Cambogia on my mind
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Da una serrata ricerca sul web dei voli risultano pacchetti e combinazioni assurde (si arriva anche a 40 ore di viaggio con tre scali) quindi ci accorgiamo che “spezzando” il viaggio su Bangkok le cose si semplificano in termini di tempo e soprattutto monetari. Poi dalla capitale Thailandese ai due aeroporti internazionali di Phnom Penh e Siem Reap ci sono parecchi voli giornalieri di appena un’ora a prezzi modici.
Prenotati i voli con un anticipo a dir poco mostruoso per i nostri standard (2 settimane) avvertiamo Bill, il Bostoniano che conoscemmo nelle Filippine nel novembre 2012, che è sempre da quelle parti e si raccomanda di avvisarlo quando saremo di passaggio. Bill al momento è a Manila ma ci raggiungerà per il nostro arrivo e nel frattempo ci dà la prima dritta per la sistemazione a Phnom Penh: Flamingos Hotel (30$ a notte), strada 172, zona nord a pochi minuti a piedi dal fiume.
Solita annosa premessa: questo diario non è una guida, nei nostri viaggi non c’è programmazione (abbiamo prenotato solo i voli e poi abbiamo avuto sempre la Lonely Planet in mano), andiamo dove ci porta il cuore, la fame, la vista, la voglia di divertirsi. L’obiettivo è strappare un sorriso al lettore di turno.
PHNOM PENH dal 21 al 24/03/14
Partenza da Fiumicino alle 17.20 con volo Egypt Air (ottima compagnia), scalo di un’ora al Cairo e volo notturno per Bangkok, dove arriviamo alle 13 locali. Ritiriamo i bagagli e rifacciamo subito il check in per la nostra coincidenza per Phnom Penh delle 15.30… che però è già in ritardo di un’ora! Poco male: avvertiamo Bill dell’inconveniente perché dice che vuole organizzare il comitato di benvenuto … mah!
Ripartiamo verso le 17 e atterriamo a Phnom Penh dopo un’ora, facciamo il visto, recuperiamo i bagagli e usciamo dall’aeroporto accolti dal caldo torrido tipico di queste latitudini. Poi ci si avvicina un minuto esemplare dell’etnia Khmer, di nome Cheunn, recante in mano il cartello “NINI & NANA – Flamingos Hotel”, al che ci pieghiamo in due dalle risate e saltiamo sul suo tuk-tuk (motorino con rimorchio semicabinato per trasporto passeggeri) diretti al nostro Hotel.
Nel trasferimento abbiamo il primo colpo d’occhio con questo paese e ci rendiamo subito conto che è molto simile alla vicina Thailandia, ma abbiamo anche la netta percezione di profonde differenze: capiremo in seguito il perché.
Arrivati all’hotel troviamo Bill ad accoglierci, che si professa subito pronto per affrontare la serata: non chiediamo di meglio. Ci sistemiamo e lo seguiamo, scarrozzati dal fido Cheunn, nel primo giro dei bar che il nostro amico a stelle e strisce conosce a memoria (Bill vanta un’esperienza settennale di permanenze più o meno lunghe a Phnom Penh).
Ad essere sinceri prendo pienamente ed irrimediabilmente coscienza di essere in vacanza solo ora, in braghe corte, al primo sorso di birra gelata (marca Angkor), seduto ad un tavolo ai margini di una strada semisporca di Phnom Penh, la stessa città un tempo nota come la perla d’Asia, con un ventilatore che mi sputa aria fresca addosso ad intervalli regolari.
Chiediamo al bar qualcosa da mangiare e ci rimediano un anonimo riso fritto con pollo, finito il quale riprendiamo il giro dei bar al seguito del fidato Bill: ben presto il whisky sostituisce la birra e le ore del viaggio cominciano a farsi sentire, quindi ci riavviciniamo all’hotel. Ma Bill ci ha riservato il classico dulcis in fundo: ad appena 50 metri dal nostro Hotel c’è il Pontoon, una delle discoteche più frequentate della città, da turisti e indigeni. Come rinunciare? Semplicemente non si può: ed eccoci fare le 5 di mattina già la prima sera.
Ci svegliamo in tarda mattinata tutto sommato abbastanza arzilli, studiamo velocemente la Lonely durante la colazione e buttiamo giù idee per la giornata. Appena usciamo ecco presentarsi il solerte Cheunn desideroso di mettersi a nostro servizio, quindi ci accordiamo su 20$ per tutta la giornata (dimenticavo, qua il dollaro statunitense è l’effettiva moneta in uso, la valuta locale, il Riel, è usata solo per piccole somme) e ci dirigiamo verso la prima tappa: Choeung Ek.
Situato ai margini della città, Choeung Ek era il campo di sterminio dei Khmer Rossi. Si badi bene: di sterminio, non di lavoro, un unico grande centro per esecuzioni sommarie. Da quanto riportato nella guida ci eravamo preparati ad un’esperienza forte, ma niente può preparare realmente a quello che si vede a Choeung Ek. Ci dotiamo di audio-guide per seguire meglio il percorso numerato: degli edifici in legno una volta presenti non vi è più traccia, al loro posto ci sono cartelli segnaletici con relativa didascalia. Ciò che rimane, oltre allo Stupa commemorativo di costruzione postuma, sono gli avvallamenti nel terreno in corrispondenza delle fosse comuni non ancora aperte e, purtroppo, anche qualche traccia di quanto è sepolto sotto terra, che con le piogge affiora di tanto in tanto.
Anche ora che scrivo non posso fare a meno di provare un brivido al ricordo, e posso dire di aver visitato anche Dachau ed aver provato emozioni uniche, ma Choeung Ek è un autentico pugno nello stomaco.
Quasi non soddisfatti del livello di orrore raggiunto ritorniamo in città per la visita del Tuol Sleng. Una scuola trasformata in prigione, ora museo, dai Khmer Rossi per la detenzione e tortura dei dissidenti. Anche qui per passare tra le celle e soprattutto osservare le foto “prima e dopo” la prigionia dei detenuti ci vuole uno stomaco forte.
Ah, dimenticavo: naturalmente chi non moriva al Tuol Sleng veniva spedito a Choeung Ek.
Ok, ora basta con la tristezza: concludiamo la gita giornaliera con un salto al Wat Phnom, il tempio poggiato sulla sommità di un’altura ospitante le quattro statue del Buddha che, secondo la leggenda, furono depositate dalle acque del Mekong lungo queste sponde e portate da un’anziana donna di nome Penh proprio su questa collina sancendo la fondazione della città (Phnom Penh = Collina di Penh).
Terminata questa lunga giornata ci prepariamo per una notte altrettanto lunga. Cena al Fish (pesce squisito ed economicissimo), sul lungo-fiume e ritrovo con Bill, quindi si riprende come la sera precedente: giro dei bar, ovviamente diversi da quelli di ieri. L’offerta di locali è così elevata da non incontrare una domanda adeguata: un’altra notte da leoni!
Il risveglio del giorno dopo sembra “L’alba dei morti viventi”: ci prendiamo il tutto il tempo necessario e prima di continuare l’esplorazione della città decidiamo l’itinerario per i prossimi giorni, prenotiamo un volo interno da Siem Reap a Sihanoukville ed anche quello di ritorno a Bangkok. Giunti a metà pomeriggio e mancata la possibilità di visitare il palazzo reale, in quanto già chiuso, ci concediamo una tranquilla passeggiata sul lungo-fiume tra gente che fa jogging, balli di gruppo, prega in piccoli templi qua e là, gioca a badminton o con un improbabile quanto curiosa molla piumata usata in vece di pallone. Chiudiamo approfittando di uno degli innumerevoli happy hour dei locali disposti sulle rive del Mekong: FCC, bar-ristorante alla moda con terrazza che offre un panorama ideale per l’aperitivo.
Un salto in hotel e raggiungiamo Bill per l’ultimo tour dei bar di Phnom Penh. Ultima seratona, per il momento, a Phnom Penh, domani si parte: destinazione Siem Reap.
SIEM REAP dal 25 al 27/03/14
Partenza alle 8.00 con l’autobus, prenotato il giorno prima, che viene a prelevarci in hotel. Ci aspettavamo un vecchio rottame e invece capitiamo su un GT che offre una piccola colazione ed ha addirittura la wi-fi (tutto a soli 15 $). Il viaggio di 8 ore verso Siem Reap, a parte due fermate, costituisce un’occasione irripetibile per recuperare preziose ore di sonno. Nei rari momenti di veglia cogliamo scorci di campagna cambogiana e la vista di qualche villaggio qua e la e l’impressione generale che ne ricaviamo è di estrema indigenza: questa è la vera Cambogia.
Arrivati a destinazione saltiamo subito su un tuk-tuk per farci potare presso le guest-house di cui abbiamo letto nella guida, tutte ovviamente a non più di 10 minuti a piedi dalla famigerata Pub Street: il nome parla da solo.
Scegliamo il Siem Reap Hotel (20$ a notte per una doppia), ci sistemiamo e all’ora di cena siamo operativi. Raggiungiamo con una breve passeggiata Pub Street: 400 metri circa di soli pub, locali, ristoranti, ed anche allontanandosi lo spettacolo non varia di molto. Ce lo aspettavamo: essendo a soli 5 km dal complesso dei templi di Angkor, Siem Reap funge da “campo base” per le migliaia di turisti che programmano le visite al sito, e questo ne ha fatto il nuovo polo del turismo di massa Cambogiano.
Prima di cena approfittiamo dell’happy hour dell’ “Angkor What”, simpatico disco-bar recante l’iscrizione (tra la miriade di firme di clienti sui muri): “promuoviamo il bere irresponsabile dal 1998”. Abbiamo trovato il posto che fa per noi. La ricerca di un posto tranquillo e tipico risulta difficile e abbiamo anche fame (dopo le tequile dell’happy hour meglio mettere qualcosa sotto i denti) quindi cediamo al conformismo e ceniamo in un ristorante di pub street, assaporando però il piatto nazionale cambogiano, l’amok: curry di pesce cotto al forno in foglie di banana.
Il resto della serata trascorre tra una partita di biliardo e l’altra, passando di locale in locale con il solenne proposito di non esagerare come nostro solito perché vogliamo essere in forma ed alzarci presto l’indomani per la visita ai templi di Angkor: chi ci conosce sa già che il proposito non è stato mantenuto, tanto che siamo ripassati all‘Angkor What, strapieno di turisti ubriachi, ed abbiamo raggiunto il letto solo alle 6 a.m.
Ed a questo punto, come le guide riservano un capitolo intero ai templi di Angkor, apro anche io un paragrafo dedicato.
Templi di Angkor in stile Nanà e Ninì: il sommo dell’idiozia umana.
Sveglia alle 8.00, la mia prima imprecazione: Nooooo! Abbiamo perso l’alba all’Angkor Wat! Pazienza, ci godremo il tramonto.
Siamo ancora provati dai bagordi della serata per fare colazione quindi saltiamo sul primo tuk-tuk che troviamo che ci porta fino alla biglietteria all’ingresso del sito: biglietto giornaliero 20$ (ce ne sono anche validi per più giorni).
Poi il fattaccio. L’autista del nostro tuk tuk ci invita a risalire convinto che sarà lui ad accompagnarci per tutta la visita tra un tempio e l’altro. D’altro canto noi abbiamo studiato la guida e sappiamo che il cosiddetto “piccolo circuito” di 17 km che tocca i principali e più famosi templi è alla nostra portata e rispondiamo che ce la vogliamo giocare a piedi. L’autista ci apostrofa con un sorriso di scherno: “se ci riuscite vi rendo i soldi della corsa!”. A questa provocazione io ed Nanà ci guardiamo per un lungo istante, sono quasi le 10 a.m., il sole è alto e picchia e noi siamo già sudaticci ma l’orgoglio ha il sopravvento: rispondiamo all’incredulo autista che se vuole può anche seguirci ma noi ce la faremo tutta a piedi, a costo di tornare strisciando.
Muniti di bottigliette d’acqua ci incamminiamo verso l’Angkor Wat, il più famoso, il più imponente e più decorato di tutti i templi del sito. Già solo il fossato di acqua che lo circonda basta a rendere l’idea del mastodontico lavoro compiuto dagli antichi Khmer nella realizzazione di quest’opera.
Percorso il ponte dell’ingresso principale rivolto ad ovest (tutti i templi di Angkor hanno i quattro lati perfettamente rivolti verso i punti cardinali) superata la penombra delle enormi porte di accesso, le “porte dell’elefante”, riemergiamo sul viale di accesso e riconosciamo le tre “torri” il cui profilo è ritratto al centro della bandiera cambogiana. Ora, onestamente, noi non siamo architetti e nemmeno appassionati di architettura ma rimaniamo ugualmente a bocca aperta: le costruzioni e le imprese realizzate dall’uomo ci fanno spesso questo effetto.
E lo stupore non diminuisce durante l’esplorazione dei quattro lati del tempio. Di fatto un unico ininterrotto bassorilievo con rappresentazioni di miti hinduisti, battaglie, cerimonie imperiali.
Concludiamo il giro e decidiamo di proseguire verso i templi successivi, ripromettendoci di tornare per il tramonto. Ci incamminiamo quindi verso nord alla volta della città fortificata di Angkor Thom. Anche in questo caso la semplice vista delle mura e del fossato toglie il fiato. Angkor Thom era veramente una grande città di proporzioni epiche (10 kmq) che comprende numerosi templi.
Il più famoso e, di sicuro, più suggestivo di tutti è anche il primo che si incontra arrivando dalla porta meridionale come noi: il Bayon. Costruito per volere del re cambogiano Jayavarman VII la dice lunga sulla megalomania di costui: tra i corridoi e le ripide rampe di scale che lo compongono si trovano 54 guglie decorate con la bellezza di 216 enormi volti in pietra del sovrano tutti raffigurati con lo stesso enigmatico sorriso che nulla avrebbe da invidiare a Mona Lisa. In realtà il viso dovrebbe essere quello di una divinità hinduista dal nome impronunciabile ma la sensazione di essere costantemente ed insistentemente osservati è veramente forte.
Usciamo dal Bayon e proseguiamo in linea retta verso nord lambendo il piccolo tempio Baphuon (piccolo per modo di dire, il termine di paragone è l’Angkor Wat), trovando subito dopo il Phimeanakas, ovvero le poche spoglie che restano del palazzo reale, e la relativa “porta” di accesso, la cosiddetta Terrazza degli Elefanti, una enorme tribuna rialzata che veniva usata per assistere alle cerimonie pubbliche che si svolgevano nella piazza antistante e per le udienze del re. E’ passato mezzogiorno e mentre apro la guida per una rapida consultazione noto delle strane chiazze sulle pagine: sono le gocce di sudore che colano dalla mia fronte neanche fosse un rubinetto rotto.
Voltiamo ad est per proseguire l’itinerario ed in men che non si dica guadagniamo l’uscita dell’Angkor Thom attraverso la porta orientale. Mentre ci riforniamo di acqua e the ghiacciato in uno dei numerosi chioschi lungo la strada individuiamo sulla cartina la prossima tappa: Ta Prohm.
Giungiamo al Ta Prohm nel primo pomeriggio e forse sarà per la luce meno accecante che il sole proietta sulle rovine o forse per il fatto che è l’unico tempio lasciato per buona parte in balia della giungla, ma restiamo ancora una volta a bocca aperta: con tutte le mastodontiche radici dei alberi cresciute nei secoli sopra e nel mezzo delle pietre si ha la sensazione di essere i primi giunti in un luogo fino a questo momento mai violato. Tra l’altro qui hanno girato delle sequenze del film “Tomb Raider”.
Lasciamo il Ta Prohm con l’intenzione di raggiungere l’Angor Wat chiudendo l’anello che costituisce il piccolo circuito ma per la necessità del solito rifornimento idrico ci concediamo un giro al Banteay Kdei, dove ci intratteniamo anche con gli ambulanti e ne approfittiamo per prendere qualche souvenir. Il sole ha iniziato la propria fase discendente e qualche nuvola inizia ad incombere all’orizzonte, per di più ci aspetta la tratta più lunga e senza templi per ritornare all’Angkor Wat e goderci il tramonto: una corsa contro il tempo.
Aumentiamo il ritmo e proseguiamo spediti verso il nostro obiettivo, incuranti e sdegnosi, come lo siamo stati tutto il giorno, dei motorini e i tuk-tuk che ci passano continuamente accanto chiedendoci se vogliamo salire: ora che siamo vicini alla meta sembriamo avere le ali ai piedi.
Arriviamo a ridosso del lato orientale dell’Angkor Wat ed entriamo per la relativa porta. Anziché girarci intorno come la mattina adesso ci addentriamo nella struttura centrale. Sebbene il celo sia ormai coperto, quindi niente gioco di luci, a quest’ora (da poco passate le 18) non c’è più nessuno. Ed è così, passando nella penombra e nell’assoluto silenzio delle gallerie del tempio centrale che percepiamo appieno la sacralità di questo luogo. Guadagniamo l’uscita per l’ingresso occidentale per un ultima foto.
Abbassiamo lo sguardo ad esaminarci le scarpe dopo questa “sgambata” sulle strade sterrate: non solo le scarpe, anche caviglie e polpacci sono così pieni di terra rossa che neanche 5 set al Roland Garros avrebbero avuto lo stesso effetto.
E’ finita. Ce l’abbiamo fatta! Ringraziamo mentalmente tutto il jogging invernale che ci ha reso capaci di una simile impresa: 20 km, considerando anche il tratto dalla biglietteria, in 8 ore (ho la sessione di Runstastic salvata per i miscredenti).
Vi starete chiedendo cosa c’è di eccezionale. Dimenticavo: da quando siamo partiti la mattina non abbiamo mai mangiato. Appunto il sommo dell’idiozia umana.
Sedersi nel tuk-tuk che ci riporta Siem Reap è un piccolo assaggio di paradiso.
Tornati in hotel ci rilassiamo e prepariamo per l’ultima sera a Siem Reap. Non siamo poi così stremati come credevamo, quindi usciamo subito alla ricerca di un buon posto per la cena. Ricapitiamo in pub street e la fame è tale che il primo ristornate che ha una bistecca nel menu sia il prescelto. Finiamo la serata come la precedente: facendo del nostro meglio per raggiungere un decente stato etilico. Abbiamo tempo a sufficienza per il viaggio di domani verso Sihanoukville.
SIHANOUKVILLE dal 27 al 29/03/14
Ci svegliamo in tarda mattinata, raccogliamo i bagagli e raggiungiamo con il solito tuk-tuk l’aeroporto di Siem Reap: alle 15.00 abbiamo il volo (su bi-elica!) per Sihanoukville, la principale località balneare della Cambogia.
Dopo un volo di un’ora usciamo dall’aeroporto di Sihanoukville e ci imbarchiamo sulla navetta che conduce in città, nella parte centrale: in particolare ci portano nella zona a ridosso di Serendipity Beach. Basta uno sguardo veloce a tutte le strutture ricettive e ricreative attorno per capire che è il quartiere deputato all’accoglienza dei turisti stranieri e veniamo colti da uno strano senso di deja-vu: la stessa impressione di poca autenticità avuta in Pub street a Siem Reap.
Una rapida consultazione della guida e decidiamo di spostarci a Victory Hill, zona collinare e periferica che domina l’omonima spiaggia: zona decisamente meno commerciale, meno battuta, più economica e anche, considerando i locali della strada sterrata principale, più squallida… ma noi non ci formalizziamo e troviamo due camere all’ostello Mealy Chenda.
Ci sistemiamo ed è già ora di cena. Rimaniamo a Victory Hill e troviamo il “Tutti Frutti” ad appena 300 metri dall’ostello: senza infamia e senza lode. Ci concediamo una birra e una partita di biliardo in un bar ma la serata langue, quindi ci trasferiamo in tuk-tuk verso il centro città e Serendipity Beach. E qui ce n’è per tutti i gusti: Utopia, Dolphin Shack, JJ’s Playground, e tanti altri locali di cui non ricordo il nome, una nostra serata standard.
Nonostante tutto ci svegliamo di buon ora la mattina successiva per goderci finalmente un po’ di mare: solito tutk-tuk fino ad una delle spiagge più frequentate, Occheutal Beach, adiacente alla sorella minore Serendipity.
Il ritmo della vacanza finora è stato abbastanza sostenuto quindi dedichiamo il resto della giornata al più completo ozio da lettino in riva al mare. La particolarità delle spiagge di Sihanoukville è che l’happy hour nei balneari inizia straordinariamente presto, in alcuni addirittura alle 15!
Quindi al tramonto inizia la nostra serata: passeggiata sulla battigia, birra, ancora due passi, altra birra, ancora due passi, ecc… finche ritorniamo a Serendipity Beach, dove ci fermiamo a per cenare in uno degli innumerevoli balneari sulla spiaggia. E dato che è ormai l’ora giusta per uscire e siamo già qui ci giochiamo la serata in costume, infradito e con ancora i teli da mare al seguito: l’atmosfera informale, rilassata e festaiola di Serendipity è l’ideale!
La mattina successiva riusciamo a svegliarci sorprendentemente presto e prima di tornare in spiaggia stabiliamo che un’altra mezza giornata di tintarella può essere sufficiente e che possiamo sfruttare il pomeriggio per viaggiare ed essere a Phnom Penh in serata: quindi prenotiamo la corsa in autobus all’ostello ed andiamo a ritemprare le stanche membra in riva al mare.
Verso le 14.00 torniamo a recuperare i bagagli e raggiungiamo in tuk-tuk la stazione (un semplice piazzale sterrato) degli autobus, dove partiamo alla volta di Phnom Penh verso la conclusione della vacanza.
PHNOM PENH dal 29 al 31/03/14
L’autobus arriva in città intorno alle 19.30 e ci deposita di fronte allo Psar Thmei, il vecchio mercato centrale al coperto. Quando ce ne andammo cinque giorni fa dal Flamingo’s abbiamo fermato due camere per gli ultimi due giorni quindi ritorniamo in tuk-tuk alla nostra prima dimora cambogiana.
Lasciati i bagagli torniamo a calcare le strade di Phnom Penh ancora una volta e la fame ci porta nei pressi del “Bopha Phnom Penh Restaurant”, conosciuto anche come Titanic, probabilmente per l’arredamento e l’atmosfera da “alto mare” che regna: veramente bello! Seduti in riva al Mekong ci concediamo una cena a dir poco luculliana.
Dopo cena intraprendiamo un tranquillo giro dei bar e, manco a dirlo, al terzo incontriamo fortuitamente il vecchio Bill! Concludiamo la serata insieme.
La mattina del nostro ultimo giorno a Pnom Pehn ci svegliamo tardi e per quando recuperiamo le forze è già mezzogiorno passato. Colazione veloce e ci dirigiamo al Palazzo Reale per l’apertura pomeridiana delle 14.00. Acquistiamo i biglietti ed esploriamo velocemente questa struttura imponente ed incredibilmente sfarzosa, molto simile in alcune costruzioni al suo omologo di Bangkok. Ci soffermiamo un po’ di più nella famosa Pagoda d’argento, che deve il nome al pavimento realizzato tutto in piastrelle del prezioso metallo e che ospita alcune delle statue d’oro di Buddha più belle mai viste… ennesima testimonianza della grandezza dell’antico impero Khmer.
Usciamo dal palazzo reale e nonostante oggi il caldo sia particolarmente opprimente iniziamo una tranquilla passeggiata fino ad arrivare allo Psar Thmei, dove ci mettiamo alla ricerca di qualche souvenir. Mentre rientriamo verso l’Hotel salutiamo il Mekong concedendoci l’ultimo aperitivo in uno dei tanti bar del lungo fiume.
Al rientro in Hotel troviamo Bill che ci aspetta, come da accordi, per passare l’ultima serata insieme. E ormai c’è ben poco da raccontare: per noi l’ultima è sempre una notte da leoni, lascio all’immaginazione del lettore qualsiasi interpretazione…
Il 31 marzo ci svegliamo a mezzogiorno, io in un bagno di sudore dato che ho dimenticato di accendere il condizionatore, con un “leggero” cerchio alla testa. Abbiamo giusto il tempo per una doccia e recuperare le nostre cose che è già tempo di andare in aeroporto.
Appena l’aereo inizia la fase di rollaggio ho la stessa presa di coscienza di una settimana prima al bar, peccato che questa volta la vacanza sia giunta all’epilogo.
Ci stacchiamo dal suolo Cambogiano sapendo di aver esplorato e vissuto, seppur in minima parte e a modo nostro, un paese unico, specialmente se si considerano gli stereotipi del sud-est asiatico che pure presenta in gran quantità, che ci lascia, come gli altri ritorni a casa e forse di più, più ricchi ed al tempo stesso con quel certo senso di malinconia.
In breve la Cambogia sicuramente ti lascia regala qualcosa … per il sottoscritto era dissenteria! Ci voleva una battuta per concludere!