Buenos Aires, alla ricerca di memorie dolenti

Da Foz, in Brasile, stasera partiamo per Buenos Aires, 20 ore di viaggio su strada. Per buona sorte, nel pullman iperconfortevole con l’aria condizionata raggelante, mi tocca il primo posto al piano alto, proprio davanti all’enorme vetrata. Così mi guardo il tramonto rosato in questo sottile nastro d’asfalto, ondulato su mille...
Scritto da: Valev
buenos aires,  alla ricerca di memorie dolenti
Partenza il: 10/08/2008
Ritorno il: 19/08/2008
Viaggiatori: in gruppo
Spesa: 1000 €
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Da Foz, in Brasile, stasera partiamo per Buenos Aires, 20 ore di viaggio su strada. Per buona sorte, nel pullman iperconfortevole con l’aria condizionata raggelante, mi tocca il primo posto al piano alto, proprio davanti all’enorme vetrata. Così mi guardo il tramonto rosato in questo sottile nastro d’asfalto, ondulato su mille collinette, fra piantagioni, piccoli villaggi, piccole città, eucalipti ed araucarie. Non dormo per non perdere lo spettacolo. Mi appisolo verso mattina e mi sveglio alla periferia di Buenos Aires: scomoda, nebbiosa, fredda. Attorno alla stazione dei pullman un quartiere di case malmesse e strade grigie, la gente che si dirige veloce e addormentata verso la subte.

Ci sistemiamo sommariamente al Portal del Sur, in Hipolito Irigoyen. É un fabbricato stile liberty, quattro piani su un patio e il bar sotto il tetto. La stanza è minuscola ma confortevole. Però intendiamoci: se volete dormire la notte, evitate di venire qui. Fra la musica all’ultimo piano e le risate del primo, la possibilità è totalmente esclusa. Così mi faccio una settimana di insonnia e alla fine sono leggermente euforica. Anche perchè le giornate sono entusiasmanti. Dichiaro subito il mio amore a prima vista per Buenos Aires! E’ molto europea, colta e raffinata. C’è una quantità di librerie, e fra tutte consiglio quella “de Avila”, all’angolo fra Alsina e Bolivar, vecchiotta con un piano sotterraneo di libri usati notevole. Ovviamente poesia e letteratura ispanoamericana di ogni genere.

Poi ci sono chiese barocche ma semplici, quiete e cupe, con certi crocifissi tristissimi, che paiono soffrire di nostalgia. In generale i portegni sembrano europei in esilio. Tutti hanno un nonno, un prozio, un antenato italiano. Ed ho sentito diverse persone biasimare aspramente la decisione dei loro avi di emigrare: “Potevo stare a Roma, adesso, a Genova…A Capri”. Una tradizione che resiste è quella dei caffè, punto di ritrovo intellettuale e letterario: dal celebre Tortoni, in av. De Mayo, con le statue dei famosi frequentatori ma ormai piuttosto turistico, ai più modesti e periferici, come il Margot nel quartiere di Boedo, al raffinato La Scala de S.Telmo, con annesso piccolo teatro. Assaggiate, a colazione, le sottili, gustose medialunas. In più, a Baires c’è l’atmosfera, le vie solitarie, i negozietti bui, la gente che si fa il segno della croce davanti alle chiese. Un misto di intelligenza, voglia di riscatto e rassegnazione. E il tango, quello ballato per strada o nelle piccole milonghe. Date un’occhiata a quella di fronte ai grandi magazzini Abasto.

Dunque, appena arrivati, ci dicono che nella chiesa di Santa Cruz, nel barrio di S. Cristobal, subte General Urquiza, c’è una manifestazione convocata d’urgenza: un ragazzino del Movimento Nacional Chicos del Pueblo è stato sequestrato per alcune ore e minacciato da uomini armati. La chiesa è in stile gotico, la visiteremo in tutti i suoi anfratti qualche giorno dopo: bellissima dall’alto dietro l’altare. E’ stata costruita dai Missionari Passionisti di S. Paolo della Croce, quelli che hanno la casa-madre sul Monte Argentario, per intenderci. Ora è piena di gente e sembra di stare nel ’68. Uomini coi capelli lunghi e un pò grigi, facce intense, donne con le calze grosse e la sottana lunga. Rimango incredula. Parla per primo Alberto Morlacchetti, il coordinatore dei Chicos del Pueblo, che ogni anno organizza una marcia dei bambini contro la fame. Sì, perchè in Argentina c’è una quantità di poveri totali, di gente che ha fame. Però non è come in altri paesi in cui questo fenomeno è del tutto manifesto. Qui ci sono vasti quartieri ricchi e della media-piccola borghesia che mettono in secondo piano le “villas miserias”, la versione locale delle favelas. Parla anche un sacerdote della congregazione di Don Orione, dalla quale era seguito il ragazzino rapito. E’ visibilmente pallido e preoccupato. Poi ci presentano padre Carlos, il parroco, da cui torneremo diverse volte e che ci racconterà la storia della chiesa di Santa Cruz durante gli anni della dittatura. Per chi non lo sapesse, in Argentina c’è stato negli anni dal ’76 all’83 un feroce regime militare, comandato dal generale Videla (quello che qualche giorno fa è stato rispedito in carcere dagli arresti domiciliari, nonostante sia vecchissimo: ben gli sta a questo gemello di Pinochet).

Avete visto i film di Marco Bechis “ Garage Olimpo” o “Hijos” o il terribile “La noche de los lapices” , su una classe di ragazzini del liceo torturati e sterminati? Dunque nella parrocchia di Santa Cruz cominciarono a radunarsi le madri che poi si sarebbero chiamate di Plaza de Mayo, che allora erano solo delle povere disgraziate alla ricerca dei loro figli arrestati dalla polizia o rapiti dalla Triple A, un’organizzazione semiclandestina protetta dal governo. Tutte pensavano che questi ragazzi fossero stati sequestrati ma non immaginavano minimamente le torture e la morte a cui andavano incontro. E la fine, ulteriormente spaventosa perchè molti furono gettati dagli aerei nel Mar de la Plata, che continua ancora a restituire le ossa. Andiamo a visitare il famigerato Garage Olimpo. E’ in periferia, all’interno di un deposito degli automezzi della polizia. Ci guidano due donne: una giovane, slanciata , vivace e una oltre la cinquantina dai capelli rossicci, non bella. Questa è una sopravvissuta, perchè, dice, “si poteva pure sopravvivere” e lei, un giorno dopo l’altro lì è restata sei mesi. Però parla poco. Le celle sono piccole, assolutamente buie e c’è una piccola stanzetta, la “sala operatoria” dove avvenivano le torture. Tutto il deposito è circondato da un alto muro, ma le grida dovevano uscire se nel palazzo di fronte si vede ancora una casa che dà più di tutte la misura dell’orrore e della abiezione di chi sapeva/non sapeva: un terrazzino di ferro che sporge cieco, la cui porta fu murata perchè il proprietario non voleva udire gli urli terrificanti dei prigionieri. Simone fotografa in silenzio e tutti siamo sconvolti. Io piango negli angoli, perchè mi ricordo gli esuli argentini e cileni che arrivavano a Bologna disperati e l’ansia per loro e il terrore che succedesse anche qui in Italia. Mentre stiamo uscendo passa un camion che trasporta sabbia, e sopra alcuni operai. Ci vedono, capiscono, gridano e alzano il pugno chiuso. E anch’io, dopo trent’anni, ho risposto. In tutto questo, la Chiesa cattolica si divise in due: nelle gerarchie c’era chi andava a giocare a golf con i dittatori e chi aiutò senza timore per la propria vita. Nella parrocchia di Santa Cruz, fra l’8 e il 10 dicembre1977, furono rapite due suore francesi, Alice Domon e Lèonie Duquet, alcune delle fondatrici del gruppo delle Madri, fra cui Azucena Villaflor, e altri volontari dei diritti umani. Tutto accadde perchè il capitano Alfredo Astiz, un biondino dall’aspetto innocuo, si era infiltrato nelle riunioni spacciandosi per il fratello di un desaparecido. Tale spregevole individuo è ancora al mondo, ma poi starà indubbiamente all’inferno, sbranato nelle fauci di Lucifero. Ogni anno, l’8 dicembre nella parrocchia di S. Cruz si commemorano i martiri. Già qualche tempo dopo i resti ritrovati furono sepolti nel giardino della Chiesa. Numerosi siti internet e Wikipedia illustrano questa tragica storia. Che non può dirsi del tutto conclusa: ancora qualche mese fa un testimone è stato ucciso qualche giorno prima di un processo. Anche le madri di Plaza de Mayo continuano a sfilare ogni giovedì alle 15,30, portando in testa un fazzolettino bianco che in origine era un pannolino da neonati del loro figlio scomparso. Ora sono divise in due: la Linea Fundadora, più ufficiale e moderata, e quella che fa capo alla attempata ma pugnace Hebe Bonafini, la quale tiene un vero e proprio comizio, con tanto di megafono, ad una piccola folla madri e turisti. Poi loro, tutte insieme, se ne vanno con un pulmino e sembra una gita parrocchiale di anziane vedove.

Anziane ma instancabili: ora alcune hanno fondato il gruppo delle “abuelas”, le nonne. Cercano instancabilmente i loro nipoti, ormai adulti, che furono spesso adottati o fatti passare come figli propri da coloro che avevano ucciso i genitori. Adesso, con l’esame del DNA, è possibile fare questi ricongiungimenti. Nella settimana precedente alla nostra visita ce n’erano stati due. La città è piena di cartelli che dicono, più o meno: se hai dubbi sulla tua nascita, sulla tua origine, telefona al numero verde… Come dev’essere ritrovarti coloro che credevi tuo padre e tua madre in realtà due estranei/nemici? Tutto questo complesso iter psicologico è seguito da una donna piccola e tranquilla, ma di ferro, Alicia Lo Giudice, che visitiamo nel centro di recupero una delle mattine seguenti. Poi andiamo a trovare le Madri della Linea Fundadora nella loro sede. Ci accoglie Tatì Almeida che ormai è di casa in Italia. Ha anche avuto la cittadinanza di Torino e di due piccoli comuni della cintura bolognese, Granarolo e Castenaso. Suo figlio Alejandro fu rapito dalle Triple A nel 1975; lei ne parla come se fosse ieri e ci fa vedere la lettera che trovò fra le sue carte. Una poesia in cui il ragazzo sembra presentire la morte ma in uno scontro armato, non certo nella forma atroce in cui poi probabilmente è avvenuta. Saluto Tatì perchè domani riparto per l’Italia: nell’abbracciarci mi viene in mente che ho più o meno l’età di suo figlio; credo venga in mente anche a lei, perchè manda indietro le lacrime con fatica, due volte.



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