Cambogia, questa è l’Asia che cercavamo

UN PAESE, UN SOGNO Dopo 12 giorni di Vietnam arriva il momento della Cambogia. Volare fin là sarebbe stato comodo ed immediato, bastava sborsare 170 dollari e si era a Phnom Penh (si legge semplice-mente Pnom Pen) in un’ora. In bus la storia è diversa: si pagano 6 dollari, si passa la frontiera a piedi e ci si mettono otto ore. Ovvia-mente...
cambogia, questa è l'asia che cercavamo
Partenza il: 06/03/2005
Ritorno il: 12/03/2005
Viaggiatori: in coppia
Spesa: 1000 €
UN PAESE, UN SOGNO Dopo 12 giorni di Vietnam arriva il momento della Cambogia. Volare fin là sarebbe stato comodo ed immediato, bastava sborsare 170 dollari e si era a Phnom Penh (si legge semplice-mente Pnom Pen) in un’ora. In bus la storia è diversa: si pagano 6 dollari, si passa la frontiera a piedi e ci si mettono otto ore. Ovvia-mente scegliamo l’autobus. Salutiamo Saigon ed il Vietnam, e dopo tre ore arriviamo al confine, a Moc Bai. I vietnamiti hanno costruito un enorme palazzo di granito, dove ci fanno accomodare. Siamo tutti turisti, non più di 50, e due monaci buddisti con improbabili berretti di lana. Fa molto caldo, soprattutto ci fanno aspettare molto. Quasi due ore, solo per uscire dal paese. Le divise verde oliva hanno facce arroganti, ed ottuse, le facce di chi pensa d’avere il coltello dalla parte del manico, e non sa d’essere solo un po’ stupido. Queste facce non guardano la tua, quando lasci il Vietnam, si limitano a sorridere, indolenti, tra loro. E a metterci troppo tempo, per registrare la tua partenza. Ce la fanno, infine, e siamo nella terra di nessuno tra i due paesi. Bruciata dal sole, da lì comincia la Cambogia. E inizia con una serie di baracche, dove i militari ci aspetta-no. Non ci sono file né attese: danno un’occhiata ai visi e ai visti, ci fanno compilare un modulo, ed in cinque minuti siamo arruolati. Ci aspetta, appena di là dal confine, un altro autobus, che ci porterà a Phnom Penh. Circa tre ore, alla capitale, di una strada che permette di correre un po’ di più rispetto al Vietnam, dato che in Cambogia non ci sono tante macchine: so-prattutto maiali, e mucche, e cani, da evitare.

Arriviamo in città verso le 17: solita folla di gente che offre da dormire, da mangiare. La nostra scelta, per l’albergo, non è felice, ma la Cambogia non può offrire la qualità del Vietnam, non sempre almeno. E se non c’è l’acqua calda, o se il condizionatore è impazzito e non riesci a spegnerlo, bisogna farsene una ragione. E ce la si fa in fretta, perché questo paese è un sogno, una meraviglia. Perché qui si viene assaliti da mutilati, storpi, ciechi, bambini sporchi, e soli, e laceri, e da ragazzine magre e affamate. E si sta male, è ovvio, ma si sta anche benissimo, perché sembra davvero d’essere nel cuore dell’Asia. In Vietnam guardano il tuo cellulare con interesse, mentre a Phnom Phen, se guardi il tuo cellulare con troppo interesse, rischi di farti schiacciare da un elefante, quando attraversi la strada. Qui c’è un’aria diversa, magica, e non si può non amare la Cambogia. Un paese che ha sof-ferto l’inimmaginabile, che nei campi di sterminio di Pol Pot, il giorno dopo, abbiamo visto cumuli di teschi, e fosse comuni, e ossa umane dappertutto. E solo la Cambogia, credo, poteva partorire la scuola-prigione S21, dove i Khmer rossi, fino al 1979, tortura-vano quelli che consideravano controrivoluzionari. E lì ci hanno portato oltre 14mila persone, bambini compresi, e li hanno ammazzati tutti: tutti tranne sette miracolati, salvati dall’arrivo dei vietnamiti. Nella loro lucida follia i khmer, prima di torturarli ed ammazzarli, quei 14mila li hanno fotografati, schedati, registrati. E ora, quando passeggi tra le aule della S21, puoi vedere, nelle foto, le facce e gli occhi di tutti quei morti che ancora non erano morti ma sapevano bene che sarebbero morti, e non puoi non stare male, e non puoi non amare la nuova Cambogia. Un paese giovane, che ha smarrito intere generazioni (1,8 milioni di morti tra il 1975 ed il 1980, circa un quarto della popola-zione totale), e che sta provando a ripartire, dopo anni di oblio e di un dolore infinito, che lì nessuna famiglia è stata risparmiata da quella follia.

Phnom Penh è un’esperienza estrema, e schizofrenica, una città che può proporre la S21, e miserie sconfinate, e strade sterrate fino in centro, oppure l’incredibile opulenza della Pagoda d’argento e del Palazzo reale, e un lungofiume bellissimo, dove il Mekong incontra il Tonle Sap. E dove i sogni incontrano la realtà, perché questa, infine, è l’Asia che cercavamo.

ANGKOR, PRIMA CHE SIA TARDI Il mattino dopo solita levataccia, ci aspetta una barca, anzi una specie di siluro, che ci porterà a Siem Reap. Trecento chilometri di lago, nel cuore della Cambogia. A bordo tutti turisti che, tranne quelli più attempati, o fifoni, si sistemano sul tetto. Sette ore durerà questo trasferimento, sette ore che partono sotto il sole tiepido dell’alba e si concludono sotto quello torrido delle due del pomeriggio. Un sole che trasforma il microcosmo del siluro, dapprima composto da entusiasti osservatori (e fotografi) del mondo circostante, in una massa di corpi spiattellati sul tetto, cotti dal sole e dalla stanchezza. Cotti da una barca che non riesce ad andare avanti, perché il livello del lago in marzo è troppo basso, e l’elica striscia sul fondo. Bisogna tornare indietro, e cercare un varco, e spostarsi tutti verso la punta per tentare di sollevarla, questa benedetta elica, e cercare di arrivare, in qualche modo. Per evitare di dover passare il resto del viaggio in una delle tante palafitte che ornano le rive del lago. Ma la Cambogia è anche questo, anzi è soprattutto questo, e se così non fosse non ci si lascerebbe il cuore, ed un pezzo di anima, in questo incredibile paese. Che tanto poi alla fine va sempre tutto bene, e a Siem Reap ci siamo arrivati, anche se in ritardo, e con la pelle scottata.

Al molo (molo… quattro assi incrociate tanto per non bagnarsi i piedi) ci aspettano due ragazzi coi soliti motorini, che ci portano a vedere la Coconut Guest House (questa me la ricordo). Ci andiamo, ma senza impegno, solo per dare un’occhiata alla camera. Invece poi restiamo lì, che è carina, pulita, ha l’aria condizionata, l’acqua calda e personale gentilissimo: il prezzo? 15 dollari. Del ragazzo che ha trasportato me ho smarrito il nome, come al solito, mentre quello che aveva caricato Virna si chiama Ren, e sarà lui a diventare il nostro accompagnatore per i tre giorni che restiamo lì. Con il suo «tok tok», una specie di comodissimo calesse a motore, ci porta dove vogliamo, a fare quello che vogliamo, per il tempo che vogliamo. Ren ha 19 anni, parla un inglese scoppiettante come la sua motoretta, è simpatico ed è un sogno di persona. Disponi-bile, gentile ma non servile, ride sempre. Ride di noi, a volte, ma ride con noi, più spesso, di un riso contagioso, allegro, sghembo. Ren è uno spettacolo, e si fa voler bene. Non dice mai di no, al limite scuote un po’ la testa, e ride di fronte a tutte le richieste, anche le più strampalate. E non vorrebbe portarci dagli elefanti, che sono «too expensive», troppo cari (poi ci siamo stati, 15 dollari per mezz’ora; no Ren, non sono troppo cari), ma vuole farci vedere tutti i templi e i palazzi che può. E il giorno dopo ce li fa vedere davvero, portandoci in giro da mattina a sera. Ridendo, sempre più forte, quando tornava-mo al suo «tok», ogni volta più fradici di sudore, stravolti da quei 40 gradi. Descrivere Angkor Wat, o il Bayon, o la Terrazza degli Elefanti, o quello che la natura sta facendo al Ta Prohm, semplicemente non è possibile. Bisogna vedere, che se il mondo si strappa i capelli per l’Egitto o gli aztechi del Messico, non so cosa aspetti a correre qui, per ammirare cosa sono stati capaci di fare, mille anni fa, i khmer. Quelli veri, non quelli rossi.

A Siem Reap siamo stati benissimo, ma prima o poi doveva finire, ed il terzo giorno è finita: la sera aveva-mo un aereo per Bangkok (150 dollari, contro i 6 del bus, ma viste le strade non ce la siamo sentita, che se si rompeva qualcosa erava-mo ancora là), e Ren ci ha accom-pagnato anche all’aeroporto. Nei due giorni precedenti gli avevamo dato 17 dollari, per quest’ultima corsa ce ne chiede 5. Una volta arrivati all’aeroporto vedo che deve pagare 4.000 riel (un dollaro) per entrare, e mi riprometto di rimbor-sarglielo. Solo che quando allunga la mano per prendere i 5 dollari, poi la richiude subito, per farmi capire che quelli erano i patti. E allora io l’ho riaperta, quella mano, e ci ho fatto cadere diversi dollari in più di quelli pattuiti. E lui prima si è stupito, e poi ha sorriso, e poi ha riso, e poi mi ha messo la mano sulla spalla, e io sulla sua. E poi ci ha guardato, ci ha indicato con due dita e ha detto «Love for you». Love for you too, Ren, e buona fortuna, davvero. Davvero.

Quando saliamo sulla scaletta di quell’aereo che ci porterà in Thailandia, ci rendiamo conto che l’incanto sta per finire, che la Cambogia sta per volare via, che il Vietnam è già un ricordo. Tra poco, troppo poco, sarà tempo di ricordi anche per me, anche per noi. Tempo per riflettere, e magari ammettere gli errori. Ammettere di aver sempre evitato l’Asia per paura, ammettere che l’Asia non fa per niente paura, ammettere che l’Asia è affascinante e magica, e che ci ha accolto come meglio non poteva. Ammettere che dovevamo venirci prima, ammettere infine che ci torneremo presto. Prestissimo, se sarà possibile. Prima che anche la Cambogia cambi per sempre.

Massimiliano Baravelli



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