antica città con un pizzico di nostalgia. A Kyoto, risparmiata dai bombardamenti, si trovano la maggior parte dei monumenti davvero “autentici” e non ricostruiti dopo la guerra. Le guide parlano di 1800 templi nella zona, centinaia di santuari, giardini e monumenti che hanno fatto la storia di una metropoli che è stata capitale dal 794 al 1868 (chiusura del periodo Edo, quello dello splendido isolamento del Giappone. Alla fine dell’800 l’imperatore, spalleggiato dagli occidentali, riprese il potere soppiantando i samurai: ricordate il film con Tom Cruise?).
Unica difficoltà: troviamo la città “blindata” per la visita del Segretario di Stato americano Condoleezza Rice. Nella zona del ricevimento, presente l’imperatore al Palazzo imperiale, c’è praticamente un poliziotto ogni dieci metri di marciapiede.
Ad ogni modo il pullman riesce in slalom a rispettare il programma: la prima visita è al tempio buddista Kiyomizu-Dera, immerso in uno splendido parco e costruito in cima a una collina. È dedicato alla divinità Kannon dalle undici teste. Custodisce una fonte dalla quale si può prelevare l’acqua con particolari contenitori legati a lunghi bastoni. Bere il prezioso liquido assicura fortuna e longevità…La sala principale è del 1633, tutta la struttura poggia su una palafitta con 139 tronchi. La vista domina la città.
Seconda tappa al Tempio Kinkaku-ji, il Padiglione sul lago interamente rivestito al secondo e terzo piano da lamine d’oro: è uno dei simboli del Giappone. Costruito nel 1397, fu gravemente danneggiato nel 1950 da un incendio, provocato da un monaco squilibrato, e poi ricostruito. All’incidente è dedicato il famoso libro di Yukio Mishima Kinkaku-ji. Panorama incantato anche per il meraviglioso parco che abbraccia la costruzione.
Pranzo “giapponese” in un elegante hotel, del quale salverei solo il sushi. Manu resta digiuno, più tardi si consolerà con l’acquisto di una katana, la spada dei samurai (ricordate Kill Bill e Uma Thurman?). Di pomeriggio visita al santuario Heian: è la ricostruzione del 1895 di un santuario del palazzo imperiale appunto del periodo Heian (794-1185 d.C.) e ne riproduce fedelmente anche i colori sgargianti rosso e arancione a cominciare dal colossale Torji, la “porta” d’ingresso. Il complesso include due pagode e diversi edifici decorati con tetti in stile Ming e tegole verdi e blu: è uno dei luoghi dalla mirabile bellezza dove si possono toccare con mano i punti di contatto tra Cina e Giappone (almeno nella religione). Infine sosta al mercato di Nishiki, variopinto e nauseabondo. Fuggiamo inseguiti dagli odori di pesce e fritture. Usciti dalla galleria coperta degli alimentari, vale invece la pena fare una passeggiata per lo shopping negli altri negozi. Il ritorno è con lo Shinkansen, il treno superveloce che raggiunge i 300 all’ora.
Il giorno dopo escursione di mezza giornata ad Osaka, circa 40 chilometri da Kobe. Il piatto forte è il Castello costruito alla fine del XVI secolo da Toyotomi Hideyoshi, uno dei più famosi signori della guerra. Distrutto più volte da incendi, è stato ricostruito nel dopoguerra (l’intera città fu praticamente rasa al suolo). All’interno del castello molte sale sono dedicate appunto a Hideyoshi e alle sue gesta militari, qui è un eroe mentre in Occidente è per lo più noto per il massacro dei cristiani che si rifiutarono di abiurare (si parla di decine di migliaia di vittime). Splendida la vista dall’ultimo piano anche se la folla di turisti è davvero enorme (attenti alle scale strette).
Si visita poi il museo di Osaka: in realtà ha più che altro una valenza didattica per gli studenti giapponesi, illustrando con disegni e pupazzi le varie epoche della storia nipponica (pochissime le scritte in inglese e la guida non segue il nostro gruppo). Tanto che la cosa più interessante è stata fotografare da una vetrata il Castello con lo sfondo dei grattacieli (una delle immagini simbolo del Giappone tra antico e moderno). Per il resto Osaka è una città d’affari e commerciale con alcuni edifici di architettura arditissima. Pare che gli abitanti, quando si incontrano, si salutino dicendo: “Mokari Makka?”. Cioè: stai guadagnando? Al piano terra, accanto l’uscita del museo c’è uno studio televisivo della rete NHK: sbirciamo in diretta un programma del tipo “UnoMattina” con ospiti che ridono e pubblico che applaude a comando…
GIAPPONESERIE Ancora più della Cina, il Giappone rappresenta un enigma per gli occidentali. Lingua, cultura, abitudini, tutto sembra dividerci da un paese che pure è tra i più occidentalizzati dell’Oriente. Retaggi di un lungo passato di splendido isolamento si mescolano con lo “spirito dei samurai” che sopravvive nella dedizione al lavoro e alla propria azienda, tali da ricordare il senso di appartenenza del “civis romanus”. Il senso del dovere, il “giri”, l’obbligo di non venire meno alle usanze della comunità, domina ancora oggi la maggior parte dei comportamenti Rispetto alla prima visita nel ’95, abbiamo trovato un Paese con meno sicurezza e meno certezze economiche: la crisi della seconda metà degli anni Novanta (borsistica e politica, tra bolle affaristiche e corruzione partitica) non è mai stata superata davvero. Anzi, negli ultimi anni l’avanzata cinese è vista con timore.
Con l’euro in mano rispetto alle svalutate lirette, si può pensare a una vacanza al Sol Levante che non equivalga a svenarsi, tra un “Konichi-ua” e un “arigato” (non siamo riusciti ad andare oltre queste due parole, buongiorno e grazie).
Se i cinesi sono caciaroni a suon di rutti e pacche sulle spalle, i giapponesi si confermano distaccati e paurosi di ogni contatto fisico. Nel dialogo cercano di evitare ogni frase che possa offendere o disturbare l’interlocutore.
I cinesi non rispettano le file e verrete scalzati dal vostro turno a suon di gomitate anche in aeroporto. I giapponesi sono invece maniaci dell’ordine e dell’efficienza. Se i cinesi sono matti per tutto ciò che è americano e occidentale, i giapponesi stanno riscoprendo nelle difficoltà economiche l’orgoglio nazionale: uno dei bestseller più venduti è “Il Giappone che sa dire di no agli Stati Uniti”. I cinesi muoiono come mosche d’inquinamento e nei cantieri senza legge (abbiamo visto operai in autostrada lavorare senza alcun tipo di protezione o transenne). I giapponesi coltivano il male di vivere e, soprattutto tra i giovani, hanno la più alta percentuale di suicidi al mondo. E dunque: cinesi e giapponesi hanno alle spalle due imperi oggi nuovamente in lotta (una lotta commerciale, finora) e dalle sorti di questo scontro dipende molto del ventunesimo secolo.
TOKYO Anche nella capitale Tokyo la “Allegra” resta all’ancora due giorni. Le escursioni sono “Tokyo antica e moderna”, (intera giornata col pranzo) e, l’indomani, il tour naturalistico con escursione al Monte Fuji (intera giornata con pranzo). Prima sosta nel parco del Palazzo Imperiale o Castello Edo, che purtroppo si può ammirare solo da lontano (gli stessi giapponesi possono accedervi soltanto un paio di volte l’anno in occasione di feste): un enorme fossato, i portali e le antiche torri di difesa e il “Ponte doppio”.
Si visita poi il Santuario shintoista Meji, circondato da un meraviglioso parco costruito nel 1920 da centomila volontari per onorare la memoria dell’imperatore Meji (il santuario fu distrutto nel ’45 e ricostruito nel ’58).
Sosta per il pranzo in un hotel dove ci viene servito un menù di cucina francese che è una lieta sorpresa.
Di pomeriggio visita al tempio buddista di Asakusa Kannon (o Senso-Ji), uno dei simboli più importanti di Tokyo con la sua enorme lanterna di carta rossa appesa al centro del Cancello del Tuono con ai lati due divinità dall’aspetto feroce. Siamo nel cuore della città antica, nel quartiere più pittoresco. Anche questo tempio è ricostruito (1958) ma vanno comunque notati il tetto con 70 mila tegole di bronzo, la grande pagoda a cinque piani, l’enorme braciere di bronzo nel cortile, dove brucia costantemente l’incenso.
All’uscita siamo nella via Nakamise, con ai lati due file di negozietti dove ci si può lanciare nello shopping più conveniente: compriamo kimono di seta, un’altra katana per Simone e vari oggettini. Infine col pullman andiamo nella zona di Ginza, il centro commerciale più elegante e curiosiamo a Yon-Chome, l’incrocio più famoso della città che ricorda un po’ Time Square a New York. A pochi passi raggiungiamo e visitiamo il Sony Building, il grattacielo con tutte le novità dell’elettronica. Per tutta la giornata piove fitto fitto, ma con ombrelli e impermeabilini non ci diamo per vinti.
L’indomani purtroppo il maltempo continua e l’escursione sul monte Fujii si trasforma in una delusione: pioggia e nuvole basse coprono praticamente tutto il panorama e anche del vulcano non c’è traccia, come se fosse stato inghiottito dalla foschia. Peccato, perché il giro prevede la visita al parco nazionale di Hakone, passando per una immensa foresta e osservando il cratere vulcanico della valle di Owakudani. Poi si sale con la funivia ma è come immergersi in una nuvola di borotalco…L’attrazione principale della zona sono le uova sode nere, cotte nell’acqua allo zolfo. Di certo, l’odore non è dei più attraenti…
Pranzo sempre alla francese in uno splendido hotel immerso nel verde: minestra, pesce e dessert. Di pomeriggio il tempo migliora e ci godiamo una piccola crociera sul lago Ashi con una imbarcazione pittoresca. Il lago ha una circonferenza di 20 km e si è formato circa 400 anni fa nella caldera di Hakone. Da lontano si vede il Torji di ingresso del santuario Gongen.
Al ritorno a Tokyo è spuntato il sole. La guida, approfittando del fatto che siamo in anticipo sugli orari, permette un giro città supplementare. Rifacciamo così il tour dal Palazzo Imperiale a Ginza e senza pioggia è tutta un’altra musica. Da una sorta di tangenziale sospesa foto a raffica anche sui grattacieli, sulla torre di Tokyo (una replica della torre Eiffel, che a breve sarà smontata), la ruota panoramica e così via…Tornati a bordo, tutti sul ponte per ammirare la spettacolare uscita della “Allegra” dal porto, con lo skyline della capitale sullo sfondo. Passiamo sotto un ponte per qualche metro, chissà come si farà con le navi più imponenti della nostra…
NAGASAKI L’escursione scelta è “Nagasaki storica e culturale”. Visitiamo il Parco della Pace, un silenzioso giardino costruito nel 1955 che si estende tra fontane e monumenti frutto di donazioni internazionali. Domina il parco la “Statua della Pace”: un gigante realizzato dallo scultore Kitamura Seibo col suo dito rivolto verso il cielo a ricordare la morte venuta dall’alto. Poco lontano si arriva sul luogo calcolato come “ipocentro” dell’esplosione atomica, dove un sobrio blocco di marmo nero in un piazzale ricorda il giorno (9 agosto 1945) della tragedia. Di lato è rimasta una colonna della cattedrale cattolica polverizzata e in altri punti si possono osservare gli strati del suolo con le bruciature provocate dall’immane calore.
Si va poi al Museo della Bomba Atomica, inaugurato nel 1996, e vi assicuro che si tratta di un autentico pugno nello stomaco, per me paragonabile soltanto alla visita nel lager di Auschwitz. Si inizia dall’orologio fermato per sempre alle 11,02 per poi passare in rassegna reperti dilaniati (abiti, monete), filmati dell’epoca con i corpi straziati, i resti della cattedrale trasportati qui, foto scattate in quei giorni con gli occhi di bambini che non dimenticherete mai. Si può toccare con mano una bottiglia di vetro diventata molle come burro per il caldo.
Senza volersi dilungare, in questo tunnel dell’orrore c’è una foto che dice tutto: su un muro è rimasta solo l’ombra di una sentinella scesa di corsa da una scala per dare l’allarme dopo l’esplosione. L’onda d’urto lo ha disintegrato. Di quell’uomo è rimasta solo la foto di una macchia nera. Verso l’uscita alcuni pannelli ripercorrono anche la storia della guerra. E, con una buona dose di autocritica, si parla anche delle aggressioni giapponesi contro gli americani e della follia militarista che si impadronì del Paese nei primi decenni del Novecento.
Ritornando al pullman, poco lontano si vede il “One Leggend Torji”, mezzo pilastro di ingresso ad un santuario, rimasto miracolosamente in piedi mentre tutto ciò c’era intorno è stato cancellato.
Si visita poi il Giardino di Glover, un complesso ben conservato (sfuggì ai danni dell’esplosione perché in collina), esempio di architettura coloniale, dove si pensa che Puccini ambientò la Madame Butterfly. Si passa davanti alla deliziosa chiesa di Oura, la prima inaugurata per i cattolici dopo i divieti e le persecuzioni durate secoli. All’uscita del complesso di Glover interessante il Museo del Folklore con filmati sulle “processioni”, dove si vede come la pesante statua dell’immagine sacra viene lanciata in aria e ripresa …Al volo dai fedeli.
Subito fuori dal Giardino un viale attorniato da negozi e negozietti permette ancora lo shopping, poi a piedi si raggiunge la nave. In uno di questi shop si vendono anche oggetti di tartaruga, anche se un cartello avverte che l’esportazione degli stessi oggetti è severamente vietata (sic).
CHEJU Sbarchiamo in questa isoletta che è una delle principali stazioni balneari della Corea del Sud. Ma purtroppo siamo in bassa stagione ed è come visitare Riccione a novembre (a parte le nuvole, c’è comunque un caldo notevole). Per questa tappa e per la successiva a Tjanjin non abbiamo prenotato escursioni. Prendiamo quindi lo shuttle Costa (5 euro a persona a/r) che ci porta nella zona degli alberghi e dei negozi, depositandoci davanti a un enorme “mall” all’americana pieno di oggetti griffati con prezzi in dollari ragguardevoli.
Non siamo molto interessati e prendiamo allora un taxi. Con qualche difficoltà ci facciamo capire dall’autista che ci accompagna a vedere una roccia sulla scogliera che ha la forma della testa di un drago. Sugli scogli ci sono anche famigliole che fanno pic nic con polpi bolliti e frutti di mare. Facciamo poi un’incursione in un centro commerciale per i coreani e torniamo quindi sulla nave. Di sera il comandante ci invita a cena al ristorante Amalfi.
TJANJIN Ultima tappa che si apre con gli estenuanti controlli cinesi. Anche qui non facciamo escursioni organizzate e prendiamo lo shuttle. Apprendiamo che la navetta non porta a Tjanjin che dista circa 50 minuti ma in una città satellite chiamata Tangu (o qualcosa del genere). Il capolinea è nuovamente davanti a un centro commerciale con le griffe (uff), dove compriamo un oggettino e perdiamo 20 minuti prima di trovare una commessa che sappia usare la carta di credito per il pagamento.
Lungo la strada osserviamo mega-fabbriche che sputano inquinamento nell’aria dalle ciminiere (appena camuffate da cartelloni pubblicitari), bidonville con bambini che giocano nel fango, strade da Terzo Mondo.
Torniamo sulla nave un po’ annoiati. E subito dopo pranzo decidiamo di fare un’altra incursione. Un amico ci rivela infatti l’esistenza di un ”Tangu market” per cinesi pieno di negozi a buon mercato e tarocchi. Ci scrive su un foglietto il nome in cinese (come d’altronde conviene fare sempre in Cina perché quasi nessun tassista conosce l’inglese) e dopo varie insistenze riusciamo a farci portare in loco: un grande viale con negozi di ogni tipo (e senza nessun tipo di controllo). Ci addentriamo quindi – con qualche patema d’animo – nel cuore della Cina moderna e più autentica, in enormi gallerie cariche di prodotti d’ogni genere. Non c’è traccia di altri turisti. Con qualche difficoltà (i negozianti non accettano carte di credito o euro), riusciamo a districarci negli acquisti e nelle trattative. UATTOO’ di giubilo.
Poi facciamo i bagagli e ci prepariamo al lungo ritorno. Prudentemente avevamo portato due borsoni vuoti, chiusi nelle altre valigie, e così passeremo indenni ai controlli del peso (attenti al limite di venti chili a testa, altrimenti sono dolori). Unico guaio: un poliziotto irremovibile ci confisca le due katane, segnalate dal metal detector all’uscita dalla nave, con grande scorno di tutti.
UATTOO’ subìto senza possibilità di scampo.
Ritroviamo l’aeroporto-dragone di sir Foster, compriamo le calamite con le cinque mascotte delle Olimpiadi, e infine l’aereo Air China ci riporta a Roma stavolta senza ritardi. Arriviamo a mezzanotte, ma per noi sono già le sei del mattino…Ci vorrà un po’ per riabituarsi.
Mentre, come Alberto Sordi, mi lascio andare ai maccheroni che mi hanno provocato, su internet trovo il proverbio per esteso: i cinesi mangiano qualunque cosa che abbia quattro gambe tranne i tavoli, qualunque cosa che voli tranne gli aerei, qualunque cosa che rotoli tranne i tronchi d’albero…
E questo è proprio l’ultimo UATTOO’…