Alaska, the last frontier

Da Point Barrow fino alla Kenai Penisola... un viaggio lungo più di duemila chilometri
Scritto da: LadyDar
alaska, the last frontier
Partenza il: 04/08/2010
Ritorno il: 27/08/2010
Viaggiatori: 2
Spesa: 4000 €
2438 miglia, ovvero 3900 km, nove voli aerei, due dei quali su piper sei posti, da Point Barrow fino alla Kenai Penisola: questi sono stati i nostri 22 giorni di “Into the wild”.

Il 49° stato degli Stati Uniti è considerato un posto selvaggio, poco abitato, con condizioni climatiche estreme per gran parte dell’anno che lo pongono al di fuori del turismo di massa, scoraggiato anche dall’alto costo della vita dovuto all’elevato prezzo del carburante, tutto questo e molto altro è la “The Last Frontier”, l’ultima frontiera.

PUNTANDO SUBITO ALL’ESTREMO NORD

L’avventura che si prospetta ci stimola e il 4 Agosto decolliamo con l’American Airlines, destinazione Anchorage, dove atterriamo dopo due giorni di viaggio e ritardi aerei per poi ripartire subito la mattina successiva in direzione estremo nord. L’aereo che ci porta a Barrow, oltre la linea del Circolo polare Artico, è pieno di lavoratori che scenderanno tutti a Prudoe Bay dove parte la Trans-Alaska pipeline e dove risiedono fra le più grosse piattaforme petrolifere di tutti gli USA. Sull’aereo restano più equipaggio che passeggeri. Barrow e il suo minuscolo aeroporto si presentano piccoli e grigi. Il nostro hotel, il King Eider, è una delle poche alternative della città, si trova a pochi passi e per fortuna è molto confortevole. Alla reception ci accoglie un giovane dai classici lineamenti inupiat, ci consegna le chiavi della camera che si trova al primo piano e ci invita a toglierci le scarponcelli prima di salire. Immaginando che per gran parte dell’anno la neve crea una poltiglia umida e sporca che non va molto d’accordo con la moquette presente nelle dimore, capisco perché in Alaska è una buona abitudine. Siamo stanchi, ci troviamo a 10 ore di fuso orario rispetto all’Italia ed abbiamo molte ore di viaggio sulle spalle, questo non ci ferma e non ci impedisce di uscire avventurandoci in una città fantasma dove non si vede praticamente nessuno per strada e i pochi curiosi si nascondono al nostro passaggio; non ci sono strade asfaltate, in terra c’è fanghiglia, i fili elettrici sono sospesi su pali di legno fatiscente e in cielo c’è uno strana grigia foschia. Puntiamo al Mar Glaciale Artico per scendere su una spiaggia scura e ciottolosa, tocco l’acqua e non è fredda come mi aspettavo, all’orizzonte nessun pezzo di ghiaccio galleggiare e nemmeno l’aria è poi così fredda. Torniamo all’Hotel e organizziamo con loro un giro con guida per il giorno dopo a Point Barrow, così da toccare con mano il punto più a Nord degli Stati Uniti, raggiungibile solo in 4×4.

La mattina dopo alle 9 in punto partiamo non troppo riposati, perché durante la notte non è mai sceso il buio e il sole è sempre stato alto a far luce in questo piccolo paese all’estremo nord del mondo. L’escursione non è economica, costa 85$ a persona e non è entusiasmante, ma interessante. La guida inupiat ci spiega che le temperature sono stranamente alte per la stagione e orsi polari, volpi artiche e balene, non si avvicinano al continente. Riusciamo solo ad avvistare gabbiani reali e le anatre king eider, simbolo della città. In lontananza nel mare alcune foche artiche si distinguono a malapena e sulla spiaggia due grossi cetacei di cui rimane solo la carcassa. Nel rientro ci fermiamo di nuovo sulla spiaggia per un classico scatto da foto ricordo sotto le due ossa della balena che guardano all’orizzonte verso il Polo nord. Prima di ritirarci in hotel per la notte ceniamo in un locale sulla spiaggia, dove ci gustiamo una t-bone steak molto buona.

ON THE ROAD VERSO VALDEZ

Un altro aereo ci aspetta per riportarci ad Anchorage, sono già trascorsi 4 giorni dalla partenza ed è ora di prendere in consegna l’auto a noleggio e iniziare il percorso on the road nelle terre selvagge. La nostra prima fermata è Palmer famosa per i suoi ortaggi giganti, è una graziosa cittadina non lontana da Anchorage, ma molto meno caotica e più economica, dove alloggiamo al Pioneer Motel, che prende il nome dalla vetta che domina la città. Facciamo spesa organizzandoci al meglio per avere possibilità di sfruttare i comodi microonde e frigoriferi presenti nei motel, risparmiando sostanzialmente tempo e denaro sui pasti. Palmer era di passaggio e la nostra prima vera meta è Valdez, dove ci dirigiamo. I paesaggi intorno a noi attirano la nostra attenzione, distese di conifere e lingue bianche di ghiacciai terminanti in cascatelle. Uno di questi ghiacciai merita uno stop e una piccola passeggiata per raggiungerlo, il Worthington. Alla sera raggiungiamo la città nuova di Valdez, la cui baia è tristemente nota prima per un terremoto del 1964 che l’ha completamente rasa al suolo e più recente per il disastro petrolifero dell’Exxon Valdez che nel 1989, riversando 40 milioni di litri di greggio nella baia, rischiò di compromettere del tutto un mare ricco di fauna. Dormiamo in un posto favoloso, il B&B della Signora Laura, tipica casa di legno accogliente pulita e calda. Lasciamo fuori i nostri scarponcelli e sistemiamo i bagagli nella nostra camera. La mattina dopo abbiamo una crociera, prenotata nel Prince William Sound prima di cena facciamo un giro per orientarci e grazie al nostro navigatore ci riusciamo senza problemi. Visitiamo anche la old town, la zona dove sorgeva Valdez prima del terremoto, dove ci sono pochi resti soprafatti dalla vegetazione, ma veniamo rapiti da dei canali pieni di salmoni che li han scambiati per un fiume e cercano di risalire la corrente. Il canale ha più pesci che acqua! Ci svegliamo la mattina con nuvole basse, nebbia sottile e freddo. La nostra crociera non promette bene. La compagnia è la Stephan, ma sono più o meno tutte uguali, saliamo a bordo in perfetto orario e all’interno per fortuna c’è un confortevole caldo. La speranza è quella di avvistare balene e non solo, ma sul ponte fa veramente freddo, oltre all’umidità che mi crea non poche difficoltà con l’attrezzatura fotografica. Ma non demordo, munita di giacca a vento e cappuccio per me e sacchetto di plastica per la reflex, sto con gli occhi puntati sull’acqua e sulla costa. Avvistiamo subito tante e bellissime Bald eagle, l’aquila testa bianca, ecco anche un bel gruppo di leoni marini sia sugli scogli sia in acqua che seguono la scia della nave come per portarci i loro saluti. Iniziano ad arrivare anche i primi massi di ghiaccio galleggianti in acqua e sarà un’impressione, ma la temperatura sembra scesa ulteriormente. Dopo tutto siamo in Alaska e non in California! Ci avviciniamo al ghiacciaio Maers, il secondo per grandezza nel golfo, ma è davvero immenso. I motori della nave vengono spenti e mi rendo conto che il ghiaccio “parla”. I suoi rumori sono impressionanti e anticipano la rottura di un pezzo che si stacca e si tuffa in mare con un boato. Siamo davvero piccoli di fronte a questa immensa Natura. Ripartiamo, non mancano le aquile e anche moltissimi altri tipi di uccelli, fra cui le pulcinelle di mare, anche quelle con il ciuffo che sono bellissime e particolari. Niente balene però e mentre il tempo si fa ancora più grigio e freddo, cala una bruma degna dei film horror ed io mi ritiro in coperta per il pranzo dove apprendo che la visita al Columbia Glacier non è possibile perché ci sono troppi pezzi di ghiaccio in mare pericolosi per una collisione della nave e nessuno di noi vuole sperimentare la tecnica “Titanic”. Il pomeriggio lo passiamo più in coperta che fuori, la visuale e la luce sono pessime e avvistare qualcosa è praticamente impossibile. Rientriamo al porto un po’ frastornati dal freddo pungente della giornata, ma soddisfatti di questa nuova e bellissima esperienza fra i ghiacciai in mare, per me era la prima volta di fronte a questo bianco spettacolo e ne esco arricchita.

IL SELVAGGIO WRANGLELL-SAINT ELIAS

Ci alziamo di buon ora per lasciare Valdez e riprendiamo la Richardson Hwy verso Glennallen deviando, prima di raggiungerlo, per il Wrangell-Saint Elias National Park lungo la McCharty road. Dopo pochi km l’asfalto si sostituisce con la strada sterrata e dobbiamo rallentare. Solo nel tardo pomeriggio arriviamo al Kennicott River Lodge, l’ultimo prima del ponte pedonale che porta a McCharty. Il lodge è veramente bello, il proprietario Bradt ci accoglie in maniera cortese e ci fa vedere la nostra baita in mezzo alla natura, non dispone di acqua corrente e per scaldarsi una piccolissima stufa a gas. Il profumo di legno è piacevolmente intenso e dalla finestra si intravede il Root Glacier, imponente e immenso. Prima di cena attraversiamo il ponte alla scoperta della cittadina di McCharty, siamo fermi ai primi del ‘900, tutto di legno, case tipiche da periodo di via dell’oro, anzi del rame in questo caso vista la miniera di Kennicott più in alto. La sera approfittiamo dell’area comune per cucinare qualcosa di caldo, laviamo e riponiamo gli oggetti usati e ci ritiriamo nella nostra bellissima cabina. Al nostro risveglio il cielo è di ancora grigio e cade anche una finissima pioggia. Decidiamo ugualmente di incamminarci verso la miniera di Kennicott, in alternativa si può prendere un bus navetta dopo il ponte pedonale, il costo è 5$ a corsa per persona. La strada è facile e si trovano tantissimi lamponi selvatici, ma è anche fangosa a causa della pioggia e spesso passano le navette. Alla fine della strada ci troviamo davanti a Kennicott, il vecchio villaggio e quello che resta delle abitazioni nate durante il periodo dell’estrazione del rame dalle miniere, è di questa zona anche la famosa Bonanza. Proseguiamo il nostro percorso non prima di esserci rifocillati ad un improbabile camper allestito da paninoteca e pizzeria, il Tailor-Made Pizza. Vista la fame la pizza ci sembra buona, anche se farcita con i funghi in scatola. La meta è arrivare alla lingua del Root Glacier, uno dei ghiacciai più grandi come estensione. Il sentiero segue parallelo la morena e dopo un lungo percorso arriviamo a toccare il ghiaccio che senza ramponi è impossibile da affrontare. Le ore passano e ci incamminiamo sulla via del ritorno. Spesso si trovano cartelli di avvertimento zona ad alto rischio presenza orsi, noi per fortuna o per sfortuna, non ne incontriamo nessuno. Arrivati di nuovo alla Kennicott mine visitiamo lo spaccio dove vendono ancora reperti dei tempi d’oro! Cibi in scatola dell’epoca, fotografie, monete, cartoline. Anche i commessi sono vestiti a tema. Per ritornare al lodge questa volta prendiamo il bus.

L’ACCOGLIENTE FAIRBANKS

Ultima notte al Wrangell St. Elias National Park, la mattina seguente ripartiamo puntando il navigatore in direzione Fairbanks. Ci aspetta un bel tratto di strada e la prima parte è quella dell’andata, tutta sterrata. Finalmente un po’ di sole e il paesaggio assume già un aspetto diverso, diverse aquile dalla testa bianca volteggiano sopra le nostre teste e qualcuna si avvicina abbastanza da poterla fotografare. Vediamo anche molti altri tipi di uccelli e scoiattoli che attraversano la strada. Questa volta la guida dell’auto tocca a me e passato la Delta Juction, imboccata la Alaskan Hwy, sono la protagonista di un controllo stradale da parte del ranger. Esattamente come nei film si mette dietro accende i lampeggianti, avvertimento di sirena e tu accosti e non devi assolutamente scendere di auto. Controlli di routine e la mia patente supera il test U.S.A.! Passata. Riparto e pochi metri dopo finalmente la nostra prima alce, una mamma con due piccoli lungo strada. E’ gigante e bellissima, il pelo sembra una sorta di velluto per quanto è spesso, liscio e riflette sotto i raggi del sole. Dopo aver fatto un po’ di scatti siamo ormai nei pressi di Fairbanks e ci dirigiamo al North Golden motel e ci viene data la stanza n.° 125; la città ci appare molto accogliente e giovane. Siamo arrivati prima del previsto per cui andiamo a fare spesa al Safety e ci prendiamo un cartoccio di birra al liquor center, non dopo aver mostrato il documento naturalmente. Dedichiamo la prima mattina ad un giro sommario della città, io ne approfitto per lavare un po’ di indumenti alla lavanderia a gettoni e con circa 8$ uso lavatrice e asciugatrice e prendo anche i comodi detersivi monouso. Riportiamo la biancheria al motel e ci spostiamo a pochi km da Fairbanks per raggiungere North Pole, chiamata così perché a suo tempo avevano creduto che il parallelo del Polo Nord passasse da qua, sbagliando di non poco. Approfitto di questo buffo e surreale paese dove è sempre Natale per spedire le mie cartoline. Sembra di essere su un set cinematografico: lampioni fatti a forma di bastone di zucchero, giganti statue di Babbo Natale ovunque e la casa di Santa Claus in persona. Rientrati in città decidiamo per una visita al famoso campus universitario dove ha sede l’University of Alaska Museum of the north, uno dei più interessanti musei di tutto il paese. Solo l’architettura esterna merita una visita, in total white è ispirata ad un igloo e all’aurora boreale, l’entrata costa 10 $ a persona e all’interno c’è una sezione che racconta la storia del paese attraverso geologia, costumi antichi dei nativi e animali imbalsamati, fra cui un famoso bisonte risalente a 36.000 anni fa. Non manca la sezione più moderna con opere degli artisti del nord. Merita assolutamente la visita. Concludiamo così la nostra giornata, fra l’altro splendida e anche calda.

Il secondo giorno a Fairbanks la sveglia suona di buon ora, facciamo colazione con i cereali nella nostra stanza e prendiamo un bel caffè nero da asporto alla reception, prima di dirigersi verso nord est imboccando la Hot springs road e raggiungendo in circa un’ora di strada, la zona del percorso da noi scelto: l’Angel rock trail. Mettiamo nella cassetta i 5 $ per il parcheggio e prendiamo il tagliando da mettere all’auto in completa autonomia, pensando all’Italia ancora mi stupisco di questa estrema fiducia e ne faccio tesoro. Il percorso inizia molto tranquillo con un dislivello di 270 m si arriva alla roccia dell’angelo, che è un enorme pietra di granito da cui si gode un bellissimo panorama. Noi decidiamo di continuare seguendo le indicazioni per un percorso “loop”, ad anello, e questa parte è stata molto più impegnativa, con pendenze accentuate sia in salita che in discesa, tanto da doversi spesso aggrappare per non scivolare giù sul terreno ghiaioso. La giornata è molto bella e sarà per la fatica, ma fa un bel caldo e stiamo tranquillamente a maniche corte sotto un cielo azzurro. Purtroppo non incontriamo in pratica nessun animale, escludendo qualche scoiattolo e qualche uccello. Trascorsa la mattinata e 8,5 km di trail, panino al sacco e destinazione Chena Hot springs, le terme ce le meritiamo proprio. Costume e via nella acque caldissime, così calde che devono essere abbassate di temperatura con aggiunta continua di acqua fredda. Il clima ci fa dimenticare per un attimo che siamo in Alaska, una terra fredda e inospitale per la maggior parte dell’anno, ma l’Alaska è anche paesaggi mozzafiato senza fine e intorno a noi solo questo, oltre al fatto che a queste terme gli unici stranieri siamo noi.

FINALMENTE IL DENALI NATIONAL PARK

Passato un altro giorno da Fairbanks ripartiamo in direzione sud sulla Parkson hwy, verso il Denali National Park dove finalmente nella terra del grizzly spero di vederne almeno uno. Lungo la strada ci sono diverse scelte per scoprire posti nuovi e noi ne scegliamo due. La prima è un passaggio nella deliziosa cittadina di Nenana, con le sue case di legno addobbate di fiori colorati, la seconda è quella più significativa, lo Stampede Trail. Sull’onda emotiva della lettura del libro di Jon Krakauer, “Into the wild”, reso famoso dall’omonimo film diretto da Sean Penn nel 2007, decidiamo di imboccare quella che fu l’ultima strada percorsa dal protagonista prima di morire. L’evento risale esattamente a 18 anni prima e adesso passando ci sono molte nuove costruzioni e al primo impatto non sembra così selvaggio, solo al termine dell’asfalto, davanti a noi appare l’infinito bush alaskiano. Arriviamo fino a dove è possibile con l’auto e da lì inizia il percorso che porta al Magic bus oltre il fiume in piena, testimone del fatto che la Natura è bella e spietata e non va mai sottovalutata. Se mai la parola libertà avesse un odore è quello che si respira nell’aria. Lasciamo le emozioni vagare verso il magic bus, mentre con la macchina torniamo indietro per raggiungere la nostra meta: il Denali National Park, il più famoso e il più visitato d’Alaska. Raggiungiamo il nostro ostello, il Carlo Creek, che si trova a circa 20 km a sud dell’entrata principale del parco e prendiamo possesso della nostra graziosa cabina di legno, chiamata Splatterock, dove lasciamo i bagagli. Il Denali non può essere visitato con il proprio mezzo, ma è obbligatorio prendere un bus navetta che con varie fermate all’interno, compie il giro in mezza o l’intera giornata. Allarmata dalle guide che segnalavano i bus sempre pieni in agosto, avevo prenotato in anticipo sul sito del parco la mia escursione giornaliera. Ci dirigiamo quindi al Visit Center per assicurarci sugli orari di partenza e visto la disponibilità di posti liberi prenotiamo un secondo giro, più breve del primo, al costo 42,50 $ a persona.

Altro giorno, altra corsa. Prima di rientrare in camera ci fermiamo per cena al Panorama Pizza, proprio di fronte all’ostello, ordiniamo una pizza media e da bere per una spesa di 36.50 $ in due compresa la mancia, che qua è buona abitudine lasciare sempre. La partenza del nostro primo tour bus è alle 7.45 a.m. Il tempo non è bellissimo, ma il sole spunta timido da sotto le nuvole creando dei bei giochi di luce. Speriamo di riuscire a vedere la vetta del McKinley, cosa assolutamente non scontata. Il nostro bus è il numero 291 direzione Kantishna, ultima fermata del parco. Come consigliato dalle nostre guide cartacee ci sediamo a sinistra sul vecchio scuolabus verde, i finestrini si aprono, ma non molto bene e non sarà semplice scattare foto. Il nostro autista ci spiega di gridare Stop al possibile avvistamento di fauna selvaggia. Iniziamo così il percorso fermandoci spesso nella prima parte, in corrispondenza dei vari campeggi all’interno, dove salgono altre persone. E’ la prima vera possibilità di iniziare a vedere un po’ di animali e soprattutto il grizzly, il vero protagonista di queste terre. L’ autista continua a raccontare del parco mentre piano procediamo, avvistiamo finalmente qualche bellissimo esemplare di alce maschio, con il suo palco di corna enormi ricoperte da una fitta peluria, più avanti anche un piccolo branco di femmine, dei bellissimi karibu in fila indiana, le pecore di dull, bianchissime a contrasto con le rocce. Un lupo grigio ci attraversa la strada guardandoci sorpreso, quanto noi lui. Arriviamo al punto dell’osservatorio e facciamo un break pranzo, non ci sono punti di ristoro, solo toilette, per cui è necessario portarsi dietro cibo e acqua sufficienti per la giornata. Da questo punto si ammirano le Polychrome Mountains, con il sole coperto in parte dalle nuvole creano uno spettacolo fantastico di ombre e luci. Ripartiamo e poco più avanti, da sopra le nuvole, spunta il maestoso Denali o Monte McKinley. La montagna più alta del nord America con i suoi 6194 m è completamente ricoperta di bianca neve ghiacciata. Uno spettacolo mozzafiato contornato da un paesaggio sconfinato di cui non si riesce a vedere e nemmeno immaginare la fine. Possiamo dire di avere avuto la fortuna di vederlo nel suo splendore. Finalmente avvistiamo anche alcuni orsi, ma sono troppo lontani e nemmeno con il mio 400 mm riesco a scattare foto decenti. Nel pomeriggio il cielo si chiude del tutto e torniamo indietro senza molta soddisfazione. Per fortuna domani è un altro giorno. La sera ci prepariamo cena nella cucina comune, molto più affollata rispetto a quella di McCharty, dove viaggiatori da tutto il mondo scambiano le proprie esperienze davanti a un bel piatto caldo. La notte è piacevole, il posto è silenzioso, solo lo scroscio di un fiume non troppo lontano ci ricorda che siamo ancora sul pianeta Terra. Partiamo il secondo giorno con il tragitto che arriva fino al Wonder Lake, quindi più breve del giorno prima. Alla prima impressione l’autista sembra più simpatico del primo e noto con piacere che diverse altre persone hanno l’hobby per la fotografia, come me. La giornata inizia subito bene, avvistiamo un bel porcospino gigante e un bel branco di karibu. Bellissime aquile dalla testa dorata e due lupi grigi, uno dei quali si avvicina al bus mettendosi anche in bella posa per qualche secondo. Che emozione! Anche gli orsi non si fanno attendere, eccone un paio ancora lontani, ma molto più vicini di ieri. Oggi però il cielo è parecchio coperto e il Signor Denali non fa la sua entrata in scena, anche le olychrome sembrano meno colorate. Inizia a cadere una fitta pioggerella. Le dull sheep sono dove il giorno prima e le vediamo muoversi agilmente sulle irte pareti rocciose. Siamo a più di metà strada dal ritorno, i vetri interni iniziano ad appannarsi e sul bus cala il silenzio, quando l’autista ci dà la sveglia con “Perhaps a bear”. Scattiamo tutti a controllare fuori, davanti a noi due bus fermi. Di nuovo l’autista “Bear, on the left side of the bus”. Il mio! In un bellissimo contesto di verdi arbusti, bacche rosse e una leggera foschia, ecco un gigantesco grizzly con il muso basso seminascosto nell’erba, mentre mangia e cammina. E’ una femmina perché con lei ci sono i suoi due cuccioli che non perde mai di vista. Il solo rumore sono i click delle macchina fotografiche, intanto che i tre orsi scendono verso il nostro bus, ora più vicini fra loro ora più lontani, fino ad attraversare la strada con la mamma davanti che controlla i cuccioli, senza distrarsi, dirigendosi e scomparendo negli arbusti più alti. Ora posso dire di aver visto il mio primo e gigantesco grizzly! L’autista si congratula con noi per aver fatto silenzio e non aver disturbato gli orsi, ripartiamo soddisfatti, felici, emozionati. Non si poteva trascorrere in maniera migliore la nostra ultima giornata nello splendido e unico Denali National Park.

NELLA PENISOLA DI KENAI DA SEWARD A HOMER

La nostra esperienza nel parco si conclude, ma non il nostro viaggio e la mattina ripartiamo per affrontare la Denali Hwy. Abbiamo scelto questa difficile e poco trafficata strada per i suoi fantastici paesaggi e non si smentisce. Le fermate sono d’obbligo per scattare foto e perdersi guardando quello che ci circonda. Il nostro stop è al miglio 42, dove per la notte alloggiamo al McLaren lodge, che prende il nome dal fiume sulle cui rive sorge. Visti i tempi era possibile anche percorrere la Denali Hwy in una sola giornata, ma non avremmo potuto avere il tempo di goderci l’immenso spettacolo che regala. La strada termina a Paxon dove arriviamo il giorno successivo e puntiamo di nuovo in direzione sud. Siamo a Palmer per la seconda volta, facciamo provviste al Safety market e passiamo la notte di nuovo al Pioneer motel dove ritroviamo lo stesso cortese staff di inizio viaggio. Sono due settimane che siamo negli USA, ma io ancora questi slang americani non li riesco a capire bene. Dormiamoci sopra.

E’ sabato, ma è un giorno come gli altri, di viaggio. Puntiamo sulla kenai penisola e la nostra prima tappa sarà Seward. Passiamo da Anchorage dove ritroviamo per la prima volta dopo 16 giorni il caos delle macchine, destabilizzante sul momento. Andiamo oltre e la Seward hwy si dimostra un’altra strada dai panorami mozzafiato. Ora il mare si unisce sullo sfondo alle dolci colline verdi, alcune bianche ricoperte da ghiacciai eterni. Fidandoci della guida facciamo una piccola deviazione verso un paesino chiamato Hope dove sembra si possa fare il gold panning, ovvero cercare l’oro setacciando la sabbia. Arrivati alla meta troviamo un paese fantasma, quattro case di legno, un’insegna appesa con delle catene che cigola mossa dal vento, un fiume con delle vecchissime strutture che potrebbero esser servite per setacciare la sabbia. Niente di fatto, torniamo sulla retta via e arriviamo a Seward, al Moby Dick Hostel, accogliente e pulito. Rispetto a quanto visto fino a questo momento Seward ci appare molto più trafficata e piena di comuni comodità. Ci avventuriamo subito seguendo la costa in direzione del Tonsina Trail. Il tempo non è male e il percorso facile. Ci sono cartelli che indicano avvistamenti di orsi, ma anche per questa volta noi non lo incontriamo. Arrivati al Tonsina river notiamo che in acqua ci sono ancora diversi salmoni ritardatari per la risalita. Sulla riva del mare una bella parete a scogliera è la dimora di diverse Bald eagle con i pulcini, le quali volteggiano in alto atterrando ora sulla riva, ora sul nido. La sensazione è volare sulle ali della libertà. La sera ci concediamo un ristorante che ci hanno suggerito con vista baia, il “Waterfront Reye’s” dove mangiamo dell’ottimo pesce, halibut e salmone, concedendoci anche una bottiglia di bianco francese che fa lievitare il nostro prezzo a 127 $ per due persone. Dopo aver mangiato tranci di pizza al microonde e insalata per la maggior parte del tempo stasera ci meritavamo una cena come si deve.

Il giorno dopo ci aspetta la nostra seconda crociera di questo viaggio. Posto diverso, compagnia diversa, ma sempre la speranza di avvistare le balene. La nostra nave è della Major Marine e compirà un giro nel Kenai Fjords National park di circa 7 ore e mezza al costo di 65 $ a persona, compreso un ottimo pranzo. Nelle crociere non siamo fortunati, il cielo è grigio e la temperatura bassa. Si vedono molti leoni marini, colonie di pulcinelle di mare e cormorani, lontre di mare, belughe, ma niente balena. Arriviamo di fronte al bel ghiacciaio dell’Exit Glacier, che regala spettacolo separandosi da enormi blocchi di ghiaccio che si tuffano nell’oceano sollevando alti schizzi. Il pomeriggio mentre rientriamo alla baia il sole fa timidamente capolino da dietro le nuvole riflettendo i suoi raggi sull’acqua e sul ghiaccio, regalandoci bei giochi di luce colorati, ora azzurri, ora verdi. Salutiamo Seward, è il 22 agosto e ci spostiamo verso sud lunga la Sterling hwy, la meta è Homer. Fermata per il pranzo a Soldotna, città famosa per la pesca al salmone gigante nel fiume Kenai, sembra che il periodo migliore sia luglio, infatti adesso non troviamo né pesce, né pescatori, ma ne approfittiamo per prendere del salmone affumicato da riportare con noi in Italia. Dove trovarlo migliore? Homer è famosa per la sua spit, letteralmente uno “sputo” di sabbia su cui è stata costruita una strada e intorno ad essa locali, negozi, uffici per escursioni e pesca all’halibut. Per noi è anche il punto di partenza per volare verso il Katmai National Park, con le sue famose Brooks falls, rappresentate anche nel lungometraggio di “Koda fratello orso”, un posto selvaggio in cui noi siamo ospiti e gli orsi bruni i padroni di casa. Ad Homer dormiamo in un grazioso B&B, l’Oldtown, poco fuori la spit, ma comodo e con vista oceano. Le camere sono bellissime, molto stile country hill, con coperte ricamate e deliziosi oggetti in porcellana. Anche la proprietaria abita qua, nell’ala opposta della casa rispetto alle camere. L’English breakfast è compresa, basta avvertire la Signora dell’orario e lei te la fa trovare pronta. Il pomeriggio giriamo per la spit per prenotare la nostra escursione nel parco del Katmai. Non è il periodo per raggiungere le famose e stra-fotografate Brooks falls, vista la scarsità generale di salmoni anche gli orsi cercano altrove il cibo, decidiamo invece per Hallo Bay.

Il mattino dopo, ammesso che ci sia bel tempo, partiremo con la compagnia Smokey Bay Air, che vanta degli splendidi piper 6 posti e dei simpaticissimi piloti. Il costo è alto, sono 450 $ a persona per poco più di mezza giornata, ma sicuramente è un’occasione da non farsi scappare. Si è fatta l’ora di cena e scegliamo Captain Patties con vista mare e ci mangiamo le ostriche del Kachemak accompagnate da salsa all’aceto e burro. Il posto è sempre pieno per cui è consigliabile prenotare anche nel pomeriggio stesso, altrimenti si deve aspettare parecchio prima di sedersi. Tornando verso il nostro B&B sulla destra all’inizio della spit, si notano alcuni particolari caratteristici come una barca di legno che in verità ormai è una casa su terra ferma, addobbata di tantissime bandiere colorate o i numerosi cartelli che segnalano di prestare attenzione all’attraversamento delle Duck Xing. Il giorno degli orsi sarà finalmente arrivato?

HALLO BAY E I GRIZZLY: LA CONCLUSIONE PERFETTA

La sveglia all’Oldtown suona presto e io come prima cosa vado a fare la telefonata per la conferma dell’escursione ad Hallo Bay. La giornata è splendida il volo è confermato. Ci attende un altro aereo. Nel piccolo ufficio sulla pista della Smokey Bay Air si pesano zaini e persone per salire sui piccoli piper con volo a vista. Decolliamo traballando e pochi minuti dopo vediamo la spit dall’alto, l’effetto è strepitoso. Il nostro pilota è giovane e spiritoso, la guida preparatissima ci parla attraverso le cuffie che dobbiamo indossare per evitare il rumore fortissimo dei motori. Il volo dura circa un’ora e quando arriviamo nei pressi di Hallo Bay iniziamo a vedere gli orsi dall’aereo. Sono tantissimi e ce ne sono ovunque. Mi chiedo dove atterreremo non vedo piste, ma nessun problema il bagno asciuga è il posto ideale dove farlo. Partiamo subito a piedi muniti di rainboots, guadando corsi di acqua e passaggi paludosi, la guida sa dove portarci e ci raccomanda di stare uniti, l’orso ci vede come un unico corpo e più si appare grandi, più siamo al sicuro. L’avvertimento mi sembra sul momento eccessivo, non credo che l’orso si avvicinerà a noi così tanto. Ma ecco che alzo gli occhi e in una sconfinata natura di una bellezza mozzafiato, attraversata da un corso di acqua, inizio a vedere orsi ovunque. Due, tre, cinque, otto, cuccioli e grizzly enormi. Ci fermiamo tutti assieme, siamo 8 e siamo le uniche persone nel raggio di vista. L’acqua riflette una bellissima luce solare, il cielo azzurro come non lo è mai stato in questi 19 giorni, non sarà semplice fotografare il folto pelo biondo con questi riflessi. Gli orsi sonnecchiano, sembrano quasi stanchi. Ce ne passa uno a tre metri, è enorme e bellissimo, si sofferma annusando l’aria intorno e si gira verso di noi. Accidenti puzziamo di umano! Prosegue, non c’è pericolo per lui, le sue fauci e i suoi artigli lunghissimi e neri sono un’arma senza rivali. Un rumore arriva dall’acqua, un king salmon è rimasto “insabbiato” nella secca, gli orsi che fino all’istante prima sembravano dormire beatamente si alzano e in due iniziano a correre verso la preda. Il battito del mio cuore è direttamente proporzionale alla corsa del grizzly. Il vincitore si tuffa sullo sfortunato salmone e in mezzo secondo si rialza con la preda in bocca e si scrolla dall’acqua. Viene verso di noi e si posa su un isoletta a meno di 10 metri iniziando comodamente a gustarsi la sua preda. La preferisce senza pelle ed è un abile sfilettatore. Il salmone batte ancora due volte la coda, poi la morte certa. La natura ha fatto il suo corso. Lo spettacolo non finisce qua e ammiriamo, sempre da molto vicino, una mamma con un cucciolo che si scambiano delle dolcissime coccole, poi cambiando zona ecco un batuffolo di pelo grande più o meno come un cane di medie dimensioni e la sua mamma in acqua corre e si tuffa cercando pesce e regalando a noi un vero e proprio show, ottenendo la preda desiderata e dividendola con il suo piccolo orsacchiotto.

Il tempo a nostra disposizione è finito, li lasciamo indisturbati nel loro ambiente, risaliamo sul piper che decolla da dove è atterrato e uso gli ultimi scatti per immortalare delle stupende immagini aeree su colorati laghi e ghiacciai eterni. La sera ci concediamo un rilassante tramonto sulla spiaggia, sono quasi le 11 p.m. e il sole appare piccolo e lontano, a queste latitudini lo spazio davanti a noi è infinito. I colori che regala sembrano più freddi, meno rosso e più viola, ma è uno spettacolo indescrivibile complice anche una bassa marea che fa ritirare l’acqua dell’oceano per decine di metri, lasciando piccoli specchi di acqua alternati a rocce scure in cui la stella rossa si riflette. L’Oldtown stasera ci sembra ancora più accogliente. Dedichiamo l’ultimo giorno di Homer a giro per la spit, acquistiamo delle belle lame Ulu artigianali, assistiamo al rientro delle barche dalla pesca a traino degli halibut giganti, che vengono poi appesi e sfilettati velocemente per consegnare il pesce al gruppo di pescatori. Facciamo un giro per le gallerie di arte dove moltissimi giovani espongono le loro tele ispirati da Homer e dall’Alaska, facciamo una bellissima passeggiata in riva al mare assistendo minuto dopo minuto al suo ritirarsi, lasciando cibo per numerosi gabbiani.

Il giorno dopo ci aspetta il ritorno verso Anchorage, consegneremo l’auto che è stata la nostra fedele alleata durante i nostri giorni in Alaska, dopo ci attendono più di 20 ore di volo e 10 di fuso orario, per rientrare in Italia, a casa.

Lasciamo la “The Last Frontier” soddisfatti di quello che abbiamo visto, di quello che abbiamo appreso e di quello che ci ha regalato. Non cambierei nulla di questo itinerario, nonostante Barrow sia costosissima e fuori rotta, è stato magico trovarsi in un paese surreale, praticamente in cima al mondo. L’Alaska è una terra sconfinata, molte zone sono raggiungibili solo con piper o traghetti, altre sono dei posti paludosi fatte solo per impavidi coraggiosi o ricercatori scientifici, il percorso che è possibile fare in autonomia è legato alle hwy e le road e in questi giorni siamo riusciti a percorrerne una buona parte.

Restano solo i saluti, non dico mai addio ad un luogo perché ci potrebbe essere sempre una prossima volta. Grazie Alyeskya!

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