India 2013 di dodici anni dopo: da Mumbai a Leh

Qualche mese tra mare, templi, grotte, tigri, montagne e Dalai Lama
Scritto da: freefred
india 2013 di dodici anni dopo: da mumbai a leh
Partenza il: 16/02/2013
Ritorno il: 04/07/2013
Viaggiatori: 1
Spesa: 4000 €
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Itinerario: Mumbai, Goa, Hampi, Bijapur, Aurangabad, Ajanta Caves, Ellora Caves, Nasik, Bhandardara, Jalgaon, Indore, Sanchi, Bhopal, Kanha National Park, Khajuraho, Orchha, Gwalior, Delhi, Amritsar, Mcleod Ganj, Leh

Queste sono le talvolta lunghissime mail che ho spedito ad alcuni amici durante i cinque mesi che ho passato in India. Non troverete molte informazioni pratiche, parlano però di come vedevo l’India mentre ci passavo in mezzo, con tutti gli errori e i fraintendimenti del caso.

India 2013 1: Mumbai, Goa

MUMBAI, Marahshtra 16.02

Due ore, più o meno esatte, ci impiego su un arcaica Ambassador gialla e nera guidata da un tassista musulmano che avrà quattrocento anni e che contro ogni logica e finestrino spalancato non mi lascia fumare, per arrivare al centro di Mumbai dall’aeroporto internazionale. Se l’odore dell’India è probabilmente rimasto quello di cui scriveva Pasolini, il rumore dell’India, ora certamente molto più di allora, è il suono del clacson. Ogni veicolo, anche il più bizzarro, ha scritto sul retro “Horn Please” o “Blow Horn OK”. Il risultato indiano è un imponente, inarrestabile e continuo suono di tutti i clacson inventabili: tutte le note, le sfumature, gli acuti, le musiche che può avere un clacson sono rappresentate senza eccezioni. Ovviamente, sopratutto in una città enorme come Mumbai, tutto questo appare scandalosamente inutile, ridondante e superfluo ma allo stesso tempo invincibile, come un demone ancestrale che non si può nemmeno pensare di combattere. Quando tutti suonano il clacson in continuazione, nessuno saprà mai chi sta suonando a chi, chi sta chiedendo la precedenza, chi vorrebbe passare, e probabilmente nemmeno chi sta suonando sa veramente perché lo sta facendo. Si suona per sorpassare una mucca o un pedone, per farsi strada in un traffico dove non c’è spazio, ad ogni incrocio, rotatoria, traversa, si suona quando si parte, quando si accellera, quando si rallenta, quando si parcheggia. Dentro a questo rumore assoluto, c’è chi vive nelle baracche e chi vive sopra alle baracche, in case minuscole a cui si accede attraverso scale improvvisate e per scendere al piano terra è obbligatorio tenersi stretti a una corda. C’è chi gioca nella polvere e chi sembra polvere, immobile e cieco, assente, altrove. E poi l’enorme e sparpagliata umanità dell’India, sempre dovunque e sempre in movimento, colorata come la fantasia, a volte rumorosa come una fabbrica, altre volte chiusa in un silenzio solitario ed inespressivo. Vista dall’alto, la grande strada che parte dall’aeroporto deve sembrare un miracoloso alveare di persone che continuamente si sfiorano senza mai scontrarsi, in cui un suono continuo di clacson avvolge l’universo come una nebbia, che si mischia alla polvere delle strade e allo smog della città, rendendo anche il tramonto sugli scheletri dei palazzi in costruzione una visione confusa ed innaturale, fiabesca e fantascientifica allo stesso tempo. Un brusio a volume alto eterno ed inevitabile, un rumore perenne di uomini e di animali, di veicoli, di strada, di grida. Centinaia di facce in poche decine di metri, e un’architettura di periferia che sembra improvvisata, in cui gli spazi abitabili sembrano rubati, conquistati invece che costruiti.

Non sempre prenoto gli alberghi, sopratutto se arrivo con la luce del giorno. In questa scelta c’è un pizzico d’incoscienza, una manciata d’esperienza, quello che basta di spirito d’avventura e la pigrizia di cui non vado fiero, ma tutto il resto è pura fonofobia. Fondamentalmente ho il terrore di prenotare una stanza circondata da lavori in corso, traffico, cani, bambini, sirene, rompicoglioni, muezzin, campanelli e campane. Il mio volo da Bangkok era favoloso, arrivava alle cinque del pomeriggio. Il progetto esaltante di cercare un hotel a Mumbai con la tranquillità della luce del giorno, si scontra coi tempi della dogana e col traffico cittadino, e arrivo a Fort, a due passi da Victoria Station (la fantascienza steampunk al servizio dell’architettura vittoriana), alle otto di sera, quando è già buio. Dal taxi mi faccio portare davanti a un albergo che avevo visto in rete ma è troppo caro. Mumbai per gli alloggi è quasi certamente la città più costosa dell’India. Molti giovanissimi backpackers non ci vengono per questo. A quel punto, di sera a Mumbai in una zona che ricordo appena, chiedo a un venditore di bibite e succhi di frutta dove trovare un hotel molto più economico. “Puoi provare dietro l’angolo”, mi dice. E così ci provo, trovo un’insegna che resta grigia nonostante il neon acceso e salgo le scale che al primo piano portano all’Hotel Victoria. Per quanto sia un’evidente simbiosi tra un carcere e un albergo a minuti, è caro rispetto all’India, ma prendo comunque una stanza perché l’idea di girovagare di notte per Mumbai con tutto quello che ho addosso e in una valigia decisamente non mi conquista. La stanza è una cella, pulita perché così piccola e triste viene snobbata persino dagli insetti. Eppure, ci rimango. Quando il giorno dopo dico al gestore che intendo restare più notti, nell’attimo di perplessità che gli blocca la voce vedo un fumetto uscirgli dalla testa che dice “ Davvero? Dici sul serio?” Dico sul serio, sì. Perché anche se dormo su una brandina militare, in una stanza microscopica in cui l’aria è respirabile solo grazie a una ventola che al massimo della potenza ruggisce come una burrasca, dopo dodici anni sono di nuovo in India.

Mumbai al primo superficiale sguardo è l’India moderna, ricca e raffinata, crudele e antichissima, dove tutte le contraddizioni dell’India sono così evidenti e dappertutto da diventare banali, quasi invisibili. È pulita, per quanto possa esserlo l’India, militarizzata dopo il 26/11 indiano, luminosa e densa, polverosa ed allegra, miserabile e buia, in trasformazione, cinematografica, vittoriana.

Il primo passante a cui chiedo un’informazione è un ragazzo che sta passeggiando in attesa di andare al lavoro e che si offre di accompagnarmi. In altri casi questo sarebbe una terrificante rottura di coglioni ma stavolta non mi dispiace. Vengo dalla Thailandia, dove, almeno sulle spiagge, è letteralmente impossibile parlare con un thai che non sia un cameriere, un autista, un agente di viaggio, un commerciante o un venditore di bigiotteria-chincaglieria-copriletto freak-sculture di giada-vestiti taroccati. I Thai a me restano indecifrabili, lontani: ormai, se lo sono mai stati, assolutamente privi di curiosità per lo straniero. Il giovane indiano, originario del Gujarat, è un programmatore, e in questo momento a Mumbai tiene corsi di computer. Mi dice che è contento di stare a Mumbai perché è facilissimo trovare un lavoro nel caso se ne perda uno, e questo mi fa pensare, con tutta la superficialità del caso, a quanto l’economia indiana sia in movimento rispetto alla nostra.

Arriviamo presto al Gateway of India, proprio di fronte al Taj Mahal Hotel, l’albergo che è stato oggetto di attacco terroristico solo qualche anno fa, nel 2008. In quello che viene ricordato come il 26/11 indiano, un attacco terroristico coordinato su più obiettivi e durato tre giorni, ha provocato 164 morti. In conseguenza immagino di quell’episodio il Gateway of India, quel fantastico arco gigante sulla baia costruito per Re Giorgio V, al contrario di dodici anni fa è recintato, e persino per accedere al piazzale antistante si deve passare attraverso un traballante metal detector e affrontare un’eventuale perquisizione. A Mumbai, dopo il 2008 immagino, anche nell’internet cafè più improvvisato, come quello in cui andrò il giorno dopo e che è una specie di corridoio di compensato inframezzato da nicchie che contengono computers, è necessario avere il passaporto e farsi fotografare. Mi spiace dirlo ma è una vittoria totale del terrorismo. Il terrore banalmente chiude le porte, chiude i musei e gli alberghi (adesso al Taj Mahal, che costa una fortuna, i clienti possono accedere soltanto al piano della loro stanza), il terrore proibisce, alza steccati, chiede visti, fotografie, identificazioni, ruba gli spazi e limita i panorami. Il Gateway of India, (gigantesco per farsi guardare e attraversare, testimone antico di un passaggio obbligato, di qua c’è l’India, di là soltanto il mare), inaccessibile invece che spalancato, è l’esempio triste di come anche se forse o probabilmente stiamo dalla parte giusta, stiamo certamente perdendo la guerra. Proseguiamo verso l’Università, favolosa nell’architettura vittoriana, dove cerchiamo di entrare con noncuranza e riusciamo giusto a fare due metri prima che ci caccino come impostori, ma valeva la pena tentare. Davanti c’e’ un enorme spazio verde che gli indiani naturalmente usano come multiplo campo da cricket. Arriviamo a Marine Drive, la passeggiata sul mare, tranquilla anche se affollata di famiglie, giovani coppie, signore (cosa estremamente rara per l’India) con minuscoli cani domestici al guinzaglio. E’ una giornata azzurrissima, e quello che mi insegna Marine Drive è che a Mumbai, o forse in tutte le città enormi, ci sono diverse città una accanto all’altra, sopra l’altra, dentro l’altra. Non c’è niente qui della Mumbai disperata, accartocciata e polverosa di alcune strade interne, in cui le vie corrispondono ancora a quello che si produce, come una via di soli spedizionieri, o di soli venditori di carta, e tantomeno del caotico ed insensato planetario di formiche dei dintorni dell’aeroporto. Solo persone che passeggiano mano nella mano, che ridono, si fanno fotografie, prendono il sole seduti in bilico sul parapetto che dà sul golfo. E’ una giornata azzurrissima.

L’ultima sera a Mumbai, mentre passo davanti al Cafè Universal per andare a dormire nella mia cella di rigore, mi ferma un italiano, che cerca compagnia per un ultima birra prima di tornare a casa con la moglie, dopo aver passato tre mesi a Goa. E’ un baby pensionato Alitalia (“i miei colleghi mi dicevano che stavo facendo una cazzata quando ho deciso di andare in pensione a 45 anni ma l’ho schivata per un pelo, altroché”, mi dice sorridendo). Quando ci salutiamo, dopo avergli chiesto informazioni su Goa, mi invita a seguirlo in hotel e mi regala una moka da una persona. Lo interpreto come un segno inequivocabile del fatto che stavolta a Goa mi ci fermerò un po’, e mi servirà quindi una stanza con frigo e cucina.

Il primo segnale brillante della mia vecchiaia è che vado a Goa in aereo. Ci sarà tempo per i lunghi viaggi in treno e in bus, quell’unica ora d’aereo per arrivarci, in questo momento è irresistibile.

PANJIM, Goa 20.02

La capitale di Goa, di cui l’ex pilota Alitalia mi aveva parlato malissimo pensando unicamente alle spiagge, è in realtà una città piccola e rilassante, molto bella, luminosa, affacciata su una grande baia che al largo ospita un numero incomprensibile di Casinò galleggianti che di sera si illuminano come battelli luna park, pieni di lustrini, schermi giganti, enormi scritte al neon che si accendono e si spengono ad intermittenza. E’ una città facile da camminare, un’India per una volta comprensibile. Le vie del centro sfoggiano boutiques di grandi marche, alberghi dall’apparenza lussuosa, bar, bettole e ristoranti per tutte le tasche. E ovviamente dappertutto i ministall dell’India, dal cubo in cui stanno accovacciati i venditori di paan ai carrelli su ruote che appaiono al tramonto a vendere snacks agli indiani che tornano a casa sui traghetti che attraversano la baia, che a tarda sera sembrano fatti di persone invece che di ferro, tanto fitti sono i passeggeri in piedi, uno accanto all’altro, uno schiacciato contro l’altro, dentro a quello che somiglia ad un antico e inadeguato mezzo da sbarco.

A circa 12 minuti di bus da Panjim c’è Old Goa, quello che resta delle chiese e dei palazzi che risalgono al dominio portoghese, finito soltanto nel 1961, quando l’esercito indiano circondò Goa e i portoghesi accettarono che il tempo della conquista era finito, l’India era perduta, e potevano, forse a quel punto finalmente, tornarsene a casa. Per qualunque europeo cresciuto nel cattolicesimo, vedere in India un posto simile è un’esperienza stranissima. Goa è tutt’ora cattolica, e piena di chiese dappertutto, che si confondono coi templi e le moschee, data l’apparente tolleranza religiosa indiana. Ma a Old Goa ci sono gigantesche chiese antiche, di cui una dedicata a San Francesco, con una sua statua idealmente nella portiuncola di Assisi, affreschi della sua storia avventurosa, e fuori c’è l’India. In un’altra chiesa c’è un crocifisso interamente coperto di sangue, come non ne avevo mai visti prima. Una statua di assoluto compiacimento del dolore, una minaccia, un monito, un’ammonizione a non dimenticare mai e per nessun motivo la sofferenza di Cristo. Mi ricorda la strana chiesa che ho visto in Cile, famosa per avere il campanile staccato dal corpo principale e con all’interno una specie di altare pagano di fronte a cui sta un crocifisso bianchissimo, immacolato, perchè agli indios che erano stati conquistati dagli spagnoli era più sicuro non mostrare il sangue che avevano versato.

A Old Goa c’è anche un minimo ed interessante museo con alcuni pezzi archeologici favolosi e al piano di sopra tutti, dico tutti, i ritratti dei vicerè di Goa che si sono succeduti nel tempo. Nessuno di loro ha mai avuto a disposizione un ritrattista di genio in quelle terre per secoli lontanissime e selvagge ma quello che colpisce, più ancora del ritratto di Vasco de Gama (che come tutti i grandi navigatori, per quanto crudeli e ciechi, avrà sempre il mio rispetto), è che quella galleria di ritratti è una straordinaria sfilata di moda e in fondo anche di pittura attraverso i secoli. Ci sono le armature e i vestiti neri, bui, del ‘600, le enormi parrucche a grattacielo del ‘700, e poi le giacche e le uniformi dell’800, coi vicerè che posano circondati da mazzi di fiori, fino alle divise da ammiraglio spalmate di medaglie e a un paio di fotografie in un bianco e nero antico, a testimonianza del nuovo mezzo espressivo, allora immagino considerato rivoluzionario. Impressionante, un assoluto campionario di abiti, bastoni da passeggio, acconciature, giacche, colletti, pantaloni, cappelli, posture, stivali, polsini, armi, divise e facce che sono cambiate nel corso dei secoli.

PALOLEM, Goa 24.02

Torno a Palolem, e anche se è vero che dodici anni fa c’ero stato davvero pochissimo, non riconosco assolutamente nulla. La spiaggia è rimasta enorme e favolosa ma è davvero molto più turistica di quanto ricordassi. Cerco quindi prima un alloggio a Patnem, che è a 3 km. e che per quanto non abbia spiagge così belle è una zona apparentemente molto più tranquilla. Ma a parte il fatto che non trovo niente di libero al prezzo che vorrei spendere, dopo una mezza giornata di cammino, penso anche che Patnem per me da solo, potrebbe forse essere addirittura troppo tranquilla. Così torno a Palolem e finalmente trovo un posto in cui mi piacerebbe fermarmi per qualche tempo. E’ una grande stanza con frigo e cucina, ancora occupata per un paio di giorni da un anziano inglese che somiglia incredibilmente a Donald Shuterland. E quando mi dice: “it’s very quiet here, and there’s no roosters” (cioè: NON CI SONO GALLI), so che prenderò quella stanza ancora prima che mi dicano il prezzo, perché chiunque abbia dormito nelle vicinanze di uno o più galli, come ho fatto io in Messico, sa che la loro assenza ha un valore inestimabile.

Goa, per quanto sia d’accordo con tutti quelli che la considerano “poco India”, anche in questa stagione secca rimane comunque belllissima, verde e fiorita, sicura, facile, e per molte cose molto più economica che altre parti del paese. Le sue strade semideserte tra le palme sono meravigliose, ci si mangia benissimo e ci si mangia malissimo, le birre costano relativamente poco ed è piena di turisti, sia stranieri che indiani.

Al mattino prendo di solito, dopo che mi sono fatto in casa un caffè con la moka regalata dall’ex pilota Alitalia, un espresso al Puppa Cafè, un quadrato di pochi metri quadri con una macchina del caffè gigante, e al bar un ragazzino di Mumbai, Arjun, una delle poche persone tristi di tutta Palolem. Ma d’altra parte, mi dice, tutti i suoi amici sono a Mumbai, qui non conosce nessuno, e deve stare praticamente tutta la giornata al Puppa ad aspettare che qualcuno chieda un espresso o un frappuccino. Il suo sogno è quello di trasferirsi in Australia col padre, perché gli hanno detto che là un espresso costa 10 euro. Non ci sono mai stato ma gli taccio comunque la sensazione che per diventare milionari vendendo espresso in Australia sia troppo tardi. In quel minibar è facile parlare con gli altri clienti: c’è la signora di mezza età russa, grassa come uno stadio, che si è portata da Mosca il suo minuscolo cane arrabbiato col mondo. “Non prenotare mai via internet.Mai.Mai.”, mi avverte, spiegandomi che le hanno fatto pagare 45 dollari americani a notte per una stanza mediocre in un bungalow sulla spiaggia. 45 dollari in India, sopratutto per un bungalow sulla spiaggia di Palolem che probabilmente sarà fatto di pannelli e cartone, visto che tanto il monsone lo porterà via, sono una fortuna, un prezzo così insensato che comincio a credere a chi da qualche anno dice che i russi stanno cambiando, aumentandoli, i prezzi dell’Asia e del sudest asiatico. Scambio qualche parola anche con un anziano portoghese, che cerca un posto in cui trasferirsi con la moglie a godersi la pensione. E’ stato in Brasile ma l’ha trovato caro e non sorprendentemente troppo stressante per via della mancanza di sicurezza, e così è venuto a Goa e ha deciso che sarà questa la meta finale. “Un appartamento di due stanze a vasco de Gama costa 100 euro al mese, e tutto il resto qui è straordinariamente a buon mercato.” E’ un discorso che mi interessa molto perché se la prima volta che vidi Goa di sfuggita, dopo due mesi di India, mi era sembrata vuota e senza passione, ora, dodici anni dopo, la guardo anch’io come un posto caldo, facile, sicuro ed estremamente economico in cui eventualmente in futuro passare qualche mese all’anno. E anch’io in effetti, se dovessi starci più di un mese probabilmente vivrei anche in una città e non solamente in spiaggia. Al Puppa Cafè conosco anche Sandro, per la quarta volta in India. Sta quasi tornando a casa ed è stato in Rajasthan e a Gokarna. Mi dice che a Pushkar, dove dodici anni vidi la Camel Fair, hanno dimezzato il lago sacro per fare spazio a più ghats, i gradini di pietra sull’acqua in cui i pellegrini e i turisti possono sedersi a pregare, riflettere e rifiutare offerte di fiori e paccottiglia religiosa. Anche di Gokarna mi dice che è cambiata. Kudle Beach, a Gokarna, è stato per me un talismano del mio primo viaggio in India, uno di quei posti che pensi non esistano più e invece ci sono ancora. Sandro mi dice che hanno finalmente completato la strada che passa sopra le spiagge e quindi non è più necessario andarci in barca o con una lunga camminata attraverso le colline marziano-vulcaniche che mi avevano così colpito la prima volta. Ma non è questo che non mi ci fa andare, anche se era forse l’unica meta certa del mio itinerario, o meglio l’unico posto in cui ero già stato e in cui avevo la certezza di tornare. Da una parte decido di conservarne il ricordo, considerandomi abbastanza cresciuto ed innocente per un consapevole atto di vigliaccheria turistica, dall’altra non è cambiata solo Gokarna, sono sopratutto cambiato io e mai come in questo caso me ne rendo conto. Senza tragedie, senza dolori, con una consapevolezza non lucida ma chiara: a 46 anni, nella Gokarna che ho conosciuto dodici anni fa, a dormire per terra in una minuscola capanna di fango, senza corrente elettrica, con la doccia che era un secchio accanto a un pozzo circondato di foglie di palma e il bagno era la foresta, non andrei più. Non è questione di “sapessi com’era questo posto dieci anni fa”, che mi sento ripetere dalla prima volta che ho viaggiato in vita mia, da chi troppo spesso confonde la purezza di un luogo con la propria giovinezza. Gokarna sarà sempre credo un posto fantastico, dove trovare oltre che bellezza, anche tranquillità e pace, le due cose introvabili dell’ India. Ma ora mi sembra non faccia più per me. Una sera con Sandro andiamo a cena in un ristorante italiano gestito da una famiglia di liguri. La cuoca è talmente eccezionale che i turisti quando se ne vanno le fanno il baciamano e alcuni addirittura tornano per farsi una foto con lei. Alla fine della cena lei e il marito si siedono al nostro tavolo e ci dicono che hanno deciso, dopo tre anni di Goa, di trasferirsi a Pondicherry, sia per le due figlie adolescenti che hanno, sia perché i Goani sembrano essere diventati avidi, e ancora più bigotti. “Non sono venuta in India per diventare ricca”, ci dice la cuoca, “ma per seguire un cammino spirituale, e per quanto il ristorante vada benissimo, non intendo pagare in India un affitto come in centro a Milano.” E’ un peccato, perché Palolem perderà un favoloso ristorante. “Io capisco voi maschi che girate a torso nudo”, continua “ ma le ragazze davvero non le capisco. Non vedono dove sono?” E’ naturale a Goa fare a caso alle ragazze, sopratutto dell’est, che girano per le strade in bikini, in tanga, in quella che qui purtoppo appare come una parodia della sensualità occidentale che non ha nulla a che fare con l’India, e che le fa essere soltanto bersaglio di sguardi spalancati e commenti infelici da parte dei maschi indiani.

In India i grandi amici si tengono per mano in un gesto assolutamente eterosessuale ma non vedrete mai mai e poi mai una coppia indiana fare effusioni in pubblico, o una donna indiana poco vestita, anche quando raramente farà il bagno (e a Palolem comunque c’è un’intera zona della spiaggia riservata esclusivamente alle donne.) Non è questione di pudore, alla fine gli indiani vengono anche dal Kamasutra, è questione di diversa cultura. La dimensione sentimentale pubblica dell’India è nulla, oltre al fatto che l’India direi resti un paese assolutamente maschilista, dove la previsione del sesso del nascituro è punita con la prigione e dove sono ancora le donne a fare i lavori più pesanti, come portare i mattoni nei cantieri edili. In India ci si sposa presto e si fanno figli presto, la famiglia allargata, è il perno tutt’ora della società indiana. Quando mi chiedono di che religione sono dico che sono cristiano perché se dicessi di essere ateo avrei in cambio soltanto sguardi confusi, increduli. Gli stessi sguardi che mi fissano sbalordito quando dico che a 46 anni non sono sposato e non ho figli, come se fosse una cosa terribile, una sfortuna così totale da meritare compassione e una pacca sulla spalla. E poi, con la straordinaria cuoca, parliamo di “Quelli che l’India è sporca.”

L’India è drammaticamente sporca, non ci sono dubbi. E a parte qualche zona particolare, come può essere il centro di Mumbai, e dai miei ricordi anche quello di Calcutta, lo è dappertutto. Principalmente per via degli animali per strada, e a poi a causa della folla, del caos, della cura dell’ambiente come concetto sconosciuto, noioso ed inutile. Quando vedo le scolaresche che gettano dai finestrini degli autobus le bottiglie di plastica vuote, o la gente che sputa dappertutto una saliva rossa di betel, so che la battaglia per la pulizia delle strade e delle città è perduta in partenza. Gli indiani non sono sporchi, anzi, alcuni hindus dovrebbero avere una cura per l’igiene maniacale, ma tutto il resto è spesso dannatamente sporco. La prima volta che venni in India, una ragazza israeliana ad Om Kareshwar, dove allora c’era un’unica guesthouse, mi fece quasi pena. Odiava l’India, odiava lo sporco, le fogne a cielo aperto, la merda per le strade, i rifiuti dappertutto. E non poteva farci niente, tranne scappare o aspettare con terrorizzata rassegnazione i giorni che mancavano al suo ritorno a casa. Ma erano dodici anni fa, il 2001. In termini tecnologici e di accesso alle informazioni sembrano passati dodicimila anni. Allora né io né altri turisti in India avevamo un cellulare. Io, come probabilmente tutti gli altri, non avevo un bancomat né tantomeno una carta di credito. C’erano già gli internet café ma il wi-fi non esisteva, e per ora in India è molto più difficile da trovare di quanto mi aspettassi. Gli israeliani viaggiavano con gli zaini pieni di mini-disc, un mezzo di ascoltare musica che ora sembra preistoria. Ma oggi. E allora concordo con la strepitosa cuoca del ristorante, che dice: “Ma questi, quando prenotavano il biglietto, la vacanza, il soggiorno, dov’erano? Cosa gli hanno detto? Cosa pensavano di trovare in India? E non hanno letto nemmeno le prime tre pagine di una guida, non hanno mai visto un documentario o un film sull’India (che tra l’altro è di solito ritratta in termini peggiori di quelli reali)?” E allora forse penso che i goani non fanno male a trattarci così, ed è naturale, se devo credere alla cuoca, che siano diventati avidi. Per loro non siamo nient’altro che portafogli pieni, in tasca a gente tutta uguale che palesemente non sa nemmeno dov’é.

Arjun, il barista del Puppa Café, come praticamente tutti gli indiani, odia i cani. Li considera inutili, sporchi e maledettamente fastidiosi. Non ha torto, devo dire. Parlando di animali, i piccoli maiali neri circondati di cuccioli su cui planano in equilibrio i corvi giganti, pascolano nella sabbia in silenzio, i galli sono maledetti ma come ho già detto lontani da casa mia, i rari gatti sono invisibili, le mucche si abbandonano in spiaggia, bloccano le entrate dei ristoranti, si impigliano nei cavi telefonici strappandoli ma lo fanno in silenzio. Qui scimmie non ce ne sono e quindi in effetti restano solo i cani, tristi e senza padrone, ad abbaiare sopravvivenza e controllo del territorio tutta la notte, quando nessuno li prende a calci o a sassate. Va anche detto che apparentemente il cane sembra uno dei rari animali in India a non essere sacro, anche se talvolta Vishnu (e ammetto di averlo imparato da poco) viene raffigurato con ai suoi piedi una specie di segugio pezzato.

A proposito di mucche. Vederle libere per le strade è almeno secondo la mia esperienza una delle cose più strane e disindividuanti al primo impatto, dell’India. E anche se a lungo andare per me rimangono comunque una divertente e bizzarra visione, a mente fredda non riesco a volte a non pensare che dove vivo io, se ci fosse una mucca per strada, qualcuno chiamerebbe la forza pubblica. Le ragioni per cui gli hindus considerano sacre le mucche sono di natura religiosa, legate al ciclo delle rinascite, al vegetarianesimo, al fatto che alla fine la cavalcatura di Shiva è il toro Nandi, e storico-antropologiche: i primi hindus macellavano le mucche, poi con la crescita della popolazione e le scarse conoscenze di allevamento, i loro successori preferirono tenerle in vita e ricavarne latte e formaggio. Sono ragioni debolissime, fantasiose e troppo semplici. Bugie televisive, documentari di presentatrici bionde.

Ecco com’ è andata:

Un giorno antico Brahman, il soffio divino, il senza attributi, il tutto che tutto permea in cui credono gli hindus, come tutti gli dei unici e gli esseri superiori (e sopratutto immateriali) si annoiava a morte. Così decise di scommettere col fiume Gange, (che diventò sacro in seguito a quella scommessa, tra l’altro), su chi sarebbe riuscito per primo a far dubitare gli uomini, che allora vaneggiavano per il fuoco, erano terrorizzati dal tuono e il buio a volte li portava alla follia. Cominciò Brahman, in quanto supremo, e diede agli uomini Shiva Nataraja, “Lord of the Dance”, che dopo aver vinto una gara di ballo aveva conquistato il diritto di creare e distruggere il mondo soltanto danzando (è il mio dio indiano preferito). Il Gange rispose con Krishna, bambinetto che suona il flauto, appassionato di giochi, voluttuoso e sensuale. Gli uomini credettero immediatamente a questi nuovi dei, così più affascinanti ma anche così più incredibili del Sole e della Luna. Allora Brahman e il Gange diedero loro altri dei con mille braccia, dei che erano serpenti, dee che cavalcavano tigri, portavano a spasso tori, dei dell’Universo alti come un cioccolatino. Gli uomini credettero subito anche a quelli. Un pò stupito che la scommessa non fosse ancora stata vinta da nessuno, Brahman calò allora l’asso nella manica: un dio scimmia, Hanuman, leale, forte, vittorioso in battaglia alla testa di un esercito scimmiesco. “Vediamo se credono anche a questo”, disse il senza attributi. Il Gange in risposta inventò Ganesha, il dio con la testa di elefante, e per non fargli mancare nulla gli diede una cavalcatura simile a un topo. “E a questo” Quando gli uomini cominciarono ad adorare anche Hanuman e Ganesha, il soffio divino e il grande fiume si scoprirono per la prima volta impotenti, sperduti. E così dopo alcuni mesi di riflessione, Brahman andò dal Gange e gli disse: “Le mucche.” “Le mucche?” domandò il fiume. “Diciamogli che le mucche sono sacre.” Ecco com’è andata.

I turisti indiani in spiaggia hanno un comportamento totalmente opposto al nostro. E come già mi era parso ovvio in Messico, anche qui direi sia una naturale conseguenza della pelle scura. Fondamentalmente non possono, e quindi non gliene frega nulla, abbronzarsi. Noi bianchi in spiaggia ci muoviamo col sole, tutti i nostri movimenti sono anticipati dal sole. Stiamo sdraiati al sole oppure lo fuggiamo rifugiandoci all’ombra, cambiamo spesso posizione, ci copriamo o ci vestiamo il meno possibile, ci spalmiamo di creme e cerchiamo larghi spazi in cui stare distanti dagli altri ad assorbire tutta l’abbronzatura della giornata. Gli indiani in spiaggia di solito stanno quasi vestiti, in piedi, molto vicini l’uno all’altro, e invece di chiudersi in un silenzio religioso ed esporre la totalità del corpo al sole, parlano, ridono e si fanno scherzi in continuazione. E, almeno a Goa, scoprono il kayak. Dico “scoprono” perché sono gli unici turisti che ascoltano quindici minuti di raccomandazioni, gli unici che indossano i giubbotti di salvataggio (gli indiani per quanto appaia strano, non mi sono mai sembrati grandi nuotatori) e sopratutto gli unici a cui ho mai visto insegnare l’uso di una pagaia. Non sono buffi, sono naturali. Noi bianchi sembriamo statue. In confronto a quello degli indiani, il nostro modo di vivere la spiaggia sembra un lavoro invece di un divertimento.

Al tramonto, quando il sole scompare dietro il promontorio e subito prima che faccia buio, la spiaggia chiude. I bagnini trascinano le loro postazioni da arbitri di tennis lontano dal bagnasciuga e cominciano a fischiare tutti insieme, richiamando a riva gli ultimi bagnanti della giornata. E’ qualcosa di comico e piuttosto inutile, visto che una volta che i bagnini se ne saranno andati, niente e nessuno impedirà a chiunque di tornare a fare il bagno ma è una cerimonia che si svolge comunque tutte le sere. Gli indiani, per quanto di natura abbastanza ostili all’ordine, hanno spesso un rispetto quasi religioso per qualunque autorità, che sia un poliziotto o un controllore di autobus, persino per un bagnino. Così sulla spiaggia, ogni sera, le persone a un tratto escono dall’acqua tutte insieme, come un esercito sparso di soldati ubbidienti in costume da bagno.

Ogni cosa, o quasi, a Goa ha il prezzo stampato sopra, ed è quello reale. Dall’acqua ai biscotti, alle candele, alle bibite. Qui non c’è quasi più bisogno di chiedere “Quanto costa?” prima di comprare qualcosa, una delle prime abitudini che chiunque impara in India. L’unica cosa di cui chiedo il prezzo sono i samosa, i favolosi triangoli fritti ripieni di patate e spezie, rigorosamente serviti in un foglio di giornale scritto in hindi, che agli indiani vendono a 5 rupie e a me spesso a 10. Ma non protesto mai, è impossibile credo mangiarne più di 5, e 1 euro vale 70 rupie.

A Goa decido di non andare in Sri Lanka. Non è una decisione sorprendente, la certezza e la volontà irresistibile non l’ho mai avuta. Ma ora che sono in India, come poteva essere prevedibile, voglio restarci. Voglio vedere la magia di Hampi, le moschee di Bijapur, le grotte di Ajanta ed Ellora. Voglio vedere gli stupas di Sanchi, le sculture erotiche di Khajuraho, voglio vedere, con un po’ di fortuna, le tigri in Madhya Pradesh. E poi, le montagne. Avete presente la fiaba, quella che dice più o meno che l’erba voglio cresce solo nel giardino del re? Ecco, quella.

Spigolature

– Ero in un bar, avevo una birra, una ventola sopra la testa, i piedi su una sedia in un gesto poco asiatico ma fatalmente comodo. C’era anche della buona musica. Poi mi sono voltato e ho guardato per un attimo la televisione sullo schermo gigante sopra il bancone: c’erano due uomini di mezza età, in giacca e cravatta, che sopra un ring di wrestling si picchiavano con delle stampelle.

– Gli indiani hanno imparato a giocare a calcio. Le spiagge di Goa sono piene di gente che gioca bene, e di ragazzini giocolieri che quando se ne vanno indossano una maglietta di Messi. Gli indiani restano però ancora tra i più imbarazzanti lanciatori di frisbee che abbia mai visto su una battigia.

– Non so quando, è stata fatta una legge contro il fumo. La sua applicazione è un perfetto alternarsi di ottusa precisione inglese e di anarchica perplessità indiana. È proibito fumare anche solo nelle vicinanze di tutti i luoghi pubblici, anche aperti, come può essere il marciapiedi di una stazione (fuori dall’aeroporto di Mumbai però non ho visto cartelli e nessuno mi ha detto nulla). Questo comporta quindi che è vietato fumare anche alla fermata di un autobus, nonostante sia su una strada di smog, di polvere e di mucche in cui il traffico è illimitato per 24 ore. In tutti i bar e ristoranti ci sono cartelli “No Smoking”, e un portacenere su ogni tavolo. Tranne pochissimi e al chiuso totale (e nemmeno sempre), qualunque locale abbia almeno una porta aperta verso l’esterno non rispetterà il divieto di fumo. Anche gli alberghi non sembrano considerarlo un obbligo troppo pressante, devo dire. Per contrappasso sulla tv via cavo HBO, dove gli spot pubblicitari durano più o meno otto interminabili minuti, ogni volta che in un film un attore fuma, appare al centro dello schermo una piccola mascherina grigia, dove in bianco con grafica da Pacman appare la minacciosa scritta: “Warning: smoking kills”.

India 2013 2: Hampi, Bijapur

HAMPI, Karnataka 22.03

Hampi è un luogo sacro, dove sono pertanto banditi gli alcolici e la carne. Sul treno da Goa, nel mio stesso scompartimento ci sono madre e figlia australiane e Tim, un nero di Washington DC che offre whisky da una fiaschetta alle 10 del mattino. Nessuno rifiuta, ma quando gli dico che ad Hampi non potrà bere, non ci crede. “In un posto turistico non si possono bere alcolici?” mi chiede sbalordito, come se in quel divieto ci fosse qualcosa di profondamente contrario all’ordine delle cose. Si è portato dagli USA un gigantesco salame piccante, che chiama Pepperoni e che sfoggia una bandiera italiana sulla confezione. Quello lo rifiutiamo tutti, le australiane sono state a fare yoga quindi sono certamente salutiste e probabilmente vegetariane, e io posso solo dire a Tim con rammarico che in Italia quella roba non sappiamo nemmeno cosa sia. Mi colpisce, ma ormai non più di tanto, che sia negli USA che in Australia conoscano Modena per l’aceto balsamico (è diventato direi decisamente più famoso della Ferrari).

La fama meritata di Hampi deriva dalle moltissime favolose rovine, di cui alcune conservate splendidamente, sparse attraverso il paesaggio alieno di intere montagne fatte soltanto di sassi in equilibrio l’uno sull’altro, come se un gigante avesse stretto nel pugno un vulcano e dopo averlo stritolato ne avesse lasciato cadere le briciole sul mondo. Se questo non bastasse, Hampi è divisa praticamente in due da un fantastico fiume luminoso, che offre panorami pacifici e acquatici davvero memorabili. Prima di arrivarci in effetti ero intenzionato a stare sull’altra riva del Tungabhadra River ma quando imparo che l’unica maniera di attraversarlo è in barca e l’ultima è alle 17 e 30, mi fermo all’Hampi Bazaar, che è anche dalla parte in cui ci sono tutte le rovine più importanti. Una volta c’era un ponte, che il tempo ha polverizzato, e quello nuovo, che gli indiani hanno tentato di costruire negli ultimi anni, è crollato ancora prima di essere portato a termine. Al di là del fiume lo spazio è più aperto, ci sono i campi di riso che allargano l’orizzonte e tutto è più tranquillo, mentre l’Hampi Bazaar, sopratutto ora che è bassa stagione, è desolantemente pieno di rompicoglioni che non si rendono conto che i turisti non si fermano a lungo ad Hampi proprio a causa del fatto che gli chiedono in continuazione se vogliono una bottiglia d’acqua, una moto, pagare per fotografare qualcuno vestito in maniera bizzarra, un rickshaw per andare chissà dove.

Sto ad Hampi comunque cinque giorni perché le cose da vedere sono moltissime, le rovine talvolta sono davvero magiche ma fa un caldo infernale quindi me la prendo comoda e le visito direi quasi tutte con molta calma e molto Mazaa, la bibita al mango della Coca Cola, che nonostante le imitazioni, è rimasta anche dopo 12 anni, strepitosa. Anche le colline piene di templi, in un’ area che si estende per chilometri, insieme al paesaggio lunare, sono a tutti gli effetti strepitose. Ci sono interi templi quasi perfettamente conservati, come il Vittala Temple, a 2km dal bazaar, col famoso carro di pietra sulle ruote, anch’esse di di pietra, che un tempo si dice si muovevano davvero, e sempre nello stesso complesso un altro tempio, ora purtroppo chiuso, in cui toccando sette colonne, ognuna dovrebbe dare una nota musicale diversa. Gli indiani l’hanno chiuso al pubblico, perché i turisti rischiavano di rovinare il monumento. Con consapevolezza, dopo aver visto i turisti indiani in tutti i posti che non considerano sacri nel momento presente, direi che abbiano fatto bene a proibirne l’accesso. In nessun paese in cui sono stato ho visto così tanti fantastici monumenti deturpati, scavati, incisi apparentemente con degli scalpelli. Gli indiani, mi spiace dirlo, generalmente sono pessimi turisti. Superficiali, ignoranti, irrispettosi di luoghi che spesso non sanno bene cosa siano, e questa è la cosa che mi ha colpito di più. A volte sono quasi sicuro di saperne molto più io avendo letto una pagina in una guida, che alcuni turisti indiani che visitano lo stesso monumento. Non li biasimo del tutto, alla fine fanno gite fuori porta, accompagnano la famiglia o la ragazza nel weekend a vedere qualche posto vicino a casa, famoso per qualche cosa. E’ probabilmente anche un indizio dell’aumento del benessere indiano però in questo momento l’India è davvero piena di turisti che il più delle volte non sanno nemmeno dove sono, e questo è piuttosto bizzarro. Altra visione favolosa di Hampi è il Krishna Temple coi suoi bassorilievi favolosi di battaglie, ma dappertutto ci sono templi, saloni, corti, colonnati, enormi statue di Ganesha il dio elefante e di Nandi, il toro che è il veicolo di Shiva. E accanto all’Hampi Bazaar l’imponente e magnifico, tutt’ora in funzione e pieno di scimmie come tutta Hampi, Virupaksha Temple. Ma ovunque, per chilometri, é pieno di cose da vedere, di antiche meraviglie di pietra incastonate sulle montagne sgretolate, circondate e protette da massi giganteschi che stanno in equilibrio uno sull’altro sforzando la gravità, immobili eppure apparentemente destinati a crollare e a cambiare forma al minimo movimento del pianeta.

Penso che siano lì perché è il posto che si rinfresca prima alla sera, e che dormano sulle rovine e stiano semplicemente preparandosi per la notte, e per una volta siano i turisti che vanno a guardare il tramonto, gli intrusi. Penso che siano così tante, così insensibili alla vicinanza degli uomini e così lente ed indolenti perché stanche di una giornata passata a saltare tra gli alberi mirando al frutto più vicino da rubare ad un negoziante. Fantastico sul fatto che i primati abbiano un rigidissimo ritmo sonno-veglia, e al crepuscolo siano quindi portati a radunarsi tutti insieme su una collina per poi cadere in una specie di comunitario letargo notturno. Poi, quando il sole si abbassa e diventa una palla rossa da cricket, capisco che la ragione vera del perché siano così tante e in questo momento così indifferenti agli uomini è la più naturale. Ad Hampi, anche le scimmie vanno a guardare il tramonto sulle rovine.

Le camere delle stanze di Hampi e a volte persino le mura delle guesthouse, espongono il decalogo poliziesco. La prima regola è che i turisti devono andare a registrarsi alla stazione di Polizia. E’ un misto tra una cosa utile a se stessi e una farsa profondamente indiana. Un poliziotto annoiato indica, senza alzarsi dalla sedia, un grande libro in cui scrivere i propri dati. Nessuna informazione viene controllata, si potrebbe scrivere che si viene da Marte e che il numero del nostro passaporto è lo 01. Io non mi ricordavo il nome della guest house in cui stavo e così me ne sono inventato uno plausibile. Le altre regole, oltre all’ovvia proibizione del possesso e vendita di droghe (nel foglio appeso alla mia porta si usa l’espressione “should not”) sono quasi tutte fatte per convincere i turisti a non girare da soli e sopratutto a non girare di notte per le rovine, minacciando furti, assalti, rapimenti e violenze carnali. Qualche episodio c’è certamente stato ma il padrone della guest house mi dice che ai turisti piace andare sulle rovine di notte anche se è semplicissimo perdersi, e dopo il tramonto tra i templi si sono visti orsi e leopardi in cerca di cibo. Dice che non c’è scritto da nessuna parte perché sono due cose a cui i turisti non credono. Non so se sia vero ma mi fa riflettere che per noi occiddentali, o quantomeno cittadini, è molto più potente una finta minaccia che conosciamo, come può essere quella di un furto o di una violenza, di una reale di cui però siamo digiuni, come il non trovare più la strada di casa o gli animali selvaggi.

Il giorno prima di lasciare Hampi, il padrone della guesthouse mi invita alla festa che si terrà per le strade dalle 23 in poi, ora assolutamente inconsueta per l’India che di solito va a letto molto presto, e che generalmente si spegne dalle dieci di sera alle dieci del mattino. “Tamburi e danze per le strade”, dice “ e poi un grande fuoco”. Il grande fuoco mi convince, e quindi alle 23, stonato con passione, mi presento per le strade dell’Hampi Bazaar, seguo il rumore dei tamburi che sono già partiti e mi unisco alla piccola folla che segue i suonatori e i ballerini. Gli indiani adorano ballare, lo fanno appena possono, e il loro ballo è sempre una specie di pogo meno violento ma molto più libero, più largo e più allegro. Davanti al corteo tre ragazzi, guidati con severità dal padrone della mia guesthouse, che a questo punto immagino persona importante, tengono in verticale un pupazzo fatto di stracci, con le braccia a croce e un enorme e caricaturale pene diritto. Al centro della strada che porta al Virupaksha Temple c’è una grande pira, su cui alla fine appoggiano il pupazzo e gli danno fuoco, in un enorme e favoloso incendio circondato di tamburi, che a parte i flash delle macchine fotografiche dei turisti è anche l’unica luce nella notte. Da quello che ho capito, la festa è la commemorazione di un evento di storia religiosa indiana, quando Kama (dio del sesso) disturbò Shiva e Shiva dal suo terzo occhio sulla fronte fece uscire un raggio di fuoco che lo bruciò, come appunto accade al pupazzo sulla pira. Tutto questo lo imparo però dopo, domandandolo al padrone della guesthouse a festa finita, perché a volte mi piace, e anche se non è un buon metodo di conoscenza è comunque un privilegio raro, guardare qualcosa di totalmente incomprensibile. Non capita tutti i giorni di assistere a uno spettacolo che assolutamente non capiamo, che ci fa anzi scoprire quanto profonda sia la distanza tra noi e chi quello spettacolo mette in opera. E’ utile a volte guardare cose che non riconosciamo affatto: ci aiuta a vedere le differenze, ci ricorda il mistero e ci permette di riempirci la mente di domande fantasiose, che è sempre cosa buona e giusta. (Fred Gandhi)

Lascio Hampi all’inizio del Color Festival, che si svolge direi in tutto lo stato, il Karnataka, e come avrò modo stancamente di vedere in seguito, un po’ come il carnevale a Bahia, non è assolutamente chiaro quando debba avere termine. Riesco a salvare i miei pochissimi vestiti organizzando una fuga in rickshaw verso Hospet, perché il festival consiste fondamentalmente nell’acquistare polvere colorata, mischiarla con acqua e lanciarla addosso a chiunque si incontri sul proprio cammino. I più estremi arrivano anche a lanciarsi addosso uova, trasformandosi a vicenda in delle statue di argilla rosso e viola. Quando gli autobus arrivano nelle città e nelle stazioni, si chiudono per una volta tutti i finestrini per evitare i lanci di colore dalla strada o dalle motociclette guidate da indiani loro malgrado in divisa da arcobaleno. E’ una specie di carnevale in cui tutto è permesso, e di cui riesco, fortunatamente o no non lo saprò mai, ad essere soltanto testimone invece che protagonista.

Per scappare dal color festival ma sopratutto devo ammetterlo dall’Hampi Bazaar e per bere una birra in pace, passo una serata un po’ insensata ad Hospet, il paese dove c’é la stazione e il bus stand, che di solito sono le uniche due cose che i turisti giustamente vedono o attraversano. Hospet rimane però nella storia di questo viaggio perché in un bar in cui ho anche cenato, invece che una, di birre ne ho bevute tre (sono le nostre 66cl). E mi hanno portato un conto scelleratamente gonfiato. Prima di mandarglielo indietro, ci ho scritto sopra: i’m not drunk. E dopo quasi zero spiegazioni me l’hanno cambiato scusandosi per l’errore. E’ stato divertente ma ripensandoci, col senno di poi, che non fossi sbronzo non potrei giurarlo.

Bijapur, Karnataka 28.03

Bijapur era un punto interrogativo del mio itinerario, avevo pensato di andarci perché dopo essere stato in Turchia, mi sono scoperto colpito al cuore dall’architettura, dalla decorazione e dalla calligrafia islamica. Mi convinco ad andarci quando a Panaji, un francese che parlava tremila lingue e che tutte le sere veniva al ristorante dove cenavo a bere un Black and White and soda, mi ha mostrato delle foto. Quello che non mi aveva detto, e che mi sorprende piacevolmente dopo Goa ed Hampi, è che Bijapur è assolutamente lontana dal turismo. E’ l’India intensa, densa, ancora con una sua polverosissima purezza. Qui, tranne le sigarette che devo ogni volta contrattare e l’ingresso ai monumenti, pago gli stessi prezzi che pagano gli indiani. Bijapur è così sporca che a volte mi sembra di essere in una candid camera. A quelli che a Goa si lamentavano perché l’India è sporca consiglierei di fare un salto a Bijapur. Piena di antichi palazzi, monumenti, mura, archi, moschee e mausolei islamici, la troverò favolosa. A parte le strade principali, Bijapur è un mare di sabbia, fango e polvere, in cui gli animali sono dappertutto, come i bambini che mi guardano e mi rincorrono come fossi un alieno o un essere raro, mai visto prima. A volte tra una casa e l’altra c’è una stalla, le capre escono dagli ingressi, le mucche dilaniano la spazzatura, è come se una civiltà contadina fosse stata circondata in una notte da case sgretolate, mura impossibili, porte e finestre che non sanno di esserlo. Se non ci fossero le macchine, Bijapur sembrerebbe l’India di Kipling. Girando un angolo io e un cucciolo di maiale ci siamo spaventati a vicenda. Lontano dal traffico le vie di Bijapur mostrano una città di volta in volta in costruzione o decomposizione, apparentemente sopravvissuta a stento a un bombardamento a tappeto. Moltissime donne in burqa (non quello afgano, qui usano il classico vestito nero con in in più il niqab a coprirgli il volto, lasciando liberi soltanto gli occhi), uomini con turbanti, musulmani vestiti di bianco e coi capelli e la barba dipinti di arancione con l’hennè. Dovunque cammino mi chiamano, mi salutano, mi chiedono di fare una foto, di stringere la mano, in allegre e solenni presentazioni di nomi non ricordabili. Oltretutto, come io ho difficoltà a ricordare i nomi indiani, tranne i più semplici, gli indiani, nessuno escluso, sembrano soffrire dell’impossibilità vocale di pronunciare la parola “federico”. Va anche detto che qualunque dialogo nel sud dell’India è pericolosamente esposto ad equivoci, fraintendimenti ed incomprensioni, a causa del modo di annuire differente se non quasi opposto al nostro.

Nel sud dell’India, le persone non annuiscono come noi muovendo la testa in verticale, per dire “Sì” fanno invece una specie di movimento ondulatorio orizzontale, come se tintinnassero. Il loro sì è un “perché no?”, è un “se pensi che non ci siano problemi allora fallo”, un “non vedo impedimenti a questa cosa”, che molto spesso però qualunque occidentale scambierà per un “No” cordiale ma deciso. Per le strade le domande che mi rivolgono sono sempre le stesse: “Your name? Your country? Your job?”, che mi sento ripetere all’infinito, come in un eterno ed accellerato giorno della marmotta. E’ quasi sempre come far colpo sulla persona sbagliata al momento sbagliato. Perché tutto questo, che a prima vista può apparire favolosamente speciale e da batticuore profondo, detto senza cinismo, e chiunque abbia viaggiato un po’ per l’India potrà confermarlo, è definito all’unanimità “la rottura di coglioni generale dell’India”. E’ l’esempio lampante di come qualunque abuso, anche della cosa più brillante, più innocente e scintillante, porti inevitabilmente alla rovina e provochi un’emozione contraria all’intenzione originale. Certo, a volte è commovente, come quando il vecchio musulmamo che assiste la figlia venditrice di caschi (mercato che difficilmente in India renderà ricchi, a quanto vedo per le strade) mi chiama e mi racconta di come non è mai più stato felice da quando sua sorella qualche anno fa si è trasferita in Maryland, negli USA. O come quando una bambina che a prima vista sembra abitare da sola in un’antica ruota di bicicletta mi grida incessantemente “Hello!” da un marciapiede. Però. D’altra parte, se penso a Goa ma forse anche all’Hampi Bazaar, so che in fondo preferisco essere guardato come un giullare marziano piuttosto che come un portafoglio che cammina.

La cosa che mi piace di più di Bijapur è l’Ibrahim Rousa, il mausoleo. E’ magnifico, proporzionato e perfetto, veramente bellissimo. Nella mia totale ignoranza architettonica è una cattedrale gotica che è anche una moschea che è anche un mausoleo. Leggero, aperto, pieno di spazi possibili, verso l’alto, verso il basso, verso il giardino. L’attrazione principale di Bijapur rimane però, almeno per i turisti indiani, il Golgumbaz, sempre un mausoleo ma stavolta imponente, gigantesco, con la sua cupola che potrebbe essere seconda in grandezza soltanto a quella di San Pietro in Vaticano. In confronto all’Inbrahim Rousa per i miei gusti è troppo massiccio e pesante, troppo statico e sovietico, ma rimane comunque memorabile, una bella visione. Salendo una ripida rampa di scale a chiocciola si arriva in cima al Golgumbaz, nella circolare Whispering Gallery, la Galleria dei sussurri. Per una geniale costruzione acustica anche il minimo suono si riverbera attraverso la cupola, fino a trentasei volte, prima di tornare al punto di partenza. Non è facile testarne il funzionamento, visto che per gli indiani il sussurro semplicemente non esiste. I turisti indiani urlano, battono le mani, fanno versi incomprensibili a voce alta che probabilmente rimbalzerebbero anche nel deserto. Spesso la loro caotica allegria mentre visitano i monumenti è contagiosa ma purtoppo non è questo il caso. In uno dei rarissimi momenti di quasi silenzio, provo a parlare piano contro il muro e in effetti l’effetto strabiliante sembra esserci.

In questa parte di viaggio, sono entrato in pochissimi templi. Ho già corso per l’India alla ricerca degli dei la prima volta, e tutto quello che so è più o meno tutto quello che vorrei sapere. Sono però entrato in moltissimi bar. I bar indiani sono fondamentalmente di due tipi: le bettole con tavoli di legno sottile e sedie di plastica, in cui vanno a bere i poveri, gli operai e i disperati, e i bar veri e propri, che hanno di solito l’arredamento di un night poco illuminato, e scivolano esteticamente talvolta nella baita, talvolta nella lounge di una compagnia aerea low cost. Vado in entrambi ovviamente, anche se le bettole sono più difficili da trovare, non avendo spesso quasi nessuna insegna, e non sempre sono più economiche dei bar. Quello che cambia, sempre, radicalmente, è la clientela. Nei bar arrivano i borghesi indiani, i giovani e i benestanti, in camicia a righe o a quadretti e nuovo telefonino. Quasi sempre, nelle bettole e nei bar, bevono superalcolici con acqua, talvolta soda, ed è anche l’unico momento in cui vedo gli indiani bere l’acqua in bottiglia. Pochissimi bevono birre, probabilmente per il prezzo, che è di gran lunga superiore a qualunque superalcolico indiano. Le due clientele a quanto ho visto, non si mischiano mai. Per me le cose non cambiano molto, a parte il fatto che i bar di solito hanno poltrone, poltroncine, divanetti o separè più comodi delle sedie da giardino delle bettole. Dovunque, comunque, sono un’attrazione. Se nei bar spesso lo sono per i camerieri, ma anche per clienti curiosi e un po’ sbronzi, nelle bettole lo sono per quasi tutti, tranne i gestori, che con commovente professionalità di solito mi trattano come l’ennesimo strambo cliente della loro giornata senza fine. A volte si fanno incontri estremamente interessanti: ho parlato con dei giornalisti sportivi, con un pilota d’aereo e con un astronomo e spesso ovviamente gli indiani conoscono risposte utilissime per un turista. Resta il fatto che putroppo o per fortuna, anche i bar più bui in India restano il posto sbagliato in cui cercare solitudine.

Come tutti i mediocri fotografi mi sono lasciato solennemente conquistare dalle foto panoramiche.

Spigolature

– Ad Hampi, leggo sul giornale che in Indonesia, durante una rissa in un bar, quattro persone hanno accoltellato a morte un soldato appartenente alle truppe speciali, i loro Navy Seals insomma. I quattro sono stati arrestati e portati in prigione in attesa di giudizio. Due giorni dopo, quindici persone armate di kalashnikov hanno assalito il carcere e sparato ai quattro nelle loro celle.

Lontano dai luoghi turistici, il menu indiano si moltiplica.

In India, a parte le eccezioni che confermano la regola, non esistono i cassonetti, le carrozzine per bambini, le piazze, i supermercati, i tappi per i lavandini, le parrucchiere per signora.

In India nessuno straniero è un viaggiatore. Si è tutti, sempre, turisti. E’ il suo bello, che lo si voglia o meno.

Non è che voglio sempre parlare di dei, e ho un rispetto sincero per l’induismo e per gli indiani, ma siccome in India la religione è dappertutto, è naturale che sia uno dei misteri su cui mi faccio più domande. Per esempio, prendiamo Ganesha, il dio dalla testa di elefante. La storia, se non sbaglio, dovrebbe essere che sia stato concepito da Shiva e Parvati, e sia nato in assenza di Shiva, oltretutto all’oscuro del fatto che Parvati fosse rimasta incinta. Al suo ritorno dopo un lungo periodo trascorso dove immagino gli dei passino il loro tempo, Shiva incontra in una foresta il piccolo Ganesha. Ganesha sa di essere figlio di un dio, e così si comporta con Shiva in maniera infantile ed arrogante. Ovviamente Shiva, adirato, la prima cosa che fa è staccare la testa di netto a quel fastidioso e sconosciuto bambino. A quel punto sopraggiunge Parvati, che da moglie e madre disperata rivela a Shiva che Ganesha era suo figlio. Shiva, gridando di rabbia e di dolore, prende la testa del primo animale che incontra, e cioè un elefante, e la mette sul collo di Ganesha, riportandolo in vita. Ok, la prima stranezza è il fatto che Shiva, evidentemente quasi onnipotente e quindi in grado di riattaccare la testa a qualcuno, non abbia rimesso a Ganesha la sua testa di bambino invece che quella di un elefante. La seconda, non soprendentemente antievoluzionistica, è che quasi sempre Ganesha viene raffigurato anche con un corpo elefantiaco, grasso, morbido, (a rappresentare tra le altre cose la ricchezza e la fortuna), come se in seguito al trapianto di testa fosse cresciuto, a livello genetico, come un elefante. Sono ateo, ma ci sono volte in cui amo le religioni perché ci hanno dato strepitose bellezze architettoniche nel corso dei secoli (i templi, le cattedrali, le piramidi precolombiane) e talvolta rimango affascinato dalla fede, perchè nulla come la fede porta il fantastico all’eccesso, e mai come in India chiede uno sforzo di fiducia così gigantesco da rendere naturale la credenza in qualsiasi cosa, anche la più incredibile. Anzi, in India più qualcosa è incredibile, più diventa divina. India 2013 3: Aurangabad, Ajanta Caves, Ellora Caves, Nasik, Bhandardara

AURANGABAD, Maharastra 31.03

Ho una grande scusa, cioè lo stare a Bijapur, ma confesso di sapere che è Pasqua solo perché mi arriva un sms di auguri. Comunque sia, dopo undici ore su un local bus orgoglioso di essere privo di ammortizzatori, arrivo alle 8 di sera ad Aurangabad. Sono qui per prenderla come base per andare a visitare le grotte di Ellora e quelle di Ajanta, e non mi sorprende quindi che la città non sia indimenticabile. Il consueto caos indiano, la spazzatura che fa parte del paesaggio e come novità un’ incomprensibile presenza di detriti dappertutto. Come se le case si stessero vaporizzando, le strade stessero cedendo, e nessuno se ne stesse accorgendo né tantomeno cercasse di porvi rimedio. L’ Old Quarter, l’antico quartiere islamico costellato di boutiques che vendono burqa, dove mi incuriosisce un negozio di pistole e fucili piccolissimo gestito da un sikh col turbante, è un panorama senza fine di detriti, masserizie, ghiaia, sassi, massi, zolle, strade bucate, case scavate. Da lì prendo un rickshaw per andare a vedere la principale attrazione turistica della città, e durante il tragitto guardo i resti delle belle mura che un tempo cingevano una parte di Aurangabad, quando nel 1600 l’ultimo imperatore Moghul ne aveva fatto la sua capitale. La principale attrazione turistica è il Bibi-qa-Maqbara, detto anche il “Taj Mahal dei poveri”, che è in effetti una specie di copia del Taj Mahal di Agra, più piccola e molto più grossolana, e decisamente molto meno preziosa. La storia racconta che il figlio del marajà avesse deciso di costruire un mausoleo per lui e sua moglie identico al Taj Mahal ma il padre, stanco di vedere così tanti soldi scivolare via dalle casse dallo stato, a un certo punto decidesse di sospendere i finanziamenti. Non è male comunque nella sua assurdità, ed è in fondo un luogo abbastanza silenzioso, lontano dal caos di Aurangabad. Ovviamente, essendo l’unico turista occidentale, faccio ben quattro foto abbracciato a gruppi di turisti indiani. Non capirò mai questo, e sono anni, lo ammetto, che ho smesso di cercare di farlo. Le prime volte me lo chiedevo perché volessero fare foto con me. Cosa avrebbero fatto poi con quelle foto. Se negli anni avrebbero riguardato scuotendo la testa quell’immagine di un me stesso più giovane appena intravisto, se le facessero vedere agli amici al ritorno a casa o le usassero come bersaglio per le freccette. Se non fosse tutto un inganno e usassero le mie foto per fatture e voodoo riempiendole di spilli, se ci ridessero sopra, le dimenticassero in fretta o le cancellassero subito dopo avermi salutato. Ma è un comportamento che non ho mai incontrato in nessun altro luogo, per gli occidentali poi, è assolutamente inconcepibile. Non ho mai conosciuto né visto nessuno che si facesse fare fotografie abbracciato a turisti giapponesi. Ma siccome trovare una risposta sensata è impossibile, ho smesso di chiedermelo.

AJANTA CAVES

Le grotte di Ajanta, antichissime grotte buddiste che ospitavano i monaci durante i monsoni, sono favolose. Scavate all’interno di una gola circolare, con colonne, absidi, statue del Buddha e dei bodisathva dappertutto, e alcuni tra i più antichi esempi di affresco indiano. Sono circa ventotto ma non seguono una cronologia precisa, e alcune sono scavate talmente in profondità e con una tale ricchezza di sculture e particolari che ha dell’incredibile. Non riesco ad immaginare cosa possano aver provato gli inglesi che vedendole da un’altura le riscoprirono, per caso o per fortuna. Non so nemmeno, e forse nessuno lo sa davvero, quanto tempo i monaci possano aver impiegato a scavarle, scolpendo le colonne, le entrate, le piccole stanze con enormi statue del Buddha (in una c’è uno spettacolare Buddha sdraiato), le nicchie e i soffitti dipinti, gli stupas interni decorati minuziosamente. Ajanta, in una giornata molto calda, può essere faticosa da visitare. Sia per le scale che scendono e risalgono la gola, sia per quel chilometro di shop e ristoranti che è obbligatorio camminare prima di raggiungere il sito. Così ci sono dei portatori di persone. Se vi state immaginando qualcosa di medievale, avete esattamente ragione: quattro uomini con turbante, magri come scheletri, sollevano una portantina con quattro bracci, sopra cui stanno sedute anziane signore coreane vestite di bianco con degli ombrelli così piccoli da sembrare aquiloni in miniatura. E’ un’immagine ridicola e coloniale insieme, una visione antica, che sembra uscita da un’illustrazione dei Misteri della Giungla Nera.

Ellora

Le grotte di Ellora sono sparse su un territorio molto più vasto di quelle di Ajanta, non è possibile quindi averne una visione d’insieme, ma questo ha permesso anche ai monaci jainisti, hindus e buddisti, di sbizzarirsi in tutti i modi che il loro straordinario talento (e pazienza, aggiungo io) gli suggeriva, con molta più libertà e molti meno limiti che nella gola di Ajanta. Per il momento Quark, i jainisti sono una religione minoritaria ma tutt’ora attiva, con molti caratteri sia del buddhismo che dell’induismo. Uno dei precetti fondamentali è l’Ahimsa (non violenza), ripresa e resa famosa da Gandhi. I jainisti sono assolutamente vegetariani, i loro monaci non mangiano nemmeno verdure che durante la raccolta possano aver causato la morte di insetti (tuberi, immagino), e alcuni portano sempre una mascherina sulla bocca per evitare anche inavvertitamente di ingerire piccole creature. La cosa per me più incredibile, affascinante e misteriosa di Ellora è questa: questi monaci hanno preso una montagna, anzi, più montagne, e le hanno trasformate in templi, monasteri a tre piani, sale di preghiera. Le hanno scavate, le hanno scolpite, decorate, svuotate, trasformate in arte e religione. Questi monaci, che immagino antichi, piccoli e scuri, pensavano che la forma fosse dentro la materia duemila anni prima di Michelangelo. Hanno scavato tutto, scolpito tutto, statue gigantesche di dei, scalinate, Buddha, colonnati, capitelli, archi, portali, elefanti, scimmie, serpenti, tutto scavato e scolpito. Non c’è niente di appoggiato, niente di fatto da qualche parte e poi portato e montato, tutto è venuto allo scoperto da dentro una montagna. È questo pensiero che mi colpisce ancora di più dell’assoluta bellezza del risultato che hanno ottenuto. Mi chiedo quanto possano averci messo, che strumenti potessero avere a disposizione, dove diamine abbiano buttato le rimanenze degli scavi, in quanti potessero essere (a scavare probabilmente tutti, ma gli scultori-artisti anche tra loro immagino fossero una minoranza). Mi faccio domande che non avranno mai risposta ma mi vengono tutte in mente mentre cammino per Ellora. Per esempio, fare delle colonne così tutte apparentemente uguali per sottrazione invece che per ripetizione mi sembra un miracolo. Il togliere, il sottrarre, non tollerano l’errore. Se qualcuno si sbagliava e scolpiva un capitello più piccolo, dovevano poi rimpicciolire anche tutti gli altri? Probabilmente sì. Le sculture orizzontali li hanno obbligati ad abbassare il livello del pavimento, il Kaisala Temple, il gigantesco tempio circondato da un colonnato con decine di rappresentazioni a grandezza naturale degli dei hindus, prima era un monte, su cui probabilmente vivevano soltanto i macachi grigi che di tanto in tanto ad Ellora inseguono i turisti indiani che spavaldamente gli si avvicinano troppo. Gli artisti geniali di Ellora non hanno costruito sul vuoto, hanno costruito dal pieno. Ed è appunto, a costo di ripetermi, questa la cosa che mi colpisce di più, più ancora dei capitelli, degli dei, dei Buddha, dei Nandi, degli elefanti, delle scalinate e dei templi. Cazzo, questi hanno scolpito delle montagne. O forse è molto più semplice di quello che sembra, e tutto questo è solo un mio delirio notturno. Uno di questi giorni prenderò una selce appuntita e una pietra da usare come martello e proverò anch’io a scolpire una montagna. Deve essere facile più o meno come scolpire la battaglia delle Termopili su un chicco di riso.

E ora una nota di colore, colore verde per l’esattezza. Nel sud dell’India, il charas non c’è. A Goa, con molte più difficoltà del previsto, a causa della costante ed invisibile (almeno per me) presenza di poliziotti in borghese, avevo comprato del fumo, quello che noi di solito chiamiamo nero o pakistano, e che qui qualcuno chiama “border smoke”, fumo di confine, perché appunto non viene dall’India. Ad Hampi, all’interno di una piantagione di banane, in una delle situazioni più strane ma potenzialmente anche più pericolose che ho mai incontrato viaggiando, avevo comprato un po’ d’erba ma il rapporto qualità prezzo era pessimo e così non ne avevo fatto scorta. Ormai avevo finito quasi tutto, ed ero rassegnato a non fumare niente fino a Delhi, perché sul mio itinerario non vedevo luoghi in cui avrebbero potuto offrirmi qualcosa da mischiare al tabacco. Quando scendo dal bus ad Ellora e mi fermo a bere un caffè, ovvero una bevanda del colore del Glen Grant che appena appena ricorda la torrefazione, si siede al mio tavolo un ragazzo indiano. “Cosa vuoi vendermi?” gli chiedo subito, per stanchezza e per abitudine. “Ho un negozio, posso venderti magliette, souvenir, tessuti, statue, everything.” Ecco, “Everything” è quasi sempre una parola chiave. Quasi sempre sa d’illegale, che è esattamente quello che non mi dispiacerebbe trovare. Seguo il suo consiglio di visitare le grotte al contrario, cioè a rovescio secondo la numerazione, per seguire così il sole e trovarle sempre illuminate, e quando esco dal sito compro finalmente dell’erba meravigliosa che mi salverà in molte occasioni future. Non posso fare il suo nome, perché la rete è troppo pubblica, ma grazie ancora, giovane venditore di “Everything”.

Nasik, Mahrashtra

Nasik è una bella improvvisazione del mio itinerario. E’ in Maharashtra, lo stato in cui è anche Mumbai, uno dei più moderni e direi ricchi dell’India. Ma la cosa stupefacente e sorprendente è che Nasik, con tutte le esagerazioni del caso, sembra il cantone svizzero-tedesco dell’India. I rickshaw driver mi chiedono se voglio un passaggio solo quando ho con me la valigia (e chiunque conosca un po’ l’India sa che questo di solito è un sogno che non si avvera), è pulitissima, ci sono semafori che funzionano e che vengono quasi rispettati e le persone addirittura, la cosa forse più imprevedibile, riescono a fare una fila senza spingersi, sgomitare, litigare, sovrapporsi. Ci sono venuto incuriosito dalla sua parte sacra e dai suoi ghats, i gradini sul fiume che si trovano dovunque lungo i due miliardi di corsi d’acqua dell’India, e che gli indiani usano per lavare, lavarsi, fare il bagno, purificarsi, pregare, fare offerte agli dei. Oltre il ponte, sulla riva opposta a quella in cui dormo, la città si sporca ma allo stesso tempo si colora. Il fiume, sacro, che attraversa Nasik è il Godavari River, ed è costeggiato di templi e invaso da donne e pellegrini, bambini che si tuffano in acqua, dalla folla del mercato, e profuma dappertutto d’incenso. Sui ghats sono stesi centinaia di sari, di panni, di vestiti ad asciugare al sole. Mi guardo intorno e vedo solo colore. Ci sono le case, i templi, la frutta, la verdura, le spezie e le polveri del mercato e poi le persone, i loro vestiti, i loro capelli. E tutte sono gialle, arancioni, verdi, azzurre, rosse, bianche e mi accorgo che in India, a parte raramente qualche Dio, non c’è quasi mai niente di nero. Guardo i ghats e il fiume, le statue degli dei immerse nell’acqua davanti ai templi, e per un attimo respiro l’India sacra, poco interessata a coinvolgere il turista, sincera e anche forse inesorabilmente lontana. Ma è una bella sensazione, e credo che per quanto possano generare confusione, così tanti colori tutti insieme di tanto in tanto facciano bene. Colorano le mie parole, colorano me.

Al di là del fiume, nel vecchio quartiere islamico, le strade in salita sono più strette e meno trafficate, e a volte ci sono discese ai ghats così ripide che gli indiani, anche solo per trenta metri, spengono le moto e le lasciano andare in folle. Qui, come già in molte altre parti dell’India, molte motociclette hanno il sedile ed il serbatoio coperti da una sorta di grande zerbino di pelo, spesso multicolore, a volte incredibilmente tigrato o leopardato. È certamente un ottimo modo, se non l’unico, per proteggerle dal sole e salvare il proprio culo dall’Inferno ma decisamente l’estetica di alcune motociclette ne risente in profondità.

A Goa, tra un non fare niente e un non fare nient’altro, ho letto l’autobiografia di Gandhi. I difetti che non sopportava dei suoi compatrioti apparentemente sono rimasti tutti: la poca cura per l’ambiente, per le proprie case e per le strade, lo sputare dappertutto, trasformare ogni fila in una rissa, viaggiare con bagagli di dimensioni impossibili. Nasik mi dimostra per la prima volta che sono difetti enormi ma non fondamentali. L’India potrebbe, e forse lentamente lo sta già facendo, perderli tutti senza nessun danno. Al contrario di altri che viaggiano per l’India, io credo siano difetti o caratteristiche puramente di forma, non di sostanza. Se l’India fosse più pulita, non perderebbe nulla della sua intensità. Se i suoi autobus fossero più comodi, non cambierebbe comunque nulla della meraviglia che si vede dal finestrino. Se fosse più silenziosa, se attraversare una strada, come succede a Nasik, fosse una cosa normale e non ogni volta un salto della fede, l’India resterebbe comunque complicata e fantasiosa, diversa e difficile, a volte incomprensibile ma sempre densa, profonda, piena. Continuerebbe sempre a mancare quando si va in un altro paese, perché non sono il caos, la sporcizia, l’attenzione continua che si deve avere, a fare l’India indimenticabile: queste sono solo contingenze, sono l’equivalente immateriale della polvere che a volte ricopre qualsiasi cosa. Sono soltanto la superficie. La butto lì con tutta l’ignoranza innocente del caso: a Ghandi probabilmente sarebbe piaciuta la Nasik del 2013.

Colpito da un trafiletto sulla Lonely Planet, decido di fare un salto in giornata a Bhandardara. Ci vado con un autobus che mi lascia sull’autostrada (“Vedi laggiù?” mi dice il controllore indicando un villaggio di polvere lontana, “scendi e cambia.”), me ne allontano prendendo un autobus che va dalla parte opposta, e dopo essere tornato indietro salgo finalmente sul mezzo giusto che comincia con una lentezza improbabile a salire in montagna. Bhandardara è un paese minuscolo, a circa 70 km da Nasik, dove a parte le jeep che fanno da taxi collettivi e i non frequenti autobus, essenzialmente non circolano veicoli a motore. È sopra a un fantastico lago, l’Arthur Lake, chiuso da una diga e molto più bello di quanto avessi immaginato. Qui non solo sono l’unico turista straniero, probabilmente non essendo il weekend sono anche l’unico turista. Il panorama sul lago è splendido, azzurro, pacifico, luminoso e fresco. Sulle rive il silenzio è forte, imprevisto per l’India. Penso di fermarmici un po’ e dopo aver guardato una stanza in un albergo dal rapporto qualità-prezzo decisamente patetico, mi faccio mostrare una camera nell’hotel del Governo. La costruzione sembra sopravvissuta ad un antico incendio ma la stanza è nuova e moderna, con un gigantesco terrazzo che dà sul lago. Dico al tizio che lo gestisce che tornerò dopo un paio di giorni e cerco un mezzo per tornare a Nasik. Siccome l’ultimo autobus della giornata arriverà dopo tre ore, contratto a un prezzo da “turista che non ha altra scelta” un posto su una jeep condivisa che appena sarà piena mi porterà al paese vicino, da dove potrò poi prendere un bus per tornare a Nasik. La jeep, che potrebbe forse ospitare 6-8 persone, ne contiene indianamente forse il doppio, sopratutto se si contano anche i due anziani vestiti da Sandokan seduti sul tetto. Il mio posto davanti è quello di colui che tiene il cambio tra le gambe, tutto sommato uno dei più comodi, anche se su due sedili siamo in quattro. Arrivo alla fine del viaggio spezzato, e vorrei uccidere l’autista con la barba arancione ma alla fine sarò costretto idealmente a ringraziarlo, perché se non gli avessi creduto e avessi aspettato l’autobus, avrei perso l’ultima coincidenza per tornare a casa. Ma non è per questo ritorno complicato che alla fine non sono andato a stare a Bhandardara. E’ che non ho ancora voglia di fermarmi, né di stare in un posto così piccolo, che in India può essere sia un miracolo di pace e solitudine ma anche trasformarsi rapidamente in un inferno in cui si è l’unico potenziale cliente in bassa stagione. E sopratutto perchè a volte, sempre più spesso, mi sveglio al mattino e cambio idea. A volte è un problema, perché diventa impossibile prenotare eventuali spostamenti, altre volte, come in questo caso, semplicemente non fa niente. Bhandardara è un posto magnifico, a prima vista ancora intatto e per lo più sconosciuto al turismo straniero, e consiglio a chiunque sia in India e abbia un po’ di tempo di farci almeno un salto, ma se ieri avevo voglia di andarci, oggi non ce l’ho più. Tutto qua. Si chiama, senza mezzi termini, libertà di fare quello che ho voglia di fare. (Vi ho mai detto perché viaggio da solo?)

Spigolature

I film di Bollywood continuo a non capirli, e quindi continuano a non piacermi. Siccome però in questo viaggio (e non so ancora se vado in alberghi migliori o semplicemente ormai in India quantomeno un piccolo televisore a tubo catodico lo si trova in tutte le stanze d’albergo) ho visto molte più televisioni, di tanto in tanto in uno zapping pomeridiano o notturno ne guardo alcuni brani. Il cinema, come tutte le arti, probabilmente non spiega ma mostra con una certa evidenza le differenze tra una cultura e l’altra. I film di Bollywood, nessuno escluso, hanno su di me un effetto soporifero e malinconico, eppure a volte mi ipnotizzano perché mi ricordano con forza che anche se a volte sembro non farci più caso, sono in un mondo lontano anni luce da quello da cui sono partito.

Vi mando anche due link a due gallerie fotografiche (wow). In una ci sono le foto del pupazzo di Daenerys (dai romanzi di R.R.Martin) che mi porto dietro come portafortuna e che ogni volta che estraggo dalla borsa genera risate, sguardi increduli e imbarazzati, e domande a volte inopportune. È una minchiata ma se non altro mostra il mio itinerario più di molte parole. http://www.freefred.org/Daenerys/album/

Nell’altra, ci sono fotografie di indiani in posa. Ai turisti indiani come ho già detto, piace moltissimo farsi fotografie abbracciati ai turisti stranieri, o anche solo fotografare i turisti in generale. Fa parte della loro stranezza e della loro allegria. Gli indiani, o meglio gli hindus, come si può vedere credo dai loro numerosi Dei così antropomorfici, fantastici e particolareggiati, sono certamente appassionati di immagini. Non amano però soltanto fotografare il turista ma anche (e non so giudicare quale sia la cosa più folle) farsi fotografare dai turisti. Credevo fosse una fissazione dei bambini, o dei ragazzini che potevano così imitare un passo di danza dell’ultimo film di Bollywood, ma quando ad Ellora una famiglia di dieci persone mi ha implorato di fotografarli, ho capito che non era così. Sono quindi alcune delle foto che durante il viaggio mi hanno chiesto di fare, e sono purtroppo solo uomini, dato che è praticamente impossibile che una donna indiana che non stia commerciando, rivolga la parola a uno straniero maschio. Per quanto sia il primo a rendermi conto che tutto questo appaia lontanissimo ed incomprensibile, in India, come molte altre cose lontanissime ed incomprensibili, succede davvero. Continuamente. http://www.freefred.org/Indians/album/

India 2013 4: Jalgaon, Indore, Sanchi, Bhopal, Kanha National Park

Jalgaon 8.4.2013

Faccio un errore madornale. Uno dei tanti motivi per cui viaggio da solo è che a volte prendo decisioni così fallimentari e sbagliate che anche il compagno di viaggio più fedele ed adattabile mi toglierebbe il saluto per un migliaio di anni. Quasi sempre, come anche in questo caso, sono errori di ottimismo, per l’esattezza “dare qualcosa per scontato senza nessuna apparente buona ragione”. Jalgaon è un posto indiano di polvere e di rumore e un importante, mappa alla mano, nodo ferroviario. E’ l’unico motivo per cui i turisti, indiani e stranieri, ci vengono: ci passano un’infinità di treni per andare a nord o scendere a sud. Questo però non ne fa (ed è la cosa che io invece con naturalezza ho dato per scontata) un importante nodo di trasporti su strada, ovvero di autobus. Viaggiare in bus all’interno dello stesso stato, in India è facilissimo, ma può essere complicato passare da uno stato all’altro. Quando chiedo con ingenuità turistica a che ora parte al mattino il primo autobus per Bhopal, la mia prossima destinazione, l’indiano in divisa marrone dietro lo sportello, che non parla decisamente inglese, mi risponde semplicemente “No”. Come no? No. Mi salva dal diventare pietra un giovane che fa da traduttore tra me ed un capannello di autisti di autobus. E’ l’ennesimo estraneo gentile che incontro per le strade dell’India, uno dei tanti che sembra rendersi conto che le difficoltà che a volte si incontrano nel viaggiare per il suo paese vanno compensate da un’enorme e disinteressata ospitalità. L’India è definita, a ragione secondo me, un paese complicato. Per le sue differenze, per le sue abitudini lontane, e per molte altre cose lo è certamente, ma è certamente un paese molto ospitale. Alla fine il ragazzo mi dice che l’unica strada per andare a nord è prendere un bus per Shilpur – “no, non c’è nella mappa dellla tua guida”, dice ridendo – poi ad Indore e da lì prendere uno dei frequenti bus per Bhopal. Dentro di me mi metto a ridere. Penso che la cosa migliore in assoluto del viaggiare a lungo è che si è in grado di resistere alle soprese. Penso che viaggiare a lungo non sempre, se non quasi mai, è una fuga ma è sempre certamente un galleggiare. E penso anche che a volte mi piaccia, volontariamente o meno, essere semplicemente di passaggio.

Una considerazione tecnica: il modo migliore di viaggiare per l’India, il più comodo, veloce e volendo economico, è certamente il treno. I treni però hanno due difetti. Quello minore è che essendo spesso a lunghisima percorrenza, hanno orari dettati unicamente dalla distanza, e quindi sopratutto su tratte non frequentatissime può capitare di arrivare a destinazione alle tre del mattino. Per gli indiani che sanno dove stanno andando non è certamente un problema ma io, se arrivo in stazione alle tre posso solo fare mia la famosa frase di Fitzgerald: “In a real dark night of the soul it is always three o’clock in the morning”. Dodici anni fa aspettavo l’alba in stazione per poi uscire a cercare un albergo ma il fatto che nelle stazioni non mi facciano più fumare renderebbe quest’evenienza, già di per sé non entusiasmante, un’attesa tragicamente noiosa. Il secondo, e molto più importante, difetto dei treni indiani è che quasi sempre vanno prenotati con largo anticipo. (c’è la tourist quota e il taktal scheme, che permette di prenotare un posto il giorno prima della partenza ma non ci si può fare un affidamento cieco). L’India viaggia in treno, in tutte le classi, dalla terza in cui la gente entra ed esce dai finestrini, alla prima (confesso di non averla ancora mai vista) con l’aria condizionata, che da quanto mi hanno raccontato ha lenzuola che profumano di bucato. Insomma per farla breve, viaggiare in treno in India richiede pianificazione, che è qualcosa che per cosciente pigrizia e scelta consapevole in questo viaggio è totalmente mancante. Ho tempo. Non voglio arrivare in un posto, scoprire che è un inaspettato spettacolo ed essere costretto ad andarmene prima di quanto vorrei perché ho in tasca un biglietto ferroviario. Viceversa, anche se invecchiando mi capita più di rado, a volte arrivo in luoghi in cui dopo una o due notti non vedo l’ora di andarmene, e quindi di solito lo faccio. E’ per questo, (e anche perché l’India l’ho già corsa in treno la prima volta), e non per eroismo o sforzo documentaristico, che stavolta sto attraversando l’India in bus. Per prendere un local bus, tranne rari casi, basta presentarsi in stazione, chiedere spaesati a qualcuno un’informazione e salire su un mezzo preistorico dai sedili di pietra, fare un gigantesco respiro paziente e aspettare di arrivare faticosamente a destinazione. Non bisogna svegliarsi presto, non bisogna correre, non è necessario aspettare una giornata in un bar perché il tuo treno parte a mezzanotte e il checkout del tuo albergo era a mezzogiorno. Si arriva in stazione, si chiede: “Si va?” E c’è sempre qualcuno che prima o poi risponde: “Si va, si va.”

Indore, Madhya Pradesh 9.04

Arrivato faticosamente ad Indore, giro prima un’ora a piedi i dintorni della stazione degli autobus e poi un’altra in rickshaw per la città, per trovare un albergo. Non solo alcuni sono certamente pieni ma come già avevo avuto il sospetto a Jalgaon, anche ad Indore quelle supertestedicazzo degli indiani spesso non danno camere agli stranieri. Non ne conosco il motivo, so che ho ricevuto troppi rifiuti da receptionist con alle spalle decine di chiavi, e ogni volta ho sperato che i loro dei li usassero come bersaglio per le frecccette. Alla fine mi ritrovo al South Avenue, un albergo in cui mai avrei pensato di dormire in India, una specie di cinque stelle in cui contratto una minisuite molto simile a una stanza della villa di Scarface ma con un letto, dei cuscini, una doccia (una cabina doccia, anzi, la prima in assoluto che incontro) che valgono molto di più dei 25 euro a notte che mi costa, persino in India.

Indore è una città grande, con strade ampie, difficilissima almeno per me, da riconoscere. Non fa certamente parte dei classici circuiti turistici, e in effetti non è orribile ma nemmeno indimenticabile. Suo grosso pregio, come in tutte le città grandi, c’è almeno un Cafè Coffe Day, ovvero un fastfood dell’espresso, dove fanno un caffé a volte migliore che in molti bar italiani. Le catene come Cafè Coffe Day, Barista, Lavazza e altre, si stanno espandendo mi sembra su tutto il territorio indiano e in questo viaggio ho bevuto pochissimi chai.

Già che ci sono, vado a vedere cosa offre Indore a un turista improvvisato. Prendo un rickshaw e mi faccio portare al Lal Bagh Palace, costruito tra la fine dell’800 e i primi del ‘900 dagli ultimi rappresentanti della dinastia Holkar. E’ una costruzione enorme in stile direi europeo, di cui si può visitare l’interno. Il palazzo è abbastanza pacchiano coi suoi affreschi in stile francese, gli stucchi e i capitelli dorati e i bassorilievi di dee greche ma è esattamente come ci si aspetterebbe la residenza di un maraja’, o di un milionario. Le stanze sono enormi, i tappenti di venti metri quadrati, c’è una splendida sala biliardo, una stanza per le cene con un tavolo infinito e cinque o sei tigri impagliate dentro a teche di vetro, cacciate a suo tempo dal Principe. Come quasi tutti i monumenti o le attrazioni indiane che fanno parte del progetto del governo “Incredible India!”, anche il Lal Bagh Palace agli indiani costa 5 rupie e agli stranieri 250 (a questa regola sfugge il Taj Mahal ad Agra, che costa direi agli stranieri 750 rupie). Per ora, è stato l’unico luogo che ho visto che direi non li valga. Non perché non sarebbe magnifico ma perché non si può entrare nelle stanze, è possibile guardarle soltanto dai corridoi. Il giardino, immagino una volta rigoglioso di fiori e tintinnante di fontane, in cui spicca una statua della regina Vittoria, è in abbandono. Insomma, c’è troppo poco. Indore a prima vista sembra pulita e discretamente moderna ma come molte altre città dell’India ha alcune parti incomprensibili ed oscure: quella di Indore è una specie di torrente nero di spazzatura e di fango che attraversa la città dalle parti del bus stand e in cui bambini evidentemente immortali giocano o cercano cibo o qualcosa da vendere tra i rifiuti.

Sanchi, Madhya Pradesh 12.04

Potrei cominciare con “Sanchi è un minuscolo paese vicino a Bhopal, famoso per i suoi stupas buddhisti”, ma sarebbe una descrizione in realtà un po’ ridondante. Sanchi non è, in effetti. Sanchi è un incrocio tra la statale, coi due lati a croce chiusi, da una parte dal complesso degli stupas, dall’altra dalla stazione ferroviaria. C’è un mercato lillipuziano, una stazione degli autobus in cui mi dicono nessun autobus si è mai fermato e qualche stradina interna che porta sempre nello stesso posto, ma alla fine Sanchi rimane un incrocio. E’ anche, e questo mi sorprende, pochissimo attrezzata per il turismo. L’unico albergo decente (di cui vedrò solo il bar) è quello del governo, provvisto anche di un’improbabile piscina, altrimenti le sistemazioni a Sanchi sono soltanto tre. Due guesthouse povere, e il rifugio per pellegrini sempre del Governo, dove un letto in camerata costa solo 100 rupie. Non ci sono i classici ristorantini per turisti, niente muesli qui, niente porridge, niente sandwich, se si eccettua forse la mediocre caffetteria del Governo, spesso tra l’altro incomprensibilmente deserta di camerieri. E’ anche uno dei pochi posti che ho incontrato dove il thali è ancora un vero thali, per quanto povero possa essere. Il thali, che si trova dovunque in India, è un piatto composto, servito indifferentemente in un piatto apposito provvisto di scomparti o in diverse vaschette di metallo. Ci sono sempre almeno due curry, di cui uno sarà certamente dhal, ovvero lenticchie, insieme al riso e a svariati chapati. Qui a Sanchi, in uno dei pochi ristoranti dalle parti del mercato, lo offrono ancora come dovrebbe essere, ovvero i curry, il riso e i chapati vengono serviti finché non si è sazi, cosa che mi sembra sempre più difficile da trovare in India, dove spesso i chapati (o i roti, generica parola per “pane”) vanno ordinati a parte. Siamo due i turisti stranieri a Sanchi in aprile, a stagione turistica finita, io e un ragazzo inglese che è qui da due mesi, e davvero non riesco a capire come possa essere stato così a lungo in un posto che non è quasi nemmeno un posto. Questa è una dimensione di Sanchi che confesso di essermi perduto, ma per quanto Sanchi sia vera, le danze dalle parti del tempio siano intense, musicali, rumorose ed allegre, quasi nessuno rompe i coglioni e sia supereconomico, viverci per più di qualche giorno mi sembra folle. Gli stupas, costruzioni circolari di pietra attorno ai quali si dovrebbe camminare in senso orario per meditare, riconoscersi e risvegliarsi, con i loro portali decorati e scolpiti, sono bellissimi. Sparsi lungo un giardino ben tenuto e molti perfettamente conservati, sarebbero un luogo di pace e di riflessione, se non fossero anche un luogo turistico per gli indiani. Il pubblico del sito si divide quindi in devoti che si inginocchiano a pregare davanti ad antiche statue del Budhha e giovani turisti indiani che corrono per gli stupas gridando e ridendo. Non c’è nessuna possibilità di fermarsi a meditare, a pensare, ad ascoltare il silenzio, il vento, gli uccelli o il mattino. Si può soltanto lasciarsi contagiare dalla rumorosa allegria degli indiani, dai loro vestiti da festa, dalle fotografie che si fanno (e mi fanno, ovviamente) in pose così turistiche che nemmeno Alberto Sordi avrebbe potuto inventarle. Comunque sia, lascio Sanchi dopo un paio di giorni e torno a Bhopal, per vedere, già che ci sono, che razza di posto sia.

Bhopal, Madhya Pradesh 15.04

Bhopal, come da guida turistica, è divisa in due parti, il vecchio quartiere e la zona nuova, chiamata New Market, con i suoi due laghi artificiali. Io dormo vicino alle stazioni, nella parte vecchia, che lontano dalle strade principali è un alveare di vicoli e piccole traverse che sono un muro di persone e un regno di polvere. L’India non è mai facile da camminare, se non altro per il fatto che essendo il paese con la più alta densità di popolazione del mondo, trovare strade non piene di gente è molto difficile. Spesso non esistono marciapiedi, e i rickshaw quasi sempre occupano tutti gli spazi laterali delle strade. Nell’Old Quarter di Bhopal non è difficile, è impossibile camminare: si può solo schivare, fermarsi di colpo e cambiare improvvisamente direzione, scavalcare, proseguire alla cieca. Le strade di questa parte di Bhopal sono in assoluto le più piene ed affollate che ho visto in India, e totalmente cosparse di polvere. Compro dei fazzoletti di carta e un dentifricio, e il gentile negoziante li spolvera prima di consegnarmeli, come se fosse la cortesia più naturale del mondo. Eppure in questi sentieri che sembrano continuamente colpiti da una tempesta di sabbia, vendono anche frutta, verdura, spezie, anche se è tutto coperto di polvere, di smog e di nebbia. Camminando si incontrano belle moschee ma questa parte di Bhopal mette davvero alla prova la pazienza e l’incredulità di qualsiasi turista. New Market, la parte nuova, con le sue strade larghe e il traffico quasi ordinato, le sue boutiques e gli infiniti negozi di gioielli è aperta e pulita, ma anche un po’ impersonale, come se fosse un gigantesco centro commerciale sparpagliato su una pianura d’asfalto. I panorami sui laghi sono però molto belli, e ci sono paesaggi interessanti e totalmente in contrasto con la città ma non credo che Bhopal sia comunque destinata a diventare una meta turistica. Ha il fascino delle due città quasi opposte che convivono, ma una è davvero troppo confusa e l’altra è troppo leggera, troppo vuota.

Jabalpur 17.04

Viaggiare l’India in bus però, è faticosissimo. Sono ore di sussulti, di clacson, sono centinaia di fermate, gomiti che spingono, capelli negli occhi, teste sulle spalle, poppanti appoggiati sulle gambe e dopo ogni viaggio bisognerebbe prendere i propri vestiti e bruciarli. Ho passato due ore in un’officina di autobus, aspettando che un meccanico indiano a martellate producesse un miracolo di aggiustaggio. Sono stato fermo un’ora in autostrada perché davanti a noi c’era una gigantesca colonna di fumo nero, e sotto il fumo, un camion in fiamme. Oggi con me in autobus c’era una bambina con una capra. Per non parlare di quando alla decima ora di strada di un viaggio che sembra non avere fine, l’autista e il controllore fermano il bus per fare offerte in un tempio, da cui riportano benedizione, bon bon di zucchero e piccolissimi pezzi di cocco a tutti i passeggeri. Eppure è un modo estremamente affascinante per vedere l’India, per vederla passare, scorrere e cambiare. E’ indubbio che in autobus si vedono molte più cose che in treno. Si vedono le strade, si vedono le città, le periferie, i mercati, le scuole esorbitanti di bambini vestiti tutti uguali, le case, i templi, le moschee. Si vedono le stazioni degli autobus, alcune ordinate, pulite ed efficienti, altre caotiche e talvolta brutali, come quella di Satna in cui sono solo passato, dove non potevo camminare se non evitando mutilati, disperati, mendicanti, venditori, tutti seduti o sdraiati sul pavimento.

In questo momento l’India è secca, gialla, brillante di grano appena tagliato. Il Karnataka era una distesa piatta e luminosa che sembrava senza fine, spezzata soltanto dall’ombra di qualche albero gigantesco sotto cui si riposavano i pastori o si ritrovavano per pranzo i camionisti. In tutta l’India, di notte le campagne fumano e lampeggiano dei fuochi sui campi, creando isole di luce in un paesaggio altrimenti totalmente buio. In Maharastra, dalle parti di Nasik, il paesaggio si è alzato, con colline quasi montagne, bellissime e multicolore, dalla cima piatta. La lunga strada da Bhopal a Jabalpur è costeggiata continuamente di piccoli villaggi, corti e cortili, gruppi di case basse colorate d’azzurro per una volta coi tetti di tegole spioventi, immagino per resistere al prossimo inevitabile monsone. Davanti a tutte quante c’è una specie di scultura a forma di proiettile, simile a un piccolo bunker senza feritoie. E’ fatta di forme rotonde di sterco di mucca secco, accatastate l’una sopra l’altra in maniera ordinata, che serviranno direi come combustibile per il fuoco. Come tutte le case indiane anche queste devono essere molto buie, per salvarsi dal sole, e quasi senza mobili. E’ lungo questa strada che vedo le famiglie riunirsi nei cortili, all’ombra delle verande, vedo i contadini tornare a casa in bicicletta o a piedi con una zappa in mano, e al tramonto guardo tutti che si lavano vicino ai pozzi a pompa, accendono i fuochi per cucinare, con i bambini che smettono di correre e sembrano soltanto ascoltare quello che raccontano i genitori o gli anziani. Una visione devo ammetterlo, bucolica. Inesorabilmente. Quando verso sera l’autobus si ferma in un villaggio più grande, dove c’è un mercato che sta per finire, guardo le persone stanche della giornata che conversano e ridono, si fanno scherzi, comprano e vendono verdure, frutta, betel, e quello che sento è un profondo senso di comunione, di comunità. Di fiducia, di conoscenza reciproca, e vengo colpito e allo stesso tempo respinto da uno scorrere del tempo che non è il mio, da una semplicità che non è la mia, da una serenità che non è la mia. E’ allora che penso che in questi giorni viaggianti per l’India, quando sono sempre l’unico straniero sull’autobus (i turisti viaggiano in treno e ora è anche bassa stagione), sono anche l’unico che non sa mai dove sta andando.

Piedi un racconto di Ettore Bravo

Si guardò i piedi ed erano lunghi tre chilometri. C’erano i suoi viaggi e i suoi sogni che li percorrevano avanti e indietro, fermandosi alle taverne tra le dita o negli accampamenti di fortuna che si erano formati alla base della caviglia. Poi si accorse che mentre camminava il mondo, i suoi piedi si allungavano di cento metri ad ogni passo. I suoi viaggi e i suoi sogni facevano sempre più fatica ad attraversarli. Dapprima crearono città improvvisate, caravanserragli di pietra chiara che si confondevano con la pelle, e punti di ristoro fumanti di thè nell’intersecarsi delle vene. Ma non smetteva mai di camminare, e col tempo le distanze diventarono troppo grandi: le città dei piedi lentamente morirono, gli avamposti dell’alluce vennero abbandonati e le taverne tra le dita fallirono e diventarono fantasmi. Finché a forza di camminare, i suoi piedi diventarono così lunghi che i suoi viaggi e i suoi sogni restarono indietro, scesero dalle scale delle taverne ormai deserte costruite tempo prima alla base dei talloni e nessuno li vide mai più.

FINE

Kahna National Park (Kathya Gate), Madhya Pradesh 18.04

A chi volesse andare al Kanha National Park in Madhya Pradesh, potrei dire una sola cosa: prenota, prenota, prenota. Io non solo non ho prenotato ma ci vado anche per scelta nel week end, perché spero che ci sia più gente e sia così più facile condividere una jeep per il safari, che ospita al massimo 6 persone. E’ un errore quasi fatale. L’ingresso al parco è quotidianamente limitato, entrano soltanto 40 jeep al giorno, divise tra safari del mattino e safari del pomeriggio, e il fine settimana è pieno di indiani che vogliono vedere le tigri. Oltretutto, il funzionamento dell’accesso al parco mi resterà oscuro per almeno un paio di giorni. Non è possibile prenotare biglietti al ticket counter, e all’ufficio informazioni o non parlano inglese o semplicemente non sanno mai rispondere a nessuna domanda. Dopo l’ennesimo “non te lo so dire”, penso di cominciare a chiedere : “La terra è veramente rotonda?” o “Che ore sono?”, solo per ascoltare una risposta sensata. La prima sera arrivano due giovani indiani da Delhi, con tre ingressi prenotati online un mese fa, e mi invitano a tentare di unirmi a loro per il safari del mattino successivo. Ci troviamo quindi alle 5 e 15 e facciamo i cinquanta metri che ci separano dalla biglietteria del parco: per quanto loro abbiano già il biglietto, abbiamo messo i nostri tre nomi sul modulo di richiesta d’ingresso, che viene esaminato secondo la precedenza di arrivo. Quando verso le 6 tutte le jeep sembrano assegnate, a me e ad altri indiani viene detto che non c’è più posto, e per oggi quindi non possiamo entrare. Il problema è che nessuno mi dice come diamine si faccia ad avere un biglietto. A cena i due ragazzi di Delhi mi spiegano che non hanno permesso che io condividessi la loro jeep perché è considerato illegale (e anche loro erano perplessi) mettere nella stessa vettura chi non ha comprato o prenotato il biglietto insieme, ovvero mischiare chi ha prenotato con chi è arrivato all’ultimo momento. La mia sveglia prima dell’alba si rivela così totalmente inutile. Il giorno dopo, il proprietario del Motel Chandan, dove dormo, si impietosisce e promette di aiutarmi per cercare di entrare per il safari del pomeriggio. Mi accompagna al ticket counter, scrive il mio nome in cima a un modulo insieme ad altri cinque nomi indiani e lo appoggia in attesa dell’esame delle prenotazioni. Aspetto un altro paio d’ore di fila e il modulo col mio nome è il primo che rimane di quelli non accettati, perché anche stavolta la maggior parte dei posti sono prenotati. Penso di rinunciare, di andarmene da questo posto che mi sembra incomprensibile ed inspiegabile. Penso alle diciassette ore di autobus che ho fatto per arrivare fin qui, al fatto che se non fossi qui probabilmente sarei quasi già a Delhi. Fortunatamente, a condividere con me invece di una jeep il secondo fallimento consecutivo, ci sono anche una coppia di olandesi (lui di origine indiana, o meglio, del Suriname) appena arrivati. Stanno facendo un viaggio intorno al mondo, con un biglietto RTW, vengono dall’ Africa, proseguiranno per la Thailandia e il sud est asiatico per terminare poi a Tokio e a Los Angeles. Entrambi girano il mondo alla ricerca di animali, di cui sopratutto lui è appassionato. Quando berremo una birra a Jabalpur, la città da cui si parte per il Kanha, mi mostrerà le fotografie dei suoi due adorati camaleonti, che com’è tradizione in Suriname, ha chiamato semplicemente Mr. e Mrs. Chameleon. Anche loro rimangono esterefatti dalla mancanza di informazioni e dalla difficoltà ad accedere al Parco nazionale. Dopo tre giorni, mettendo insieme voci confuse, risposte imprecise, frasi spezzate raccolte disperatamente, riesco finalmente a capire che l’unico modo di prenotare un biglietto è tramite internet, e come mi dice il padrone del Motel Chandan, solo il 10% dei biglietti resta disponibile, ma non prenotabile. Il suo consiglio è categorico. “Dovete essere i primi a consegnare il modulo, cosi certamente vi faranno entrare. Dovete essere lì per le 2, le 3 al massimo.” La biglietteria apre alle 5 e 30. Insieme ai due olandesi decidiamo di provare, e ci presentiamo al ticket counter molto prima dell’alba, verso le 3 e 30, dove scopriamo con terrore di essere già terzi. Scriviamo sul nostro modulo il numero 3 e lo infiliamo sotto agli altri due, nella feritoia del vetro della biglietteria. Poi restiamo lì ad aspettare conversando circondati da cani bui, che inseguono senza successo qualche scimmia scura che si perde oltre il cancello di entrata al Parco. Arrivano altri gruppi di persone, tutte col loro modulo pronto, le facce assonnate e il passo che tentenna per la sveglia all’alba. Alle 5 e 30 finalmente la biglietteria apre, incrociamo le dita e quando viene il nostro turno, consegno il nostro modulo di richiesta al bigliettaio che ha potere di vita e di morte sugli ingressi. Controlla il computer e vedo che stavolta non fa cenni di diniego, e quando cambia la carta della stampante per consegnarci la prenotazione della jeep so che stamattina entreremo. Oltretutto, cosa incomprensibile che si aggiunge a tutte le altre cose misteriose di questo posto, ci fa pagare come uno straniero e due indiani (gli stranieri pagano più del doppio il prezzo del biglietto d’ingresso). E’ una favolosa sorpresa, e alla fine del safari rideremo guardando il biglietto, che dice: Passengers 3, Indians 0, Foreigners 1.

Alle 6 del mattino, in compagnia di una guida, il cancello si apre ed entriamo finalmente nel Kanha National Park. Quasi subito le jeep si diradano, dividendosi per le quattro zone del parco, e restiamo solo noi sulla strada. La guida guarda il terreno e dice di vedere l’impronta fresca di una tigre, che per noi rimane invece invisibile. “Tenetevi forte”, ci dice, e fa un cenno all’autista, che parte a velocità sostenuta, facendo sobbalzare la jeep sulla strada sterrata. Facciamo 3 o 400 metri, e scopriamo che la guida aveva ragione. C’è davvero una tigre. Sta scendendo dalla collina in cerca d’acqua, e seguendo la via più breve, per un lungo tratto cammina sulla strada o nella radura accanto alla strada. E’ la prima volta che vedo una tigre libera in una foresta. E’ un animale stratosferico, regale, elegante, magnifico ed evidentemente consapevole della sua intatta potenza futurista. Grandioso, totale, salgariano. (ok, esagero, ma mi sono svegliato due volte prima dell’alba) La tigre prosegue lentamente diritta davanti a sé, perlopiù ignorandoci anche quando con la jeep ci spostiamo per precederla e per un breve tratto cammina quasi al centro della strada, tra noi e un’altra jeep che è arrivata nel frattempo. E’ una visione favolosa, è tutto quello per cui abbiamo dormito tre ore e ci siamo presentati a fare la fila nelle tenebre questa mattina. Sappiamo che siamo fortunatissimi, o forse il nostro karma in questo momento è perfetto. Perché è molto più difficile di quanto immaginassi vedere una tigre, direi solo quattro o cinque jeep su più di una ventina è riuscita a vederla oggi e uno dei ragazzi indiani che aveva cercato di farmi entrare l’alba precedente ne ha vista soltanto una in dieci volte che è stato qui (ieri però anche lui è stato premiato, ha visto un leopardo, ancora più raro della tigre). Quando la tigre risale la collina e scompare tra gli alberi, proseguiamo il safari nel parco, vediamo parecchi cervi e caprioli, molti macachi grigi che ormai tra Hampi ed Elllora ho visto a centinaia, qualche fantastico pavone, che urla ad alta voce nel silenzio del mattino, uno sciacallo che scivola via tra i cespugli e qualche uccello colorato, almeno quando vola, di azzurro intenso. Ma nulla è come la tigre, apparsa e scomparsa al sorgere del sole, come una creatura incantata, stregata, magica.

Il Kathya Gate è un bellissimo posto se lo si guarda non soltanto come ingresso per il safari al parco nazionale. Due americani sono stati qui tre mesi, a camminare tutti i giorni per le campagne, i boschi, attraversando fiumi e fotografando animali. Ha anche il fascino, almeno per me, della frontiera chiusa, perché la strada finisce davanti al cancello del Parco, e da lì si può soltanto tornare indietro. Non è comune per un viaggiatore, se si escludono forse le spiagge, trovarsi in un luogo da cui non si può proseguire, da cui è soltanto possibile andarsene. C’è un’ora, poco prima del tramonto, poco prima che i pochi abitanti del Kathya Gate tornino a casa in motocicletta, poco prima che arrivi l’ultimo autobus della giornata, in cui si può camminare per chilometri al centro della strada verso il mini villaggio di Mocha e trovarsi soltanto in compagnia di qualche scimmia, o di una mucca solitaria che arranca esattamente al centro della mezzeria. Sono un paio di queste passeggiate a farmi capire che non ho perso tempo qui, aspettando che mi facessero entrare nel Parco, perché questa minuscola parte dell’India all’interno di uno stato enorme è sorprendentemente intensa e gentile, bella da respirare, e macchiata qua e là di pace.

Spigolature

– Un indiano ha una suoneria che è una canzone. Ogni volta che lo chiamano, prima di rispondere aspetta qualche squillo canticchiandone le prime note. (Bar del Gateway Retreat, Sanchi)

– India, cassetta degli attrezzi di base: Pazienza infinita, ironia infinita, curiosità infinita, cuore aperto ma non spalancato, tappi per le orecchie, coraggio gastronomico.

– Le zanzare di Bhopal si sono geneticamente modificate. Non si posano mai su superfici chiare, come le pareti o le lenzuola, ma soltanto sugli arredi o su superfici mimetiche, rendendosi a tutti gli effetti invisibili. Sono immuni al Vape e allo zampirone (qui Mortein). Non avevo con me nessun protettivo, ma se dovessero essere indifferenti anche a quello, gli esseri umani sarebbero perduti.

– Per ora ho visto solo 2 abat jour. Non ho ancora capito se mi mancano o siano sempre state un sogno.

India 2013 5: Khajuraho, Orchha, Gwalior, Delhi

Khajuraho, Madhya Pradesh 25.04

Khajuraho è famosa per i suoi templi costruiti dalla dinastia dei Chandela attorno all’anno 1000 e incredibilmente e totalmente decorati con sculture erotiche. A volte ci si riferisce alle sculture di Khajuraho come a rappresentazioni del Kamasutra ma in realtà non ci sono le posizioni codificate del libro, solo migliaia di sculture, sia all’esterno che all’interno dei templi, in pose profondamente e favolosamente porno. Devo dire di non avere mai visto scene di sesso così arrapanti e allo stesso tempo scolpite con tanta grazia, sensualità, perfezione e leggerezza. E i culi delle sculture femminili di Khajuraho sono esattamente come qualunque uomo, in qualunque cultura, vorrebbe fosse il culo della sua donna per sempre. I giganteschi templi del complesso occidentale, quasi perfettamente conservati, sfoggiano un’infinità di piccole e grandi figure impegnate in amplessi, carezze, pose provocanti, posizioni erotiche classiche, impreviste, curiose od impossibili, e per non farsi mancare nulla c’è anche un uomo che fotte un cavallo. E’ anche superbo il gigantesco Nandi, il toro cavalcatura o veicolo di Shiva, decorato minuziosamente e chiuso all’interno di un padiglione sopraelevato, quasi a volerne proteggere la sacralità e lo splendore. In definitiva i templi di Khajuraho sono assolutamente extraterrestri, e mentre li osservo non posso fare a meno di pensare che la modernità non lascerà ai posteri nulla di simile. Certo, è una questioni di gusti, di tempi, di costi, di funzioni, ma pur non essendo un esperto non vedo niente nell’architettura moderna e contemporanea che possa competere con una bellezza così densa, totale ed assoluta. Il contrappasso però è che Khajuraho è intrisa geneticamente di rompicoglioni. Non è possibile durante il giorno camminare, o sedersi a fumare una sigaretta, senza che qualcuno ti avvicini per venderti qualcosa, conoscerti, venderti qualcosa, chiederti banconote per l’ennesima incredibile collezione di valuta straniera, venderti qualcosa. Se ci aggiungiamo che molti parlano italiano la situazione è quasi disperata. E’ un peccato enorme perché la parte turistica del piccolo paese, tutto sommato affascinante e tranquilla, sopratutto la sera, sarebbe un ottimo posto per riposarsi qualche giorno. Ma sarei davvero curioso di sapere quanti turisti stranieri riescono a resistere per più di un paio di notti. Non riesco a capire come gli indiani non si rendano conto che stressare un turista in questo modo è soltanto la via più rapida per cacciarlo, oltretutto in un paese come l’India, talvolta già faticoso di suo come intrinseca caratteristica. E’ un aspetto, ormai raro per fortuna, terzomondista dell’India che non comprendo, posso accettarlo soltanto pensando al fatto che nonostante tutto rimane un paese con relativamente pochi turisti stranieri. L’india, che offre molteplici bellezze favolose, che è un paese in cui si può sciare e andare in spiaggia, ricchissimo di cultura e di storia, è al trentottesimo posto dei paesi più visitati del mondo. Nel 2012 ha accolto circa sette milioni di turisti stranieri, quando la sola Parigi, nel suo essere prima in classifica ne ha visti ventotto milioni. E non è nemmeno una questione di distanze, visto che la maggior parte del turismo straniero in India proviene dagli USA e dal Canada. Ma è anche vero che Khajuraho è una delle mete più gettonate dell’India, o almeno credo, e quindi dovrebbero aver visto ormai molti più turisti che per esempio, a Bijapur. L’aumento della noia proporzionale all’aumento dei turisti, è quindi il peccato mortale di Khajuraho, e siccome talvolta ho un bad karma, non glielo perdono. I templi sono certamente una delle cose più fantasmagoriche che ho visto in India ma a Khajuraho la densità per metro quadro di rompic******i è insolitamente eccezionale. Persino la mia valigia, ferita dai portabagagli degli autobus e che non è mai uscita dalla stanza dell’hotel, la notte sussulta come se fosse stregata, e così dopo due giorni la porto via. Mi dispiace, sopratutto se penso a chi fa viaggi molto brevi e segue giustamente un percorso prefissato, e passando da Khajuraho magari si fa dell’India intera l’idea di un posto assolutamente invivibile, una specie di Marrakesh più piccola, dove si è soltanto cuccioli di portafoglio in balia di troppi, troppi rompicoglioni. A Khajuraho gli indiani, nei riguardi dei turisti stranieri, stanno davvero sbagliando tutto, non posso dire altro.

Orchha, Madhya Pradesh 26.04

Dopo Khajuraho, Orchha è una strepitosa oasi di pace e tranquillità: un giovane indiano cercherà di spiegarmi sociologicamente le differenze tra le due località, dicendomi che al contrario di Khajuraho dove la disoccupazione è altissima, ad Orchha la popolazione è composta in prevalenza da lavoratori e studenti, e chi lavora nel turismo si rende conto che non rompere i coglioni è la maniera migliore di far restare le persone qualche giorno in più ma ugualmente non riesco comunque a perdonare lo stress insensato di Khajuraho. Orchha è anche, almeno in questa stagione, ipotizzo per conformazione geografica, il posto più caldo che ho incontrato finora. Di notte e di giorno è rovente, e l’escursione termica è minima, tanto che nella mia stanza ostinatamente priva di aria condizionata, talvolta la temperatura supera i 39 gradi. Quello che colpisce di Orchha è che rispetto alla sua piccola dimensione ha un numero di monumenti e tutti di tale grandezza che probabilmente come superficie occupano un terzo del paese. C’è una grande zona archeologica, con svariate rovine tra sentieri secchi che seguono le antiche mura sul fiume, e alcuni enormi e strepitosi palazzi, di cui uno è stato trasformato in un albergo del governo, dal cibo tutto sommato medio ma dalla posizione assolutamente perfetta. Ma il palazzo più bello, più figo, più indimenticabile è per me il Jehangir Mahal, incredibile esempio di genialità e di architettura medievale islamica. Pienissimo, quasi barocco nel suo incredibile numero di stanze, scale, torri e torrette che sembrano moltiplicarsi all’infinito in una leggerezza assolutamente strabiliante. E’ gigantesco eppure in alcune sue parti, sopratutto le più alte, sembra fatto d’aria, sembra che le sottilissime colonne che sostengono moltissime sue parti architettoniche siano semplicemente tenute in piedi dal vento che passa attraverso le innumerevoli finestre decorate nei classici e magnifici motivi islamici. Mi stupisce anche come al Jehangir Mahal e in altri monumenti di Orchha sia possibile, e a volte quasi obbligato, camminare in strettissime passerelle sospese nel vuoto, sporgersi da balconi nani che danno sul nulla, senza che ci sia nessuna protezione. I monumenti di Orchha certamente non sono adatti a chi soffre di vertigini. Oltre ad alcune rovine, la ex-stalla per i cammelli e il Jehangir Mahal nella stessa area c’è anche il Raj Mahal, meno impressionante secondo me del Jehangir ma con favolosi affreschi sotto i portici del piano terra che si potrebbero restare a guardare per giorni interi. Per entrare in quasi tutti i monumenti di Orchha, si fa un biglietto unico che ha il solo difetto di essere giornaliero. Visto il caldo sconcertante, la mia pigrizia ma sopratutto le dimensioni e la bellezza della maggior parte delle attrazioni, non riesco a vedere tutto in un giorno solo ma imparo presto che con cinquanta rupie in nero i custodi sono ben lieti di farmi entrare dappertutto. Così vado il giorno dopo a vedere i Chhatris sul fiume, ovvero i cenotafi dei passati governanti di Orchha. Sarà forse perché ci sono solo io ma trovo i Chhatris e il giardino curato che li contiene, bellissimi, silenziosi e pacifici. In quasi tutti è possibile salire fino in cima attraverso scale ripide e strette che bucano le costruzioni, e in uno, come avevo letto, ci sono davvero avvoltoi che fanno il nido nelle nicchie più alte. Passo ore credo, seduto in cima ai minuscoli corridoi dei cenotafi guardando semplicemente dalle finestre il paesaggio caldo e fluviale, gli uccelli che sembrano essere dappertutto, le rive, lontane dal centro, pulite e selvagge, con la vegetazione che a volte in pieno sole sembra fatta di luce. Anche il tempio di Lakshmi, per quanto in ristrutturazione (e guardando la velocità e sopratutto i mezzi che gli indiani usano per l’edilizia, probabilmente lo resterà per i prossimi due secoli), è bellissimo. In pieno centro e proprio sotto il mio albergo c’è invece il tempio dedicato a Rama, credo l’unico in cui venga venerato come un dio (Rama è il protagonista del Ramayana, insieme al Mahabharata uno dei più importanti poemi epici indiani), da dove ogni sera esce musica ipnotica e alle porte c’è sempre una fila di pellegrini e devoti scalzi che per una volta non cercano di rubarsi il posto a vicenda. Ho trovato Orchha meravigliosa, sorprendente per la quantità e la qualità di cose da vedere e da camminare, con in più come ho detto l’inestimabile pregio che per un turista è un luogo tranquillo dove fermarsi più giorni. Non è spesso nell’itinerario di un viaggio breve ma in realtà è piuttosto vicina a Khajuraho, anche se è vero che al contrario di anni fa, ora Khajuraho dovrebbe essere comodamente raggiungibile in treno da Delhi, e quindi forse molti scelgono di andare e tornare senza proseguire. Ma essendo da queste parti, non farci un salto sarebbe una grande perdita.

Gwalior, Madhya Pradesh 30.04

Amelie è una ragazza di origine corsa, nata vicino al confine con l’Italia e ora stabile a Parigi, dove ha appena abbandonato il suo lavoro di cameraman che l’ha portata spesso in giro per il mondo, e che ora come me viaggia qualche mese per l’india. La differenza naturale e sostanziale è che lei è una donna, giovane e bella. La incontro mentre saliamo entrambi al Forte, in cui siamo gli unici due turisti stranieri in una giornata bruciante come un vulcano. Gwalior non fa certo parte delle destinazioni classiche dell’India: io mi ci fermo un po’ per spezzare il viaggio e un po’ perché è uno di quei posti in cui volevo andare senza nessun particolare motivo, lei per fare uno stop prima di proseguire verso sud. E’ la prima volta direi, che parlo con una ragazza che viaggia da sola per l’India. Da un lato, mi racconta, per lei le cose sono più facili, quasi tutti sono tremendamente disponibili, può fare le file (praticamente sempre deserte) riservate alle donne e i rickshaw driver, cosa che non sapevo, alla notte sono obbligati a farle il prezzo più basso, come a tutte le donne sole. “Quando contratto una corsa e nelle vicinanze c’è un poliziotto” mi dice, “l’autista accetta subito qualunque prezzo, spaventato dalla possibilità che il poliziotto lo obblighi a portarmi gratis in albergo.” Ma la vera novità è che non solo inevitabilmente, come succede a me, i maschi indiani la fermano per stringerle la mano, fare fotografie e presentarsi, con lei lo fanno anche le donne, cosa che a me e a qualunque straniero maschio mai succederà. “Per me è tutto doppio, doppia la tenerezza, doppio lo stress.” mi racconta mentre cerchiamo di convincere un bambino che non abbiamo assolutamente bisogno di una guida per visitare il Gwalior Fort.

Il Forte, per quanto una parte sia totalmente in rovina, è molto bello, ci sono favolosi templi hindus abitati da pipistrelli e un magnifico e bianchissimo tempio sikh in cui per entrare mi vedo obbligato ad indossare una sorta di turbante arancione. La porta d’ingresso è una facciata perfettamente conservata del Man Singh Palace su cui in effetti, come dice la guida, sono affrescate papere gialle su sfondo azzurro è bellissima, molto India, e decisamente molto Mille e una Notte. Mentre camminiamo per l’enorme area del Forte, Amelie mi racconta dell’Africa, dove ha girato un paio di documentari e anche lei, dopo Sandro a Goa, mi parla malissimo di Pushkar in Rajasthan. “E’ il posto più brutto che ho visto” dice “e anche la Camel Fair ora in realtà è solo un’attrazione turistica, quella vera l’hanno spostata da un’altra parte.” Non ho verificato questa notizia ma mi colpisce che due persone mi abbiano parlato così male di Pushkar. Anche quando ci andai io dodici anni fa era già certamente il posto più turistico o quantomeno più freak del Rajasthan, dove si poteva sentire Bob Marley uscire dalle finestre di un ristorante. Ma conservava comunque una sua indiana bellezza, e tutto sommato era un’ottima pausa per rilassarsi mentre si viaggiava per il Rajasthan, a mia memoria, per un turista certamente uno degli stati più faticosi dell’India. Dopo il Forte, che ha anche un piccolo ma abbastanza struggente cimitero cattolico, su un rickshaw collettivo che condividiamo con due ragazze indiane che cazziano continuamente l’autista per obbligarlo a portarci a destinazione (cosa che con me da solo non avrebbero mai fatto), andiamo a visitare la Tansen Tomb, la tomba di un cantante (parliamo del 1400-1500) considerato il padre dell’Hindustan Classical Music, di cui ammetto di ignorare praticamente tutto. Nello stesso giardino c’è anche la tomba del santo Mohammed Gaus, con magnifiche ed enormi finestre scolpite: per accedere all’interno stavolta devo indossare una sorta di cappello musulmano, e penso che per la seconda volta nella stessa giornata sto indossando un copricapo bizzarro. Poi ci sediamo nel giardino a chiacchierare, e quando alzo la testa vedo che siamo circondati da giovani indiani, che si avvicinano a noi lentamente, in un maldestro tentativo di non farsene accorgere. E tutti guardano noi, ovviamente di più Amelie, che mi racconta che le hanno detto spesso che somiglia a una presentatrice della televisione indiana e una volta, con suo enorme stupore, le hanno persino chiesto un autografo. Siamo entrambi abituati ad essere un’attrazione, ad essere spettacolo invece di spettatori e quindi non ci facciamo caso. Quando un giovane indiano trova il coraggio di chiedermi l’accendino però, subito si avvicinano tutti, saranno una ventina di ragazzi, e allora sono presentazioni entusiaste e timide allo stesso tempo, strette di mano, sorrisi giganteschi, domande semplicissime e naturali. Stavolta non riesco a restare indifferente davanti alla curiosità così enorme ed allegra degli indiani, sopratutto perché da sempre nella mia fumosa scala di valori, la curiosità occupa un posto decisamente alto in classifica. Sono trenta secondi di felici strette di mano, seduti sull’erba di un parco mentre il sole sta tramontando. Il rumore della strada è sorprendentemente lontano. A volte in India, trenta secondi così valgono un mese di silenzio perduto, e possono essere la cosa più vicina alla pace che a un viaggiatore sia concesso di ascoltare. Finiamo la giornata nell’unico ristorante che conosco, che è ovviamente anche un bar, sorprendentemente sorvegliato da un gigante dai baffi spioventi che porta con noncuranza a tracolla un fucile, dove Amelie mi dice la cosa più divertente di tutte. In Rajasthan è stata ospite di un amico di un suo amico indiano che vive da anni a Parigi. Ricambierà l’ospitalità molto presto, perché il giovane rajastano sta per fare un viaggio in Europa, cominciando dalla Germania. “Ho cercato di spiegargli, gliel’ho detto più volte, che se in Europa, sopratutto in Germania, butta per terra, o ancora peggio in un parco, una bottiglia, lo arrestano. E che in Francia ma ancora di più in Italia, se suona il clacson compulsivamente, al terzo beep immotivato qualcuno cercherà di spaccargli la testa e la macchina con una mazza da baseball, e spero che mi dia retta.” Lo spero anch’io, con tutto il cuore.

Delhi 02.05

Il mio posto preferito in India resterà per sempre Delhi, al di là di tutte le spiagge, i villaggi, le montagne, le città, i templi, i monumenti, i forti che ho incontrato attraversandola. Forse perché, molto banalmente, è il primo posto che ho visto. Il primo posto che mi ha spaventato a morte, come succede a tutti, senza riserve, che lo si ammetta o meno. “Da Delhi siamo scappati dopo due giorni” mi hanno detto tre ragazzi sardi a Goa. Persino Amelie, che ha girato più mondo di me, a Gwalior mi ha raccontato che appena arrivata a Delhi si è chiesta: “Oh mio dio, come ho potuto pensare di stare quattro mesi in questo paese?” La stessa impressione che ebbe tra l’altro, stando alla sua biografia, un giovanissimo Steve Jobs quando andò in India in pellegrinaggio alla ricerca del suo guru. Ma io non dimenticherò mai quando durante il mio primo viaggio in India ci tornai dopo un mese di Rajasthan e Delhi da un inferno incomprensibile si era trasformata in un luogo caotico ma chiaro, vivo, e allora, come poche volte succede, capì di essere cambiato, per scherzo anche di essere sopravvissuto, e al posto della paura avevo l’entusiasmo, avevo l’esperienza dell’India e non solo il suo primo, terrorizzante e misterioso, impatto. Per la prima volta ci arrivo in bus, e da un rickshaw mi faccio portare a Paharganj, il Main Bazaar, il quartiere cosiddetto dei backpackers, che alcuni stranieri evitano per il caos ma che per me, per quanto possa sembrare assurdo ed infantile, è l’unico posto in India in cui mi senta quasi a casa. Paharganj dopo dodici anni la riconosco e non la riconosco. Il Metropolis, il mio primo albergo in India, c’è ancora ma al posto del ristorante in cui mangiai il mio primo thali, adesso c’è un bar quasi alla moda. In tutto il Main Bazaar i bar sembrano essersi moltiplicati, e se le strade di Paharganj restano relativamente sporche, Delhi è invece pulitissima. Mi accorgo che al contrario di dodici anni fa, anche a Delhi hanno evidentemente chiuso l’accesso agli animali a gran parte della città, e se questo forse rende Paharganj meno affascinante, è però decisamente una salvezza per quanto riguarda pulizia, caos e fango. A Paharganj ora, per quanto siano gocce nel deserto, circolano addirittura rickshaw elettrici, importati mi dicono dalla Cina. Rimane comunque sempre, anche a causa delle sue strade strette, un quartiere estremamente confuso e polveroso, in cui spesso i rickshaw driver e anche i cycle rickshaw se possono si rifiutano di portarti oltre l’ingresso, proprio di fronte alla New Delhi Station. Sono a Delhi per riposarmi, e anche se a chi non è mai stato in India o ci viene per la prima volta può sembrare inverosimile, la città così grande e moderna è molto meno stressante per uno straniero di altri posti più piccoli che vivono essenzialmente di turismo ( e ammetto di essere ancora scioccato da Khajuraho). Gli abitanti di Delhi, abituati agli stranieri, e occupati a vivere la loro vita, mi ignorano. E poi Delhi è bellissima. Alcuni preferiscono Mumbai, perché essendo praticamente un’isola si è sempre circondati dal mare, e la sua architettura vittoriana è meravigliosa ed integrata solennemente nella città ma io preferisco Delhi, con le sue mille cose da vedere, i suoi larghi viali alberati dove per una volta si può passeggiare, la modernità dell’India, la sua contemporaneità. Ora poi c’è la metropolitana, che ha cambiato completamente il modo di spostarsi per la città. Economica, efficiente e per quanto in ampliamento già molto sviluppata, è un favoloso modo di evitare traffico e rumore, e sopratutto stremanti contrattazioni con i rickshaw driver (che infatti la odiano e prima o poi cercheranno di farla esplodere).

La prima cosa che torno a vedere è il Red Fort, da dove dodici anni fa mi cacciarono inaspettatamente perché un commando aveva appena attaccato a colpi di kalashnikov il Parlamento Indiano. Ora infatti si viene accolti da un metal detector e sopratutto dal mirino di una mitragliatrice a trespolo che un soldato immobile dentro a una garitta non abbandona nemmeno per un minuto. Il Red Fort rimane comunque molto bello, anche se la maggior parte delle costruzioni interne si possono guardare solo dall’esterno e, anche se di questo non sono certo, al contrario di dodici anni fa non è più possibile salire sui bastioni. Come tutti i grandi monumenti indiani però, sopratutto a Delhi, è immerso in un bellissimo parco pieno di falchi e di silenzio, e infatti spesso quando visito un monumento mi siedo contro un albero a fumare di nascosto e a leggere un libro. Dal forte proseguo per Old Delhi, stavolta guardo soltanto dall’esterno la favolosa moschea rossa, la più grande dell’India, e passeggio per i vicoli e le strade strette, alcune ancora dedicate a una sola arte o a una sola mercanzia, rumorose, intense, che in confronto ad altre parti della città sembrano essere state dimenticate dal tempo e dal progresso e per questo hanno una bellezza sporca ed antica che non può non colpire qualsiasi turista occidentale. E’ la Delhi prima degli inglesi, che chiamarono New Delhi appunto la parte nuova in cui si stabilirono per distinguerla dalla città vecchia.

Ho deciso di restare a lungo a Delhi, così oltre a passeggiare per Connaught Place, che non è effettivamente una piazza ma una serie di portici circolari sotto i quali c’è l’India moderna fatta di ristoranti di lusso, bar favolosi e negozi di ogni marca, faccio anche un salto a visitare il Jantar Mantar, un antico osservatorio astronomico costruito nei primi anni del 1700. Le costruzioni che lo compongono a un primo sguardo sono estremamente bizzarre ovviamente, perché seguono una precisa ed unica funzione e quindi non hanno nessuna velleità architettonica, ma anche se alla seconda equazione matematica dei cartelli esplicativi la mia mente fugge altrove, è un posto estremamente affascinante, stranissimo, immerso in un piccolo parco ben tenuto proprio a due passi da Connaught Place. Passeggiarci in mezzo è un po’ come diventare matematica, diventare astronomia.

Spigolature

E’ indubbio che un turista in India si troverà quasi sempre a pagare le cose di più degli indiani. Per un occidentale può essere difficile da capire e da accettare ma è senza dubbio qualcosa a cui bisogna abituarsi subito e non farci caso, o si passerà ogni minuto della giornata a mangiarsi il fegato. A volte un turista si prende delle piccole rivincite. Quando contratta un rickshaw perché ce n’è una strada piena e nessun altro che voglia prenderne uno, quando arriva da qualche parte fuori stagione e gli hotel fanno a gara ad abbassare il prezzo delle stanze, quando magari ha già del charas e può sorridere quando cercano dii venderglielo a prezzi immaginari (m’hanno chiesto 125 euro, non in rupie, proprio in euro, e sto ancora a chiedermi come siano arrivati a quella strana cifra). Un esempio pratico: ieri volevo comprare degli adesivi di dei indiani da regalare a mio nipote. “Quanto costano?”, ho chiesto al tipo dietro il minibanchetto. “20 rupie l’uno” (prezzo, vi assicuro, insensato per un adesivo) “Mi sembra un po’ troppo” gli ho detto “Se ne prendi per 3 o 400 rupie ti faccio lo sconto.” Così gli ho regalato il mio classico:”Ok, magari torno” e mentre mi allontanavo camminando, come un’eco puerile di giustizia sentivo alle mie spalle “Va bene, 10 rupie! 5 rupie! 3 per 10 rupie!”

Un esempio di come a volte funzionano le cose in India: a Khajuraho entro in una filiale della Bank of India che all’esterno sfoggia a lettere giganti pitturate d’azzurro il fatto che cambiano valuta straniera senza commissioni. Il cambio è pessimo come mi aspettavo ma poi mi dicono anche che dovrei pagare una commissione, economicamente insensata. “Ma..e quello che c’è scritto fuori?” chiedo “Eh..non è vero.”, mi risponde l’impiegato dietro lo sportello. Da nessuna parte come in India, come diceva Burroughs, “Niente è vero, tutto è permesso.”

India 2013 6: Amritsar, Mcleod Ganj, Leh

AMRITSAR, Punjab 13.05

Sul treno, comodo, rapido, costoso e con aria condizionata che da Delhi mi porta ad Amritsar, per la prima volta nella mia vita una ragazza indiana mi rivolge la parola. Parliamo del cibo indiano, delle nostre destinazioni e delle cose di cui si parla quando ci si conosce appena. E’ allora che penso che ci sono stati momenti in cui mi è sembrato che questo viaggio in India sia stato meno intenso del viaggio di dodici anni fa. Per certi aspetti probabilmente lo è stato, come tutte le volte che si va in un paese per la seconda volta, e probabilmente perché ho visto posti diversi. Ma in realtà forse in questo viaggio, avendo più tempo a disposizione, non ho visto solo cose intense, ne ho viste anche molte altre, e in definitiva forse ho visto più cose. Sono tornato in India molto più vecchio ma anche molto più ricco di quando ci venni la prima volta. Questo mi ha permesso di non dormire per terra, di prendere di tanto in tanto un treno costoso, di frequentare i bar e i ristoranti. Ed è così che ho visto un India che probabilmente dodici anni fa stava nascendo o se c’era già era troppo cara per le mie finanze di allora. Un India diversa, meno intensa è vero delle sue strade e della Sleeper Class dei treni a lunga percorrenza ma anche più nuova, moderna, ovvia eppure quasi inaspettata. Sarebbe un errore freak credere che ci sia una “vera” India, che corrisponde ai cadaveri bruciati sui ghats di Varanasi, ai sadhus (per i quali tra l’altro non ho il minimo rispetto) pitturati e nudi, ai devoti che strisciano davanti alle immagini degli Dei, alla polvere, ai mendicanti e alle mucche per strada. Insieme a quest’India, tradizionale, immutabile ed immortale, ce n’è una nuova, contemporanea, fatta di giovani ricchi, uomini e donne colti ed eleganti, che guidano SUV o macchine sportive e indossano gioielli e vestiti firmati. Talvolta, come in tutto il mondo, sono un po’ snob, e li vedi sentirsi diversi da altre classi sociali più basse o sorridere di qualcuno che viene da uno sperduto villaggio nelle montagne e non sa cosa sia un Ipod. Non credo, come dicono in molti, che sia una questione di occidentalizzazione. E’ vero che molti giovani indiani, quasi solo nelle grandi città comunque, vestono in pantaloni e blue-jeans ma non credo che questo sia sufficiente per sostituire una cultura, e mi trovo sempre in disaccordo con chi mi fa notare che molte modelle indiane sono molto bianche. In realtà non sono molto bianche, sono modelle come le nostre. E come le nostre, da quando i pubblicitari hanno smesso di puntare sull’emulazione, creature extraterrestri che non hanno quasi nulla in comune con le donne di tutti i giorni. La nuova ricca generazione indiana non mi sembra occidentalizzata, mi sembra anzi sempre più orgogliosa delle sue radici e delle differenze che sanno benissimo esserci tra l’India e gli altri paesi (per quanto presumo sia una conoscenza indiretta dato che mi sembra che gli indiani, per ragioni economiche, viaggino ancora poco all’estero). Certo, tutti quelli con cui ho parlato del recente sviluppo dell’economia indiana, mi hanno detto sempre la stessa cosa: “Si è solo allargata la forbice. Le classi medie sono cresciute e i ricchi sono diventati più ricchi, i poveri sono rimasti poveri.” La stessa identica cosa che mi hanno sempre detto anche in Brasile, il paese che insieme all’India e alla Cina forma il cosiddetto BRIC, ovvero la triade economica che sembrerebbe destinata a mangiare l’Europa a livello economico. Le cosiddette economie emergenti. Evidentemente, quando si emerge così in fretta, bisogna liberarsi della zavorra, è la legge spietata del Capitalismo, o almeno credo. E anche se non lo credo, è comunque quello che accade.

Amritsar, come tutto il Punjab, è la terra dei Sikh. Il sikkhismo è una religione relativamente recente, i cui fedeli, perlomeno i maschi, sono facilmente riconoscibili per alcune caratteristiche esteriori decisamente particolari, come i capelli lunghissimi, il turbante – obbligati ad indossarlo dopo che sono stati “battezzati” tramite una cerimonia d’iniziazione – e un coltello che spesso portano a tracolla (“Non per ferire ma per difendere noi stessi e gli altri”, mi dirà uno di loro). I Sikh hanno qualcosa del monaco guerriero, credono religiosamente nell’etica e nel lavoro e in questo senso forse la religione ha qualcosa di calvinista. Non ho idea se ci sia davvero una legge in India che obblighi a portare il casco in motocicletta, quello che è certo è che i Sikh, per cui il turbante, o quantomeno il coprirsi la testa è un obbligo di fede, ne sono esentati. Come mi ha raccontato Amelie a Gwalior, come conseguenza forse inaspettata e collaterale, non indossano il casco nemmeno quando fanno rafting. La maggior parte dei Sikh, in tutta l’India, sembrano ricchi, o quantomeno benestanti, e di loro si dice, anche tra turisti, che ci si può sempre fidare. Da una parte può essere vero, se devo scegliere un rickshaw driver e tra loro c’è un Sikh non ho dubbi in proposito, dall’altra immagino sia un classico luogo comune, come quello che dice per esempio che i Kashmiri sono zingari e quindi disonesti, e così via. I Sikh credono in una serie di guru che si sono succeduti nel tempo: il primo fu Guru Nanak, che aveva idee piuttosto interessanti e democratiche, proclamando l’uguaglianza tra gli uomini e rifiutando di conseguenza il sistema delle caste. Guru è l’unione di due parole sanscrite: GU-oscurità e RU-disperdere, ed è pertanto, in tutte le culture, colui che disperde l’oscurità. Vabbé questo per dire che ad Amritsar un buon due terzi della popolazione indossa un turbante, e di tanto in tanto si incontra per strada qualcuno che porta a tracolla un coltello ricurvo. Altri simboli fondamentali del sikkhismo sono il pettine e un bracciale di ferro, nato come strumento di offesa e di difesa e ora trasformato in simbolo di eternità. Precludendo il sikkhismo quasi tutti i piaceri della vita, come l’alcool, il fumo, i narcotici e il sesso prima del matrimonio, difficilmente diventerò sikh in questa vita ma gli uomini hanno comunque una loro affascinante e cavalleresca dignità, come se fossero davvero sempre pronti a portare giustizia ai deboli e agli oppressi.

La prima cosa che faccio prima di entrare al Golden Temple è farmi cazziare perché sto fumando. Sapevo che ovviamente all’interno del tempio e nelle sue vicinanze non si poteva fumare e per questo stavo assaporando l’ultima sigaretta a circa un chilometro di distanza quando un vecchio mi impone di gettarla. Lo faccio subito e tengo per me la domanda fondamentale su quanto sia vasta l’area d’influenza del tempio, che in effetti resterà un mistero. Come in tutti i templi sikh, bianchissimi, candidi, che da lontano a volte sembrano castelli fatti di nuvole, per entrare, scalzi, si attraversa una piccola pozza d’acqua per purificarsi, e bisogna coprirsi il capo, cosa che io faccio acquistando a 10 rupie un’insolita bandana arancione che indosso colmo di dubbi ma rispettoso delle usanze. Il Golden Temple è davvero magnifico. E’ enorme, con all’interno la splendida Pool of Nectar, nome a cui sono debitori in un modo o nell’altro, molti videogiochi fantasy. Nella grande vasca-piscina piena di pesci simili a carpe koi, i fedeli si bagnano e si purificano. Il tempio contiene una cucina pubblica comune e vari altri edifici, e sopratutto, al centro della Pool of Nectar il fantastico tempio d’oro, che brilla al sole e quando il cielo si oscura sembra confondersi col suo riflesso nell’acqua. Faccio una fila indimenticabile per entrare, e anche se l’interno è bellissimo, e intenso, con gente che canta, si inginocchia e prega, la cosa che mi colpisce più di tutte è quello che mi dice un giovane sikh: “Perché vedi, là dentro, per noi c’è Dio” Il Golden Temple era qualcosa che volevo vedere da sempre, e non mi delude. C’è qualcosa di magnifico in tutto quel bianco e quell’oro, in quella pulizia assoluta che viene garantita da decine di persone che continuamente lavano e spazzano i pavimenti, c’è qualcosa di puro. Una forza, un orgoglio religioso di poter parlare al proprio dio in qualcosa di così bello, di così unico.

CERIMONIA DI CHIUSURA DEL CONFINE INDIA-PAKISTAN

Sulla strada per la frontiera, il minivan che ha vissuto troppi chilometri si ferma e non vuole ripartire. Così passiamo tre quarti d’ora nel nulla di una di statale mentre l’autista cerca in ogni modo di riaccendere il motore. Due indiani (al turista questo viene risparmiato) tentano anche un’improbabile spinta nel caldo invincibile del pomeriggio, senza successo. Finché qualcuno ha la notevole idea di spegnere l’aria condizionata e il minivan miracolosamente si rimette in moto. E allora mi ricordo della frase che mi disse il controllore di un treno, che pur non avendo avuto nessun guasto, era in ritardo di più di cinque ore: “This is India, sir.” All’interno del furgone un turista indiano (gli altri quattro con cui mi sto schiacciando nell’abitacolo sono due coppie con bambini che viaggiano insieme) mi fa notare come nessuno si sia arrabbiato o scomposto, perché a volte in India le cose funzionano a stento e gli indiani lo sanno benissimo e accolgono quasi tutto con un sorriso. Gli indiani sono uno dei popoli più allegri che ho incontrato viaggiando. Hanno qualcosa di brasiliano. Ma se, generalizzando al massimo, i brasiliani vivono in una sorta di Carpe Diem fatalista in parte obbligato dalle circostanze, l’allegria degli indiani mi sembra derivi invece dalla loro scala di valori. Sembra sappiano benissimo cosa è davvero importante: la famiglia, la felicità, la serenità, la religione. Tra l’altro, per quanto in India gli dei siano dappertutto, è molto difficile che un indiano parli a un turista di religione o di quello in cui crede. E se a volte è naturale, perché sospettano una profonda ignoranza da parte degli stranieri, c’è spesso credo anche una specie di ritrosia, come se fosse un argomento troppo intimo ed importante per sprecarlo in una conversazione improvvisata con uno sconosciuto. Per questo nessuno si scompone, e tanto meno io, anche se la mia quiete è più simile alla rassegnazione, quando un minivan si ferma e sembra che non voglia mai più ripartire. Non è niente, ne arriverà un altro, si farà in un altro modo. Non conta, non importa. E’ solo qualcosa di cui ridere e sorridere, l’occasione per sgranchirsi le gambe, conoscersi e raccontarsi, un’esperienza da conservare e da trasformare in ricordi futuri e in allegria.

L’india e il Pakistan, da quando l’impero inglese si dissolse e si formarono due nazioni separate, una a prevalenza hindu e l’altra, il Pakistan, una repubblica islamica, non sono mai andate d’accordo. Se ricordo bene, non molti anni fa è stato scoperto un remotissimo passo di montagna che permetterebbe l’attraversamento indisturbato dei confini, e da allora entrambe le nazioni tengono guarnigioni di giovani soldati ghiacciati a sorvegliarsi a vicenda in mezzo alla neve. Più di recente, degli attentati a Mumbai del settembre 2008, sono stati accusati, e sembra che le accuse fossero fondate, i servizi segreti pakistani. E ovviamente, il Kashmir è da sempre motivo di conflitto ed odio reciproco. Dal 1971, tutti i giorni si tiene la Cerimonia di chiusura del confine tra India e Pakistan, uno degli spettacoli più strani, remoti, impensabili che ho visto in vita mia. Innanzitutto, pur essendo un giorno feriale, gli indiani sono migliaia, tra uomini, donne e bambini. Con bandiere, i colori dell’India dipinti in faccia, cappellini, e tutto un campionario di orgoglio nazionale che non vede l’ora di esplodere. La Cerimonia in sé è abbastanza semplice. Al tramonto, soldati alti e belli in divise decisamente bizzarre, gli indiani in cachi, i pakistani in nero, fanno una pantomima marziale sfidandosi l’un l’altro con gesti codificati finché le bandiere alla frontiera non vengono ammainate e il confine tra i due paesi viene chiuso, per riaprire alle 10 del mattino. Le squadre di soldati, dopo aver fatto una specie di spaccata verticale simile a un calcio di Kung Fu, corrono a passo dell’oca verso il cancello del confine, dove si fermano improvvisamente mettendosi in posa da bulli rivolti verso i loro omologhi avversari dall’altra parte che fanno lo stesso. Ma quello che sconcerta è effettivamente il pubblico indiano. Grazie a dio per una volta c’è una parte delle gradinate riservata agli stranieri e quindi non devo schiacciarmi tra migliaia di indiani, divisi in uomini e donne, che spingono, urlano, ballano, corrono con bandiere, cantano a squarciagola e rispondono a tono allo speaker che anche se non ce ne sarebbe nessun bisogno non perde occasione per caricarli e far loro urlare “Hindustan!Hindustan!” Dalla parte pakistana sono molti meno, anche loro ovviamente divisi tra uomini e donne ma riescono comunque a farsi sentire mentre inneggiano al loro paese. E’ una specie di guerra gridata, cantata, una battaglia a distanza, in cui il massimo della violenza è uno sfiorarsi di baffi e di mostrine. Molto più tribale, devo ammettere, di quanto avessi immaginato. Uno spettacolo che mi lascia divertito e confuso, come se avessi assistito a qualcosa di furioso e selvaggio ma sopratutto misterioso e difficilmente assimilabile, davanti a cui posso soltanto ridere, scuotere la testa e ricordarmi quanto sono, in tutti i sensi, lontano.

McLEOD GANJ, Himachal Pradesh 16.05

Mcleod Ganj, o Upper Dharamsala, ha due facce. Da una parte è un piccolo paese di montagna e di villeggiatura, pieno di gelaterie, bakeries che vendono torte e cornetti, ambulanti che vendono palloncini, agenzie di viaggio e ristoranti, infestato di SUV e di macchine enormi, che dimostra come il sogno – ahimè totalmente irrealizzabile – di qualunque guidatore indiano sia partire ed arrivare a destinazione senza fermarsi mai semplicemente facendosi strada a colpi di clacson. Per quanto anche in India l’equazione cazzo piccolo=macchina grande sia inesorabilmente vera, agli indiani va perlomeno concessa l’attenuante per cui al contrario di quanto si vede dalle nostre parti, i loro SUV o le loro jeep sono di solito stipate di famiglie allargate, molto oltre il numero massimo stabilito da qualunque legislazione o casa automobilistica. Quella che viene definita piazza, in cui è illogicamente proibito fumare, è in realtà un largo incrocio dove convergono le strade principali, che sopratutto il week end si trasforma dall’alba al tramonto in un gorgo d’ingorghi di macchine incastrate tra loro, presi in carico con indifferenza da poliziotti annoiati di soffiare in un fischietto che sembra non ascoltare nessuno. In molti altri paesi, avrebbero limitato il traffico in un paese così piccolo, con spesso moltissima gente a riempire le sue strade strette quasi tutte a senso unico. Purtroppo gli indiani non ci pensano neppure, ed è un peccato perché qui il continuo suonare di clacson è una nota drammaticamente stonata. Dico questo perché McLeod Ganj è un posto che ho, come primo pensiero, cercato di non farmi piacere: idea che giorno dopo giorno è tragicamente fallita (ci guarderò tre Gran Premi di F1). L’altra faccia, decisamente più mistica ed interessante di Mcleod Ganj, è il fatto che è la casa del Dalai Lama e il luogo in cui il governo tibetano è in esilio dal 1959, nove anni dopo l’invasione cinese del Tibet. Il Photang, residenza ufficiale del Dalai Lama, è all’interno del Tsuglagkhang Complex, un enorme edificio a più piani che ricorda vagamente un dormitorio studentesco anni ’70, che contiene anche il piccolo Museo con foto bellissime e terribili della storia dell’invasione cinese del Tibet, biblioteche, immagino stanze per i monaci, e il bellissimo Kakachakra Temple, al cui interno è purtroppo proibito fare fotografie. E’ un peccato perché c’è un grande Buddha azzurro, e sopratutto le pareti sono state affrescate di mandala e immagini di divinità da uno o più pittori di eccezionale capacità. In una teca di vetro c’è una strana statua di un uomo scheletrico, nella classica posizione della meditazione, un’immagine che non ho mai visto e che mi colpisce abbastanza profondamente, come a volte solo il mistero sa fare. Come imparerò poi, è una rappresentazione, di cui ignoravo l’esistenza, del Buddha prima dell’Illuminazione, consumato dal dolore, scavato dal desiderio, affamato dai dubbi. Il Tempio è spesso pieno di monaci che parlano tra loro, di stranieri in pellegrinaggio, di comitive di religiosi o volontari con cartellini appesi alle camicie, è molto vivo, ma non ci vado spesso. Il Buddhismo tibetano mi incanta. Mi incanta la sua magia, il numero enorme di oggetti e di figure rituali, di decorazioni, ma non sono buddista e non credo che lo diventerò. Tra l’altro, da pochissime letture lo ammetto, il Buddhismo, sopratutto quello tibetano, mi sembra dannatamente complicato, con un’infinità di cose da sapere e da ricordare, un’infinità di cose in cui credere, precetti da seguire. Anche se non avessi mai letto Darwin, non farebbe comunque per me.

Passeggio spesso, fermandomi quasi sempre a metà strada per un piatto di momos che mangio guardando le montagne, fino a Baghsu, un piccolo paese a 2 km. di distanza e bassezza rispetto a McLeod Ganj. Baghsu, nonostante ci sia un tempio hindu piuttosto frequentato, è mancante di tutta la parte mistica che c’è a McLeod Ganj. E’ un piccolo paese di villeggiatura in montagna. Gli shop per le strade non vendono mandala, oggetti rituali e artigianato tibetano, vendono soltanto un’infinita serie di giocattoli, paccottiglia, chincaglieria, che corrisponde esattamente a quello che di solito si compra per sé o per i propri figli quando si va in vacanza, e poi ci si pente di avere comprato. Salendo un ripido sentiero si arriva a delle piccole cascate che offrono un bel panorama, e proprio davanti al tempio c’è una folle piscina pubblica, che in controtendenza è per una volta microscopica e quindi si rivela una specie di grande vasca di acqua azzurra sempre circondata da maschi indiani in costume da bagno che non vedono l’ora di tuffarsi l’uno sull’altro. Baghsu sembra un paese dei nostri appennini durante l’estate, è curioso trovarlo in India, finché non penso che a patto di scendere a qualche compromesso, l’India a un turista offre qualunque cosa, qualunque paesaggio e qualunque esperienza. Cammino anche a vedere la piccola chiesa che c’è tra i boschi ai lati della strada che scende verso Dharamsala, dal magnifico nome Church in the Wilderness, assolutamente meritato. Per quanto la stranezza di essere in India si sveli nell’obbligo di togliersi le scarpe per entrare, la Chiesa è un’inaspettata visione medievale, e non mi sorprenderebbe se all’interno, sotto una delle bellissime vetrate che ritrae un cavaliere, ci fosse stata un tempo una Tavola Rotonda. Come un’altra chiesa che vidi dodici anni fa a Chennai, anche questa è piena di tombe e di lapidi di ufficiali e capitani inglesi, morti in posti sconosciuti, uccisi da tribù scomparse o consumati dalla malaria lontanissimo da casa.

Al centro di McLeod Gangi c’è un favoloso stupa, Chorten in tibetano, circondato da ruote di preghiera e con all’interno un magnifico e gigante Buddha azzurro, che ipotizzo sia Alokitesvara, il Bodhisattva della Compassione. Non ne ho la certezza ma è comunque l’unico Buddha che conosco, o perlomeno di cui conosco il colore. Dal poco che so, tutte le scuole di pensiero buddhista concordano ovviamente sull’esistenza di Siddharta, il giovane principe indiano che un giorno uscendo dal castello del padre si rese conto del male, dell’ingiustizia e del dolore che regnava nel mondo. Le discordanze, simili a quelle che il Cristianesimo bollò d’eresia bruciandole sul rogo, sono sull’essenza di Siddharta, il Buddha, il primo Buddha, il Buddha supremo. Alcuni credono che Siddharta fosse umano e abbia poi raggiunto lo stato di illuminazione e quindi altre figure divine siano semplicemente sue manifestazioni o Bodhisattva, creature illuminate ma a un livello religioso-gerarchico comunque inferiore al Buddha, (in altre scuole un Bodhisattva è chi pur avendo raggiunto l’Illuminazione, ci rinuncia scegliendo di aiutare gli altri a raggiungerla). Altri pensano che Siddharta fosse un essere soprannaturale e sia quindi possibile l’esistenza di altri esseri simili, come lui Buddha a tutti gli effetti. Perché in una notte stellata mi ero chiesto: perché i Dalai Lama, esseri superiori, perfetti, guide spirituali e predestinati, continuano a reincarnarsi? Se non è concesso a loro di interrompere il ciclo delle rinascite, a chi altri? Se non hanno naturale accesso al Nirvana i Dalai Lama, chi può sperare di raggiungerlo? La risposta tibetana a questo mio quesito banale è che la reincarnazione dei Dalai Lama è una concessione, non una punizione. A loro, così speciali, è concesso di reincarnarsi nel Buddha azzurro, Avalokitesvara appunto, il Bodhisattva della Compassione. Per quanto la teologia come spesso accade diventi anche in questo caso autoreferenziale, dando risposte puramente di fede, in questi giorni tranquilli di montagna, accetto la spiegazione con una stonata saggezza, e annuisco quando ci penso, come se fosse imperdonabile non esserci arrivato da solo.

La premessa è che qui (e anche più sopra in realtà) tutto diventa ancora più vago e immaginario del solito, ovvero, da profano assoluto e Bignami di improvvisazione, disquisisco con quieta naturalezza del Buddhismo, tibetano e non. Detto quindi ora e per sempre che del buddhismo ho solo vaghe nozioni (anche perché dietro l’apparente semplicità c’è una complessità enorme), e che nei secoli si è diviso in scuole anche molto diverse tra loro (come per esempio lo Zen giapponese) la faccenda dei Piccoli Buddha è una delle cose più affascinanti e allo stesso tempo incredibili, a uno sguardo razionale, del buddhismo tibetano. Non mi viene in mente nessun altra religione che abbia qualcosa di simile. Il concetto è meraviglioso, perché sa di eletto, di predestinato, e a uno sguardo pop ha certamente qualcosa di super eroico.

Il Buddhismo tibetano deriva parte della sua complessità dal Tantrismo, ed è infatti a volte definito anche Buddhismo tantrico. Il Tantrismo è un’antichissima religione di cui si sa relativamente poco in quanto probabilmente elitaria e certamente riservata agli iniziati, con rituali segreti e cifrati, a volte in netto contrasto con alcuni principi fondamentali delle religioni più conosciute, come l’importanza data ai riti sessuali, da cui dovrebbero probabilmente derivare le sculture erotiche dei templi di Khajuraho. Per fortuna, e anche perché è tutto quello che so, il buddhismo tibetano riprende dal Tantrismo l’oggettistica e la ritualistica, o quanto meno il grande numero di oggetti magico-religiosi e di pratiche rituali. Questo comporta che per un non iniziato ci siano comunque magnifiche esteriorità, che svelano bellezza e significati anche ad uno sguardo rapido, pigro e non mistico. Una sono certamente i mandala, disegni codificati su diverse superfici (tela, pareti, sabbia), illeggibili realmente per qualunque profano, e che servono a tramandare conoscenza, ad aiutare il defunto o chi sta per morire a prepararsi ad affrontare il viaggio nel bar do (il periodo di 49 giorni, 7 x 7, che trascorre tra la morte e l’eventuale successiva reincarnazione) e che rappresentano l’universo e spesso i due inferni tibetani, uno di fuoco e l’altro di ghiaccio. Anche a uno sguardo ignorante, i mandala sono però forme d’arte purissime e favolose, complicate, minuziose, diversissime e per questo ancora più interessanti, da qualunque forma d’arte occidentale. Gli inferni tibetani, di cui ignoravo l’esistenza, all’inizio mi hanno lasciato perplesso. Il Buddhismo non ha un Paradiso, perché il Nirvana in realtà non è qualcosa, è assenza di qualcosa. Assenza di male, di dolore, di inquietudine, di ignoranza, di passioni, di desiderio. E se l’Inferno, per lo meno come lo intendiamo noi, è una metafora della paura, pensavo che fosse incompatibile con la dottrina buddhista, e che quindi il Buddhismo avrebbe dovuto liberarsene all’inizio della sua storia. Ma i due inferni tibetani, se ho capito bene, mancano della caratteristica essenziale che fa di un inferno l’Inferno, e cioè l’eternità. Sono solo strade, sono solo passaggi. Anche il mistero primo, ovvero la morte, per il Buddhismo, compreso ovviamente quello tibetano, come d’altronde la vita, è semplicemente uno stadio di passaggio. Altre due splendide, semplici, potenti e più comprensibili esteriorità del buddhismo tibetano sono le bandiere di preghiera e le ruote di preghiera. Le bandiere, ognuna di un colore diverso e quasi sempre appese insieme, hanno disegnato sopra preghiere e immagini di divinità; le ruote, che in realtà sono cilindri girevoli su cui appaiono scolpiti in bassorilievo dei mantra, sono solitamente disposte in sequenza e il fedele in questo caso le gira ad una ad una, o, nel caso sia unica, enorme, quasi sempre racchiusa in una specie di piccolo tempio, il devoto compie più giri in senso orario muovendo ed accompagnando la ruota, che ad ogni giro fa suonare una campanella. Ogni volta che il vento frusta una bandiera, una preghiera viene detta. Ogni volta che una ruota gira, una preghiera viene pronunciata. (e la preghiera in entrambi i casi si libra nell’aria e nello spazio, investendo così tutti gli esseri viventi, come leggo su un sito web) I mantra, che un libro che ho letto da supergiovane definiva “sacre parole di potenza” sono spesso sillabe (l’ “OM” è certamente la più famosa, la parola suprema) o gruppi di sillabe o parole sacre che vanno pronunciate più volte al fine di liberarsi da qualcosa o ottenere meriti utili durante il passaggio nel regno dei morti, fino al punto da riuscire a saltare alcuni dei livelli o passaggi della reincarnazione. Come imparo da un cartello fortunatamente tradotto all’ingresso del Chorten che c’è al centro di McLeod Gangj, ripetendo un particolare mantra (Om Ma Ni Padme Hum) per diecimila volte, si evita di rinascere in uno dei tre Regni inferiori, ripetendolo per un milione di volte si raggiunge l’irreversibile stato di Bodhisattva, ripetendolo per dieci milioni di volte si raggiungono i quattro stadi (qui vado un po’ a tentoni, lo ammetto) della perfetta Illuminazione. Ora che lo sapete, mi aspetto che al mio ritorno, almeno uno di voi sia diventato perlomeno un Bodhisattva

E a proposito di Karma. Il Karma è una sorta di energia che produciamo, una tempesta di cause e di effetti, e i tibetani spesso lo identificano come un vento che spinge una nuvola rossa. E’ per certi versi un concetto splendido, che unisce il libero arbitrio a un giusto ed insindacabile giudizio finale, che non perdona ma premia con esattezza matematica, e che dovrebbe in teoria portare gli esseri umani a tenere un adeguato comportamento etico e morale mentre sono in vita. L’idea di Karma però, apparentemente così affascinante e così beatnik, porta con sé, involontariamente forse ma inevitabilmente, la giustificazione religiosa delle differenze tra gli esseri umani, e nell’induismo è infatti certamente legata al sistema delle caste. Se quello che siamo è il risultato della nostra vita precedente, non siamo più tutti uguali davanti a Dio, né, in mancanza di un Dio, agli uomini, e si può dire quindi che chi sta peggio se lo merita (e forse anche chi nasce deforme o “ritardato”), e tutto quello che l’inferiore può fare è condurre un’esistenza proba ed eventualmente raggiungere l’illuminazione che porrà fine al ciclo delle rinascite o reincarnarsi in un banchiere invece che in un mendicante. E’ questa predestinazione, ineluttabile, che mi ha sempre lasciato perplesso sul Karma, perché è un’idea mistica che ha come conseguenza un’ enorme portata sociale. Questo, molto più che i piccoli Buddha, anche in mancanza di dei, mi suggeriscono l’idea di teocrazia, invincibile, innata, di tutte le società che sono credenti in religioni in cui sono coinvolti i concetti di karma e di reincarnazione. E ovviamente, come tutti i moderni, considero il sistema delle caste indiano (molto più complesso di quanto si pensi e ufficialmente comunque abolito da qualche anno) un’incomprensibile barbarie antica, che deriva in parte da un brano del Rig Veda che sembra scritto da Tolkien.

Quasi tutti i giorni compongo il mio personale mantra della passeggiata, ovvero cammino il sentiero dietro il tempio dove ci sono solo bandiere e ruote di preghiera, silenzio, e ovviamente mucche. E un gigantesco toro nero che sembra fare da guardiano, e che quando si mette di traverso occupando interamente il passaggio provoca pause riflessive da parte dei turisti, sorrisi e versi incomprensibili per tentare inutilmente di farlo spostare, finché chiunque non scopre che è logicamente un salto della fede, e l’unica cosa da fare per proseguire è sfiorarlo col cuore e la mente puri, o anche soltanto allegri, e il toro, pur restando assolutamente immobile, cederà con indifferenza il passo al viandante. Il sentiero ha da una parte i boschi e l’orizzonte di montagne polverose di neve, e dall’altra una serie infinita di bandiere di preghiera, rocce scolpite e dipinte con dei mantra, innumerevoli e minuscole statue appena abbozzate del Buddha, e sopratutto sulla panchina di pietra su cui mi siedo di solito a metà strada, un’atmosfera totalmente disneyana. Uccelli colorati che bisbigliano, alberi che fanno rumore di foglie, pochi fedeli o monaci che camminano il sentiero in preghiera più volte, e una natura totale che sembra felice, sacra ed intoccabile, e al mio ateismo devo concedere che è uno di quei luoghi piuttosto misteriosi in cui la pace sembra avere qualcosa a che fare con l’energia invece che con la quiete. I miei giorni su una panchina del sentiero dietro al Tempio, il charas, la pace disneyana e il tempo libero, non possono non mettermi una domanda in testa, anche se non so a chi farla e so che è retorica. Non la farei ai monaci, che avendo fatto una scelta, anche se magari temporanea, di vita, mi darebbero risposte troppo sicure, troppo giuste. E nemmeno al Dalai Lama, a cui ammetto di riconoscere coraggio, forza e saggezza ma nessuna caratteristica divina o soprannaturale. Una tarda mattina, mentre sono seduto su una pietra, passa un anziano, che cammina il sentiero con un rosario in mano. Il rosario è lungo, quindi avrà 108 grani, numero sacro per il Buddhismo tibetano e per l’Induismo: secondo la tradizione induista gli dei hanno 108 nomi, e per i tibetani 108 sono i peccati che gli uomini possono commettere e 108 le bugie che possono dire. Mi chiede: Stai riposando? Ascolto il silenzio, gli rispondo Very Good, mi dice. Tutto qui, “Very Good”. E’ a lui, che cammina salmodiando preghiere che non capisco, alla sua faccia di cuoio appiattita sugli occhi sottilissimi, che vorrei chiedere: “Tu, sai qualcosa che io non so?” Alla ragazza che avanza lentamente lungo il sentiero di bandiere facendo girare ad una ad una le ruote di preghiera, vorrei chiedere: “Tu, sai qualcosa che io non so?” E anche alla signora vestita nell’ abito tradizionale tibetano che inginocchiata di fianco a uno stupa intona un mantra ipnotico in ginocchio, con un campanello in una mano e un tamburello nell’altra a scandire il ritmo della voce, vorrei chiedere: “Tu, sai qualcosa che io non so?”

L’invasione cinese del Tibet nel 1950, ad uno sguardo storico superficiale, cioè il mio, non ha niente di speciale, nulla che la differenzi da molte altre invasioni del passato o per restare in Occidente, dall’espansione nazista verso est prima dello scoppio della seconda guerra mondiale. Un’ ottusa ferocia, la distruzione dei luoghi di culto e dei siti storici al fine di cancellare la cultura, la colonizzazione del territorio conquistato, non so quanto forzata, per soppiantare la cultura precedente. Come caratteristica contemporanea, si aggiunge il fatto che la Cina ha usato il territorio tibetano per effettuare esperimenti nucleari. Ciò che mi colpisce quindi, il carattere eccezionale, dell’invasione cinese del Tibet, è la gratuità. Il Tibet è un paese enorme, caro a moltissime culture e religioni perché da esso nascono quattro dei fiumi più famosi dell’Asia: il Brahmaputra, l’Indo, il Fiume Giallo e il Mekong. Il “Tetto del mondo”, “il Paese delle nevi”, è sempre stato un luogo lontanissimo, tutt’ora difficilissimo da attraversare via terra per gran parte dell’anno, a livello strategico, per quanto confinante con molte altre nazioni, probabilmente inutile. Gli inglesi, nel loro sogno imperiale, avevano già conquistato il Tibet nel 1904: lo lasciarono dopo un anno accontentandosi di qualche promessa tibetana, evidentemente rendendosi conto che governarlo non poteva presentare un vantaggio. L’invasione cinese non ha nemmeno niente a che vedere con l’ossessione americana per Cuba, che presentava problemi e pericoli ben più reali di un paese come il Tibet che probabilmente viveva un secolo indietro e la cui potenza militare, come ha purtroppo dimostrato la rapida disfatta della resistenza tibetana, era tutto sommato ridicola. Tempo fa ho letto che c’è chi difende l’invasione cinese, blaterando le solite stronzate che ancora oggi qualcuno ripete per il periodo fascista: i cinesi hanno portato progresso e infrastrutture in un paese che stava perdendo il passo col tempo e che non era democratico. (idea fragilissima tra l’altro purtroppo applicabile alla maggior parte delle guerre contemporanee) E’ vero che in Tibet esisteva la servitù della gleba ma come i ponti e i palazzi per il fascismo, la maggior parte dei tibetani le strade e le linee telefoniche costruite dai cinesi non le hanno mai viste, costretti a scappare attraverso le montagne più inospitali del pianeta o vivendo rinchiusi in sperdute prigioni medievali. E’ comunque vero che il concetto di democrazia, perlomeno nel significato che gli attribuiamo in Occidente, è alieno al Tibet. Il Dalai Lama, essendo una reincarnazione (e a uno sguardo razionale, i criteri di scelta del bambino predestinato appaiono quantomeno esoterici) non viene eletto dal popolo, anche se è a tutti gli effetti il capo del Governo o comunque il referente politico del Tibet. Non si può parlare di teocrazia, perché nel Buddhismo non esistono veri e propri dei, né testi religiosi unici (i tibetani ne hanno quasi duecento) da seguire alla lettera, ma per sua stessa essenza il Tibet non può e non potrà mai essere una democrazia. Per questo credo, l’ingenuo, e un po’ vile, tentativo di tenere i piedi in due staffe del premier inglese Gordon Brown, che ha ricevuto il Dalai Lama nella residenza dell’Arcivescovo di Canterbury, è stato apparentemente un patetico fallimento diplomatico. I cinesi si sono comunque infuriati, perché sanno benissimo che la figura del Dalai Lama è anche politica, e non solo religiosa. Pur essendo di sinistra – qualunque cosa significhi oggi – e avendo letto soltanto una sua biografia, non ho mai avuto nessun rispetto né fascinazione per Mao. Ho un accendino con la sua faccia che ho comprato in Cina ma lo considero, forse a torto, una specie di icona pop, non potendomi permettere un Mao di Andy Wharol. Tra i tanti suoi crimini mascherati da errori, o da sforzi, l’invasione del Tibet rimane certamente uno dei più gratuiti, insensati, crudeli, cattivi. Come un bambino malvagio che picchia un suo coetaneo più debole e poi se ne vanta da solo davanti allo specchio. Il Governo cinese è inoltre responsabile anche di un altro, molto più recente, misfatto (parola ottocentesca che si adatta alla perfezione all’occasione) che purtroppo dimostra inequivocabilmente che quando un paese forte alza la voce o come in questo caso oppone un muro di silenzio, non ci sono organismi internazionali, associazioni o trattati che abbiano valore o potere, e che il sogno di una giustizia mondiale è una filastrocca per giornalisti: il rapimento, il 17 maggio 1995, del bambino (e della sua famiglia) che dovrebbe essere la reincarnazione del decimo Panchen Lama, la seconda carica del Tibet più importante dopo il Dalai Lama, anche se la sua funzione è più religiosa che politica. Gedhun Choekyi Nyima, è stato rapito quando aveva sei anni, appena tre giorni dopo che il Dalai Lama lo aveva riconosciuto come l’ undicesimo Panchen Lama, e tutt’ora la sua sorte è ignota. E’ definito il più giovane prigioniero politico del mondo. Nessuna delegazione straniera è mai riuscita a vederlo o anche soltanto a tenere in mano una sua foto recente. Alle ripetute interrogazioni internazionali che negli anni si sono succedute, il governo cinese ha risposto sempre nello stesso modo, solo apparentemente arrogante, in realtà una dimostrazione della certezza dell’immunità che deriva dalla forza: “Il bambino” – che ormai tra l’altro è o dovrebbe essere un ragazzo di 24 anni – “sta bene ma lui e la sua famiglia vogliono soltanto condurre una vita felice, lontano dai media e dalle attenzioni del mondo. “ Tutto questo sarebbe già di per sé grottesco se il governo cinese non avesse anche estratto dal cilindro un’ altra personale reincarnazione del Panchen Lama: un bambino cinese, figlio di due dirigenti del Partito Comunista. Al di là dell’ovvio disinteresse della maggior parte dei tibetani, i cinesi hanno così commesso una colpa doppia: non hanno rovinato la vita di un bambino, ma di due bambini, perché immagino che la reincarnazione cinese, per forza di cose ignaro di qualunque cosa riguardi il Buddhismo tibetano, avrebbe preferito passare il tempo a giocare a Shaolin Soccer coi suoi amici invece di diventare forzatamente il “finto” Panchen Lama. Penso ai suoi genitori. Mi chiedo se li abbiano obbligati, se adesso girino in Lamborghini o siano semplicemente scimmie ubbidienti.

McLeod Ganj è ovviamente piena di monaci, che camminano per le sue poche strade, conversano, bevono caffè nei bar e cenano nei ristoranti. Tra loro ci sono anche delle donne, difficilmente riconoscibili a causa dei capelli rasati a zero (ne ho viste soltanto due, che non so perché avevano i capelli lunghi raccolti in una specie di chignon) e della larga tonaca, che è la stessa per maschi e femmine. Mi aveva già colpito a Bangkok il fatto che tutti avessero un cellulare ma poi ho riflettuto che non sono monaci di clausura, o eremiti, immagino siano una via di mezzo tra chierici e studenti, perlomeno i più giovani, anzi direi che per molti bambini e ragazzi sia possibile un periodo di monachesimo temporaneo, visto come periodo di formazione e di preparazione all’età adulta. Ammetto comunque di essere rimasto piuttosto perplesso quando a Delhi ne ho visti due entrare in uno dei negozi Levi’s di Connaught Place. Anche perché, a parte le scarpe o le calze, non mi viene in mente nulla di marca che possano indossare. Nei lunghi viaggi in bus, ho ascoltato l’audio-libro di Kim, in cui uno dei personaggi principali è un Lama rosso, vestito direi esattamente come i monaci di McLeod Ganj. Nel libro, i servizi segreti inglesi dei tempi del Raj (dal 1858 al 1947, data dell’indipendenza dell’India e della divisione col Pakistan), riescono facilmente a seguirne le tracce, perché come Kipling fa ripetere spesso ai personaggi, in India allora i Lama rossi erano molto rari. E prima dell’invasione del Tibet nel 1950 e dell’esilio del Dalai Lama nove anni dopo, probabilmente era davvero così. E’ molto bello guardare i monaci che riempiono le strade, forse perché, almeno ad un occidentale, danno un’ impressione di serenità e di leggerezza, ma ripensando a Kim, la crepa nell’apparente perfezione è che i monaci non dovrebbero, e se potessero scegliere probabilmente se ne andrebbero, essere qui. Sono qui perché il loro paese è stato invaso, i loro monasteri distrutti, le loro guide spirituali incarcerate o scomparse, sono qui perché il Dalai Lama, allora giovanissimo, riuscì a scappare alla furia cinese attraversando insieme a un piccolo gruppo di coraggiosi seguaci le grandi montagne. Nelle loro tonache rosse e gialle comunque, i bambini sono bellissimi, tutti sono sorridenti, qualche monaco avrà certamente superato i millecinquecento anni e qualcun altro, evidentemente non ostile al cibo, sarebbe un perfetto Fra Tac in una versione buddista di Robin Hood. Al di là dell’ironia però, alcuni di loro, tra cui anche due monache, negli ultimi cinquanta anni si sono immolati per la causa del Tibet libero ed indipendente, dandosi fuoco in spazi pubblici o in occasione di eventi particolari. Davanti agli stupas e alle ruote di preghiera dietro il tempio, c’è una parete intera con tutte le loro fotografie, i loro nomi e la data della morte, e colpisce vedere come quasi tutti fossero giovani, alcuni addirittura giovanissimi. In Tibet non tutti sono morti per le ustioni, ad alcuni monaci i poliziotti cinesi hanno sparato mentre bruciavano, altri, col pretesto di spegnere le fiamme, li hanno ammazzati a manganellate. Non voglio dire che i cinesi siano dei demoni, perché per quanto tutto questo possa apparire mostruoso, è la naturale conseguenza di un’occupazione. Resto convinto che ogni volta che un essere umano ha il potere assoluto su un altro essere umano, le conseguenze non possono essere che soprusi e barbarie, basta pensare agli americani ad Abu Grahib (o al famoso esperimento psicologico di Stanford, da cui derivano i due piuttosto mediocri film The Experiment). La mostruosità vera, per quanto banale possa essere, è quell’intreccio di ragion di stato, convenienza economica ed ipocrisia politica da cui sembriamo lontano anni luce dal liberarci. Personalmente credo che il concetto di “portare la democrazia” sia tutt’al più una bugia colonialista, ma anche volendo crederci fermamente, pensando alle guerre più recenti, cioè l’Iraq e l’Afghanistan, mi sembra che mandiamo i nostri soldati a portare democrazia a chi non la vuole e li teniamo invece lontanissimi da chi ce la chiede urlando mentre sta prendendo fuoco.

Come Sherlock Holmes, che ignorava volutamente la teoria copernicana della terra che gira attorno al sole, anch’io a volte credo (è tra l’altro un pensiero abbastanza comodo) che la mente e la memoria siano spazi finiti, che non possano quindi essere riempiti oltre un certo limite senza sacrificare qualcosa in cambio. In questi mesi l’India ha riempito la mia mente e la mia memoria: di immagini, di suoni, di colori, di contatti fisici, di differenze, di odori, di profumi, di stupore. Mi serve un momento di pausa, ed è questo uno dei motivi per cui mi fermo così a lungo a McLeod Ganj, facendo alla fine quasi niente. Solo camminando qua e là, andando a leggere quasi tutti i giorni su una panchina lungo il sentiero tra i boschi dietro al tempio (anche se c’è una salita finale piuttosto terribile), bevendo espresso nei tavolini all’aperto e birre sulle terrazze, o semplicemente fumando charas e poi guardando le montagne dal balcone della mia stanza. Oltre a questo motivo intellettuale privo di certezze, mi fermo certamente a McLeod Ganj per motivi anagrafici e fisici: sono stanco. In tutti i viaggi, non so il perché, c’è un momento in cui mi metto a correre, e l’ho fatto anche stavolta. L’avevo fatto anche in Messico ma ero stato più accorto, prendendo pause più lunghe e sopratutto viaggiare in Messico è cento volte più comodo di viaggiare in India. Correre per l’India, facendo ogni volta centinaia di chilometri in autobus e dormendo un paio di notti in alberghi spesso dimenticabili, nel rovente periodo premonsonico, mi ha abbastanza spezzato. Non ho mai bevuto così tanto e mangiato così poco, e credo di essere magro come un bambino. Per questo qui faccio scorpacciate di momos, i ravioli tibetani ripieni, che comprati in strada hanno un imbattibile rapporto qualità-prezzo, mangio zuppe di tagliolini larghi e assaggio il tingmo, il pane tibetano cotto al vapore, più interessante di quanto appaia a un primo sguardo. A questo si aggiunge il fatto che McLeod Ganj, nonostante gli immancabili clacson delle strade principali, è un posto estremamente tranquillo, dove mi stupisce favorevolmente il fatto che gli infiniti venditori ai lati delle strade non diano il minimo fastidio ai turisti, perlomeno a quelli stranieri. L’artigianato tibetano inoltre, vero, finto o presunto, e che comprende anche le decine di simboli-strumenti religiosi, è bellissimo ma è purtroppo anche molto pesante, e quindi non porterò a casa direi quasi nulla. Anche gli abiti tradizionali delle donne tibetane sono splendidi, sopratutto quella specie di grembiule che indossano sul davanti, ricamato a righe orizzontali tono su tono o a strisce coloratissime durante il fine settimana, quando mi sembra che si vestano a festa, sostituendo oltre ai grembiuli anche le camicie tenui con altre lucenti di seta, colori e simboli ricamati in rossi e verdi e azzurri brillanti. E poi, pur essendo un paese turistico e quindi caro, McLeod Ganj rimane estremamente a buon mercato. Io in India spendo molto, perché bevo birre, fumo sigarette e non solo, bevo caffè espresso e non viaggio quasi mai di notte. Molti turisti sembrano fissati col viaggiare di notte, per risparmiare il costo dell’albergo ma io lo considero, sopratutto in India, dove gli alloggi possono essere estremamente economici, come viaggiare in aereo solo spendendo meno. Tempo permettendo, oltre alle destinazioni, quando viaggio da un posto all’altro mi piace anche vedere quello che c’è in mezzo. E’ vero che in alcuni casi l’India può essere tutta uguale ma viaggiare di notte è comunque una perdita. Fanno eccezione ovviamente i viaggi straordinariamente lunghi, ma in generale preferisco viaggiare di giorno, guardare fuori da un finestrino, scendere da un bus e vedere le persone, vedere l’India quando è accesa, è viva, è in movimento. Nonostante questo, e non facendomi mancare nulla, a McLeod Ganj spendo direi poco più di 20 euro al giorno, sopratutto da quando per imperscrutabili variabili di mercato la rupia è schizzata da 70 a 78 per 1 Euro. Se ci si accontenta degli alloggi, l’India rimane un paese straordinariamente economico. I più giovani e/o esenti da vizi, stanno in India a volte con 10 euro al giorno. L’ultimo, e più astratto dei motivi per cui mi fermo così a lungo in questo piccolo paese di montagna non so definirlo e me ne dispiace perché scoprirlo mi darebbe qualche indicazione sulle destinazioni di viaggio future. C’è qualcosa che non riconosco, qualcosa di ipnotico, che trasforma McLeod Ganj in una rete, in un luogo da cui mi è difficilissimo andarmene. Mi è già successo a Puerto Escondido in Messico, e lì ho dato la colpa al tramonto che era luce pura, ad Atitlan in Guatemala e lì era il lago circondato di vulcani, qui la responsabilità la affido al sentiero di pace e silenzio tra i boschi, invaso di pace e di ruote e bandiere di preghiera. Semplicemente, e il perché alla fine non è fondamentale, a McLeod Ganj sto benissimo. E’ più che altro per questo, per il più magico e quindi inspiegabile dei motivi, che ci resto così a lungo, cambiando addirittura il mio itinerario. Avevo già deciso di non andare a Manali, perché da lì avrei potuto soltanto tornare indietro. Voglio andare in Ladakh ma non intendo, per età e per stanchezza, fare le 22 ore di autobus fino a Leh. E come mi hanno confermato all’ufficio turistico del governo a Delhi, l’aeroporto vicino a Kullu, che per qualche anno ha accolto voli da Manali a Leh, non è più operativo, o quantomeno non per i voli turistici. Sono convinto che la strada Manali-Leh sia una delle più belle del mondo ma tutte quelle ore di bus, con oltretutto la preoccupazione e l’inesperienza del cosiddetto mal di montagna al valico dei passi più alti, non ho decisamente voglia di farle. Avevo pensato di andare a Leh in jeep da Srinagar, in Kashmir, da dove dovrebbero essere soltanto quindici ore, ma oltre alle perplessità che nutro sul dormire su una barca a Srinagar (probabilmente sbaglio, ma ci andrò prima o poi), decido di tenere Manali e il Kashmir per un altro viaggio, senza particolari rimpianti. A Leh andrò in aereo, tornando a Delhi per una notte, e sfidando il mal di montagna. Sono arrivato sulle montagne troppo tardi forse, ma d’altra parte la stagione (e le strade) apre a maggio, e resto serenamente convinto che in un viaggio non si può vedere tutto, sopratutto in un paese come l’India, così enorme, così pieno ma anche così a volte stancante fisicamente da attraversare.

LEH, Ladakh 15.06

Così arrivo a Leh in aereo, poco dopo l’alba. Il paesaggio che avevo visto attraverso il finestrino, fuori dal piccolo aeroporto si espande, si libera nell’orizzonte, e so subito di essere in un luogo lontano, probabilmente lontanissimo. Al posto del calore bagnato e soffocante di Delhi c’è un’aria secca e pulita, stupendamente fresca. Attorno a me ci sono soltanto nuvole e montagne.

Leh è a circa 3500 m. di altitudine. L’unico rimedio che credevo di conoscere con certezza contro il mal di montagna era bere molto. Mentre aspetto la valigia all’aeroporto, leggo un cartello enorme che dice di NON bere molto in altura e quindi la mia unica certezza terapeutica diventa fragile, anzi fragilissima. Nei primi giorni poi, si consiglia riposo, astenersi dal bere alcolici e dal fumare. Il primo giorno mi trattengo un po’ dal fumo ma il riposo è fuori discussione quando mi accorgo che ho clamorosamente sbagliato albergo. Ho preso una stanza all’ Oriental, che è magnifica anche se costosa, con una vista commovente sulla catena dell’Himalaya, ma che è anche a mezz’ora di buon passo dal centro e quindi da tutto. E per quanto riguarda il bere, dopo che la prima sera, torcia alla mano nel buio dei frequentissimi blackout, mi sono incamminato verso il centro (in albergo non c’è un ristorante, solo una specie di buffet, e non hanno nemmeno una Sprite) e dopo mezz’ora di salite e discese sono finalmente arrivato ansimando in paese, ho deciso che una birra, che nessuno a Leh sembra avere nel menu ma tutti hanno in frigo, me l’ero meritata. In realtà comunque, tranne il fiato un po’ più corto, che mi resterà tra l’altro per tutto il tempo, credo di non soffrire di nessun sintomo particolare del mal di montagna.

Dopo due notti lascio quindi l’Oriental e mi trasferisco in una guest house a Changspa, il quartiere degli alloggi economici e non, meta di quasi tutti i turisti stranieri. Changspa è fondamentalmente qualche strada in cui ci sono solo alberghi o negozi, ristoranti, internet café, agenzie di viaggi che organizzano tutte gli stessi trekking, e anche un piccolo bar in cui hanno uno dei migliori espressi Lavazza che ho mai bevuto in vita mia. Non ci sono case, l’intero quartiere sembra dedicato al commercio o all’alloggio, e questo dopo qualche giorno mi stancherà, per quanto i negozianti non siano assolutamente pressanti. Una delle cose incomprensibili di Changspa è che i suoi commercianti, che vendono le solite cose tibetane o indiane che si trovano in tutta Leh, sembrano non rendersi conto che i loro prezzi sono tripli rispetto a quelli della strada principale, che è, a dir tanto, a duecentocinquanta metri di distanza.

Decido quasi subito di non fare nessuna escursione. Quando piove o si alza il vento i miei vestiti sono appena sufficienti a non farmi tremare, ma sopratutto se penso di svegliarmi alle 6 del mattino per salire su un minivan mi vengono i brividi. I dintorni di Leh sono certamente paradisiaci ma non mi sento in vena di trekking, di tenda, e sopratutto di qualcuno che mi dice quando fermarmi e quando andare. Quindi a Leh semplicemente cammino, passeggio, mi fermo, guardo, vado. E poi ricomincio.

Leh, che alla fine fa parte del Kashmir, è abbastanza piena di soldati, che direi abbiano anche compiti di polizia, e di mercati, di enormi ruote di preghiera tibetane che appaiono all’improvviso, e ovviamente di ladakhi, spesso vestiti negli abiti tradizionali che sebbene trasformino gli anziani in diavoli e in folletti e le donne in banshee e in spiriti del deserto, non riescono a nascondere la profonda, solida, di provenienza ignota, gentilezza e cordialità della gente che vive da queste parti. Nonostante le discese e le salite, Leh è bellissima da camminare. Il Leh Palace, simbolo turistico di Leh e copia più piccola del Potala di Lhasa, arroccato su un monte come un castello inconquistabile, è favoloso, e domina la città come un enorme minaccioso protettore color sabbia. Al suo interno, a parte un piccolo tempio, è praticamente vuoto, ma c’è una piccola mostra di fotografie dei primi esploratori del Ladakh e del Tibet e anche alcune immagini più recenti ma sempre in bianco e nero di una spedizione in Tibet da parte di un fotografo, la sua guida e uno yak. A Leh purtroppo, non ci sono yak. Dico purtroppo perché vorrei da sempre vedere dal vero quello che considero uno dei mammiferi più strambi del pianeta, ma devo invece accontentarmi di assaggiare il formaggio di yak, che non è male ma forse perché è l’unico formaggio fermentato che ho incontrato in due viaggi in India. Dalle didascalie delle fotografie, imparo però un paio di notizie divertenti sugli yak. Il fotografo racconta che lo yak non ha mai accettato nessun tipo di cibo da lui e dalla guida, ma anche nelle condizioni più estreme e apparentemente impossibili era sempre in grado di trovare il cibo da solo. In una fotografia lo yak è sellato, con una sella che il fotografo dice di aver comprato in India e di avergliela messa più che altro per sentirsi più a suo agio. Perché, confessa, lo yak non accetta le briglie, ed è completamente ingovernabile. Se non c’è un sentiero tracciato, va semplicemente dove vuole, carico dei bagagli e di tutto il resto, e quando vuole torna, ma è impossibile costringerlo fisicamente ad andare da qualche parte. E mi immagino per un attimo al valico di un passo di montagna, in un universo fatto di neve, circondato da un mondo tanto puro quanto inospitale, a cercare di convincere uno yak punk e ribelle a seguirmi o anche solo a non abbandonarmi.

Una mattina di sole pieno e aria frizzante vado a vedere lo Shanti Stupa, che sebbene sia piuttosto recente è molto bello e da cui, una volta arrivati in fondo alla scalinata senza fine scolpita nella montagna, si ha una visuale strepitosa di Leh e delle montagne che la circondano, catena dell’Himalaya compresa. Gli stupas, o chorten in tibetano, di cui ho parlato spesso credo senza mai spiegarli, sono in due parole costruzioni vagamente piramidali con di solito almeno un livello più alto che va percorso in senso orario pregando e meditando. Nati nell’antichità come tombe di personaggi eminenti, dovrebbero ricordare la forma della testa del Buddha, e ogni livello architettonico ha spesso un preciso significato religioso, che, ahimè, ignoro profondamente. Alcuni sono aperti, hanno quindi un passaggio, e sono decorati all’interno con mandala ma la maggior parte sono chiusi, ed è accessibile solo lo spazio esterno, il contorno. Guardandoli ho sempre l’impressione di un sacco di spazio sprecato, o quantomeno occupato senza funzione, e per questo penso spesso che gli stupas abbiano più le caratteristiche di un Totem che quelle di un luogo di culto. Comunque sia, sono la cosa più lontana da una chiesa o da un tempio che riesco ad immaginare. Quando scendo, non più in severo debito di ossigeno, mi accorgo che ai lati delle scale è pieno di piccole costruzioni piramidali, fatte semplicemente mettendo sassi in equilbrio l’uno sull’altro. Immagino ricordino la forma dello stupa ma a me ricordano più di ogni cosa gli Apachetas, quei minuscoli altari in cui da prima di Colombo, chi scala le montagne del nord dell’Argentina pone offerte alla Pacha Mama.

Sarebbe bello immaginare che un luogo così lontano e sperduto fosse anche silenzioso e tranquillo, in realtà purtroppo anche a Leh le tre maledizioni senza perdono dell’India, ci sono tutte: cani che abbaiano tutta la notte, lavori in corso dappertutto, clacson che suonano continuamente. Fortunatamente, se ci si allontana dal centro e da Changspa, il quartiere delle guesthouse dove dormo anch’io, la pace c’è. Basta perdersi nei labirinti di sentieri e minuscole strade fuori dal centro, tra orti verdi come brillanti, anziane in abito tradizionale ladakho, e ogni tanto come una visione a sorpresa uno stupa bianco, o un improvviso monastero. E poi, le montagne. In vita mia non ne ho forse viste molte ma queste senz’altro sono le più belle che ho mai visto. La luce e il tempo atmosferico le trasformano continuamente: a volte sembrano scolpite nell’orizzonte, altre volte invece appena abbozzate, fatte soltanto di ombre e di neve, altre ancora brillano di un bianco abbagliante, contro un cielo caraibico fatto di nuvole enormi in eterno movimento. Un grande, memorabile spettacolo, che ha oltretutto l’inestimabile pregio di essere quotidiano. In una delle mie giornate a passeggio ottocentesco per i sentieri di pietra di Leh, incontro un Gompa, un monastero, al centro di una piccola corte di case ladakhe, e ci entro. Nel piccolo colonnato dell’ingresso ci sono affrescate immagini che credo ricordino i due Inferni tibetani, con favolose pitture di demoni, che vedrò poi anche all’interno. I demoni tibetani, le divinità cattive, sono bellissimi. Apparentemente enormi, neri, rossi, pieni di occhi, vestiti di collane di teschi, fatti di serpenti e di sangue. Terribili, terrificanti, spaventosi ed invincibili. Non sono mai malvagi ma giusti, perché fanno anche loro parte di quel cammino di conoscenza che l’anima del defunto compie prima di reincarnarsi. E allora penso (primo indizio che anche qui ho finalmente trovato del charas) che il nostro Diavolo cattolico in confronto è soltanto abbozzato, dipinto senza fantasia, banale allo stato puro, e allo stesso tempo mi chiedo se sia quest’iconografia infantile che ha permesso alla nostra cultura di trasformare così spesso il Diavolo in qualcosa di affascinante, di romantico, di poetico. I Diavoli tibetani, all’interno della cultura tibetana, credo non abbiano nulla di romantico. Sono puramente il male, il giusto temporaneo castigo perché la punizione è necessaria; sono il dolore, la paura, l’incompletezza, l’ignoranza, ma anche ovviamente, se si crede nella reincarnazione, creature di passaggio, onnipotenti od impotenti a seconda dei casi e delle vite precedenti. Tra l’altro (secondo indizio del ritrovamento del charas), rifletto sul fatto che a chi crede nella reincarnazione, pur con molta fantascienza e fantasia da B-Movies, è probabilmente concesso vendere l’anima al Diavolo più volte invece che una volta sola, o vendere più anime (anche se so che le cose non funzionano in questo modo). All’interno di una sala quadrata del monastero, seduti su sgabelli minimi tra le colonne dipinte, ci sono una ventina di monaci, che leggono ad alta voce dai libri di preghiere tibetane che tengono in mano. Quando entro mi sorridono, e io non li fotografo. Li attraverso, e poi li spio con maldestra timidezza da un’altra stanza arredata di immagini del Dalai Lama, di demoni e di mandala. E vedo tra me e questi monaci una differenza definitiva, come se fossimo specie diverse, totalmente ignoranti e non necessarie l’una all’altra. Sento la certezza ma anche la minaccia di una cultura che ci marchia alla nascita come cuccioli di animali, rendendoci forse più forti ma anche più difficili a cambiare idea, incapaci spesso di accettare davvero le differenze, o anche solo, come in questo caso, di comprenderle. E’ allora (terzo e definitivo indizio che anche qui ho finalmente trovato del charas) che mi faccio la domanda prima, il Nyarlathothep delle domande, la domanda-drago, la domanda che darebbe tutte le risposte contemporaneamente. Mi chiedo, ancora una volta, perché non posso vivere la vita di tutti. Solo per un momento, solo per un attimo.

Spigolature

Sulla strada di tornanti che arriva a McLeod Ganj ci sono molti cartelli stradali, che invitano alla prudenza durante la guida. Il più geniale è certamente quello che dice: “Drive slow and ENJOY the scenery, drive fast and JOIN the scenery”.

Tempo di bilanci, e dai bilanci, più o meno, nascono le Chanson de Geste:

Canzone dei giacigli dell’India

Ho dormito in letti in cui c’erano i capelli di tutti. Tra lenzuola su cui le macchie cambiavano colore a mezzogiorno e a mezzanotte. Ho appoggiato la testa su cuscini raggomitolati, riempiti con palle da cricket o sottili come una bassa marea. Ho fatto la doccia in bagni ostili. Mi sono rasato in specchi lontani dal lavandino. Appena fuori dall’ombra grazie a una luce debole e fredda, fragile e povera, accesa o spenta da un interruttore spesso irraggiungibile. In India ho abbandonato me stesso su materassi cartacei, che sembravano fatti d’autunno.

CONCLUSIONI

L’India rimane spesso complicata e stressante, se non altro perché è un paese che da parte di un turista vuole un’ attenzione continua. La solitudine e il silenzio, possono essere difficilissimi da trovare. I momenti di rilassatezza sono enormi ma soltanto perché sono rari, e devono compensare una quotidianità talvolta impegnativa. L’India è una continua moltiplicazione di persone, colori, odori, rumori, musica, contatti fisici. E’ un paese vivo però, denso e spettacolare. Ed è ancora un paese che ti fa spalancare gli occhi e il cuore per lo stupore, che ti fa commuovere, incazzare e bestemmiare, a volte scuotere la testa con rassegnazione, e altre volte ti fa ridere per giornate intere. Per questo in ogni altrove se ne sentirà la mancanza. Se ne sentirà l’assenza. Dappertutto mancherà qualcosa: non necessariamente di positivo, ma sarà comunque qualcosa a cui ci si era abituati e che da un momento all’altro scomparirà. Non voglio dire nulla di rivoluzionario, constato soltanto che per una volta la banalità corrisponde esattamente al reale: un altro paese come l’India, semplicemente non c’è.

Ho deciso di non saltare qua e là per il sud est asiatico solo per rinnovare di un mese il visto della Thailandia. Sarebbe troppo complicato, troppo costoso, troppo breve il tempo che starei in un altro paese. Terrò il Laos e la Cambogia per un altro viaggio, quando finalmente andrò in Birmania. Non viaggerò la Thailandia neanche stavolta quindi, mi limiterò come al solito a vagare qualche giorno tra le luci di Bangkok e passerò il resto del tempo al mare, a non fare niente e a scrivere eventualmente romanzi storici. Tornerò ad agosto, che è un mese italiano che non mi dispiace. Ora scrivo dal ristorante del Plaa’s a Than Sadet, la spiaggia di Koh Phangan dove questo viaggio è cominciato e dove mi è sembrato giusto farlo finire. Dove il silenzio è forte come una spada, e l’unico rumore è quello del mare. Dove l’unico profumo è quello dei fiori e dell’erba (la mia), e in questa stagione, anche se piove spesso, il mare è calmo e caldo, e posso fare bagni infiniti, sonni infiniti, pensieri infiniti. Dove ci sono migliaia di libellule. Dove le farfalle al mattino hanno il colore dei vulcani e alla notte diventano foglie. Dove le uniche due barche che rimangono al pomeriggio, una volta che le imbarcazioni che portano i turisti da una spiaggia all’altra se ne sono andate, sono due scafi piccoli, due long tail boat dipinte con colori reggae. La mia preferita è quella che il suo capitano tiene all’ancora più vicino alle rocce, che con grande ironia e saggezza, al vento che spesso rinfresca la baia, espone un Jolly Roger, una bandiera pirata. C’è una pace piena, che sa di completezza. E mi mancherà. Adios



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