Afro/Afra n.1 festival au désert
Ma lo rifarei.
Un’esperienza intensissima.Che spero proprio di poter ripetere.
Il Mali mi ha stregato.
Il Festival au désert è stato superiore a ogni mia piu’ ottimistica aspettativa.
Allora: Bamako-Mopti-Timbouctou-Essakane.(chi sa chi è Isabel Eberhardt capisce il riferimento stilistico).
Non trovare al mio arrivo all’aeroporto di Bamako (due e mezzo di notte,Mali,non Bologna o Firenze) il tour operator locale contattato via Internet e dovermela cavare a prendere un “taxi” per raggiungere un albergo di cui conoscevo l’esistenza sempre attraverso Internet mi è sembrato,li’ per li’,un semplice contrattempo.
Non avevo capito che questo sarebbe stato il trend di tutti i 20 giorni di soggiorno e di avventura in Africa..Si è fatto vivo il giorno dopo,al telefonino,il tour operator,e gli abbiamo sborsato una gran bella sommetta per assicurarci il trasporto in fuoristrada su e giu’ per il Mali ,fino al Festival e indietro,di nuovo a Bamako,per prendere l’aereo per il Senegal.Ma il bello doveva ancora venire.
Terra rossa e villaggi sparuti lungo la strada maestra,bambini che ti crcondano in 50 se dai una caramella a uno di loro,mercatini dove non si capisce cosa si vende perchè tutto sembra immondizia,l’eterno odore di montone arrosto, cotto e venduto per strada che si mischia con quello putrido delle fogne a cielo aperto.
Terra rossa e poi comincia la sabbia.Sabbia,sempre piu’ sabbia. E la traversata (notturna,all’andata) del grande Niger.L’enorme fila di vecchi camion,fuoristrada,corriere.
Non si aspettavano tanto afflusso di gente per il Festival e il torpido sistema di imbarcazioni per la traversata del Niger (Timbouctou si trova sull’altra sponda),è andato in tilt.
Arrivo a Timbouctou.
Timbouctou (o Tombouctou,come è modernamente chiamata) è una pseudicitta’ nata come accampamento stagionale di Tuareg bisognosi di appoggio logistico in uno snodo di importanza cruciale sulla via del sale.
Ha un fascino incredibile.Non sembra vera.Credo di non avere mai visto un posto dotato di simile magnetismo,cosi’ capace di ipnotizzarti,di darti l’impressione di essere arrivati al centro del mondo,come Timbouctou.
Sembra di entrare dentro un film ambientato nel medioevo.
Strade che non sono piu’ strade ,sono ormai fiumi si sabbia (è il deserto che si riprende il suo spazio) che passano in mezzo ad edifici di sabbia.Bambini che giocano in mezzo alla sabbia e sono impolverati dalla testa ai piedi,ma hanno gli occhi vivaci e furbi della gente di quaggiu’.Qualche locale che vende il the africano,qualche targa alle porte scritta in francese.Le case dei piu’ famosi esploratori della storia vissuti a Timbouctou ,alcuni dei quali allontanatisi verso il deserto e mai piu’ tornati.
Una moschea fatta di sabbia.Tutto ,compreso l’atteggiamento e i discorsi della gente,ti ricorda che sei a una sorta di confine del mondo.Dopo c’è solo deserto.
Io arrivo a Essakane,luogo del festival,con la febbre a 39 per un’influenza che,evidentemente,mi ero portata da casa.
Conto di curarmela in un posto dove dormo in una tenda e si passa da 35 gradi di giorno a 5 gradi di notte.
Seguono giorni incredibilmente belli e traboccanti di emozioni.
Il festival si svolge in una sorta di anfiteatro naturale costituito da dune di sabbia attorno ad un avvallamento centrale che è il parterre .Dietro al palco svetta un faraonico ripetitore della societa’ di telefonia francese Orange,che da quest’anno è uno degli sponsor ufficiali del festival.Bene.In pieno deserto il cellulare ha un campo che neanche a Manhattan.
Apprendo con soddisfazione che anche la Comunita’ Europea è tra gli sponsor del festival.
E tutto intorno la tendopoli messa su’ per l’occasione,quattro.Cinquemila persone tra artisti,tribu’ di tuareg e stranieri.C’è davvero gente di tutto il mondo,soprattutto francesi,inglesi e americani.Davvero tanti,gli americani.Chissa’ come mai .Mi viene da pensare che dopo che Angelina Jolie è venuta a partorire in Namibia l’Africa Nera sia diventata trendy tra certi americani un po’ alternativi.
I pochi italiani presenti sono per lo piu’ inviati di giornali o di reti televisive o persone che hanno uno specifico interesse di studio della cultura africana Le mie vicine di tenda sono quattro ragazze di Seattle veramente adorabili,due ragazze inglesi (che non facevano altro che guardarsi intorno e esclamare :amazing!) ,una signora americana di Phoenix sui settant’anni che viaggiava da sola (io faro’ quella fine,e aggiungo:speriamo!),una coppia di omossessuali maschi francesi che se la tiravano un po’ ,un’altra coppia di omossesuali maschi californiani (eh,l’Africa è sempre stata una sorta di terra promessa per gli omosessuali intellettuali,da Bruce Chatwin al Cyril Collard de “Les nuits fauves”).Io stessa,pur non essendo ne’ maschio ne’ omosessuale mi sento un po’ Chatwin (ho pure il Moleskine per annotare le cose salienti) per quell’alternarsi ,in me,di divertita ma distaccata osservazione che lascia il posto,neanche raramente, a momenti di evidente rapimento,di imprevisto e spudorato coinvolgimento emotivo (in Chatwin per la verita’ ,spesso legato alla descrizione delle grazie giovanili di qualche indigeno).
Comincia il festival ed è subito un trionfo di suoni,colori ,luci.
La prima serata è internazionale :assieme ad artisti del Mali come Tartit,Afef Bocoum (musica tradizionale maliana con forti percussioni,per la mia goduria)Diata Sya (formazione musicale molto impegnata culturalmente che si è assunta la “missione” di rivendicare le radici africane di rap e hip-hop, presentandosi come discendenti del mitico Soundjata Keita,fondatore dell’impero del Mali),Habib Koite’ (grande chitarrista considerato un moderno “griot”,anche lui “attivista” della lotta per il superamento delle barriere culturali,di lui ho comprato un cd,bello bello),Ighayen Haskana,gruppo che ripesca vecchi canti tradizionali guerrieri come moderno incitamento all’onore,alla dignita’, a una sorta di “african pride”,vi sono anche formazioni straniere :un gruppo americano (Panjea Project) che fa una sorta di fusion tra musica africana e rock,Noura Mint Sey,giovane cantante afro.Rock della Mauritania,grande davvero…,La tigre des Platanes,gruppo francese anch’esso dedito alla rilettura in chiave occidentale della musica tradizionale africana.
La seconda giornata è quasi tutta dedicata all’omaggio ad Alì Farka Touré,grande musicista maliano scomparso l’anno scorso.E’ evidente che lui è diventato un mito,è una sorta di “front man” della cultura Maliana,vessillo della volonta’ di emancipazione,icona dell’ogoglio nazionale,un po’ come Youssou N’Dour per il Senegal.Ma in realta’ mi sembra di aver capito che non esiste popolo africano che non abbia il suo Bob Marley.
Si alternano sul palco i principali artisti maliani,tra cui il gia’ noto fra noi (ho letto il post di UCTS) Toumani Diabate’ ,e poi maliani e stranieri in meravigliose jam session.Fa la parte del leone una chitarrista americana (piuttosto attempata) :Leni Stern,l’unica chitarra elettrica del festival.
Vengono suonati ,da parte di quello che era un tempo il gruppo di Alì Farka Toure’ dei pezzi che il nostro compose assieme a Ry Cooder. L’unica cosa che si puo’ fare è tagliarsi le vene dal troppo piacere. (le parole non bastano per esprimerlo). Per me è una sorta di quadratura del cerchio.Cerco di spiegare perchè.Il fatto è che io adoro Ry Cooder.Lo adoro al punto che ,neanche tanto tempo fa, ho deciso di considerarlo una sorta di reincarnazione artistica di Brian Jones .
Brian amava l’Africa e dalla cultura africana ha attinto materiale per le sue ricerche musicali. Il fatto che anche Ry Cooder sia stato tanto interessato all’Africa da comporre (bellissima!)musica con un maliano mi ha dato la conferma dell’esattezza del mio “itinerario concettuale”.
Il terzo giorno è dedicato ad musica maliana e africana un po’ piu’ “mainstream”,ma sempre di ottimo livello (se vi interessa vi posto il programma completo).
Intanto,dal punto di vista soggettivo ,quei giorni,per me,sono un’eternita’.La casa,il lavoro,il mio ambiente quotidiano mi sembrano lontanissimi nel tempo e nello spazio.
Ogni minuto porta con se’ riflessioni,intuizioni,sensazioni.
Il primo giorno prevalgono meraviglia e entusiasmo.
Il secondo giorno è quello in cui capisco che questo viaggio è anche una vera e propria sfida.Durante la notte c’è stata una piccola tempesta di sabbia e la mattina,quando metto il naso fuori dall’abitacolo della tenda in cui dormo,mi rifiuto di credere a quello che vedo:tutto è coperto di sabbia,il mio trolley che avevo lasciato aperto è pieno di sabbia e devo scavare per trovare le mie cose,devo scavare per trovare le scarpe,tutti i miei vestiti sono letteralmente impregnati di sabbia.Vado in una delle due (2) docce presenti nel campo (per 4 mila persone) e riesco a mala pena a darmi una frettolosa lavata con un filo d’acqua .Le riserve d’acqua al secondo giorno sono praticamente finite.
Di lavarsi non se ne parla,a meno di decidere di destinare alle abluzioni parte dei tre litri d’acqua al giorno che sono la razione quotidiana per bere.
Il terzo giorno e’ il ritorno alla mia “perduta normalità” .Nel senso che la sopravvivenza in quelle condizioni mi ha portato a ritrovare ,in modo apparentemente casuale,atteggiamenti che mi appartenevano in altre fasi della mia vita.Pescare i vestiti da mettermi ,cosi’ come li trovavo mettendo le mani nei bagagli ha fatto si che io mi sia trovata a vestirmi come mi vestivo quando ero una fricchettona.Vestitone di tela indiana grezza,sopra giacca di velluto da citta’,sopra ancora scialle tuareg…Bracciali e braccialetti e cavigliere comprate al mercatino tuareg…E poi c’è quell’atmosfera incredibile…Stipata fra la gente che ascolta la musica mi giravo intorno e vedevo ,sulle gradinate fatte dalle dune,le macchie di colore dei vestiti delle diverse tribu’ tuareg ,tutti sistemati vicini tra di loro,proprio disposti in tribù,e la stragrande maggioranza di gente di colore,e gli occidentali in mezzo,tutti incantati e palesemente desiderosi di essere davvero parte integrante di quell’ambiente. Al calare delle tenebre venivano accesi dei grandi bracieri che dovevano fare caldo e un po’ di luce ,sparsi per le dune difronte al palco e se salivi su una di esse avevi un meraviglioso colpo d’occhio:il palco,la gente sotto il palco,stipata,poi via via piu’ sparsa e piu’ distanziata,con questi sentieri rosso fuoco fatti dai bracieri.
Sulla cima delle dune (che sono alte e ripide,ci vuole sforzo per arrivare alla sommita’) vedevi tutto dall’alto e venivi investito da una fresca brezza monsonica a volte delicatamente olezzante di erba che (nigeriana o maliana),in barba al (severo!) veto islamico e statale,circolava massicciamente nel campo.La luce dei bracieri faceva brillare di piu’ gli occhi (l’unica cosa visibile) dei tuareg che ti trafiggevano coi loro sguardi incredibilmente charmants(ci aveva mica torto Chatwin).
Allontanandoti dal palco arrivavi in una zona in cui c’erano tuareg che dormivano,tutti appallottolati nei loro vestiti,sembravano bozzoli,ma anche occidentali,che si portavano il sacco a pelo e dormivano (o facevano canne,o cuccavano) sotto le stelle,sdraiati,laddove si sentiva la musica che veniva dal palco ma si era fuori dalla mischia.Non vedevo questa liberta’ di comportamento,questo potersi mettere a proprio agio ognuno a suo modo,questo poter essere tutti protagonisti,almeno da un punto di vista comportamentale,dai tempi dei festival di Parco Lambro.
Non mancavano,da parte dei conduttori e degli artisti,frequenti richiami alle responsabilita’ dei potenti della terra.Vengo poi a sapere che questo festival è nato,anni orsono,proprio con lo scopo di creare legami di amicizia tra i popoli.Inizialmente finalizzato a far incontrare tra loro le tribu’ tuareg del nord e del sud del Mali,che in passato hanno avuto dei rapporti ostili,poi è diventato un momento di unificazione tra le etnie di tutta l’Africa occidentale e adesso affronta il suo terzo obiettivo:far conoscere la cultura dell’Africa occidentale in un mondo ormai globalizzato ,entrarvi con un messaggio di dignita’ ma anche di amicizia.L’atmosfera è festosa ma combattente:quello che colpisce è la passione,la fede,l’entusiasmo,la certezza di stare combattendo per un mondo migliore,e di farlo nel momento stesso in cui vivi,che ti esprimi,che fai sbocciare le tue potenzialita’.
Mi rendo conto che l’Africa occidentale sta vivendo adesso quello che l’occidente ha vissuto negli anni ’60-’70: una prepotente primavera di idee e nuovi valori (the times are changing…!).
Al di fuori delle attivita’ ufficiali del festival,riunioni spontanee di musicisti di diverse etnie,maliani e tuareg che ,sotto le tende,fanno jam session con europei e americani,in ogni angolo è un traboccare di musica,di festa,di creativita’.
C’è un mercatino di artigianato africano dove,nelle ore del mattino,si possono fare acquisti di monili e tessuti e oggetti (tutti con lunghe contrattazioni che sono d’obbligo) e ascoltare dischi e conoscere persone. I richiami alla cultura rasta-giamaicana si sprecano.
Il service del festival ,di ottimo livello,e l’imponente supporto tecnologico sono americani.C’è un monumentale megaschermo che permette di vedere quello che succede sul palco anche dietro le dune ,c’è una discoteca con musica da ballo africana(veramente bella) sotto una tenda di pelli di cammello .Dentro dei ragazzi tuareg fanno una bellissima danza in cui muovono le braccia che sembrano lunghe ali di fenicotteri.Giovani francesi,americani e inglesi (sussurrando:è un nuovo ballo!) imparano da loro. E si vede benissimo che sono i tipi che ,a casa loro,sono i piu’ “fighi” sulle piste da ballo.Porteranno nelle loro realta’ questo modo di ballare.E anche loro si sono messi il turbante tuareg.Si vede proprio che tutto cio’ è considerato da loro “very cool”.
Carino anche che gli americani del service ci hanno tenuto a precisare che non sono li’ per colonizzare ma unicamente perchè sono pagati dal ministero della cultura del Mali (tra l’altro il ministro della cultura del Mali,che è un cineasta,mi è stato presentato personalmente). Si tratta di americani molto nouvelle frontiére:i giovani con i dreadlocks e gli anziani con la coda di capelli bianchi,gli occhialini alla John Lennon e i sandali.
Il quarto giorno nel deserto,quello della partenza,è quello in cui vedo tutti i miei limiti.Mi sento sporchissima,i capelli pieni di sabbia,la voce che non c’è piu’,la tosse che ,con tutta la sabbia che ho respirato,è diventata secca e stizzosa,le unghie spezzate e piene di sabbia,i piedi piu’ volte trafitti da spine.Guardo ,io,cosi’ sfatta,le donne tuareg,belle come se fossero in un salotto,coi loro occhi pieni di cajal,le loro mani dipinte di hennée(i disegni di hennée sulle mani me li sono fatti fare anche io),coi loro vestiti fatti di drappi colorati,i monili di cui sono coperte.C’è poco da fare,qui le signore sono loro.Io mi sento un po’ Fantozzi che cerca di essere all’altezza della situazione.
Impossibile inoltre non esprimere la mia soddisfazione per l’imponente campagna anti AIDS (le SIDA,come lo chiamano i francofoni) attiva durante tutto il festival,con proiezione di cortometraggi di cineasti indipendenti africani uniti contro l’Aids,striscioni dovunque,gazebo sparsi qui e la’ nel campo dove si sensibilizzavano i ragazzi all’uso dei profilattici e all’abbandono dei comportamenti a rischio.
Bene…
e’ l’Africa che si muove.
E sprigiona una forza incredibile.
Afra