Viaggio di nozze in Ecuador
Diario di viaggio Ecuador
Alessia e Antonio
16 maggio – 6 giugno 2011
Indice dei contenuti
Per il nostro viaggio di nozze abbiamo voluto fare un viaggio indimenticabile, forse irripetibile. Come meta abbiamo scelto l’Ecuador.
L’Ecuador?? E cosa c’è in Ecuador da vedere?
Nonostante sia uno dei paesi più piccoli del Sud America, si tratta di un luogo fantastico con tantissime attrattive sia turistiche che culturali: solo per citare qualche esempio, in Ecuador ci sono la via dei Vulcani, le Ande, la foresta Amazzonica, le città coloniali, le Galapagos!!
Oltre a questo, le persone: tante razze diverse, figlie del passato coloniale, tanti modi di vivere diversi; la possibilità di condividere delle giornate con gli indigeni e con le loro famiglie e scoprire che vivere da “primitivi” non è poi tanto male!
Abbiamo soggiornato nelle strutture locali quali posadas, capanne e rifugi comunitari; nelle grandi città e nelle Galapagos abbiamo dormito in hotel.
Abbiamo mangiato quasi sempre in piccoli ristoranti o con le famiglie che ci ospitavano.
Per la prima volta ci siamo affidati ad un’agenzia di viaggi, anche se un po’ particolare: si chiama Viaggi Solidali (www.viaggisolidali.it).
Lunedì 16 maggio: Roma-Madrid-Quito
————————————————
Sveglia alle 3.45… e mai sveglia fu più attesa. Dopo una mezz’oretta di taxi, eccoci a Fiumicino con un anticipo di ben 3 ore rispetto all’orario del volo, così come richiesto dall’Iberia.
Ne approfittiamo per dormire nella sala d’attesa dell’aeroporto; siamo in buona compagnia, ce ne sono molte di persone che dormono come noi!
Il volo parte, come prassi per Iberia, con un ritardo di circa un’ora. Il ritardo ci costringe, una volta atterrati a Madrid, a correre come pazzi per arrivare al nuovo terminal dal quale partono i voli intercontinentali. Per fortuna, anche il volo Madrid-Quito parte con una buona oretta di ritardo…
Il volo per Quito dura circa 12 ore; durante il volo dormiamo molto ma veniamo spesso svegliati dal personale di bordo per il pranzo, lo snack, la merenda… Non è entusiasmante l’aereo, un vecchio Airbus A340, però dobbiamo ammettere che il trattamento a bordo è stato ottimo.
Arriviamo a Quito con un’ora di ritardo (alle 17.30); complice il fuso orario, siamo a 7 ore in meno rispetto all’Italia, è ancora 16 maggio.
Purtroppo all’arrivo non troviamo nessuno, anche se avrebbe dovuto venirci a prendere un autista. Attendiamo inutilmente per un ulteriore mezz’ora e quindi decidiamo di cercare una cabina per chiamare l’agenzia che ha organizzato il viaggio; la cabina non esiste nel suo formato classico, ma si tratta di… una signora di un bazar che, al costo di un dollaro al minuto (la moneta corrente in Ecuador è attualmente il dollaro americano), ci fa telefonare dal suo cellulare. Riusciamo a parlare con l’agenzia che, scusandosi per il contrattempo, ci informa che l’autista sarebbe stato lì a momenti.
Attendiamo ancora ma l’attesa è vana; un poliziotto, vedendoci un pochino agitati, ci vuole prestare il suo cellulare, ma proprio in quel momento ecco che arriva l’autista: Wilson!
Si tratta di una persona di un’età apparentemente indefinita (poi ci ha detto di avere 63 anni) che sarà uno dei nostri riferimenti per tutta la vacanza. Scusandosi mille e più volte (ci ha spiegato che non era stato avvertito dall’agenzia), arriviamo alla macchina.
Io ed Alessia siamo i classici viaggiatori “no Alpitour” e questa è la prima volta che viaggiamo con un viaggio organizzato da un’agenzia… abbiamo pensato “se questo è l’inizio…”.
Sentiamo subito nell’aria che l’inquinamento a Quito è molto fastidioso: si sente una puzza simile al cherosene delle barche, che deriva dal fatto che siamo a circa 3000 metri di altezza, che la benzina che utitilizzano le automobili non è particolarmente raffinata (infatti, dai tubi di scappamento esce un gas azzurrognolo molto fastidioso) e che la città è molto attufata; siamo in una grossa valle in mezzo a due vulcani e qui si è sviluppata la città, lunga circa 137 km e larga circa 34 km.
In una mezz’oretta arriviamo in centro, nella Ciudad Vieja, dove si trova il nostro hotel (Hotel San Francisco de Quito); durante il tragitto scopriamo subito di avere a che fare con una persona molto simpatica e cordiale che, come tutti gli ecuadoriani, ha almeno un familiare che vive in Europa. Wilson ha il fratello che vive a Roma e lì ha aperto un negozio di telefonia; ci dà il suo numero di telefono e prima o poi lo chiameremo.
L’hotel si trova nel centro storico di Quito ed è molto carino; si tratta di una vecchia casa coloniale restaurata con all’interno un bellissimo patio. Nel patio c’è anche la reception, all’aperto, in quanto a Quito, come in tutto l’Ecuador, la temperatura è costante tutto l’anno (siamo all’Equatore): a Quito la media è di 10°C di notte e 25°C di giorno.
Le stanze sono molto strette, ma abbastanza funzionali; non ci sono termosifoni (non ce n’è bisogno) e la pressione dell’acqua corrente è molto debole (anche questa è una tipicità dell’Ecuador, come di tutta l’America Latina).
Appena arrivati, posiamo le valigie ed andiamo subito a comprare una bottiglia da un gallone di acqua, in quanto l’acqua corrente non è potabile. L’acqua che viene venduta in bottiglia è quasi sempre trattata per essere resa potabile, quindi non è propriamente “buona”. Lo sapevamo e ci adattiamo senza problemi.
Andiamo a cena nella piazza principale, Plaza Grande, nel ristorante Cafè Plaza, dove scopriamo per la prima volta che gli ecuadoriani “infestano” ogni piatto di pesce con il culandro (coriandolo) che lo rende, almeno per noi italiani, immangiabile: si tratta di una spezia che in Italia viene utilizzata molto poco, ma vengono utilizzati solo i semi, mentre in Ecuador si usano le foglie. La prima sera non lo sapevamo e ci siamo cascati. Alessia lo ha provato sulla sua pelle: dopo aver assaggiato il pesce con il culandro… non ha voluto più mangiare… è la prima volta che capita in 8 anni che la conosco!!
Dalla seconda sera in poi, ogni volta che siamo capitati in un ristorante la prima cosa da dire durante l’ordinazione è stata “sin culandro!”, che vuol dire “senza coriandolo”.
La cosa più piacevole della cena è stato il piatto di banane fritte come antipasto (deliziose!).
Per il resto, si tratta di un ristorante molto formale (forse a causa del jet-lag avevamo troppo sonno e non ce ne siamo accorti), senza infamia e senza lode; è qui il posto dove abbiamo speso di più (53 dollari in due).
Torniamo in hotel con un po’ di apprensione, a causa di tutto quello che abbiamo letto sui pericoli della sera, ma con soddisfazione constatiamo che, almeno fino alle 22, la situazione è abbastanza tranquilla. Certo, le strade sono presidiate da tanta polizia che, se da un lato ti mette sicurezza, dall’altro ti inquieta, però noi ci siamo sentiti quasi sempre sicuri.
Martedì 17 maggio: Quito
——————————–
Dopo una buona colazione in hotel, dove abbiamo sperimentato quanto sia buona frutta in Ecuador, ci incontriamo con la guida che ci farà conoscere Quito. Si chiama Veronica, è una signora meticcia e parla un discreto italiano imparato all’Istituto Dante Alighieri di Quito.
La città coloniale è molto carina; ci sono molte chiese, la più bella delle quali è la Compañia de Jesus: in questa chiesa è presente ovunque il simbolo del Sole, la divinità Inca. L’Ecuador è un paese molto cattolico, però si tratta di un cattolicesimo “ibrido” nel senso che è viene praticata una misticanza tra le tradizioni locali e quelle “romane”.
Tralasciando la descrizione della città, che si può trovare in una qualunque guida, possiamo descrivere l’atmosfera che si respira: è una città molto viva, c’è una moltitudine di persone in giro e molto traffico automobistico. Ci sono venditori di qualsiasi cosa ovunque; il loro vociare è una cosa che rimarrà indelebile nei nostri ricordi. “Protector de pantalla un dollar, un dollar, un dollar!”, “Compra fruta, senor! 4 naranjas un dolar!”, “Mate de coca, mate de coca!” : queste sono solo alcune delle miriadi di voci che si sentono.
Vediamo anche molti negozi che vendono ghiaccio e da questo capiamo che il paese, nonostante sia in forte crescita, è ancora molto povero: non ci sono problemi dal punto di vista della denutrizione, ma un elettrodomestico come il frigorifero non è ancora alla portata di tutti e molte famiglie si arrangiano ancora con le ghiacciaie.
La passeggiata con Veronica è molto piacevole: ci racconta la storia sia di Quito che dell’Ecuador, in particolare per quanto riguarda l’integrazione degli indigeni. Essendo una meticcia di seconda generazione, questo è un argomento che la riguarda da vicino e lo spiega con estremo coinvolgimento.
Passiamo davanti al Palazzo Presidenziale e vediamo come lo standard di sicurezza dei palazzi del potere è pressochè nullo: ci sono soltanto due piantoni di fronte all’ingresso principale e qualche poliziotto sparso qua e là. Addirittura, al piano terra del palazzo ci sono dei bazar!!
Ci spieghiamo facilmente come è possibile che i colpi di stato in America Latina siano (per fortuna, erano) all’ordine del giorno. L’ultimo tentativo in Ecuador è molto recente, è in data 30 settembre 2010 e, per fortuna del presidente Correa, non è andato a buon fine.
Dopo la passeggiata nel centro storico, ci spostiamo in auto fino alla stazione di partenza del TeleferiQo, con il quale saliamo fino a 4500 metri di altezza. Dalla stazione di arrivo parte un sentiero che arriva fino al cratere del Rucu Pichincha (ultima eruzione 2008). La vista da quassù è impressionante: Quito è sterminata! E’ incredibile come una città così grande abbia soltanto 2 milioni di abitanti: questo è spiegato dal fatto che le case sono tutte basse, al massimo due piani, e che quasi il 50% di esse sono disabitate a causa della fortissima emigrazione verso gli Stati Uniti e l’Europa.
Da questo luogo, si capisce bene di come il futuro di Quito sia quanto mai incerto, stretta com’è nella morsa di due vulcani attivi.
Salutiamo Veronica e ce ne andiamo in hotel dove passiamo il pomeriggio dormendo per recuperare il jet lag.
Andiamo a cena sempre nella Plaza Grande, ma questa volta al ristorante Hasta La Vuelta, Senor!; decisamente meglio del giorno precedente. Ci siamo presi una fritada (carne di maiale fritta) ed una corvina alla piastra oltre a gelati e varie ed abbiamo speso 38 dollari in due.
Durante i pasti consumati nei ristoranti, come bevande abbiamo preso quasi sempre acqua o al massimo un po’ di birra (ci sono poche birre locali, ma la loro pils è molto buona); il vino è molto caro in quanto c’è pochissima produzione in Ecuador e ci vengono proposti sempre vicini cileni o argentini, molto cari.
Mercoledì 18 maggio: Quito – Otavalo – Cotacachi
————————————————————-
Appuntamento con Wilson alle 9.00 per andare verso Otavalo, la cittadina famosa per il mercato indigeno.
Per la prima volta sperimentiamo la Panamericana, la strada che collega l’Alaska al Cile che passa anche attraverso l’Ecuador: è una strada a due corsie, trafficatissima ovunque, con una terza corsia virtuale… nel senso che i sorpassi avvengono in ogni momento ed in qualsiasi condizione. L’abbiamo percorsa molto spesso e, purtroppo, molto spesso abbiamo visto pullman e camion rovesciati ed altri incidenti di tutti i tipi.
Ovunque ci sono operai al lavoro, indice dello sviluppo economico che sta vivendo l’Ecuador in questi anni; con il presidente in carica, Correa, si sta puntando molto sul rinnovo delle infrastrutture, cosa che sta avvenendo più o meno in tutto il paese.
Il tragitto fino ad Otavalo è molto bello, i paesaggi sono stupendi: i vulcani che si vedono all’orizzonte ci invitano a fermarci spesso per fare delle foto; vediamo anche le sterminate coltivazioni di rose che l’Ecuador esporta in tutto il mondo. Facciamo una sosta anche in un chioschetto per assaggiare il gelato tipico dell’Ecuador: si tratta di uno stecco rivestito da un ghiacciolo di forma conica con strisce di vari gusti alla frutta, buonissimo! Il chioschetto si trova in una zona molto panoramica, con la Laguna di San Pablo sullo sfondo; siamo a circa 3000 metri di altezza e da qui notiamo come ogni piccolo appezzamento di terreno sia coltivato, a qualsiasi altezza.
Durante il viaggio verso Otavalo cogliamo per la prima volta una ulteriore peculiarità di questo paese: gli autobus extraurbani non effettuano fermate ma rallentano in prossimità di alcuni punti in cui si raccolgono dei passeggeri, pronti per “salire al volo”!
Arriviamo ad Otavalo intorno a mezzogiorno e, lasciati i bagagli nella sede dell’agenzia Runa Tupari (agenzia grazie alla quale vivremo una bellissima esperienza), salutiamo Wilson e ci avventuriamo nella Plaza de Los Ponchos, dove oggi, come tutti i giorni, c’è il mercato indigeno.
Il mercato è stupendo: si vende per lo più lana di alpaca in tutte le forme (tappeti, copriletti, quadri, ecc.) e il basso vociare dei venditori indigeni è una nenia continua. “Compra, senor” detto con un filo di voce è il rituale di questo mercato.
Gli indigeni otavalenos sono riconoscibili dalla lunga coda dei loro capelli; ultimamente i giovani stanno perdendo questa tradizione ed è un peccato. Sembra quasi si vergognino delle loro origini.
Facciamo degli acquisti anche noi: non si può andare via da Plaza de Los Ponchos senza acquistare nulla.
Ci fermiamo a pranzare in un localino, chiamato Shepard’s Pie, famoso per le torte; è un posto esaltato in molte guide, però le torte che vende non hanno nulla di eccezionale, ma sono nella media, non propriamente eccellenti come abbiamo letto più volte.
Dopo pranzo passeggiamo per Otavalo: essendo l’orario di uscita dalla scuola, vediamo tantissimi ragazzi in divisa (qui ogni scuola ha la sua divisa) e dal tipo di divisa capiamo se studiano in una scuola ricca o in una scuola povera. Quasi tutti i ragazzi si fermano a mangiare nei fast-food che ad Otavalo sono tantissimi ed è un vero peccato, perché in questa maniera perdono le loro tradizioni.
Alle 15.00 ci incontriamo con Milton: si tratta del “capofamiglia” della famiglia che ci ospiterà per la notte. E’ un giovane indigeno (32 anni) appartenente ad una delle comunità che vivono alle pendici del vulcano Cotacachi. Queste comunità vivono soprattutto di agricoltura ed alcuni di loro, come Milton, arrotondano facendo vivere ai turisti un’esperienza di vero turismo comunitario; alcuni uomini, per necessità, vanno a lavorare a Quito dal lunedì a venerdì e tornano nelle comunità nel weekend.
Con Milton visitiamo alcune attività artigianali nei dintorni di Otavalo; quella che ci è piaciuta di più è stata una famiglia che costruisce strumenti musicali andini, che poi gli stessi strumenti che vediamo spesso nei mercatini e nelle fiere.
Nel tardo pomeriggio arriviamo a casa di Milton; si tratta di una casa in muratura, senza intonaco ne’ pavimento. E’ una casa molto semplice, ma abbastanza grande che Milton si sta costruendo piano piano. Ha anche un piccolo orto dove coltiva quello che si mangiano e dove alleva i cuy (i porcellini d’India), uno dei piatti tipici ecuadoriani. In questa famiglia, come in tutto il villaggio, si parla la lingua Quichua, ma, in nostra presenza, si usa prevalentemente lo spagnolo.
La casa si trova in una comunità nella quale le case sono più o meno come quella di Milton, alcune più decorose, ad esempio con pavimento o intonaco, altre meno, e dove il governo ha da poco portato l’acqua corrente, ovviamente non potabile, e l’elettricità.
Nella casa conosciamo la moglie Estela con Sarahlì e Lia, le figlie di 6 anni e 5 mesi; conosciamo inoltre la madre di Estela (Santina). Le donne della famiglia sono molto accoglienti e vogliono subito sapere con chi hanno a che fare: ci hanno chiesto notizie molte informazioni personali, anche sui nostri familiari e questo sembra averle tranquillizzate.
Ci riposiamo un’oretta nella stanza che ci ospita, una stanza anch’essa molto decorosa, dove c’è anche un bagnetto con solo l’acqua fredda.
Dopo il riposo andiamo con Estela, Sara e Lia a dare da mangiare ai loro maiali ed alle loro vacche; Estela si presenta vestita nella tipica veste andina con Lia sulle spalle “infagottata”. E’ una visione tenera e divertente allo stesso tempo: non ci sono carrozzine, passeggini, marsupi o altro, ma soltanto una pezza avvolta attorno alle spalle della mamma.
Tornati a casa, Estela ci chiede “Ve lo mangiate il cuy?”; per fortuna sanno che in Europa il porcellino d’India è un animale domestico ed alla nostra risposta negativa Estela non si offende.
Andiamo così con Sara a prendere un pollo dalla sorella di Estela dall’altra parte del villaggio. Nonostante il buio (in Ecuador tutto l’anno il sole sorge alle 6.00 e tramonta alle 18.00) ci sono tantissimi bambini in strada a giocare; entriamo senza preamboli a casa della zia di Sara che ci offre anche un pezzo di cuy arrosto, che noi accettiamo ma che non mangeremo.
Ci siamo stupiti di come Estela ci abbia affidato Sara con così tanta semplicità: siamo degli estranei, come ha potuto fidarsi ciecamente di noi? A quanto pare, gli indigeni ancora oggi sono così: persone semplici, forse un po’ ingenuotte, ma molto generosi.
Rientriamo a casa e chiediamo ad Estela di poterla aiutare nella preparazione della cena, ma lei vuole soltanto che stiamo con le bambine e quindi io mi metto a fare i compiti con Sara, ma anche a giocare a nascondino, ed Alessia si spupazza Lia.
La cucina di Estela è grande ma molto semplice: 4 fuochi, la bombola del gas, un frullatore (accessorio presente in tutte le case) ed un frigo quasi vuoto.
La cena è la tipica merienda andina: un frullato di frutta (questa volta di more, squisito), una zuppa ed un piatto unico composto da pollo, riso (che fa da pane) e verdura. Per bere, ci da dell’acqua bollita con un erba medicinale: Estala chiama questa erba Luisiana, che assomiglia molto a quella che noi chiamiamo erba limoncina.
Finita la cena, Sara si alza dal tavolo e, salita sul suo banchetto, lava i piatti; la mamma la ferma perché oggi ci siamo noi e non vuole che la figlia “lavori”.
Una cosa strana è che Milton, una volta accompagnatoci a casa, non si è più visto: si è messo in camera a vedere la televisione e non ha fatto altro, neanche ha cenato…
Dopo cena andiamo subito a letto, stanchissimi.
Giovedì 19 maggio: Cotacachi – Laguna di Cuicocha – Otavalo – Quito
————————————————————————————–
Ci svegliamo e vediamo subito Sara che piange: poverina, ha perso l’autobus che la porta a scuola! La scuola si trova nel villaggio di Cotacachi a circa 10 km da casa ed è una scuola “mista”, nel senso che ci sono bambini indigeni, meticci e bianchi nelle stesse classi; inoltre, le famiglie dei bambini indigeni ricevono un piccolo sussidio per far frequentare la scuola ai loro figli.
Facciamo una colazione a base di frutta e salutiamo Estela.
Con Milton, che ci farà da guida, ci avviamo verso la laguna di Cuicocha; ci aspetta il periplo della laguna. Di solito ci si mette dalle 4 alle 5 ore, ma noi riusciamo a tenere il passo di Milton e ci mettiamo appena 3 ore, non senza fatica: siamo a 3500 metri, la carenza di ossigeno si sente (alla fine però il più stanco è lui).
La laguna si è creata a causa del collasso del cratere di un vulcano; tralasciando gli aspetti scientifici, il posto è incantevole. Al centro della laguna ci sono due piccole isolette: sulle guide c’è scritto che il nome Cuicocha deriva dalla forma delle due piccole isolette, che sembrano due cuy, mentre Milton ci spiega che la laguna si chiama così perché sulle isole ci sono colonie enormi di questi animaletti che si riproducono ad una velocità impressionante. Le acque del lago sono molto alcaline, quindi non c’è vita in acqua.
Il trekking si rivela molto impegnativo, siamo costretti a fare molte soste a causa del caldo e della carenza di ossigeno, ma i panorami che si aprono all’orizzonte sono fantastici: da una parte la laguna, dall’altra un vulcano ed in lontananza il vulcano Cotopaxi, alto quasi 6000 metri, ricoperto di neve.
Milton non parla molto, ma quando gli facciamo delle domande è molto disponibile.
Al termine del trekking, arriviamo in un piccolo museo dove ci vengono date molte informazioni sia sulla laguna che sulle popolazioni che vivono nella zona.
Milton ci racconta di quando, con alcuni amici, è andato in esplorazione verso est, nell’Amazzonia, in una zona dove vivono delle popolazioni indigene che hanno pochissimi contatti con la “civiltà” e vivono quasi come dei primitivi: la prima volta, dopo quattro giorni di cammino, si sono ritrovati al punto di partenza… mentre la seconda volta sono partiti più attrezzati e dopo una settimana di cammino sono arrivati nel villaggio indigeno. La popolazione li ha accolti molto calorosamente e gli ha anche chiesto, senza preamboli, quando gli sarebbe stata portata la corrente elettrica (probabilmente una promessa di qualche governo di 15/20 anni prima…).
Andiamo a pranzo nel paese di Cotacachi, un paese molto particolare, dove quasi in ogni bottega ci si dedica alla lavorazione del cuoio; ci fermiamo in un ristorante dove prendiamo il tipico almuerzo locale (frullato di frutta, zuppa e piatto unico composto di carne/pollo/pesce, riso, verdura e frutta) al prezzo irrisorio di 2 dollari.
L’esperienza con Milton e la sua famiglia è stata bellissima. L’unico appunto che possiamo fare alla comunità Runa Tupari è che non ci è stato spiegato cosa avremo fatto e come ci dovevamo comportare (l’avevamo letto nel programma di viaggio, ma era spiegato in due righe). Noi non abbiamo avuto alcun problema in quanto ci siamo perfettamente adattati e la famiglia che ci ha ospitato ci ha fatto stare benissimo, però credo servirebbe un po’ più di formazione sia per le guide che per i turisti. Inoltre, il periplo della laguna è stato molto faticoso: Milton ci ha detto che tante persone rinunciano dopo un’ora di cammino… ma allora perché non spiegare tutto prima?
Dopo essere tornati ad Otavalo, aver salutato Milton ed esserci riposati in un parco, incontriamo Wilson con il quale torniamo a Quito.
Ceniamo al ristorante dell’hotel Real Audiencia vicino al nostro hotel, dove ci prendiamo un churrasco, (piatto di carne tipico di tutto il Sud America), ed una menestra (minestra di pollo e verdure) e per l’intera cena spendiamo 26 dollari in due. Il ristorante si trova all’ultimo piano di un albergo e, come si intuisce dal nome, la vista da quassù è bellissima. La cena è abbastanza buona.
Quando usciamo dal ristorante, notiamo come, nonostante tutto sembri tranquillo, la microcriminalità sia molto diffusa: per uscire dal portone ci hanno dovuto aprire due sbarre e fuori, in strada, c’era come al solito molta polizia.
Venerdì 20 maggio: Quito – Latacunga – Quilotoa – Tigua
———————————————————————-
Oggi si va verso sud. Partiamo abbastanza presto: stavolta non ci accompagnerà Wilson, ma Gonzalo, una persona di fiducia di Wilson. Anche Gonzalo si rivela essere un ottimo autista, oltre che una preziosa fonte di informazioni: ci racconta di tutto e di più.
Appena arrivati nei sobborghi di Quito ci fermiamo in una bancarella che vende frutta: ce n’è di tutti i tipi e ne assaggiamo alcuna con dei sapori sconosciuti. Oltre alla frutta esotica che abbiamo imparato a conoscere (banane, ananas, papaya, maracuya, avocado, frutto della passione), c’è anche della frutta sconosciuta, come ad esempio la granadilla, la naranjilla, il tomate de arbol, il taxo e molti altri.
Capitolo a parte merita la banana. Noi conosciamo soltanto un tipo di banana, quella che viene esportata, ma qui in Ecuador ce ne sono molti tipi, i cui nomi non ricordiamo: esistono quelle da legume, quelle rosse, le orita (dolcissime!) e molte altre varietà.
Compriamo un casco di banane “classiche”, forse 4 o 5 chili, al prezzo di 70 centesimi di dollaro… non ne potevamo comprare di meno, un casco è la “porzione” minima.
Dopo circa 2 ore di viaggio arriviamo a Latacunga, dove facciamo una sosta di circa un’ora. Siamo sempre a circa 3000 metri di altezza ed a quest’ora fa molto caldo. Andiamo verso il mercato: si tratta, più che altro, di una grossa macelleria all’aperto con animali scuoiati appesi ovunque e lavoratori che trasportano sulle spalle dei grossi pezzi di carcassa. Ci sentiamo dei pesci fuor d’acqua: qui c’è gente che sgobba, ma per fortuna sembra che non disturbiamo troppo.
Latacunga non offre molto: è una cittadina molto attiva e, come in tutte le città dell’Ecuador, è un continuo via vai di venditori di… qualsiasi cosa! Abbiamo visto un mercatino improvvisato sui binari del treno (ne passa uno la mattina ed uno la sera… durante la giornata allesticono il mercato proprio qui!) con bancarelle che vendevano… un bullone, una ruota di bici, una sedia rotta…
Dopo la breve visita di Latacunga, andiamo in direzione Quilotoa: per arrivarci dobbiamo attraversare varie montagne.
Ci addentriamo nei luoghi degli indigeni campesinos: con i loro vestiti molto colorati, li vediamo intenti a lavorare. C’è chi costruisce nella terra dei canali per l’acqua, chi porta gli animali al pascolo, chi è in attesa del camion del latte per vendere il frutto della giornata di lavoro. Le loro case sono fatte di paglia e fango, sono molto basse ed anche molto piccole; le terre dove vivono sono state donate a queste popolazioni dal governo, quindi finalmente, almeno per il momento, nessuno può sperperarci sopra e questo preserva la loro cultura.
Incontriamo anche molti lama al pascolo: sono animali veramente bellissimi, anche se Gonzalo ci ha consigliato vivamente di non avvicinarci troppo…
Finalmente arriviamo alla laguna di Quilotoa, un luogo incantevole: il colore dell’acqua fa pensare più al mare dei Caraibi che ad una laguna a quasi 4000 metri di altezza nel mezzo delle Ande.
Dopo aver pranzato in una locanda (tipico almuerzo), prendiamo il sentiero che scende fino alla laguna. Il sentiero è molto ripido, sembra di camminare sulla sabbia, anche se si tratta di cenere vulcanica in quanto anche questa laguna si è formata dopo il collasso del cratere di un vulcano. Arriviamo fino alla “spiaggia”, ma poi risaliamo con i cavalli, perché la salita è veramente molto faticosa…
La passeggiata si rivela molto più difficile del previsto perché anche per i cavalli la salita è ripida!! Si fermano ogni pochi passi ed appena vedono un cespuglio ci si buttano a capofitto… anche se siamo sullo strapiombo. Ad Alessia capita il cavallo… scureggione! Ad ogni passo emette un peto e mentre io non smetto di ridere, lei viene sommersa dalla fragranza prodotta dall’equino.
Arrivati in cima, ci dirigiamo a Tigua, la patria dell’arte naif: in questo paesino, quasi tutte le persone adulte si dedicano a questo particolare tipo di pittura (come base hanno la pelle di pecora e si raffigurano scene di vita quotidiana).
Ci fermiamo alla galleria di Alfredo Toaquiza, figlio del fondatore di quest’arte; la galleria è chiusa, ma Gonzalo va a chiamare una delle figlie del pittore che ci apre le porte. La galleria è bellissima: ci sono centinaia e centinaia di quadri di tutte le dimensioni, ci sono anche delle maschere di carnevale fatte di cartapesta. I quadri sono sia di Alfredo che di una delle figlie: vorremmo comprare parecchi quadretti, come souvenir, ma purtroppo ci accorgiamo che abbiamo poco contante (non ci sono bancomat nei dintorni) e siamo costretti a contrattare un bel po’ prima di spuntare un ottimo prezzo. Ci dispiace di non aver potuto comprare più quadri, ma la ragazza ci dice che il padre li può anche spedire in Italia e quindi prendiamo tutti i dati (indirizzo email, sito internet, telefono cellulare). Purtroppo, una volta tornati in Italia ci accorgiamo che il sito internet non esiste più, l’indirizzo email è sconosciuto ed al telefono non risponde nessuno… Noi però non disperiamo, infatti abbiamo contattato Wilson che ci ha assicurato che, quando tornerà a Tigua, penserà a tutto lui.
Dopo gli acquisti, ci rechiamo alla Posada de Tigua, dove ceneremo e passeremo la notte.
La posada attuale è quello che rimane di una vecchia hacienda (si dice che “potevi andare a cavallo anche per 4 giorni e non vedere la fine dell’hacienda”) che adesso però, grazie alla donazione delle terre agli indigeni, è molto più piccola, anche se è sempre sterminata. La posada offre lavoro a molta gente; qui si coltiva di tutto e la corrente elettrica viene fornita autonomamente da una turbina (il proprietario mi ha spiegato come viene prodotta, ma dopo avermi fatto bere il canelazo… non mi ricordo nulla). Per aiutare tutte le famiglie che lavorano qui, i proprietari della posada hanno fatto costruire anche un asilo ed una scuola elementare.
I proprietari, Marco e Margarita, sono molto accoglienti; gestiscono la posada con amore e trattano i clienti come familiari. Ci sono poche stanze, addirittura senza chiave, che si chiudono soltanto dall’interno; si cena tutti insieme e si mangiano soltanto i prodotti della loro terra e per questo motivo abbiamo anche mangiato benissimo.
Sabato 21 maggio: Tigua – Baños de Agua Santa
———————————————————–
La mattina seguente conosciamo Don Vito Corleone, che altro non è che il San Bernardo di Margarita: è un cane così grande che il lupo alsaziano al suo fianco, al confronto, sembra un micetto.
Salutiamo Tigua con un velo di tristezza perché siamo stati veramente bene: una giornata in più qui, per esplorare l’hacienda, ce la saremmo fatta volentieri.
Oggi si va a Baños, la “base” per inoltrarci nella foresta amazzonica.
Per arrivare a Baños ci vogliono circa 4 ore, anche se si tratta di meno di 150km: siamo pur sempre in alta montagna e le strade non sono così perfette.
Man mano che ci avviciniamo a Baños ci approssimiamo anche al vulcano Tungurahua che in questi giorni ha ripreso l’attività e sta emettendo molta cenere: si vede e si sente. L’aria è colma di cenere: abbiamo la sensazione di avere tanti granelli di sabbia sulle labbra, invece si tratta di cenere.
Passiamo per il paesino di Salcedo, patria del gelato, dove quasi tutte le botteghe sono gelaterie: ci domandiamo in che modo sbarchino il lunario queste persone… tutti qui mangiano solo gelato?
Passiamo anche per Ambato, una città che un secolo fa è stata distrutta da un terremoto ed è stata ricostruita sui bordi del canyon formatosi a causa del terremoto stesso.
Da questo punto in poi cominciamo a vedere con i nostri occhi i danni che può fare un vulcano, anche se non erutta e se ci si trova a più di 50km di distanza: le strade sono piene di cenere, le colture sono quasi del tutto andate perse essendo state bruciate dalla cenere stessa e si vedono pochi animali nelle strade (sono stati trasferiti in delle zone più “pure”).
Dopo aver visto il paese dei gelati, passiamo anche per il paese dei jeans, Pelileo: qui sembra che tutti gli abitanti fabbrichino jeans, ci sono più negozi di abbigliamento che abitanti.
Prima di arrivare a Baños vediamo i danni che ha creato l’eruzione del Tungurahua del 1999: una fortissima eruzione ha sommerso strade e paesi ed ha costretto gli abitanti ad evacuare. Per attraversare la colata lavica ormai solidificata siamo costretti a passare sopra dei ponti ancora provvisori.
Decidiamo di andare subito alla Tarabita, una spettacolare funicolare che passa sopra una cascata: le misure di sicurezza non sono propriamente buone… il manovratore ha dalla sua un piccolo motore diesel ed un statua della Madonna in bella mostra… per fortuna rimettiamo piede sulla terraferma sani e salvi.
Dopo la Tarabita, andiamo a lasciare i bagagli in hotel: l’hotel si chiama Donde Ivan e ci accolgono la moglie e la figlia del proprietario intente a cercare di togliere la cenere dai davanzali e dalle terrazze. Anche la nostra stanza è stata “invasa” dalla cenere, in quanto le finestre non erano state chiuse bene, ma siamo così stanchi che evitiamo di farlo notare ai proprietari; quando torneremo dall’Amazzonia, passeremo altre due notti qui e chiederemo di dare una bella pulita alla stanza. L’hotel è molto carino: c’è un bel viale di ingresso con delle belle piante tropicali, tra cui la pianta del caffè, e le stanze sono piccole ma funzionali. Purtroppo, la nostra stanza, anche se è molto luminosa, è con vista sulle case diroccate della periferia di Baños; ce ne importa poco, tanto saremo in hotel solo per dormire.
Andiamo a pranzo con Gonzalo al ristorante Mama Ines sulla via principale, offrendogli il pranzo come ringraziamento per tutte le informazioni che ci ha regalato.
Nel pomeriggio andiamo a vedere i famosi bagni termali comunali che si rivelano essere esattamente come descritto dalle guide: caratteristici ed affollatissimi. L’ingresso costa pochissimo, meno di 2 dollari, ed è frequentato quasi esclusivamente da locali. L’acqua di queste terme è molto torbida in quanto ha una concentrazione molto alta di minerali. E’ divertente vedere tante signore di mezza età, con la loro treccia sempre curata in bella mostra, seguite ognuna da uno stuolo di bambini urlanti.
Abbiamo di nuovo fame, ma qui siamo in una località turistica, quindi gli orari non sono come quelli della Sierra dove si cena molto molto presto: per cenare dobbiamo aspettare almeno fino alle 19.00 (noi a casa non ceniamo mai prima delle 21.00!).
Sarebbe stato “tipico” mangiare il cuy allo spiedo, ma te lo presentano intero, a “quattro di bastoni” con i dentini in primo piano; preferiamo cenare in un ristorante francese (qui a Baños ci sono molti ristoranti internazionali).
Il ristorante si chiama Jardin Mariane e propone cucina francese: come piatto principale prendiamo due fondute di carne e spendiamo in totale 29 dollari; una cena ottima, nonostante un servizio molto molto lento, ma anche divertente (il proprietario è un signore anziano molto impacciato che fa finta di capire solo il francese).
Rientrando in hotel notiamo come in questa cittadina non ci sia differenza tra giorno e notte: c’è moltissima gente in giro, molti ragazzi e, anche se la qualità è scadente, i locali sono abbastanza affollati.
Domenica 22 maggio: Baños de Agua Santa – Puyo – Villaggio Puyo Pungo
——————————————————————————————–
Oggi finalmente si va in Amazzonia; nonostante siamo molto documentati, non possiamo immaginare quello che ci aspetta ed infatti siamo anche abbastanza timorosi.
Attendiamo inutilmente l’autista che ci deve portare al villaggio di Puyo dove abitano le nostre guide indigene; dopo un’ora vana di attesa, chiediamo a Ivan, il proprietario dell’hotel, di informarsi sui motivi del ritardo. Dopo un’altra mezz’ora di attesa, Ivan ci dice è costretto ad accompagnarci lui perché non si sa che fine abbia fatto l’autista.
Il viaggio con Ivan fino a Puyo è molto piacevole: ci racconta dei cambiamenti che ci sono stati nella zona negli ultimi anni, tra cui il miglioramento delle strade che fino a poco tempo fa erano strette e pericolose.
Nell’ora e mezza di viaggio che ci separa da Puyo, passiamo per piccoli villaggi, ognuno con la sua caserma di vigili del fuoco (la vegetazione comincia a cambiare e siamo già nella foresta, quindi i pompieri sono molto utili). Passiamo per un villaggio chiamato Shell, dal nome della compagnia petrolifera che qui ha i suoi stabilimenti; in questo villaggio c’è un aeroporto militare americano la cui pista attraversa anche la strada; da qui partono anche i missionari evangelici che con gli aerei biposto arrivano nelle zone più remote dell’Amazzonia ed, in cambio di viveri e medicinali, evangelizzano gli indigeni… purtroppo qui questa pratica è ancora molto diffusa.
Arriviamo a Puyo ed incontriamo subito Cecilia, la nostra guida: una donna dai tratti tipicamente indigeni che, con la sua famiglia, vive tra questo villaggio e la comunità di Puyo Pungo, la nostra destinazione. A Puyo ha una semplice casa di mattoni (come la casa di Milton ed Estela a Cotacachi) e qui manda i figli a scuola.
Cecilia ci fa provare gli stivali che saranno i nostri compagni in Amazzonia, mai tanto utili, ed il poncho de agua, che scopriremo servire a poco… quando piove in Amazzonia, piove veramente!
A Puyo andiamo a fare la spesa: compriamo tanta acqua e tanta frutta… acquisto quest’ultimo inutile perché nella foresta di frutta ce ne è tantissima a disposizione.
Puyo, essendo l’ultimo villaggio prima dell’ingresso vero nella foresta, è un punto di passaggio ed è un villaggio trafficatissimo sia di persone che di veicoli. Entrare nelle botteghe è un’esperienza unica: in panetteria sono entrato ed ho visto davanti a me almeno due dozzine di persone, le quali, appena mi hanno visto, si sono “aperte” e mi hanno fatto passare davanti a loro. Troppa riverenza nei confronti del “bianco” oppure erano li soltanto a passare il tempo?
Risaliamo sul “carro”, come chiamano i pick-up (in questa zona ci sono solo pick-up), e, dopo aver caricato un bambino autostoppista, con un’altra ora di viaggio arriviamo fin dove finisce la strada.
La pratica dell’autostop qui è la norma: sui pick-up è difficile non vedere persone caricate come “bagagli”; i “carri” sono alla stregua dei mezzi pubblici e questa è una pratica diffusissima. Ci sono anche bambini di 5/6 anni che fanno l’autostop.
Poco prima di scendere dal carro, vediamo un grosso serpente rosso che attraversa la strada: poverino, l’asfalto era così rovente che invece di strisciare, saltava… E questo è solo l’inizio.
Ci inoltriamo con Cecilia nella foresta: nonostante abbiamo con noi solo due zaini (il resto è rimasto in hotel a Baños), siamo stracarichi perché abbiamo anche molta acqua e viveri. Ci aiutiano a portare le cose anche “Carmelona”, una delle sorelle di Cecilia, e la figlia dodicenne Cristina. Ormai anche gli indigeni utilizzano i nomi “occidentali”: un’altra sorella di Cecilia si chiama Filomena!
Dopo una mezz’oretta di sfacchinata, arriviamo al nostro campo che si trova a poca distanza dal villaggio. Si tratta di un piccolo assembramento di palafitte sulla riva di un fiume con uno spazio anche per il “ristorante”, la cucina ed in bagni. Il ristorante consta di due file di panche di legno; la cucina (“cinco estrellas” come dice Cecilia) è composta da una macchina del gas, una bombola ed un recipiente industriale da 550 litri per l’acqua; i bagni sono due, entrambi serviti da un altro recipiente di 550 litri. La pressione dell’acqua è molto bassa; per gli scarichi hanno creato un sistema di scolo lungo molte centinaia di metri che finisce nel fiume.
Nel campo ci siamo solo noi, come turisti; gli altri sono tutti dei locali. Cecilia ci dice che in realtà di turisti qui ne arrivano ancora molto pochi. Speriamo che con l’aumento della sensibilità verso questo tipo di turismo, le cose cambino: l’esperienza che abbiamo vissuto in questi giorni è stata unica. Un lodge da 1000 dollari al giorno non ti può regalare le stesse emozioni: qui non c’è energia elettrica, ma soltanto torcie elettriche e candele.
Qui si cerca di economizzare tutto: l’acqua non si spreca, ma va centellinata, sia quella potabile che quella dei recipienti; i rifiuti prodotti devono essere poi riportati indietro, non bisogna lasciare nulla qui.
Dopo un pranzo, tipico “almuerzo”, ci andiamo a riposare nella nostra palafitta. La “stanza” è molto piccola, c’entra appena il letto coperto da una zanzariera; abbiamo due finestre ovviamente senza vetri, la porta di legno ed il tetto fatto di foglie di palma che sembra paglia ma è molto più resistente.
Dopo la sudata di stamattina, mettiamo i panni ad asciugare senza pensare che non si asciugheranno mai… l’umidità qui arriva anche al 100%.
Nel pomeriggio, dopo esserci cosparsi totalmente di Autan, con Cecilia, Carmelona, Cristina e Bruno (il cane), andiamo nel loro “orto”… Il loro orto è la giungla, quindi hanno di tutto, soprattutto cannella (che spettacolo!), yucca, canna da zucchero e banane. Carmelona si apre la strada con il machete e raccoglie di tutto e ce ne offre sempre una parte.
Anche se Cecilia sa cosa può fare e cosa non può fare con i turisti (si tratta sempre di una guida certificata), almeno all’inizio ci siamo un po’ preoccupati nel mangiare perché, anche se ci siamo vaccinati in Italia, gli indigeni con il machete fanno di tutto, compreso sbucciare la frutta che ci offrono: l’igiene qui lascia il tempo che trova, ma non potrebbe essere diversamente, siamo pur sempre nella giungla! Comunque ci fidiamo di loro: sono così accoglienti, quel poco che hanno te lo offrono e non possiamo non essere felici di questo.
Come è ovvio che sia in Amazzonia… piove, sempre più forte, sempre più forte; Cecilia, per aiutarci, con il machete taglia delle grosse foglie per farcele usare come ombrello (molto utili!). Siamo costretti a rientrare e ci fermiamo nel villaggio di Puyo Pungo, dove vive il resto della famiglia di Cecilia: il villaggio è piccolo, ci saranno circa 40 casupole, alcune di mattoni, altre di canna, altre sono palafitte. Da qualche giorno hanno portato anche l’energia elettrica, ma ancora non c’è acqua corrente, raccolgono l’acqua piovana tramite dei recipienti sopra i tetti.
Alla mia domanda “quanti abitanti ci sono qui?”, Cecilia non ha saputo rispondere con precisione perché qui ogni coppia ha 6/8 figli, che fa 6/8 figli e molti purtroppo non sono registrati all’anagrafe.
Inoltre, molti uomini sposano le donne molto giovani (14/15 anni) e cominciano a fare figli; arrivate a 30/35 anni, gli uomini ripudiano le mogli che vengono lasciate sole, perché le vedono “vecchie”. Alcuni di questi uomini vengono cacciati dal villaggio, mentre per altri non ci riescono, dipende dal livello sociale. Purtroppo qui, nonostante gli sforzi profusi dalle autorità, ci sono ancora le leggi non scritte che consentono agli uomini di usare la donna come oggetto. Per fortuna, le cose stanno cambiando e, forse, la prossima generazione eliminerà totalmente questa pratica.
Nel villaggio giochiamo un po’ con la scimmietta e con il pappagallo di Cristina, Lora, che quando piove diventa una chiacchierona: in effetti, non smette un momento di parlare ed addirittura dopo averla sentita… imita la mia risata!
Torniamo alle capanne per la cena e conosciamo finalmente Enrique, il marito di Cecilia: Enrique è come te lo immagini, un omone con un vocione con i tratti tipici indigeni… gli manca solo il cappello con le piume e la lancia.
Enrique viene soprannominato dai suoi amici “mandarina” (che vuol dire “gay”), perché aiuta la moglie nelle faccende di casa ed anche in cucina… forse in questa regione è il solo a farlo!
Mentre Enrique ci intrattiene, vediamo Cecilia e Carmelona intente a cucinare. E’ già buio e loro cucinano con legata alla testa una torcia da minatore… ma non potrebbero preparare prima?
La cena preparata da Cecilia e Carmelona è squisita: come al solito c’è una zuppa ed un piatto unico, ma i sapori qui sono diversi che dalle altre parti, sembra di essere tornati indietro di 100 anni!
Nonostante siamo cosparsi di autan e coperti il più possibile, le zanzare con noi fanno festa: Enrique dice che “hanno sentito l’odore di sangue europeo” e poi ci dice che domani ci applica una pianta medicinale per eliminare il gonfiore (ed è vero, altro che medicine!).
Dopo cena ci ritroviamo tutti intorno al fuoco; sono venute anche altre persone, tra cui un’altra sorella di Cecilia, 40 anni e già nonna. Questa donna è il tipico esempio di donna abbandonata, anche se, nel suo caso, il marito è stato cacciato dal villaggio… e ti credo, con un cognato come Enrique ti conviene scappare!!
Ci viene offerta la chicha, bevanda tipica indigena: la tradizione vuole che sia preparata tramite la fermentazione di mais misto a saliva di donna indigena… sapendo che non accettarla equivarrebbe ad un’offesa, noi la beviamo. Ha un sapore simile alla carne, ma, almeno per le nostre papille gustative, non è buona.
Enrique e Cecilia ci raccontano molte cose sulla vita di oggi e del passato in Amazzonia; li ascolteremo per ore, ma siamo stanchissimi e, anche se a malincuore, dopo un po’ andiamo a dormire.
Nel cammino verso la capanna, vediamo che Enrique ha riempito il sentiero con alcune lampade a gasolio, utili sia per indicarci la strada che per tenere lontani gli animali.
Alziamo gli occhi verso il cielo e vediamo che la natura vista da qui è spettacolare: le stelle sono vicinissime e sembra di essere nello spazio.
La notte non è tranquilla, ma solo per una suggestione: nella notte gli animali escono dalle tane e si sentono, eccome se si sentono. Nonostante le rassicurazioni che ci hanno dato, se mai dovessimo aver bisogno di andar in bagno di notte… ce la teniamo, ma chi è lo scemo che va di notte in giro in Amazzonia?
Ad ogni modo, siamo così stanchi che prendiamo subito sonno.
Lunedì 23 maggio: Villaggio Puyo Pungo
————————————————–
Ci svegliamo all’alba; il sole deve ancora sorgere e all’orizzonte si vede la nebbia notturna che lentamente si dissolve. E’ il momento ideale per fare delle foto da fare invidia al National Geographic.
Dopo la sostanziosa colazione, armati di machete, Autan, stivali, poncho de agua e fiato… ci inoltriamo con Enrique nella foresta primaria; ci aspetta un’escursione molto difficile, ma molto appagante.
Dato che dovremo passare per due cascate sacre agli indigeni, Enrique ci dipinge il volto con l’essenza rossa di un frutto del quale non ricordo il nome (simile al litchi) e ci spiega perché bisogna fare così: si tratta di un rito per tenere lontano gli animali feroci e la morte.
Il cammino è molto duro: Enrique ci apre la strada con il machete, a volte si ferma per capire se la direzione che stiamo seguendo è quella corretta. Qui non ci sono punti riferimento, ma solo alberi, liane e vegetazione; a proposito, ma quanto sono pesanti e scivolose le liane! Ma come faceva Tarzan?
Finalmente entriamo nella foresta primaria: è qualcosa di indescrivibile. Qui incontriamo la “natura”: ci sono tutte le piante che compriamo ai vivai (orchidee, anthurium, ecc.) che da noi, negli appartamenti, riescono a vivere per poco tempo… ti credo, ma come fai a mettere in un appartamento una pianta che in natura vive costantemente con un’umidità al 100% ? E’ come tenere in casa un giaguaro!
Ci sono alberi altissimi, radici enormi scoperte, altri alberi che cadono, liane e fango, tanto fango! Le volte che siamo caduti non si possono contare: per fortuna che si cade sempre sul fango e quindi non ci si fa male.
Enrique ci fa notare un alveare enorme situato a circa 30 metri di altezza; per farci capire quante api ci sono dentro, batte sul tronco un grosso masso per farle uscire (stanno molto in alto quindi non ci vedono), ne saranno uscite fuori a milioni!
Arriviamo finalmente alla prima cascata e qui Enrique ci fa vedere una sua opera: un grosso masso con sembianze umane, che lui scolpisce con il machete ogni volta che passa qui, sia da solo che con i turisti.
Comincia a piovere, sempre di più, sempre di più: adesso capiamo cosa vuol dire “pioggia tropicale”, sembra che ti stanno svuotando una piscina in testa!
Arriviamo alla seconda cascata, totalmente fradici. Enrique vuole fare il bagno e ci chiede di accompagnarlo: non abbiamo molta voglia, però… ma quando ci ricapiterà di fare il bagno in un fiume amazzonico? Io vado, ma Alessia preferisce di no e rimane riparata ad aspettarci.
Enrique mi “consiglia caldamente” di tenermi gli stivali (ci potrebbero essere pesci non proprio accoglienti in acqua); nuotando alla Fantozzi, arriviamo sotto la cascata, dove, nascosti negli anfratti vivono migliaia di golondrinas che sono degli uccelli un po’ rondine ed un po’ pipistrello. Enrique si avvicina ai loro nidi per farli volare e ne scappano tantissimi; riesce anche a catturarne uno, per poi lasciarlo libero.
La pioggia aumenta ancora di intensità e siamo costretti a tornare indietro, rivestirci (vestiti zuppi) ed andare alla ricerca di un riparo che troviamo in una vecchia capanna.
Dopo circa un’ora smette di piovere e, stanchi ma appagati, arriviamo fino al fiume dove ad attenderci c’è una canoa con la quale risaliamo il fiume fino ad arrivare alle nostre capanne, dove finalmente mangiamo e ci concediamo una colossale dormita sulle amache… quanto si dorme bene sulle amache!!
Enrique vuole che gli diamo i vestiti che abbiamo usato oggi, così li fa lavare da qualche “chica” del villaggio; in effetti, sono così pieni di fango che sono irrimettibili.
Il pomeriggio lo passiamo oziando e contemplando il panorama che è indescrivibile.
Dopo una cena leggera, ci ritroviamo tutti intorno al fuoco.
Durante la notte sentiamo sul tetto della nostra capanna un continuo grattare; probabilmente qualche animale ha deciso di passare la notte lì…
Martedì 24 maggio: Villaggio Puyo Pungo
————————————————–
Raccontiamo subito a Cecilia ed Enrique di quello che è successo la notte; ci dicono che quasi sicuramente si tratta di un bradipo (sembra che i tetti delle capanne siano più comodi degli alberi).
A colazione Cecilia ci prepara delle spettacolari frittelle di banana… non so quante me ne sarò mangiate!
Anche oggi la giornata sarà molto intensa.
Cominciamo con la visita alla scuola del villaggio: la scuola è nuova ed è composta da due classi, una per i bambini dai 6 ai 9 anni ed una per i bambini dai 10 ai 13 anni. I maestri vengono dal villaggio di Puyo e per questo la scuola è aperta soltanto 2 giorni a settimana. Gli alunni sono molto educati; evitiamo di entrare nelle classi per non disturbare le lezioni. Una cosa, però, non può passare inosservata: sul banco di Cristina è appollaiata anche Lora, il pappagallo, che la segue dappertutto.
Dopo la scuola, si va a pescare: gli indigeni hanno scavato nella terra delle vasche dove allevano dei pesci, le tilapie. Abbiamo assistito alle tecniche di pesca che sono ancora molto arretrate e, infatti, per pescare un pesce impiegano molto tempo. Gli stessi pescatori che abbiamo conosciuto oggi, però, vanno anche al fiume a pescare con la dinamite, rischiando sia una salata multa che la vita stessa.
E’ il momento di andare a trovare il padre di Enrique, che è anche uno sciamano, che vive dall’altra parte del fiume. Attraversiamo il fiume in “canoa” (in realtà è un vecchio pezzo di legno) ed arriviamo nell’accampamento: anche lui accoglie dei turisti, forse qui ne vengono un po’ di più che nel campo di Enrique e Cecilia.
Nel campo facciamo la conoscenza di un cobra, che Enrique si mette in spalla, di un tucano e di vari pappagalli. Inoltre, c’è anche un piccolo bazar nel quale si vendono delle creazioni delle donne del posto: collane, braccialetti, orecchini e lavori con il legno. Facciamo degli ottimi acquisti, spendendo pochissimo. Nel bazar ci sono esposte molte pelli di animali: orsi, caimani, giaguari, tigrotti, ecc. Si tratta di “trofei” catturati dal fratello di Enrique, il quale ha un allevamento di bovini ed a volte è stato costretto ad uccidere i predatori presenti nella zona che gli stavano decimando l’allevamento.
Vediamo in lontananza dei pompieri sommozzatori: purtroppo sono arrivati fin qui per cercare un ragazzo che si è avventurato in canoa nel fiume e che ha fatto perdere le proprie tracce. I pompieri, per cercarlo, vanno in direzione degli avvoltoi, sperando almeno di trovare il corpo. Enrique ci confida che non troveranno nulla perché in quella zona ci sono molte anaconde…
Dopo questa triste notizia, ci avviamo verso un punto panoramico; con una scarpinata non da poco, arriviamo in un punto dove il panorama è mozzafiato. Qui Enrique ci insegna ad utilizzare la cerbottana… sembra un gioco, ma per imparare dare un colpo secco e mantenere la freccia nella giusta direzione ci vuole molto allenamento.
Scendiamo per arrivare nella laguna dei coccodrilli e delle anaconde. Prima di arrivare, ci vengono date molte raccomandazioni: rimanete sempre dietro di me, attenzione a non mettere i piedi nell’acqua, fate silenzio, ecc.
Purtroppo non c’è molto sole, quindi riusciamo a vedere soltanto un coccodrillo: questo basta a far salire i battiti a mille. Nella stessa zona incontriamo le formiche delle foglie (sono formiche piccolissime che trasportano delle enormi foglie) e le formiche al limone, che ho anche assaggiato (sì, sanno proprio di limone!).
Sull’alimentazione degli indigeni, Enrique ci ha raccontato di come, fino a qualche decennio fa, mangiavano soltanto quello che era disponibile nella foresta: scimmie, tigri ed anche questo tipo di formiche faceva parte della loro dieta. Adesso, dopo che anche loro hanno cominciato ad allevare bovini e pollame, la loro dieta è cambiata radicalmente, anche se è ancora molto genuina; inoltre, le specie che prima mangiavano sono protette.
Torniamo al nostro campo e, dopo il pranzo (a base di tilapia cotta in foglie di banano), andiamo con Cecilia alla scoperta delle piante medicinali. Oltre ad una descrizione approfondita delle piante medicinali e al loro utilizzo, Cecilia ci racconta anche di quanto siano tuttora importanti i riti magici nella loro cultura, prendendo come spunto anche quello che fa il padre di Enrique, che è uno sciamano; Cecilia ci dice che in Ecuador arrivano anche dei turisti soltanto per provare l’effetto allucinogeno dell’ayahuasca (estratto di una pianta), che è una pratica che, se non praticata in maniera corretta, è molto pericolosa e può portare anche alla morte.
Le donne del villaggio, tuttora, per un qualsiasi problema di salute difficilmente vanno a curarsi in città in quanto hanno paura della medicina classica (la città è anche troppo distante); inoltre, quando devono partorire si rifiutano di farlo in ospedale perché hanno paura del parto cesareo che le renderebbe inabili al lavoro nei campi.
Dopo cena, Cecilia ci racconta di quando ha deciso di spostarsi con la sua famiglia al villaggio di Puyo, dove c’è anche un università: lo ha fatto per dare la possibilità di studiare ai suoi due figli ed è molto soddisfatta di questo. Quando arrivano dei turisti, però, si trasferisce con Enrique per tutto il tempo della permanenza dei turisti stessi al villaggio di Puyo Pungo, lasciando i “bambini”, come li chiama lei (21 e 15 anni) da soli. E’ una coppia atipica: e pensare che per la loro comunità a 15 anni già si deve avere almeno un figlio! Inoltre, sembra che il figlio maggiore voglia seguire le orme dei genitori e continuare a gestire le attività di turismo comunitario.
Di notte, sentiamo ancora il nostro amico bradipo che gratta sul tetto della capanna; purtroppo questa è l’ultima notte che passiamo in questo paradiso, a contatto con la Natura con la “N” maiuscola.
Mercoledì 25 maggio: Villaggio Puyo Pungo – Baños de Agua Santa
———————————————————————————–
Oggi lasciamo l’Amazzonia con un velo di tristezza e con la speranza un giorno di poterci tornare perché l’esperienza vissuta insieme alla famiglia che ci ha ospitato è stata fantastica.
Dopo aver percorso a ritroso il sentiero che ci porta fino alla strada carrozzabile, attendiamo il carro che ci verrà a prendere… ma che arriva con un ritardo di circa un’ora e mezza rispetto all’orario stabilito ed inoltre sotto la pioggia.
Cecilia è su tutte le furie, anche perché deve andare a parlare con i professori di suo figlio minore; anche noi siamo molto arrabbiati perché per l’ennesima volta subiamo un contrattempo che, a nostro parere, non è un più un contrattempo ma una disorganizzazione cronica.
Tornati a Puyo, salutiamo Cecilia non come vorremmo perché lei deve correre a scuola.
Torniamo a Baños, dove andiamo a riposarci nella nostra stanza (stavolta molto più pulita) dell’hotel Donde Ivan.
Approfittiamo della presenza di numerose lavanderie a prezzo economico per portare a lavare (o meglio “sgrossare”) gli abiti che abbiamo indossato in Amazzonia e che presentano vistose macchie di fango ed erba. Ci siamo rivolti alla lavanderia La Herradura, sempre in centro a Baños, dove per 70 centesimi di dollaro al chilo, nel giro di un’ora abbiamo ritirato tutti gli indumenti.
Appena possibile andiamo in un internet point per scrivere una mail di protesta all’agenzia che ci ha organizzato il viaggio, sottolineando che, se si dovessero presentare ulteriori problemi in fase di trasferimento, avremmo preso un taxi senza attendere le ore e chiedendo a loro il dovuto rimborso. La risposta non si fa attendere ed infatti, oltre alla telefonata di scuse da parte dell’agenzia locale alla quale si appoggia l’organizzatrice, arriva anche il parere positivo alla nostra richiesta. Per fortuna, da questo momento in poi, i “contrattempi” saranno finiti, forse per la nostra forte presa di posizione o forse perchè si è trattato di reali contrattempi.
Passiamo il pomeriggio a passeggio per la cittadina di Baños e ceniamo al ristorante svizzero Swiss Bistro dove prendiamo come portata principale una fonduta di formaggio ed in totale spendiamo 29 dollari in due; bel posto, ma preferiamo il Jardin Mariane.
Giovedì 26 maggio: Baños de Agua Santa
————————————————–
Oggi è previsto totale relax. Siamo in una cittadina termale e quindi ci dedichiamo finalmente al rilassamento totale. Andiamo al Centro de Hidroterapia Gamboa, dove ci concediamo vari trattamenti termali ad un prezzo irrisorio (30 dollari a persona per un pacchetto comprendente fanghi, bagni di vapore, idromassaggio e piscina).
La giornata scorre così: si tratta dell’unica giornata di riposo dell’intera vacanza.
A cena andiamo di nuovo al ristorante Jardin Mariane (spiedini di pesce e carne alla griglia per un totale di 31 dollari in due) .
Venerdì 27 maggio: Baños de Agua Santa – Salinas de Guaranda
——————————————————————————
Stamattina c’è una gradita sorpresa a colazione: c’è Wilson! Considerando come sono andati gli altri trasferimenti, per noi Wilson è una visione celestiale…
Per arrivare fino a Salinas de Guaranda (uno dei villaggi più freddi di tutto l’Ecuador, a 3500 metri s.l.m.) dobbiamo passare molto vicino al Chimborazo, il vulcano più alto dell’Ecuador con i suoi 6300 metri di altezza. Dalla strada sembra di poter toccare con mano il cratere del vulcano: ci fermiamo nel punto più vicino al cratere, siamo circa a 5500 metri s.l.m.. Da qui si vedono in lontananza branchi di vigogne allo stato brado; a quest’altitudine fa molto freddo, si fa fatica a respirare e c’è un vento molto forte, siamo costretti quindi a ripartire subito.
Dopo circa 5 ore di viaggio, arriviamo a Salinas de Guaranda: per conoscere la storia del paese, basta andare su google e si trovano milioni di risultati. Per dirla in breve, la piccola comunità è passata dall’essere una comunità montana a rischio spopolamento ad essere un esempio di lavoro comunitario per il resto del Sud America e tutto questo grazie alla tenacia di un salesiano italiano, Antonio Polo. Nella cittadina sono sorte decine di piccole fabbriche, quasi tutte produttrici di articoli riportanti il marchio “El Salinerito”; alcune di esse sono inserite nel circuito del commercio equo e solidale e vendono anche in Italia sia tramite la grande distribuzione che tramite il circuito Altromercato.
Desiderosi di approfondire la conoscenza di questa comunità, arriviamo a Salinas; alloggeremo al Rifugio Comunitario. La stanza è fredda, anzi gelida e per giunta mal ridotta: il termometro segna 12 gradi. Per fortuna ci danno una stufetta che ci scalda un po’.
Dopo il pranzo ci viene assegnata la guida, un certo Don Victor.
Capiamo subito che non abbiamo a che fare con una persona molto prolissa… peccato che non abbia detto neanche una parola: lui camminava davanti e noi dietro, sembravamo due carcerati in libera uscita. Capiamo subito che aria tira, anche perché alle nostre domande riceviamo delle risposte molto scarne ed anche inesatte. Ce ne andiamo davanti a lui a girare per le bancarelle, in quanto lo stesso giorno c’era anche la festa del paese; nella piazza si svolge un torneo di equavolley, uno sport simile alla pallavolo ma con regole un po’ diverse (qui è lo sport nazionale!) e si gioca sempre con un sottofondo, non tanto “sottofondo”, di musica ad altissimo volume.
In piazza vediamo Wilson al quale chiediamo di essere lui a farci da guida, essendo stato qui a Salinas almeno una ventina di volte; non appena Don Victor ci ha visto allontanare dalla piazza ci ha candidamente detto: “Bene. Con questo per oggi abbiamo finito. Ci vediamo domani.”. Che faccia da c***. Si, si, aspettaci…
Con Wilson andiamo a vedere la fabbrica di cioccolato e la fabbrica di palloni da calcio.
Torniamo nel rifugio dove incontriamo la persona che ci ha assegnato la sedicente guida, il quale candidamente ci chiede “com’è andata?”. Siamo molto arrabbiati e manifestiamo con rabbia il nostra contrarietà, chiedendogli se pensa che gli italiani siano stupidi… il giorno dopo, guarda caso, le cose cambiano.
La nostra impressione è che questo paese sia popolato da tante persone che lavorano, mentre un piccolo gruppo di persone, che non ha voglia di lavorare, si occupa dell’ “accoglienza” dei turisti, con risultati molto scadenti.
La cena nel rifugio ci sembra più che altro un intruglio di avanzi del pranzo… pessimo!
Per tutta la notte sentiamo la musica ad alto volume provenire dalla piazza; la festa è finita alle 7.00 di mattina e, cosa assurda, abbiamo sentito sempre la stessa canzone!!
Sabato 28 maggio: Salinas de Guaranda – Guayaquil
—————————————————————
Appena svegli andiamo subito al caseificio: nonostante l’ora, siamo all’alba, c’è un via vai continuo di persone, asini e lama che consegnano il latte.
In questa comunità ci sono moltissimi piccoli produttori di latte. C’è chi porta un piccolo contenitore da 5 litri e che porta grossi “bestioni” da più di 200 litri; vediamo molti bambini che consegnano il latte e poi vanno a scuola. Qui i produttori vengono pagati abbastanza bene, i pagamenti sono sempre puntuali e si vede anche nei loro occhi che sono contenti di come è gestito il caseificio. A Salinas non si pastorizza il latte, ma si produce soltanto formaggio che poi viene venduto in tutto l’Ecuador.
Dopo colazione, incontriamo la guida che ci hanno assegnato, Luis, e stavolta si tratta di una vera guida. Con lui andiamo a vedere tutte le fabbriche aperte: la cioccolateria, la fabbrica della soia, la fabbrica dei palloni, la vecchia saliera (da cui il nome Salinas), la maglieria.
Nella fabbrica di cioccolato ci viene spiegato che tempo fa sono venuti degli emissari della Ferrero per insegnare ai salineriti a lavorare il cioccolato ed a produrlo come piace agli europei.
Ci è rimasta impressa la fabbrica dei palloni: qui si assemblano a mano dei palloni da calcio, ma viene impresso sopra il marchio Mikasa (una fabbrica giapponese) in quanto, ci dicono, se mettono il loro marchio, El Salinerito, non riuscirebbero a venderlo all’estero.
Andiamo anche a parlare con un gruppo di donne che producono maglioni ed accessori di lana e li vendono anche in Italia. Le loro creazioni sono belle, però purtroppo in Europa non hanno molto mercato. Prendiamo come esempio i maglioni: essendo fatti solo di lana, dopo un po’ di tempo si allentano, si ammosciano (come i “maglioni della nonna”) e per questo non riscuotono tanto successo.
Il mercato equo e solidale, a parer mio, non è tanto equo per queste donne: per un cappello di lana che da noi troveremo in vendita a 15 euro, le donne vengono pagate al massimo 3 dollari. Le signore si lamentano molto di questo e, al sentire i nostri racconti, si arrabbiano anche di più. Una di loro vorrebbe venire in Italia a vendere direttamente lei le sue creazioni perché ritiene, a ragione, di essere sfruttata.
Forse è questo l’unico ambito in cui vediamo le persone non soddisfatte di quello che fanno.
Ringraziamo Luis e andiamo a pranzare.
Partiamo subito dopo pranzo, dobbiamo arrivare a Guayaquil: nello stesso giorno passiamo da uno dei posti più freddi dell’Ecuador ad uno dei posti più caldi.
A metà strada incontriamo una nebbia fittissima e Wilson ci dice che questo è normale: stiamo scendendo molto di quota e siamo in un punto dove si incontrano aria fredda ed aria calda e qui c’è nebbia tutto l’anno.
Le strade si fanno man mano peggiori. Non faccio in tempo a dire a Wilson “qui i gommisti fanno fortuna” che foriamo!! In meno di 5 minuti siamo pronti a ripartire (si vede che Wilson è abituato…).
Arriviamo finalmente al livello del mare: ci sono enormi piantagioni di banane, di cacao, di riso e di soia. Qui c’è molta povertà: vediamo molte case fatte di canna. In questi luoghi torneremo alla fine del viaggio.
Arriviamo a Guayaquil, salutiamo Wilson, che incontreremo di nuovo a Quito, ed incontriamo la nostra guida, Luca.
Luca è un italiano trapiantato in Ecuador, che, venuto qui per volontariato, è rimasto ed ha fondato un agenzia di viaggi; fa la spola tra Italia ed Ecuador in quanto la sua famiglia vive a Trento.
Dopo esserci riposati un po’ in hotel (stavolta è un 4 stelle, l’Hotel City Plaza), ci incontriamo con Luca ed andiamo alla scoperta di Guayaquil. A differenza di Quito, si tratta di una città moderna; passeggiando nel centro, non sembra di essere in Ecuador. I palazzi delle banche sono enormi, le strade sono molto pulite e, a differenza delle altre città fin qui visitate, i fili della corrente elettrica sono interrati; la reputazione di Guayaquil è quella di essere una città molto pericolosa, ma, almeno in centro, il problema sicurezza non esiste. Passeggiare sul nuovo Malecon, il lungofiume, è molto piacevole. Arriviamo anche al quartiere storico di Las Penas, totalmente ristrutturato, che è un posto molto caratteristico.
Peccato che rimaniamo a Guayaquil solo una notte, sarebbe stato bello approfondire la conoscenza di questa bella città.
Ceniamo al ristorante Aroma Cafè, situato lungo il Malecon; una cena sotto la media (ceviche e pollo grigliato per un totale di 30 dollari in due), forse ci siamo troppo abituati ai sapori della Sierra e dell’Amazzonia.
Domenica 29 maggio: Guayaquil – Puerto Ayora (Galapagos)
————————————————————————–
Stamattina sperimentiamo la colazione a buffet ecuadoriana: qui è quasi tutto a base di frutta, che favola!
Dopo colazione ci viene a prendere Luca e ci porta in aeroporto, da dove partiremo per arrivare all’Isola di Baltra. Prima di imbarcarci, dobbiamo portare le valigie che imbarcheremo al controllo specifico per le Gapapagos: dato che è un arcipelago protetto, ma protetto veramente(!), è necessario verificare che i turisti non portino alcuna cosa che possa danneggiare la fauna endemica. Peccato che il metal detector è rotto e che non ci facciano alcun controllo… contraddizioni ecuadoriane!
Il volo lo effettuiamo con la compagnia locale TAME: l’aereo sembra nuovo ed il servizio è molto buono. Non ce lo aspettavamo. Il volo è molto tranquillo.
Prima di atterrare, il personale di bordo spruzza insetticida su tutti i bagagli a mano, sempre con lo scopo di prevenire danni alla fauna endemica.
Dopo un’ora e mezza di volo atterriamo all’aeroporto di Baltra.
L’aeroporto è piccolissimo, forse più piccolo di un capolinea di autobus a Roma; qui atterrano si e no 4 aerei al giorno. Per effettuare le operazioni di sbarco si forma una discreta coda: paghiamo l’ingresso al parco (100 dollari a testa) e ritiriamo i nostri bagagli (non esiste un “ritiro bagagli”, ma le valigie vengono lasciate a terra, accanto alle uscite).
Incontriamo subito Marlon, la nostra guida, che ci porterà in hotel: per andare dall’isola di Baltra, dove c’è soltanto l’aeroporto, all’isola di Santa Cruz, dove alloggeremo, bisogna prendere l’autobus che porta al canale di Itabaca e da qui si prende il battello per Santa Cruz; su quest’isola prendiamo il taxi per Puerto Ayora (qui esistono soltanto pick-up, non si vedono berline o similari).
Appena saliti sul battello, abbiamo subito un antipasto di quello che vedremo nei prossimi giorni: gruppi di pellicani si tuffano in picchiata per pescare ed escono dall’acqua con il becco gonfio… si, siamo arrivati alle Galapagos!!
A Santa Cruz esiste una sola strada che unisce i due opposti dell’isola; in 45 minuti circa si percorre tutta l’isola e si arriva al punto opposto, Puerto Ayora. Durante il tragitto, Marlon ci inizia a raccontare gli aspetti storici e naturalistici dei quali approfondiremo la conoscenza nei prossimi giorni.
Siamo in un vero paradiso e lo si nota dai piccoli particolari: il tassista, quando vede degli uccelli sull’asfalto, si ferma e suona il clacson per farli scappare. Anche gli uccellini qui sono protetti!
Durante il tragitto, vediamo dei villaggi e domandiamo come si guadagnino da vivere gli abitanti; scopriamo che tutte le persone di queste isole lavorano per il turismo, sia direttamente che indirettamente.
Arriviamo a Puerto Ayora, all’Hotel Fernandina. L’hotel è molto carino, il proprietario è estremamente cordiale e disponibile. L’unico neo di questo hotel è dato dalla luminosità delle stanze che, affacciando tutte sul patio interno, costringono gli occupanti a chiudere le tende interne alla stanza. Per il resto, è da consigliare.
A differenza della maggioranza dei turisti che vengono alle Galapagos, non abbiamo scelto una crociera, ma una vacanza stanziale; ne è valsa la pena. Forse un giorno, se mai ci torneremo, faremo anche la crociera…
Purtroppo nel pomeriggio ho un attacco tardivo di diarrea del viaggiatore; dopo due settimane di viaggio abbiamo abbassato la guardia e l’organismo mi ha fatto capire che non è ancora abituato all’Ecuador… Nonostante ci fossimo portati con noi quasi una farmacia intera, il farmaco necessario non lo abbiamo con noi e siamo andati a comprarlo in farmacia, dove, con stupore, scopriamo che i farmaci vengono venduti a singole unità e non a confezioni intere… mica come in Italia dove se hai bisogno anche solo di un’aspirina ti devi comprare una scatola intera!
Il pomeriggio lo passiamo a riposare, perché il “pupo”, cioè io, sta un po’ male.
Poco prima di cena ci incontriamo con Marlon, il quale ci spiega cosa andremo a visitare il giorno dopo: Marlon stasera è un po’ “allegrotto” (un bicchiere di troppo?). Assumendo atteggiamenti da circense, ci racconta quello che ci aspetterà e ci fa anche ridere.
La sera passeggiamo per Puerto Ayora che scopriamo essere un piccolo paesino, molto tranquillo, dove oltre al lungomare c’è poco altro.
Notiamo che qui ci sono quasi più farmacie che case: in molti casi le farmacie sono una di fronte all’altra oppure una accanto all’altra. Abbiamo chiesto le motivazioni di questa “stranezza”, ma non ce lo hanno saputo spiegare; forse per gli abitanti del posto questa è una cosa normale…
Passiamo davanti ad una “pescheria”, che altro non è che il punto di attracco dei piccoli pescherecci che tornano dalle battute di pesca con grossi tonni e pesci spada. Mentre i pescatori puliscono il pesce, si formano capannelli di leoni marini e pellicani che cercano di rimediare qualche scarto gratis. La scena è molto divertente, ma anche commovente quando vediamo un pellicano senza una parte del becco che riceve il pesce direttamente in bocca. Devono essere molto pazienti questi pescatori perché lavorare in queste condizioni (animali in mezzo alle gambe e turisti che fotografano ovunque, anche disturbandoli mentre lavorano) non deve essere molto facile. C’è anche un leone marino che, come fosse un gatto, si alliscia le gambe di un pescatore in attesa del suo pesce.
Decidiamo di cenare in una pizzeria italiana (la prima volta che lo facciamo durante un viaggio all’estero) e, come immaginavano, non ne vale la pena. La pizzeria si chiama La Dolce Italia e la sconsigliamo, ma solo perché si mangia al gusto dei turisti americani e per noi non va bene. Il proprietario è un vecchio signore di origini siciliane, molto cordiale.
Lunedì 30 maggio: Bartolomè (Galapagos)
—————————————————
Stamattina alzataccia! Per un malinteso, non siamo stati avvisati che il pullmann, con il quale andremo fino all’imbarco, ci sarebbe passato a prendere alle 6.00, due ore prima dell’orario previsto.
Non c’è problema: siamo alle Galapagos, svegliarsi prima è anche positivo!!
L’organizzazione delle escursioni previste oggi e domani è della Santa Fe II, un’agenzia con base a Puerto Ayora che si occupa di escursioni giornaliere; Santa Fe II è anche il nome della barca che ci porterà sulle isole.
In 45 minuti arriviamo dall’altra parte dell’isola dove ci imbarchiamo sulla Santa Fe II che in due ore circa ci porterà all’isola di Bartolomè.
La barca è molto bella: siamo circa 20 turisti (4 italiani, una decina di americani, 4 cileni e 2 tedeschi), 4 membri dell’equipaggio e 2 guide naturalistiche e c’è spazio per tutti. C’è una bella cucina, una sala da pranzo, un solarium ed anche delle camere per riposare; l’equipaggio e le guide sono molto competenti e disponibili.
La navigazione è molto tranquilla; in circa 2 ore arriviamo a destinazione.
Lo sbarco è asciutto: dalla barca saliamo sul gommone che ci porterà alla piccola banchina da dove inizia un lungo sentiero di scale che ci porterà fino alla sommità dell’isola.
Sull’isola fa molto caldo e c’è molto vento: la selezione naturale ha fatto sì che qui possano sopravvivere soltanto poche specie di flora e fauna, tra cui le lucertole della lava ed alcuni tipi di cactus. Dalla sommità dell’isola si apre un panorama meraviglioso: le Galapagos sono isole vulcaniche, ancora attive, e da quassù si vede anche un cratere sommerso.
Riscendiamo e cerchiamo di risalire sul gommone… facciamo un po’ di fatica perché la banchina si è popolata di leoni marini ed iguane marine (questo è il loro regno, siamo noi gli ospiti!).
Con il gommone, arriviamo fino ad una spiaggia dove potremo stare per circa un’ora: per preservare l’integrità del posto, siamo molto controllati dalle guide. Siamo autorizzati a muoverci soltanto entro determinati limiti ed in determinati orari; i controlli sono molto incalzanti ed è giusto che sia così!
La spiaggia è una meraviglia; fortunatamente ci siamo soltanto noi ed un altro gruppo di turisti, quindi si sta benissimo.
Ci tuffiamo subito in acqua (23 gradi, si sta bene!) e ci pare subito evidente che tutto quello che abbiamo visto fino ad oggi nei mari è nulla rispetto a quello che c’è qui: sembra di essere in un documentario ed è un peccato non conoscere bene la fauna marina. Branchi di pesci di mille colori, pesci anche divertenti nelle forme, leoni marini che nuotano in tutte le direzioni, stelle marine enormi, ecc.
Sugli scogli ci sono dei granchi rossi enormi che al nostro passaggio cercano di mettersi al riparo. Vediamo anche molte iguane marine stese al sole e molti leoni marini che dormono; uno di loro ha fatto uno sbadiglio così forte che, non conoscendo il comportamento di questi animali, ci ha fatto prendere uno spavento non da poco.
Riusciamo a vedere anche i pinguini delle Galapagos; sono molto piccoli e si mimetizzano facilmente tra le rocce.
Rimaniamo per un bel po’ di tempo fermi, incantati, nel vedere questo spettacolo, tanto che le guide sono costrette a venirci a prendere con il gommone perché altrimenti saremmo rimasti ancora a lungo a contemplare questo paradiso.
Torniamo in barca dove ci servono un semplice pranzo (complimenti ai cuochi, devono essere anche dei funamboli per cucinare in barca con il mare grosso) e, navigando in condizione un po’ difficoltose a causa del mare grosso, ritorniamo sulla terraferma e rientramo in hotel.
Qui incontriamo Marlon il quale, stavolta in maniera molto più sobria, ci spiega il programma del giorno seguente.
La sera abbiamo voglia di cenare nel bellissimo giardino dell’hotel, pieno di piante tropicali; andiamo a comprare qualcosa in un supermercato e passiamo la serata nel più totale ozio.
Martedì 31 maggio: Seymour Norte – Bachas (Galapagos)
———————————————————————-
Alle 8.00 ci passa a prendere il pullmann; stesso tragitto, stessa barca e stesso gruppo di ieri.
In un’oretta di navigazione arriviamo a Seymour Norte; lo sbarco è sempre asciutto, ma quando saliamo sul gommone vediamo sotto di noi un grosso squalo di almeno 4 metri.
Questa è un’isola dove c’è molta vita; è un isola pianeggiante piena di vegetazione e qui le condizioni sono ideali. Gli animali ce li troviamo direttamente sui sentieri: ci avviciniamo, senza toccarli (non si può!), e loro non hanno paura per niente di noi. Qui abbiamo visto: iguane marine, leoni marini, sule dai piedi azzurri, fregate, gaviote, iguane terrestri, lucertole della lava ed infinite altre varietà di animali e uccelli più piccoli.
Le sule sono nella stagione degli amori e quindi ci sono tantissime coppie: la femmina canta, il maschio danza, è molto emozionante. Ci si può avvicinare senza problemi: sembra quasi fossimo trasparenti nei loro confronti.
Le iguane marine ed i leoni marini, come nelle altre isole, stanno fermi al sole per scaldarsi.
Le iguane terrestri sono nascoste sotto i cactus e, nonostante il loro aspetto mostruoso, sono estremamente tranquille.
Le fregate, anche queste nella stagione degli amori, gonfiano la sacca sotto il becco, fino a farle assumere delle dimensioni molto grandi, forse ancora più grandi di un pallone da basket.
Le nostre guide sono molto dettagliate e coinvolgenti nelle spiegazioni e, purtroppo, la nostra ora e mezza a disposizione su questa isola finisce in men che non si dica.
Ripresa la barca, arriviamo sulla spiaggia di Bachas (isola di Santa Cruz) dove possiamo fare il bagno.
In questa spiaggia si trovano numerosissimi nidi di tartarughe marine e dobbiamo stare attenti dove mettiamo i piedi. Dietro la spiaggia c’è una piccola laguna dove di solito ci sono gruppi di fenicotteri rosa; oggi però ce ne è soltanto uno, solitario.
Entriamo in acqua ed anche qui la fauna marina è indescrivibile. Ad un certo punto, Alessia, bianca cadaverica in faccia, mi dice: “Io esco, ho visto uno squalo!”. Siamo a 10 metri dalla riva, come fanno ad esserci degli squali? Ed invece… non era uno, ma un branco di 4/5 piccoli squali, più o meno di un metro e mezzo di lunghezza che nuotavano sul fondale (al massimo di due metri di altezza): nonostante ci abbiano spiegato che non c’è alcun pericolo per l’uomo, in quanto hanno pasti ben più appetitosi, l’emozione mista a paura si fa sentire. Provo a fare delle foto con la macchina fotografica subacquea, ma tremo troppo e le foto non vengono bene.
Torniamo sulla barca, pranziamo e rientriamo a Puerto Ayora.
Alla sera andiamo a mangiare al ristorante The Rock, sul lungomare. E’ un locale esclusivamente turistico, dove però, nonostante l’aspetto molto kitsch, si mangia bene. Abbiamo preso delle linguine alla salsa di aragosta e cocco (prezzo del piatto: 14 dollari!!), fettuccine al tonno ed altre pietanze ed abbiamo speso 55 dollari in due.
Mercoledì 1 giugno: Puerto Ayora (Galapagos)
———————————————————
Stamattina andiamo con Marlon al Centro Darwin, un centro di conservazione e di educazione ambientale poco fuori Puerto Ayora.
Nel centro nascono e vengono fatte crescere molte tartarughe giganti terrestri (specie fino a poco tempo fa a rischio di estinzione) e poi, quando raggiungono la maturità, vengono reintrodotte in natura. Ci sono però anche molte tartarughe adulte nel centro: le più famose sono il Solitario George e Diego, il sex symbol. Il primo, ultimo della sua specie, non si vuole accoppiare con alcuna femmina, nonostante gli innumerevoli tentativi; il secondo, invece, a causa della quantità di figli da lui generati (se ne contano più di 100 e per questo anche lui si trova nei souvenir, rappresentato come sex symbol), è stato messo in una zona un po’ isolata.
Assistiamo al pasto delle tartarughe e per noi è uno spasso, ma una continua lotta per loro. Per conquistare il posto migliore, lottano in continuazione: muovendosi molto lentamente (la stazza è tale che si muovono ancora più piano delle tartarughe “normali”), mangiano ingenti quantità di foglie, sempre facendo attenzione a mantenere la posizione. Appena si accorgono che la loro posizione non è più congeniale, litigano con il vicino allungando il collo ed emettendo delle “alitate” (forse per loro sono degli urli). Di solito, chi ha il collo più lungo vince.
Bisogna anche stare attenti a non avvicinarsi troppo perché, qui come in tutte le Galapagos, agli animali non interessa nulla se ci sono “umani” nelle vicinanze o meno: loro non ci considerano minimamente.
Dopo aver visitato il centro, ci avviamo verso Tortuga Bay, una delle poche spiagge di tutte le Galapagos nelle quali è possibile andare e nuotare senza controlli.
Dopo una piacevole camminata di circa 45 minuti, arriviamo alla spiaggia: la prima spiaggia non invita a fare il bagno a causa delle forti correnti e preferiamo arrivare alla seconda spiaggia, una piccola baia con acque molto calme. Per arrivarci dobbiamo passare per il “santuario delle iguane marine”: si tratta di un tratto di costa pieno di mangrovie, l’habitat delle iguane marine, dove ne vediamo a migliaia, sia in acqua a nuotare che al sole a scaldarsi, una sopra l’altra.
Arrivati alla baia protetta (posto incantevole con pochissime persone e con alberi che arrivano fino alla riva a farci da ombrelloni naturali) ci facciamo subito il bagno; dopo aver sentito una turista americana che urlava per aver visto uno squalo, ce la diamo a gambe anche noi. E’ uno squaletto di un metro e mezzo, forse due, ma è pur sempre uno squalo!
Decidiamo di prendere una canoa a noleggio e, seguendo le indicazioni del ragazzo che ce l’ha affittata, andiamo a cercare la fauna marina.
Ci sono moltissime tartarughe marine che mettono fuori la testa dall’acqua per respirare e poi si rituffano subito: sono enormi, tante e… anche simpatiche!
Ci sono anche molte mante, aquile di mare, razze e gli immancabili squali: anche se qui hanno molto da mangiare, anche se vicino la riva arrivano soltanto i più piccoli, anche se non attaccano l’uomo… la vista della loro pinna mette sempre un po’ di paura.
In questa baia si sta benissimo, forse è uno dei posti più suggestivi di tutto l’arcipelago; è un luogo riparato, popolatissimo di fauna marina e, soprattutto, non c’è la guida che ti controlla come in tutto il resto dell’arcipelago.
Ritorniamo a Puerto Ayora e decidiamo di andare a cena con i locali: a pochi isolati dal lungomare c’è una via dove ci sono, una dopo l’altra, una serie di chioschetti all’aperto molto frequentati dai locali dove il servizio è molto casareccio ed essenziale. Decidiamo di fermarci da Familiar William’s, un chioschetto gestito da una famiglia di origini africane; ci viene a servire una ragazza di colore… mentre sta allattando il suo bambino!! Prendiamo degli ottimi encocados all’aragosta e spendiamo una bazzecola, circa 15 dollari in due.
Giovedì 2 giugno: Floreana (Galapagos)
————————————————
Anche oggi avremmo voluto andare a fare un’altra escursione con la Santa Fe II, ma non avevamo prenotato in anticipo come le scorse volte e purtroppo non c’era più posto; abbiamo dovuto ripiegare su di un’altra agenzia.
Per 70 dollari a testa, siamo andati con una lancha (barca veloce) fino all’isola di Floreana, raggiunta dopo 2 ore di navigazione. Le escursioni con la Santa Fe II costavano mediamente 120 dollari: a conti fatti, il servizio, l’attenzione e la professionalità della Santa Fe II sono di un altro pianeta rispetto all’escursione da 70 dollari (non ricordiamo il nome dell’agenzia, ma è una delle tante che stanno sul lungomare).
Partiamo con un ritardo di circa un’ora rispetto all’orario stabilito e ci accorgiamo subito che stavolta gli altri turisti, per usare un eufemismo, sono un po’ troppo vivaci (un gruppo di ragazze botrillone americane sembra fossero alla gita scolastica di terza media).
Come detto, il servizio è un po’ scadente: la guida, che a differenza di quelle presenti durante le escursioni effettuate con la Santa Fe II, non è una guida naturalistica, appena salita a bordo, si è messa a dormire…
Arrivati a Floreana (sbarco asciutto), con un camioncino ci portano fino all’inizio di un sentiero: il sentiero si sviluppa all’interno di un bosco con una vegetazione rigogliosa. Qui hanno vissuto i primi coloni delle Galapagos e ci sono i resti dei primi insediamenti. Ci sono anche un gruppo di tartarughe terrestri, come a Puerto Ayora anche queste intente a mangiare, litigare e… accoppiarsi.
Il pranzo, che ci viene servito nel patio di una casa, è molto scadente, sembra di essere in un refettorio; la guida non mangia con noi, a differenza della Santa Fe II dove stavamo tutti insieme.
Abbiamo poco tempo per fare una passeggiata da soli e ce ne andiamo prima sulla spiaggia di sabbia nera dove ci sono molti alberi di cocco vicino la riva e poi sul porticciolo dove nel frattempo si sono posizionati decine e decine di leoni marini a dormire. E’ molto facile fotografarli perché ti puoi avvicinare quanto vuoi: l’importante è non disturbare il loro riposo, per il resto non sono infastiditi dalla nostra presenza.
Ritorniamo in barca e ci portano a nuotare (15 minuti, non di più!) in una baia che poi scopriremo piena di meduse microscopiche che ci costringono a risalire subito a bordo. Alla guida sembra non gli importi nulla delle nostre lamentele. Alla sera, Marlon ci spiega che bastava che l’equipaggio ci fornisse un po’ di aceto e non avremmo avuto problemi di prurito, come invece abbiamo avuto per un po’.
Questa escursione è stata un po’ deludente, anche se ci siamo comunque divertiti molto lo stesso.
La sera andiamo a cena al ristorante Isla Grill, dove il piatto forte è la carne alla brace e qui spendiamo 35 dollari in due. Un locale per turisti, ma abbastanza carino.
Venerdì 3 giugno: Puerto Ayora (Galapagos) – Babahoyo
———————————————————————
Oggi siamo tristi: dobbiamo andar via dalle Galapagos. Ci riteniamo però molto fortunati perché siamo tra i pochi ad essere stati in questo posto meraviglioso.
Andando verso l’aeroporto incontriamo il presidente ecuadoriano, Correa, che oggi viene in visita a Puerto Ayora. Le misure di sicurezza sono molto scarse, lui si avvicina ai turisti senza la scorta, eppure poco tempo fa è scampato per miracolo ad un golpe!
Prendiamo il volo TAME per Guayaquil e, con un volo tranquillo di un’ora e mezza, rientramo nel continente dove ci attende Luca, con il quale andiamo a Babahoyo a circa un’ora di macchina.
Babahoyo è una città fuori dagli itinerari turistici ed una delle più povere di tutto l’Ecuador: la popolazione subisce inondazioni quasi ogni anno, molte persone non hanno servizi igienici, quasi la metà della gente fa fatica a riuscire a mangiare.
In questo scenario, l’associazione di volontariato trentina Creceremos Juntos, con l’aiuto della provincia autonoma di Trento, ha costruito una scuola per bambini poveri che, nel giro di pochi anni, ha dovuto cambiare sede a causa delle tantissime richieste ed ora, nella nuova sede tuttora in costruzione, ha aperto nuova scuola materna ed una nuova scuola elementare.
Andremo a visitare le scuole il giorno seguente.
Nel pomeriggio passeggiamo con Luca per una favela di Babahoyo, costituita per lo più da palafitte in canna. Si forma subito un capannello di bambini che vengono verso di noi in quanto sono molto incuriositi: quanti turisti verranno qui a parte noi? Forse 10 in un anno? Con questi bambini si trova subito un feeling: si parla subito di calcio ed entriamo facilmente in sintonia.
Continuiamo la nostra passeggiata tra le baracche: ci salutano tutti, sono molto ospitali. Al calar del sole siamo costretti a tornare indietro perché veniamo assaliti dalle zanzare alle quali l’Autan sembra fare solletico.
La sera andiamo a cena in un chioschetto insieme a Luca e ad una sua amica ecuadoriana, Gina; spendiamo per la cena la bazzecola di 8 dollari a persona.
Gina è una donna emancipata (è una psicologa), cosa alquanto rara qui in Ecuador. Qui ancora oggi le donne sono viste come oggetto e, quindi, persone come Gina sono considerate delle “extraterrestri”, nonostante Gina sia una persona molto dolce.
Andiamo a dormire nell’unico hotel decente di Babahoyo, il Gran Daniel: questa città è una delle più calde ed umide di tutto l’Ecuador e fortunatamente c’è una sorta di condizionatore in stanza, però non abbiamo l’acqua calda (non c’è n’è bisogno!).
Sabato 4 giugno: Babahoyo – Quito
——————————————
Facciamo colazione in un “simil bar” nel centro di Babahoyo: ci siamo presi del pane e dei dolci, spendendo molto poco.
Stamattina andiamo in visita alle scuole: passiamo davanti alla vecchia scuola, la UELM (Unidad Educativa Las Mercedes), ed arriviamo alle nuove scuole UEMG (Unidad Educativa Mahatma Gandhi). Si tratta di una scuola materna e di una scuola elementare; la struttura è pressochè completata, mancano soltanto delle rifiniture esterne. La scuola vive grazie alle donazioni e qui sono ospitati tanti bambini poverissimi; gli insegnanti vengono pagati degnamente ed alle famiglie viene chiesto un contributo modestissimo, anche se alle famiglie più povere non viene chiesto nulla.
Oggi è sabato e non ci sono le lezioni normali, ma una sorta di doposcuola; andremo a “disturbare” i bambini durante una lezione molto particolare.
Appena entrati nella scuola, ci viene subito incontro una mamma che ci ringrazia per quello che facciamo; i ringraziamenti sono tutti per Luca, che è un cofondatore della scuola, ma, vedendo il colore della nostra pelle, la signora ringrazia anche noi (non ci meritiamo questo calore in quanto abbiamo contribuito soltanto con pochi soldi).
Dopo aver visitato alcune bellissime strutture della scuola, che farebbero invidia anche alle nostre, ci inoltriamo in classe dove si sta svolgendo la lezione: ci sono una ventina di bambini di tutte le razze ecuadoriane, di età variabile dagli 8 ai 12 anni, vestiti degnamente, posizionati a ferro di cavallo (così tutti sono sullo stesso piano); il maestro, Oscar, sta spiegando i diritti fondamentali dei bambini.
Oscar coinvolge tutti i bambini, dandogli addirittura del “lei”; i bambini, che in molti casi a casa loro sono maltrattati, in questa maniera si sentono importanti e partecipano attivamente alla lezione.
Al termine della lezione, Oscar ci fa sedere a centro aula e chiede ai bambini di farci delle domande. Quali domande ci si può aspettare da dei bambini di circa 10 anni? Eccone un esempio:
– “In Italia se un padre picchia il figlio cosa succede?” (nella classe ci sono molti bambini che subiscono violenze; Oscar ci ha detto che quel giorno una bambina è venuta a piangere da lui perché il padre l’aveva picchiata la mattina stessa)
– “In Italia le mamme allattano al seno i loro bambini?” (nel villaggio vengono degli emissari della Nestlè che convincono le mamme che il latte in polvere è più sano del latte materno)
– “I bambini vengono subito registrati all’anagrafe?” (questo è un problema molto serio in Ecuador)
– “Come avete fatto a venire fin qui in Ecuador, chi vi ha dato i soldi?” (è stato difficile spiegargli come abbiamo fatto)
– “Com’è Venezia?” (Babahoyo è soprannominata “Piccola Venezia”, ovviamente non per i monumenti, ma perché subisce alluvioni mediamente per quasi 4 mesi l’anno)
Siamo stati al centro dell’attenzione per circa mezz’ora e ad alcune domande non sapevamo nemmeno rispondere; la conclusione è che qui si diventa adulti molto presto!
Al termine della lezione, i bambini vanno tutti al campo di calcio a giocare mentre le bambine vanno in biblioteca. Noi, invece, ci facciamo una chiaccherata con Oscar che ci spiega la storia della scuola ed alcune storie personali; noi lo inondiamo di domande e gli facciamo i complimenti per il suo lavoro. Gli spiegamo anche che in Italia sono poche le scuole così belle, curate ed organizzate e quindi deve sentirsi orgoglioso ad insegnare in una scuola così.
Alcuni bambini non vogliono tornare a casa, però Oscar deve chiudere e quindi si rassegnano.
Andiamo a pranzo a Babahoyo in un ristorantino che conosce Oscar dove mangiamo dell’ottimo pesce fresco (sorprendente!) accompagnato da una limonata buonissima.
Dopo pranzo torniamo a Guayaquil per andare in aeroporto e prendere un volo interno TAME per Quito, da dove domani ripartiremo per l’Italia.
A Quito fa molto freddo (non eravamo già più abituati); ci viene incontro Wilson il quale ci porta in hotel, che come le altre volte è il San Francisco de Quito.
Andiamo a cena al ristorante Hasta la Vuelta Senor, dove già siamo stati una volta: per 37 dollari in due mangiamo un churrasco e un gallo della cattedrale (pollo alla piastra con verdure), oltre a degli ottimi dolci ed alle banane fritte.
A fine cena, la cameriera ci dice di stare attenti durante il cammino verso l’hotel. Usciamo dal ristorante ed incontriamo una coppia anziana quitena che ci dice di stare attenti alle persone incappucciate. Ma c’è qualcosa di strano stasera qui a Quito? In effetti, sembra di si: non vediamo molte persone in giro, nessun bambino, mentre le scorse volte c’era più gente. Vediamo soltanto poliziotti e sbandati; questo ci basta per capire che è il caso di affrettare il passo e tornare in hotel. Che strano però, eppure è Sabato… Non ce lo spieghiamo.
Domenica 5 giugno: Quito – in volo
——————————————-
Di domenica a Quito c’è sempre la “domenica ecologica” e quindi si chiude gran parte del centro storico al traffico veicolare: è un’altra città, così è stupenda!
C’è tantissima gente in giro, si fa festa, ci sono bande foncloristiche, anche una maratona, è tutto molto bello. Stiamo un po’ in centro a passeggiare; prima di ripartire, però, vogliamo andare a vedere l’Orchidearium al Giardino Botanico. Per 2 dollari circa con un taxi andiamo fino al Parque La Carolina, dove si trova il Giardino Botanico. Purtroppo l’Orchidearium è in restauro e siamo costretti a ripiegare sul vicino centro commerciale, spinti più dalla curiosità che dalla necessità di acquistare qualcosa. La sorpresa è grande nel vedere che sia la struttura che i prezzi, tranne che per i prodotti alimentari, sono simili ai nostri: ma chi si può permettere di fare acquisti qui?
Torniamo in centro e pranziamo alla gelateria San Agustin, che, nonostante sia giudicata eccellente in molte recensioni, non ci ha lasciato particolarmente il segno: le cose sono buone, ma non “superiori”.
Purtroppo dobbiamo andare in aeroporto, ci aspetta il volo per Roma; salutiamo Wilson, nostro fidato compagno di viaggio, ed andiamo a fare il check-in per il volo che partirà alle 17.45 per Madrid, via Guayaquil.
In aeroporto mi fermo a mangiare l’ultima razione di banane fritte: chissà quando le rimangerò…
Ripartiamo da Quito perché in questa maniera siamo riusciti a pagare di meno; purtroppo però a Guayaquil, una volta atterrati, abbiamo dovuto ripetere tutte le operazioni di imbarco, nonostante l’aereo fosse lo stesso.
Lunedì 6 giugno: ritorno a Roma
—————————————
In volo abbiamo dormito sempre, svegliandoci solo per mangiare. Siamo così tristi che abbiamo proferito sì e no 4 parole a testa.
La tristezza ci passa non appena ci rendiamo conto che siamo stati ultrafortunati a poter fare un viaggio del genere, dove abbiamo conosciuto delle culture diversissime dalla nostre, dove abbiamo visto dei luoghi meravigliosi e dove abbiamo conosciuto delle fantastiche persone