Alla ricerca di Inti Raymi

Io ho un po' l'hobby dell'antropologia culturale. Direte voi: che razza di passatempo! Insomma, non è proprio un passatempo, è un interesse che ho scoperto casualmente, ed ho cominciato, negli anni, ad acquistare e leggere vari libri sull'argomento, alcuni più classici tipo "Tristi Tropici" di Levi-Strauss, altri meno classici ma ugualmente...
Scritto da: Maurizio Virgili
alla ricerca di inti raymi
Partenza il: 17/05/1996
Ritorno il: 30/06/1996
Viaggiatori: in coppia
Io ho un po’ l’hobby dell’antropologia culturale. Direte voi: che razza di passatempo! Insomma, non è proprio un passatempo, è un interesse che ho scoperto casualmente, ed ho cominciato, negli anni, ad acquistare e leggere vari libri sull’argomento, alcuni più classici tipo “Tristi Tropici” di Levi-Strauss, altri meno classici ma ugualmente molto interessanti. Un bel giorno entro nella biblioteca dell’Istituto Italo Latino Americano e mi metto a cercare qualcosa di interessante, senza sapere cosa cercare. Mi imbatto su un vecchio testo degli anni cinquanta di un etnografo sudamericano, che cataloga con accuratezza le molteplici figure delle feste popolari e religiose dell’Ecuador. Comincio a spulciarlo e mi imbatto nella descrizione della festa di San Juan , o Inti Raymi per dirla con la lingua degli indigenas, l’antica festa del sole celebrata dagli Incas, quella che a Cuzco è ormai diventata un circo per turisti con tanto di Atahualpa vestito di piume. La festa si celebra in concomitanza del solstizio d’estate, e gli indigeni furbescamente, per continuare a poterla celebrare dopo la venuta degli spagnoli, l’hanno chiamata Festa di San Giovanni, santo che “cade” giustappunto in quel periodo. Insomma, leggo il resoconto di questa festa in realtà pagana, mi appassiono e cerco di saperne il più possibile. Trovo anche l’indirizzo di una Federazione per la Difesa dei diritti dei campesinos che ha sede a Otavalo, scrivo loro una lettera in cui spiego che sarei interessato a ricercare ed assistere a questa festa, ammesso che si celebri ancora. Nessuna risposta. Io e mia moglie Elisabetta decidiamo di partire ugualmente. Non prima però di aver prenotato una crociera di otto giorni alle Galapagos (imperdibili se si va in Ecuador), e lo facciamo contattando via fax alcune agenzie di Quito. Accettiamo l’offerta che ci fa il signor Fernando Pareja dell’agenzia Alpa Tours (Av. Amazonas 1128 y Foch – tel. 005932562432 – fax 005932562447) perché risulta la più economica: 540 USD a testa (col dollaro a 1300 lire, sigh!). Ci imbarchiamo sul volo della KLM per Quito via Amsterdam. E’ il 17 maggio. Il ritorno è previsto per la fine di giugno; avremo tutto il tempo di fare laggiù le nostre ricerche e di assistere alla festa, se la troveremo. Certo non senza qualche perplessità, anche perché la diffidenza degli andini verso i bianchi è proverbiale. (NOTA: eviterò di dire il nome della località non per egoismo, ma perché non vorrei che si potesse verificare una affluenza anche piccola di persone non desiderate dal villaggio, nel quale le persone, chi conosce gli andini mi darà ragione, considerano le libere intromissioni nelle loro cose private come offese) L’atteraggio a Quito suscita un minimo di apprensione, perché l’aeroporto è circondato a brevissima distanza da alcuni tra i sobborghi più poveri della città, e guardando dal finestrino pare davvero che l’aereo debba inevitabilmente finire sopra i tetti delle case. Poi, all’ultimo momento, appare magicamente la pista, brusca frenata, e siamo arrivati. Per la prima ed unica volte nella mia vita, qualcuno in un aeroporto sventola un cartello con scritto il mio nome: è il signor Pareja che si dimostrerà più volte particolarmente gentile e disponibile, e che come promesso ci è venuto a prendere, gratuitamente, per portarci in città, dove ci convince ad accettare di pernottare nella zona nuova della città all’ hotel Suisse: immaginatevi di costruire un palazzo a otto piani usando come fondamenta uno chalet alpino lasciato come facciata, questo è l’aspetto dell’albergo, che risulta comunque essere un albergo di buona categoria (intendo con frigo bar, servizio in camera e tv satellitare) che Pareja ci offre a prezzo davvero scontato, 50 USD la camera doppia. Così ci concediamo a Quito l’unica botta di vita del viaggio. Quito è una città molto bella, parlo del centro storico, naturalmente. Il dedalo di viuzze che si aprono sulle piazze storiche incorniciate dalla tipica architettura coloniale e dalle ricche chiese in barocco spagnolo offrono uno spettacolo stupendo. Peccato che in alcuni casi sarebbero necessari dei restauri che forse il governo non si può permettere, ed in altri non si è stati sufficientemente attenti all’impatto di strutture moderne come la fermata del “Trolebus” che deturpa Plaza Santiago. A Quito ho avuto anche l’occasione di assistere, dinanzi al Palazzo del Governo, ad una manifestazione per i desaparecidos che pare non manchino neppure qui, anche se in occidente non se ne sa praticamente nulla. Anzi, un giorno sedevo accanto ad una anziano signore che vide passare dei propagandisti del partito della destra (si era in campagna elettorale presidenziale), e che al loro passaggio gridò con veemenza “No ganaran”. Io gli chiesi allora se pensava sul serio che la destra non avrebbe vinto le elezioni, ed il vecchio mi spiegò con un fondo di rabbia, che la gente non poteva votare per la destra, perché quello era il partito del vecchio presidente, di quando (traduco testualmente) “ammazzavano la gente come fossero uccelletti”. E si riferiva alla polizia.

A Quito invito a fare attenzione quando si è tra la folla nella città vecchia. Gli artisti del rasoio, spesso donne col poncho che camuffa i loro movimenti, ci mettono un amen a far fuoriuscire dal vostro zaino il contenuto. Se si visita la città vecchia di notte, la prudenza consiglia di portarsi addosso solo il necessario per un eventuale taxi. Noi abbiamo avuto un unico problema con una signora che a procurato uno squarcio nello zainetto di Elisabetta senza peraltro riuscire ad asportare nulla. Gli hotel della zona nuova della città vengono ritenuti più sicuri. Se si sceglie uno di questi il Trolebus (praticamente un filobus) collega frequentissimamente le due zone della città.

Dopo due giorni a Quito, ci imbarchiamo su una corriera diretta a Otavalo, circa un paio d’ore. In tutto l’Ecuador il sistema di corriere funziona piuttosto bene. Magari le corriere sono vecchie e rumorose, insomma non troppo comode, ma servono abbastanza capillarmente tutte le zone del paese. E’ un ottimo ed economico metodo per muoversi. L’unica nota negativa è che vi fanno la testa come un melone a forza di trasmettere musica (e che musica!) per tutto il tempo. E’ quasi impossibile poi perdere una corsa, perché non appena ci si avvicina alla stazione delle corriere, che nei piccoli centri è ovviamente un parcheggio in qualche piazza, trovate giovanotti che vi chiedono dove volete andare e che vi indirizzano prontamente alla biglietteria ed alla corriera giusta. A Quito comunque la stazione delle corriere (Maldonado 3077, poco lontano da Plaza Santo Domingo) è piuttosto grande e ben organizzata. Comunque, arrivati ad Otavalo, avevo l’indirizzo dell’ufficio della Federazione campesina, ma poche case hanno numero civico e chiedendo un po’ in giro, alla fine arriviamo davanti ad una modesta abitazione. Non c’è campanello, spingiamo la porta e ci troviamo in un cortiletto interno, di fronte una giovane donna abbigliata in maniera rigorosamente tradizionale a cui spieghiamo i nostri intenti. Questa ci dice di tornare l’indomani, quando vi troveremo un dirigente della Federazione. Ed infatti il giorno dopo parlo con questo modesto contadino nell’ufficio della Federazione: una stanzetta di due metri per lato con un banco di scuola per scrivania, un manifesto che ritrae Fidel Castro e Che Guevara ed un telefono chiuso dentro una cassetta di legno assicurata con un lucchetto: ripenso alla mia lettera dove chiedevo che, per accelerare i tempi mi rispondessero via fax! Il dirigente mi chiama “compagnero” e alla fine mi conferma che, per quanto ne sa, la festa che sto cercando si celebra in modo tradizionale ormai solo in poche comunità, una di queste è San C., poco lontano da Ibarra, nel nord del paese. Ci dice di cercare il Cabildo del villaggio, che si chiama Gonzalo, e di andarci a suo nome. Lo ringraziamo e partiamo per Ibarra (Hotel Imbabura – Oviedo y Narvaez – discreto – 4 USD a testa) dove per tutto il giorno chiediamo in giro, però nessuno sembra conoscere San C. Alla fine entro negli uffici di una sorta di consorzio agricolo, dove trovo un gentilissimo signore che mi porta nel suo ufficio e, un po’ stupito per la mia richiesta, mi indica, su una carta molto dettagliata, la località e mi spiega come arrivarci, ovvero prendendo una corriera che va verso nord, scendendo ad un certo crocicchio, e poi salendo a piedi su per il sentiero che arriva proprio a San C.

Così facendo raggiungiamo un piccolo gruppo di povere case con tre o quattro uomini che chiacchieravano. Chiedo di Gonzalo, e la fortuna vuole che sia proprio la persona a cui mi sono rivolto. Gli spiego che mi manda la Federazione di Otavalo e che la nostra intenzione è quella di assistere e fotografare la festa di Inti Raymi. Ci guardano perplessi, risponde alle mie domande confermando che la festa si svolge proprio come il libro di quarant’anni prima descriveva, mi porta a conoscere la sua famiglia, il suo laboratorio dove intaglia oggetti di legno, il suocero che capisco subito essere la persona che realmente deciderà nei nostri riguardi. Prendiamo appuntamento per il giorno 20 giugno, nel quale torneremo per poter, se tutti nella comunità saranno d’accordo, assistere alla festa. Abbiamo impiegato una settimana, ma l’abbiamo trovata, a quanto pare. Ora abbiamo tre settimane di tempo per andare un po’ in giro per il paese. Per prima cosa torniamo a Quito dove il giorno dopo saliamo sull’aereo che ci porta alle Galapagos. Ragazzi, una esperienza meravigliosa. Le Galapagos non possiedono forse la spettacolarità della natura africana, dove i paesaggi e gli animali sono maestosi e affascinanti nella nostra mente sin da quando eravamo bambini, però su queste isole dall’aspetto spesso aspro ed essenziale, la possibilità di entrare a contatto davvero ravvicinato con gli animali offre una esperienza davvero insolita ed emozionante. Ci si può avvicinare alle iguane sin quasi a toccarle (non fatelo, è giustamente proibito), ci si può distendere al sole accanto alle otarie o fare il bagno con loro che vi nuotano attorno facendovi sentire un assoluto inetto, si può fare snorkelling con la “fortuna” di avvistare qualche squalo pinna bianca che la guida assicura essere innocuo. Non dimenticheremo lo spettacolo offerto dalle fregate che tenendo fede al loro nome attaccavano le sule (incredibile il colore delle zampe) per rubare loro il pesce. Né scorderemo la breve emozione di quella pinna di pescecane “non pinna bianca” che per un po’ seguì la scia della nostra barca: mi immaginavo di sentire da un momento all’altro la musica del film di Spielberg! E naturalmente le grandi tartarughe. Credo che chiunque abbia una certa passione per gli animali e la natura, dovrebbe fare un viaggio qui. Io consiglio di farlo fuori stagione, ovvero non durante l’estate, non solo perché i prezzi compreso quello del volo per le isole sono inferiori, ma anche perché alla grande moltitudine di turisti si sovrappone un clima molto ventoso che si traduce in mare spesso agitato, e la “garua”, sorta di nebbiolina che rende il paesaggio grigio e opaco. Da evitare, per il sovraffollamento e i prezzi, anche il periodo natalizio. Fuori stagione si può anche arrivare a Quito ed approfittare delle agenzie locali che offrono le crociere last minute a prezzi ribassati. La nostra era una barca piuttosto “modesta”, perdeva gasolio, puzzava un po’, era molto basic, ma aveva il vantaggio di essere una piccola imbarcazione, solo otto posti. Ci sono comunque crociere di tutti i prezzi, anche con lussuosi catamarani a vela o con grandi navi da crociera, che personalmente sconsiglio perché significa visitare le isole a gruppi mostruosi. La nostra piccola Santa Maria si è guastata un paio di volte. Una notte si sente improvvisamente un rumore di ferraglia, poi il silenzio. Si ode un gran vociare dell’equipaggio. Ci alziamo e vediamo mettere in mare la scialuppa a motore che dovrà trainare la barca sino alla più vicina insenatura. Lo fa non senza difficoltà, e siamo tutti un po’ in apprensione. Alla fine sfiorando gli scogli gettiamo l’ancora ed aspettiamo un pezzo di ricambio che giunge via mare dopo qualche ora. Questo ci ha dato comunque l’occasione di visitare clandestinamente l’isola di Pinzon che è ufficialmente chiusa ai visitatori come riserva integrale. Un avvertimento: il sole alle Galapagos picchia sodo, ed anche se trovate il cielo coperto consiglio di usare abbondante protezione solare. Io il primo giorno ho trascurato il burro di cacao, ed il giorno dopo sembravo un reduce da un incontro di pugilato, tanto le labbra erano gonfie.

Torniamo non senza rammarico dalle Galapagos e visitiamo una parte del paese. Per la parte di terraferma noi abbiamo limitato la nostra visita alla regione andina. Sicuramente l’Ecuador possiede anche una interessantissima regione amazzonica nell’ Igapo ed altre zone, ma ormai abbiamo assunto la filosofia del “vedere meno ma vedere meglio”.

Siamo stati a Latacunga, (hotel Estambul camere ampie molto semplici, docce comuni a 4 USD a persona) cittadina visitabile in un giorno, buona base di partenza per visitare il parco del Cotopaxi dove si possono fare interessanti camminate. Noi siamo arrivati al rifugio posto a 4.800 metri ed è stata piuttosto dura, per l’altitudine e per il vento così forte da sollevare i sassi. Da Latacunga abbiamo raggiunto in corriera (60 km circa) Zumbagua, dove il sabato si tiene un mercato molto verace, assolutamente destinato ad usi locali e non alla vendita di souvenir. Solamente altri due visi pallidi oltre ai nostri. Da lì, a piedi, l’escursione sino al cratere del Quilotoa (alt. 3.900 metri) è da consigliare. Il lago turchese all’interno del cratere offre un magnifico spettacolo. Si può anche scendere fino al lago, ma noi abbiamo rinunciato per stanchezza. Volendo si può cercare qualcuno che a pagamento vi dia un passaggio fino al cratere. Si può inoltre pernottare alle Cabañas Quilotoa (tel. 005933812044) il cui proprietario Humberto Latacunga organizza anche interessanti escursioni. Proseguendo verso sud abbiamo visitato Riobamba, Baños (Hostal Bolivar, discreto a 5 USD a persona) ed infine Cuenca (Hostal Paredes – Cordero 11-29 y Lamar – per 7 USD a testa abbiamo dormito in una autentica casa coloniale con patio interno, camere spaziose e bagno privato). Sono tutte cittadine abbastanza interessanti. Baños e così chiamata per la presenza dei bagni termali e si trova sul limitare della cordigliera che comincia a digradare verso il bacino amazzonico, quando già il paesaggio comincia ad avere un aspetto realmente equatoriale, con vegetazione più lussureggiante e venditori di canne da zucchero. Baños può essere il punto di partenza per inoltrarsi nella regione amazzonica. Numerose agenzie offrono tour più o meno lunghi e impegnativi. Cuenca è la città più bella che abbiamo visto dopo Quito, con gli edifici di maggio pregio. In ogni caso, per quanto riguarda la regione andina, la cosa più interessante sono sicuramente i mercati. Si può vare la cerca per trovare i mercati più veri, meno contaminati dal turismo, e ve ne sono in gran numero e piuttosto belli. Penso a quello già citato di Zumbagua, a quello di Saquisilì il giovedì mattina. Bisogna tenere presente però, e lo dico per fare in modo che tale ricerca non sfoci in parziale delusione, che tali mercati veraci possono risultare, ad un occhio poco versato per l’osservazione, diciamo così, etnografica, un po’ grigini, dato che sono privi o quasi di tutti quei prodotti così variopinti e pittoreschi che vengono destinati ai turisti. Unica eccezione la fanno i tessuti che sono ugualmente molto colorati, ma in maniera più semplice, non così tanto e non in così grande quantità.

Da Cuenca siamo tornati verso nord, tappa a Quito per ragioni logistiche alloggiando più economicamente (Residencial Santa Clara – Darquea Teran 1578 y 10 de Agosto – 15 USD la camera doppia con bagno – buono) e poi ad Otavalo, (Hostal Los Pendoneros – Calderon y Bolivar – pulito a 5 USD a testa – dalla terrazza in cima all’edificio, dove si può stendere il bucato, si gode una ottima vista al tramonto dell’Imbabura) dove il sabato c’è un enorme e bellissimo mercato. La piazza centrale del paese è occupata completamente dai venditori di ammennicoli per turisti, ma il resto delle vie è completamente pieno fino alla periferia, di venditori di prodotti di ogni genere: legname, canestri, cappelli, tessuti, maiali, pulcini, anatre, patate, cibarie di vario genere. Il mercato è tanto bello quanto famoso, ed essendo Otavalo non troppo lontano da Quito, il sabato mattina decine di pulmann vomitano orde di turisti americani ed europei che si gettano sulle bancarelle per fare incetta di souvenir e fotografie. Se si è intenzionati ad acquistare qualche oggetto per sé, consiglio di andare ad Otavalo all’inizio della settimana. Sulla piazza del paese, troverete ugualmente alcuni venditori di tessuti, che sono la cosa più tipica, e dato che l’affluenza di turisti durante la settimana è minima, specialmente fuori stagione, riuscirete a strappare dei buoni prezzi che non vi concederebbero mai di sabato. Intorno ad Otavalo c’è anche la possibilità di effettuare qualche escursione a piedi ad esempio alle cascate di Peguche o alla laguna San Pablo. A questo punto è arrivato il momento di tornare dai nostri campesinos di San C. Torniamo a Quito per rifornirci di cibarie: biscotti dolci e salati, gallette, salsicciotti, marmellate, scatolette, frutta, caramelle per i bambini. Quando arriviamo al villaggio, ci accoglie Gonzalo che corre subito a chiamare il suocero, Don Rafael. Questi ci comunica che ne ha parlato con gli altri membri della comunità e siamo autorizzati a rimanere nel villaggio ad assistere alla festa. Unica condizione: che gli si prometta di inviare le foto che faremo. A mo’ di camera per gli ospiti ci destinano il magazzino delle granaglie, dormiremo coi nostri sacchi a pelo tra i sacchi di mais. I primi due giorni trascorrono senza che nulla accada. I locali ci guardano un poco incuriositi, e non posso dare loro torto, si saranno chiesti come sono capitati due europei in mezzo a quelle montagne. Noi ci limitiamo a bighellonare per il villaggio, e a giocare con i bambini a cui ogni tanto offriamo delle caramelle. Evito accuratamente di tirar fuori la macchina fotografica. Il terzo giorno si rompe il ghiaccio: riceviamo l’invito ad andare alla casa del cabildo, si prepara il pane. Per questa gente il pane non è un alimento quotidiano, si prepara solo in occasione delle feste più importanti. Per questa festa ogni anno vengono nominate sei “priostes” capifamiglia differenti, che per giorni cucinano notte e dì per preparare il cibo da offrire non solo agli altri componenti del villaggio, ma anche a tutti coloro che dal circondario vorranno intervenire. Per le famiglie è uno sforzo economico notevole dal quale però nessuno si tira indietro. E’ un classico esempio di meccanismo redistributivo in uso in moltissime società di tipo tradizionale. Assistiamo alla preparazione del pane, a cui collaboriamo anche se maldestramente, in una casa senza pavimento, col tetto di legno, il forno di mattoni, ne luce ne acqua, ed inevitabilmente mi viene di pensare a quanto siamo abituati bene noi. Nei giorni successivi ci fanno assistere alla preparazione della pecora scuoiata e bollita, del champus, cibo preparato facendo cucinare del mais fatto fermentare per settimane e dolcificato con la canna da zucchero (direi pessimo, una sorta di polenta nauseabondamente dolce), assaggiamo la chicha, una bevanda di mais fermentato, ci invitano a pranzo offrendoci del pane, patate lesse, mais tostato. Non li vediamo mai mangiare carne sino al giorno della festa. Nel frattempo sul piazzale erboso dove si svolgerà la festa la gente accumula legna per la chamiza, il falò rituale per la sera della vigilia. In tutto questo affaccendarsi per la festa, noi cominciamo ad abituarci alla vita di villaggio: niente acqua per lavarsi, i campi coltivati, e quindi da concimare, come servizi igienici, a letto presto che alle sette di sera è buio pesto e di locali da ballo neppure l’ombra. La mattina della vigilia, è il 26 di giugno, veniamo svegliati dai petardi che sono un elemento immancabile di ogni festa. Ci prepariamo in fretta e seguiamo la gran processione che scende a valle, sino ad una piccola chiesa di campagna dove viene prelevata una immagine della Vergine (un quadro di stile vagamente seicentesco) Si fanno offerte votive in danaro e rituali (abbiamo visto una signora recare un piccolo recipiente con delle braci accese e soffiarvi sopra dopo averci posato delle erbe non meglio identificate, altre legare delle banconote alla cornice del quadro) ancora in processione preceduta dai soliti petardi la si trasporta al villaggio dove le viene preparato un altare nel quale dovrà rimanere per tutta la durata della festa. Si intonano canti e preghiere in lingua quechua.

Al calar della sera, tutto il villaggio si riunisce per l’accensione della chamiza. Comincia a girare la chicha assieme al “trago”, l’acquavite. Compare anche la vaca loca: due ragazzi con sopra un camuffamento da vacca, con le corna addobbate di petardi che scoppiano o si incendiano all’improvviso, e corrono all’impazzata fra la gente. La mattina dopo tutto il villaggio è riunito sul grande spiazzo dove ha bruciato la chamiza. Arriva gente dai villaggi vicini, alcuni uomini sono travestiti da donna o in altro modo scherzoso. Le donne hanno un atteggiamento più sobrio. Ad un certo punto si svolge la cosiddetta “entrega de gallos”: ogni famiglia dei priostes porta in dono alla famiglia del cabildo un numero variabile di galline: maggiore sarà il loro numero, tanto più grande sarà il prestigio per il prioste. E le galline vengono portate correndo, ballando, sparando petardi, e rimangono in mano dei partecipanti sino alla sera, quando la famiglia del cabildo le dona al resto del villaggio. A questo punto, le povere galline, sbatacchiate tutto il giorno sulle spalle dei danzatori spesso ubriachi, sono oggetto di un gioco crudele: vengono appese per le zampe ad una corda manovrata da un ragazzetto, e la gente sottostante deve cercare di afferrarla mentre il ragazzetto li beffa sollevando o abbassando la corda. Quando qualcuno riesce a prendere la gallina, spesso a questa, per la violenza dello strattone, si stacca il collo di netto, o si stacca il corpo dalle gambe saldamente legate, o le ali se qualcuno la afferra male. Dopodiché, finalmente, il pennuto trova la sua pace eterna in un pentolone e successivamente negli stomaci dei partecipanti alla festa. Alcuni suonatori allietano la festa e tutti ballano sia per la musica sia per gli effetti dell’alcol. Molti approfittano per pregare a modo loro la Vergine. In effetti mi chiedo cosa centri San Giovanni in una festa che si fa adorando un’immagine della Vergine, sacrificando galline, inneggiando con canti quechua, petardi e che si svolge tre giorni dopo, e mi rispondo che era un bel modo per menare per il naso gli spagnoli che minacciavano la garrota a chi non si convertisse. Noi siamo gli unici non indigeni e qualcuno di altri villaggi ci guarda un poco storto, anche perché io continuo a scattare delle foto, ma fortunatamente Don Rafael ci assicura che “abbiamo l’autorizzazione del villaggio”. A sera fatta sono non pochi quelli che per tasso etilico troppo elevato non riescono a raggiungere le loro case. Devo però dire che nonostante questo non abbiamo assistito ad alcun litigio o baruffa. Il giorno dopo l’immagine della Vergine viene riportata alla chiesetta dove vi rimane fino all’anno successivo. E per noi è ormai è ora di tornare verso casa.



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